Non amerai altri che te stesso…

 

Io amo Io, ossia sposarsi con se stessi

In origine era la famiglia numerosa. Poi venne la famiglia simmetrica e quadrangolare, padre madre figlio e figlia. Quindi la famiglia con figlio unico. Si passò poi alla coppia senza figli, anche dello stesso sesso. Poi fu varata la famiglia mononucleare, composta da un solo membro, il single. Adesso siamo arrivati alla sologamia. Di che si tratta? Il single si ama a tal punto che decide di convolare a nozze con se stesso e sposarsi con un rito ad hoc. Matrimonio narcisistico, potremmo dire, celebrato allo specchio, in un selfie. Garanzia di indissolubilità. Un’installazione di Elena Ketra al Gazometro di Roma ha figurato una donna che sposa se stessa, con tanto di marcia nuziale. A Kyoto esiste il self-wedding per singoli che amano se stessi al punto da prendersi in sposo/a; conta “lo stare bene con se stessi”, imperativo assoluto della nostra epoca. L’artista la motiva a contrario come una forma di “inclusione sociale” giacchè “amarsi è necessario per poter amare in modo libero ogni altro essere umano”.
Quel matrimonio onanistico, autoreferenziale, in cui si è sposo, sposa e figlio della propria unione, è una esibizione simbolica; portata all’estremo, rappresenta la tendenza e lo spirito della nostra epoca.
A conferma di questa tendenza ad amare se stessi sopra ogni cosa, e considerare lo “star bene con se stessi” come l’unico vero fine e requisito per l’esistenza, si possono citare altri due fatti concomitanti. Uno è il congelamento degli ovuli, o dei semi, che nasce da una motivazione originaria comprensibile: se sono single e temo che con gli anni perderò la fecondità, cerco di mettere in salvo la mia possibilità di riprodurre, per consentire – in caso di unione fuori tempo massimo per il mio corpo – di avere ugualmente figli. Ma l’ideologia sottostante al congelamento non è l’impulso alla maternità e tantomeno il desiderio di fare famiglia e coronare l’unione con un consorte; ma la possibilità di autoriprodursi, di lasciare in banca, congelato, la propria virtuale riproduttività, come si congelano anche corpi malati e senili che sperano di poter “risorgere” alla vita quando si troveranno le cure giuste per superare quella malattia ora mortale. Sentitele le single che depositano ovuli nella banca del futuro: è un modo per perpetuarsi, per lasciare lo stampino di se stessi, garantirsi se non l’immortalità, una possibilità di replicarsi ed eludere la mortalità.
Ancora una volta la religione, la filosofia di vita che traspare in queste scelte è lo sconfinato amore per se stessi, e l’inclinazione a pensare il partner non come colui col quale si desidera dividere la vita, giurarsi e praticare amore reciproco, e coronare la propria unione con uno o più figli; ma come l’inseminatore occasionale, il fuco rispetto all’ape regina, ossia il semplice donatore di seme che serve per ingravidare e consentire alla donna autarchica di riprodursi. Non un figlio, dunque, quanto una replica di se stesse, un modo per rigenerare il proprio io e i propri geni.
Per coronare questa visione autarchica e autoreferenziale della vita, consideriamo infine un altro aspetto, recentemente ribadito da una sentenza della magistratura. E’ possibile mutare la propria sessualità e tutto quello che ci identifica, comprese le generalità, semplicemente con un’autocertificazione o un’autopercezione. Lo ha stabilito una sentenza recente del tribunale di Trapani: si può cambiare sesso senza operazione chirurgica o mutazione ormonale, ma per un “puro” desiderio di farlo. Per cambiar sesso non c’è bisogno nemmeno di sottoporsi a un’operazione in modo da mettere anche la legge con le spalle al muro davanti a un’evidente mutazione genetica; basta sentirsi di un altro sesso per modificare i propri dati anagrafici e la propria identità sessuale.
Se la legge non parte dalla realtà oggettiva e da quel che noi siamo secondo evidenza e natura, ma deve sottomettersi a ciò che noi vogliamo essere, allora non solo la percezione del sesso dovrebbe costituire motivo sufficiente per la mutazione dei dati. Ma anche la percezione anagrafica: se io mi sento trent’anni di meno, vivo, vesto, penso e sono come un ragazzo, o se mi sento più africano o asiatico che italiano, perché non riconoscere la variazione d’età o di etnia rispetto a quel che dice la mia anagrafe? Un tema che avevamo già posto provocatoriamente in un controcanto paradossale di un anno fa. E che potrebbe estendersi oltremisura: se mi sento cinghiale, potrà bastare la mia percezione e la mia volontà di ungulato per decretare il mio cambiamento anagrafico e statutario? O l’umanità non può essere revocata, per la semplice ragione che non sarebbe mai possibile l’inverso, ovvero la domanda di un cinghiale di essere riconosciuto umano? Per avanzare una tale richiesta e manifestare la tua volontà devi essere almeno umano, non appartenere al regno animale, vegetale o minerale.
Naturalmente sono paradossi, resta però il principio di fondo: non conta più la realtà e la sua evidenza, la natura e la fisiologia, anzi non conta più l’oggettività; conta il soggetto, il suo sentire e volere soggettivo. Qui torniamo al punto di partenza: Io sono quel che voglio essere, se decido posso perfino sposarmi con me stesso, e riprodurmi in modo autarchico, usando il seme altrui come concime anonimo, impersonale. Io amo io, e basta.
Resta solo una domandina per voi: siete contenti di questa conquista, alzate le spalle dicendo che i tempi mutano, o vi rifiutate di accettare la fine ingloriosa dell’umanità, della natura, del buon senso e della civiltà?

