L’overparenting è una trappola per genitori e figli. Si chiama così la tendenza, facilitata dalla tecnologia, a controllare sempre più i figli, dalle cose di scuola alle uscite, con conseguenze di cui si discute molto.

 

Il messaggio che non vorresti mai ricevere a mezzanotte è il messaggio di un altro genitore, inizia con «non sono solito intervenire nelle questioni dei ragazzi…», continua con «ma tuo figlio ha fatto questa cosa orribile» e di solito proviene da una persona che è assolutamente solita intervenire a gamba tesa in questioni minori come il prestito di cancelleria. Di solito opto per la parte del cane bastonato, e rispondo con iperboli fuori luogo che sono “mortificatissima” e che mio figlio è un essere abbietto; e in genere la contromossa funziona, ridimensionando l’ira del genitore elicottero.Tenersi informati sui dettagli della vita scolastica e relazionale dei bambini in età scolare e ostinarsi a timonarla da remoto è solo uno dei primi segnali dell’overparenting, un fenomeno che – originatosi negli anni Ottanta in una società americana che vedeva espandersi la forbice sociale – insorge innocentemente tra neogenitori che al parco non tollerano il minimo graffietto, ma continua pericolosamente con la geolocalizzazione degli adolescenti attraverso l’opzione “trova il mio iPhone” o, come nel caso di una famiglia che conosco, con l’installazione di telecamere di sicurezza in tutte le stanze della casa, bagni compresi, per sorvegliare i figli liceali mentre in genitori sono in ufficio. «Ma lo sai che tuo figlio è a casa mia? Ho appena visto la sua giacca buttata sul divano in un’inquadratura del soggiorno». (Ovviamente io non lo sapevo.)  Da genitore poco elicottero – per questioni di tempo e salute – non amo sentirmi riferire pettegolezzi sui miei figli. Di solito fermo gli zelanti informatori: non l’ho saputo perché non lo voglio sapere. Ovviamente, la maggior parte di loro pensa che io sia una sciamannata. La storia dell’overparenting è molto più complessa e interessante di quanto la banale aneddotica personale possa restituire, e i suoi effetti sono dibattuti da studi e ricerche che ne comprovano alternativamente i danni o i benefici. Se negli anni Settanta, quando il gap salariale tra laureati e non-laureati negli Stati Uniti era piuttosto basso, lo stile genitoriale passò da autoritario a permissivo, negli anni Ottanta, in concomitanza con l’allargarsi del dislivello sociale, e quindi con l’aumentata competitività per entrare nelle scuole giuste, si sviluppò uno stile “interventista”, caratterizzato da grandi investimenti nelle attività extrascolastiche, un monte ore triplicato ad affiancare i figli nei compiti, e un’ansia da prestazione generalizzata.

Uno studio dell’Università di Minnesota del 2018 osservava che bambini i cui genitori tendevano a pilotare i giochi nella prima infanzia sviluppavano nel tempo più problemi relazionali e disturbi d’ansia, e una minore capacità di problem-solving. Un’indagine più recente invece, confluita nel volume Love, money and parenting: how economics explain the way we raise our kids, sostiene che in una società diseguale, quelli che chiamiamo eccessi genitoriali portano a benefici duraturi. Pare infatti che i ragazzi monitorati costantemente dai genitori (quelli, insomma, che a differenza dei miei figli non dimenticano mai il flauto) ottengano voti più alti degli altri. A questo proposito, mi viene da obiettare due cose. La prima è che altrettanti studi attestano l’aggravarsi della salute mentale dei ragazzi adolescenti (sebbene questa condizione venga associata più spesso agli strascichi della pandemia o l’utilizzo degli smartphone, che con le pressioni dei genitori). La seconda obiezione – più ironica – è che, nella mia modesta esperienza, la ragione per cui i ragazzini over-parentizzati ricevono voti migliori è esattamente il terrore che professori e presidi provano ormai verso questo tipo di genitori, sempre pronti a contestare una nota, una valutazione, una scelta educativa dell’insegnante. Si arriva a un punto in cui i più rilassati di noi iniziano a sentirsi in colpa per non essere al corrente di ogni futile risvolto della vita del proprio figlio, a sentirsi in difetto per non aver partecipato a tutti i ricevimenti professori e open-day cittadini; finendo per adottare controvoglia uno stile più presenzialista e aggressivo, pur di difendere i propri orfanelli dalle ingerenze di quegli altri. Una cosa a cui forse noi genitori di minorenni non pensiamo mai, ma su cui varrebbe la pena di concentrarsi, è che un certo livello di coinvolgimento negli affari dei propri bambini oggi si traduce in una relazione altrettanto dipendente con i figli nella fascia 18-34 anni. E non mi riferisco alla vecchia e sana famiglia allargata coi nonni a portata di mano; perché i figli under 34 non li fanno, i nipoti. Mi riferisco proprio al cordone ombelicale come fardello eterno.