(Panorama, n.31) Marcello Veneziani

 

Saggio sulla sincerità…

 C’è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità. Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano – vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l’autorità, il decoro, il galateo, la paura della punizione – la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a briglia sciolta, nei mille rivoli dei media. Via i tabù, vai con l’outing. Viviamo dunque nell’età della sincerità?

Per cominciare, la sincerità è una virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l’amicizia, l’affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario. La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell’immaginario sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro vistoso è il naso di Pinocchio che s’allunga. La sincerità più della bugìa ha le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità come “virtù crudele” dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l’ultimo suo saggio è Sincerità, ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c’è nessun automatismo tra la sincerità e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio, quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può autoingannarsi: costruisce castelli d’illusioni e va ad abitarci. “Il mio cuore messo a nudo” di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i tormenti, le speranze; ma la verità è un’altra cosa. Senza dire del sofisma cretese: se dico “sto mentendo” sono sincero o no? Quesito insolubile perché si autosmentisce in ambo i casi. La sincerità è spesso confusa con la spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un’incontinenza. La brutale franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l’altrui sensibilità, non si cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal ’68 in poi si è identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno per affinità, l’altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall’inibizione diventa oggetto di esibizione. Il pudore per l’intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità. Dall’altra parte, il risultato paradossale della guerra all’ipocrisia “borghese” è la nascita d’un nuovo codice dell’ipocrisia, il politically correct: l’uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il personale ausiliario, l’operatore ecologico; il frasario dell’ipocrisia. La sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità. Torna in altre vesti la massima: la parola è data all’uomo per nascondere il pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.
La civiltà è il contrario della sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell’ambito del costume e dei comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l’etica si accorda all’estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità. La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone, la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca, le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d’Apollo che veste di bello l’orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un’altra. Possiamo dire la verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale; la verità ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere. Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista, alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità, ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio dispotico e dalla negazione nichilista.
Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non implica coerenza tra il dire e il fare. Non s’identifica con la spontaneità ma assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio, una virtù vera, se indica l’aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda. Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.

MV 

La guerra della realtà contro le parole..un assurdo contro il buon senso e il buon gusto-

 

Asterisco, schwa, presidenta, e altre sconcezze. La tempesta in un bicchiere d’acqua. La ventata ideologica sulla parità di genere si è abbattuta sulla lingua e fa strage di buon senso, realtà ed evidenza, ma deturpa anche sul piano estetico parole, cose e concetti. Per dirimere le controversie è stata interpellata dai magistrati di Cassazione che si occupano delle pari opportunità, l’Accademia della Crusca: come scrivere gli atti giudiziari rispettando la parità di genere? Se è per questo, da rispettare non c’è solo la parità di genere, ma anche la consuetudine e la tradizione, la realtà e la verità, e pure la bellezza rispetto alle brutture lessicali imposte per ragioni ideologiche. La Crusca saggiamente respinge asterischi e schwa con cui si vorrebbe deturpare la lingua e deflorare i nomi. Poi, forzando la consuetudine nel nome della correttezza, rifiuta l’articolo davanti al cognome (la Meloni, la Schlein), che viene spontanea in molti casi e che viene usata solo al femminile e non al maschile (il Draghi, il Mattarella). E con assoluto buon senso, boccia le ridondanze ideologiche definite “reduplicazioni retoriche” ovvero la tendenza a ripetere: i cittadini e le cittadine, le lavoratrici e i lavoratori, le figlie e i figli, anche se è d’uso dire signore e signori. La questione si fa più controversa a proposito dei nomi di professione in versione femminile: l’Accademia dei cruscanti manda in soffitta quel suffisso “essa” (dottoressa, sindachessa, professoressa, avvocatessa; anche leonessa?) e non prende in considerazione di lasciare la qualifica nel termine maschile (ad esempio la rivendicazione di Beatrice Venezi di farsi chiamare direttore d’Orchestra) e propende per la declinazione al femminile: direttora, prefetta, questora – che sembra indicare l’ora in corso. Ma poi, se ho ben capito, ridà ragione a Beatrice (stavo per dire alla Venezi), quando avalla “il maschile non marcato” di alcune definizioni come il Presidente del Consiglio. Insomma direttora o direttore? A me sfugge un nostalgico direttrice…

La legge si scontra con la diversità acquisita nel linguaggio, la cacofonia, il disagio nel pronunciarla: perché magistrata e avvocata può anche andare, ma colonnella, architetta (con sciame di allusioni pettorali), addirittura “pubblica ministero”, suonano oggettivamente maluccio e non vengono poi spontanee. Detesto la giustificazione cripto-ideologica che si tratterebbe di definizioni “inclusive”; credo che abbia pari valore anche l’istanza opposta di riconoscere e rispettare le differenze, che non devono essere disparità di giudizio e di pregiudizio, o di rispetto. Ma che sono riconoscimento della differenza tra il femminile e il maschile senza stabilire gerarchie tra l’uno e l’altra. Timidamente la Crusca avverte di non sopravvalutare i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzione delle presunte storture della lingua tradizionale. D’altra parte – aggiunge con salomonico cerchiobottismo la Crusca – queste mode hanno “un’innegabile valenza internazionale, legata allo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». In medio stat virtus, o forse in medio stat virus, perché alla fine non si dirime la controversia ma si ondeggia tra le due sponde. Ci rincuora sapere invece la netta bocciatura di quel delirio ideologico che sono gli asterischi o schwa: «È da escludere – dice la Crusca, riferendosi almeno alla lingua giuridica – l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi” di cui però riconosce il beneficio delle buone intenzioni. E la precisazione è ancora più pertinente per una lingua come l’italiano che non ha il neutro, ma solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Come è noto, la questione è esplosa al massimo livello quando la premier Meloni (e qui non riusciamo a fare a meno di metterci quel “la” davanti) ha disposto di farsi chiamare il presidente del Consiglio. Una definizione che spacca il fronte femminista e gender, ma anche il mondo conservatore, legato alla tradizione. Definizione al maschile, anche se la Crusca ne attenua l’impatto definendolo “maschile non marcato”, che può andar bene se è il riferimento generico, astratto, all’impersonalità del ruolo; ma quando poi devi declinarlo ad personam, viene spontaneo e più verace aggiungere quell’articolo determinativo, la Presidente, o la Meloni. Tornando sull’articolo determinativo, la Crusca, pur consigliandone la dismissione, ritiene che il suo uso non abbia un significato discriminatorio, ma nasce da un senso comune. Più insidioso, invece – ne convengo – è chiamare le donne solo per nome e chiamare invece gli uomini per cognome o titolo professionale. E’ d’uso ma non è un buon uso; senza crociate, è giusto auspicarne il disuso. Infine per superare quei richiami reduplicati al maschile e al femminile (impiegate e impiegati) la Crusca consiglia di usare forme neutre o generiche come la persona, anziché l’uomo, e il personale anziché i dipendenti al maschile.