Secondo sondaggi del Pew Research Center di Washington, la gran parte di genitori e figli americani non è d’accordo con me. I primi si dichiarano soddisfatti dei rapporti intensi coi propri giovani adulti, e questi ultimi a loro volta apprezzano i consigli di vita provenienti da cinquantenni esperti e genuinamente interessati a loro. Eppure, questo perpetuo “parental control” che da un lato previene i comportamenti a rischio dei giovani e innalza il loro livello di istruzione, dall’altro li scoraggia a formare nuove famiglie, lasciandoli in una precarietà emotiva e in un bisogno di attenzione e cura che aumenta l’occorrenza di malattie mentali, e soprattutto rinnova il bisogno della tutela genitoriale. Le ricerche citate si rifanno a osservazioni fatte nel lungo periodo su una generazione per la quale l’uso della tecnologia non era ancora così invasivo. Quel che ancora è poco trattato è quanto le tecnologie recenti abbiano allargato le potenzialità del controllo. Dagli anni Dieci a oggi, le chat e sotto-chat di genitori sono diventate incubatori di panico collettivo e dietrologie, nonché facilitatori dell’emarginazione degli elementi meno assimilabili, e naturalmente strumenti atti allo spionaggio costante dei propri bambini e dei passi falsi degli insegnanti. Alle scuole medie, gli stessi telefoni, regalati direttamente ai bambini, sono diventati cercapersone, microchip, termometri dell’umore e suggeritori di risposte persino durante le lezioni, tanto che alcuni genitori forniscono ai figli perfino un telefono rotto da consegnare nella cesta all’inizio della mattinata, per poter tenere addosso il secondo smartphone funzionante. La mattina, collegandosi all’app del registro scolastico, gli ansiosi controllano l’esito dell’appello, e se il figlio risulta “assente” si attaccano subito al telefono. Il poveraccio di solito è solo cinque minuti in ritardo: inutile marinare la scuola con gli strumenti attuali di tracciamento; inutile mentire sulle strade percorse, perché il braccialetto contapassi collegato all’app Salute di papà potrebbe smentirli anche su questo. «Quella disgraziata non è a dormire dall’amica a Porta Romana», diceva un padre durante una cena guardando l’iPhone. «La localizzo in mezzo a un campo. È a un rave fuori Milano. Lei non sa che la seguo col satellite».

Alcuni professori, per normalizzare la socializzazione degli adolescenti, propongono gite smartphone-free nella natura. Ma anche lì c’è un’alzata di scudi: se voglio sentire mio figlio ogni sera, ne ho il diritto. Non c’è da stupirsi se metà degli adolescenti, seguiti da mamma e papà su Instagram, abbiano secondi profili segreti dove condividono la loro vera identità, costretti a sdoppiarsi e a essere trasgressivi più per mancanza di privacy che per vera ribellione. Ma quali sono i sentimenti dietro alla mania di controllo di questo tipo di genitori? In piccola parte, c’è l’egoismo di voler placare le proprie ansie o di volersi affermare attraverso figli eccellenti; ma per lo più, c’è il desiderio sincero di proteggerli dai pericoli di un mondo che capiamo sempre meno e di oliare le strade che dovrebbero portarli ad avere “successo.” Qualcuno ha detto anche che orientare i comportamenti dei figli a compiacere le aspettative del mondo della scuola e del lavoro rischia di formare generazioni di individui meno liberi e meno creativi. Io penso che fare proiezioni sulla felicità e l’affermazione personale di bambini che vivranno in un mondo surriscaldato e abitato dall’intelligenza artificiale sia poco realistico. Se dobbiamo allentare le maglie del controllo genitoriale, è perché la dedizione richiesta da un simile approccio e consentita dai mezzi a disposizione è potenzialmente illimitata, e fa male prima di tutto a noi adulti.  Lo so perché io stessa, per non farmi mettere i piedi in testa, ho finito per dover diventare un po’ control-freak dei figli. Ma qualche volta, in teoria per punirla per qualcosa, tolgo il telefono a mia figlia. Lei immancabilmente in quelle settimane offline arriva a casa in ritardo, ha contrattempi, perde cose per strada. Io inizio a chiamare la scuola, gli insegnanti, le vicine, i panettieri sulla strada. Ma poi penso a me stessa, a quando a mezzanotte cercavo a Parigi una cabina telefonica per dire ai miei che ero rientrata in collegio. E penso che in quella mezz’ora di macabri scenari mia figlia è proprio il contrario che in punizione: lei in quella mezz’ora è una ragazza libera. E mi sto liberando anch’io, che mi devo allenare a perderne pian piano le tracce prima di ritrovarmi a cullare una venticinquenne insicura. E sono ancora più orgogliosa di me quando torna a casa, e incasso la sua storia inventatissima sull’imprevisto che l’ha fatta tardare. Sono orgogliosa della mia tempra finché arriva mezzanotte e qualche over-parent mi messaggia: «Non è mia abitudine interferire con le vite dei ragazzi, ma è bene che tu sappia che tua figlia alle sei di sera cazzeggiava allo skatepark».

Arianna Giorgia Bonazzi __rivista STUDIO

 

genitoriiperprotttivi