Nel complesso, indicazioni sagge, abbastanza equilibrate (anche troppo, fino a sfiorare l’equilibrismo), e un invito a usare la testa prima della lingua. Ma, se permettete, continuate pure ad usare gli occhi, e non a chiuderli per sposare regole “inclusive” o cedere a “mode ideologiche”. La realtà vista con gli occhi, magari poi vagliata dagli “occhi della mente” di cui parlava Platone, aiuta molto a definire la realtà.

da Panorama        MV

La guerra sessuale contro Madre Natura…

 

Proviamo a leggere la questione della maternità surrogata da un altro punto di vista, come una riflessione sulla commedia umana e i suoi paradossi. C’è una sparuta minoranza che cerca di avere un figlio anche se non può averlo: coppie omosessuali, donne single o in età avanzata, coppie eterosessuali con problemi di sterilità. E c’è una maggioranza che un figlio potrebbe averlo ma non lo vuole; perché sarebbe una rinuncia alla libertà, al lavoro, alla pienezza della vita, al benessere. Sullo sfondo c’è un modello culturale senza precedenti nella storia umana che penalizza l’idea di maternità, fertilità, fecondità, procreazione; che elogia l’autorealizzazione, incompatibile con la gravidanza, la nascita e la cura di un figlio. E invece esalta e agevola chiunque desideri una maternità pur non essendo nelle condizioni di averla, in particolare se omosessuali, prima che coppie “sterili”, single o anziani.

Cosa accomuna chi rifiuta la maternità pur avendo la possibilità di procreare e chi desidera la maternità pur non essendo nelle condizioni di procreare? Il rifiuto del limite, che è il rifiuto della natura e dei suoi confini. Una gravidanza indesiderata pone limiti alla mia libertà e alla mia esistenza, quindi la respingo, fino all’aborto; così, all’opposto, una gravidanza impossibile, ad esempio tra coppie dello stesso sesso, pone limiti al mio desiderio; quindi cerco di aggirarla, fino all’utero in affitto.

Così accade il paradosso di una società che rifiuta i figli eccetto coloro che non possono averli. Un paradosso che fa il paio con un altro: il rigetto del matrimonio e della famiglia, nel nome di relazioni libere e convivenze senza vincoli nuziali; salvo per le coppie omosessuali di cui invece si pretende la codificazione in matrimonio.

Ora, distinguiamo due piani. Uno soggettivo e particolare, e l’altro sociale e generale. Sul piano soggettivo, conosciamo tutti persone e coppie che rientrano in quei differenti travagli: chi rigetta i figli perché complicherebbero la loro vita, chi rigetta i matrimoni perché incompatibili con la loro vita fluida e magari nomade, chi vorrebbe avere o ha avuto figli con maternità surrogata, siano essi omosessuali o single. Di ognuno conosciamo e rispettiamo la storia, conosciamo le sofferenze e le difficoltà, non ci permettiamo di ergerci a giudici, hanno tutta la nostra comprensione.

Poi, però, guardiamo alla società, vediamo cosa resta della vita, del mondo. La famiglia vista come un male assoluto, soprattutto se legata a un aggettivo che evoca legami e continuità, come famiglia naturale o tradizionale. La sostituzione delle identità con la fluidità dei soggetti e dei loro desideri; lo spostamento assoluto del baricentro dal noi, dalla natura, dall’identità all’io, alla volontà soggettiva, al desiderio. La sostituzione della persona – che ha un’identità, un volto, una storia, un’eredità – con l’individuo, che è neutro e asettico, anzi è ciò che vuole essere, rigetta ogni limite.

Le singole storie meritano rispetto e affetto, ma il risultato che ne sortisce da questo modello di società è la fine della comunità, e alla lunga della società stessa, della civiltà, dell’umanità; è l’avvento del transumano. L’umanità è una corda tesa tra la natura e la cultura, esiste finché c’è una dialettica tra la libertà e la responsabilità, le scelte e le rinunce, i diritti e i doveri, il desiderio e il destino. Le facoltà e i limiti. Nel momento in cui salta uno dei due termini, l’umanità finisce e si perde nell’infinito. Stiamo sognando un’umanità senza limiti, senza doveri, senza spirito di rinuncia, dunque un’umanità senza umanità. E’ la fine della civiltà, il punto di non ritorno dell’umanità, la sostituzione di ogni prospettiva comunitaria – da quella famigliare a quella sociale, religiosa e territoriale – con una radicale soggettivizzazione dell’esistenza. Io sono ciò che voglio essere, la realtà non vale; prevale il mio desiderio. Voglio un figlio ma senza una famiglia; al più un libero e fluido consorzio tra un Io e un altro Io, con la fabbricazione, anche a pagamento, di un terzo Io. Tre singoli senza il contesto storico, affettivo, radicato della famiglia. Tre volontà singole e illimitate senza identità, legami, eredità.

L’argomento principale in difesa di questo modello è sempre uno: niente ti impedisce di vivere con i tuoi canoni tradizionali e naturali, ma lascia agli altri la possibilità di vivere come meglio credono. Il discorso varrebbe se la società fosse solo un arcipelago di solitudini radicali, un occasionale e superficiale consorzio di soggetti autonomi e atomizzati. Esistiamo come target, come audience, come utenti, fruitori; ma non come popolo, comunità, nazione, civiltà. La società è finita, restano individui infiniti. Che non potendo essere realmente infiniti sono in realtà non-finiti, abbozzati, abortiti, indefiniti.

È permesso dire che una società deve invece avere una sfera privata di libertà personali ma anche una sfera pubblica in cui valgono principi e criteri superiori a quelli puramente individuali? E’ permesso dire che se fai una scelta di vita poi non puoi pretendere scorciatoie e salvacondotti per godere dei risultati di altre vite? Ogni scelta comporta una rinuncia. Sei libero di vivere, ad esempio, la tua omosessualità ma non pretendere di avere dei figli noleggiando altrui maternità, usando uteri come bancomat di figli delivery, grembi come bucce, gusci o container, asserviti ai propri desideri, concessi solo a chi può permetterseli. Non puoi subordinare ai tuoi desideri la vita di un’altra persona, privandola di un padre e una madre.

Capisco il punto di vista di chi desidera i figli pur avendo fatto una scelta incompatibile con averli; ma se usciamo dal suo ambito soggettivo, quel desiderio è sfruttamento, abuso, depredazione. Ci sono due modi per disumanizzarci: se perdiamo la libertà, con le sue scelte, o se cancelliamo la natura, con i suoi limiti. Non siamo angeli né bestie, solo umani. E chi si pretende angelo diventa bestia.

MV

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La Chiesa dei tre papi viventi.

La leggenda di Fiore è un romanzo spirituale  di Marcello   Veneziani, uscito oltre due anni fa. Racconta  la vita di un personaggio favoloso in cammino per il mondo alla ricerca dello Spirito. Nel suo peregrinare si imbatte e dialoga con un Papa che ha lasciato il soglio pontificio, come il suo predecessore. Qui  alcuni stralci dal capitolo a lui dedicato, il Santo Padre che volle farsi fratello.

Papa Pietropaolo decise di dimettersi e abbandonare l’impossibile apostolato. Presentò le sue dimissioni con una denuncia dei mali di cui pativa la Chiesa, in velata polemica con la Curia e l’Episcopato. PierPaolo non si limitò a dimettersi da Papa, come il suo predecessore, ancora vivente: decise di rinunciare ai voti, abbandonare la Santa Sede e andarsene lontano in abiti civili, senza però rinunciare, disse, alla misericordia verso i fratelli. Si sarebbe occupato con una organizzazione umanitaria di emergenza, profughi, carità. Sparì per una destinazione ignota nell’estremo sud-ovest; dissero che era andato a vivere in una baracca delle favelas.

Il suo papato era partito col proposito di riportare la Chiesa alle origini, di ricominciare daccapo, come al tempo dei primi cristiani, delle catacombe. Per questo aveva deciso in un primo tempo che si sarebbe chiamato Pietro, come il fondatore della Chiesa. Ma, a quanto trapelò in quei giorni, i cardinali lo scongiurarono di non chiamarsi come il primo pontefice perché in tutti, benché implicita, era viva e inquietante la memoria della profezia di san Malachia, che aveva vaticinato la fine della Chiesa con l’avvento d’un papa chiamato Pietro II. Il cerchio si sarebbe chiuso nel suo nome, proprio come era cominciato. Il papa Pietro, si leggeva, pascerà il gregge fra molte tribolazioni; la città eterna sarà poi distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo come alla fine dei giorni. Ma al nuovo papa quel nome significava il ritorno alle umili origini, rappresentava il Nuovo Inizio per rifondare la Sposa di Cristo. E rinunciarvi sarebbe apparso un cedimento alla superstizione e alle dicerie intorno alla profezia di Malachia; e uno sfregio all’Apostolo Fondatore. Allora concordò un compromesso coi cardinali più influenti: si chiamò PietroPaolo, fondendo i nomi dei due apostoli, già congiunti nel giorno loro dedicato. Il Papa fu poi battezzato nel linguaggio corrente, PierPaolo. Lui siglava i documenti pontifici con le tre P, Petrus Paulus Pontifex, PPP; la traduzione corrente e più affabile, che a lui non dispiaceva, era PapaPierpaolo.

Il papa cercò di sostituire al carisma la simpatia, alla grazia la carità, al Signore Dio Onnipotente l’umanità di Cristo, o solo l’umanità, secondo alcuni. Sostituì alla liturgia, al rito e al simbolo, l’umile famigliarità di “uno di noi”; rimosse il sacro e identificò la santità con la carità. Nel suo pontificato cercò di cambiare la missione alla sua Chiesa, aprirla al mondo e al suo tempo, fondere le religioni e i popoli, curarsi dei non credenti più che dei credenti, dei poveri più che dei fedeli, dei lontani più che dei più vicini[…] Migliaia di chiese e monasteri erano ormai svuotati di sacerdoti, suore e devoti, e la curia aveva deciso di cederli per trasformarli in locande, luoghi di ristoro ed alberghi. Il Papa invece volle mutarli in luoghi d’accoglienza per bisognosi[…]

Ci fu un effetto imprevisto delle sue dimissioni improvvise e radicali: prima di convocare il conclave per eleggere il nuovo Papa fu necessario ripristinare sul trono pontificio il vecchissimo Papa Gesumino, che si era dimesso tredici anni prima per motivi d’età e di salute, ma che a novantanove anni compiuti si trovò a indossare nuovamente la mitra di Pietro. Quando Gesumino rinunciò al papato ‒ lui che aveva scelto quel nome per schernirsi come pargolo del Signore ‒ vedendolo in condizioni cagionevoli di salute, molti pensarono che di lì a poco sarebbe tornato alla Casa del Padre. Invece, quel fragile, malato papa emerito, con un fil di voce e il passo curvo, resisteva negli anni […]

Faceva impressione rivedere quel vegliardo serafico tornare dopo tredici anni sulla sedia di Pietro, ormai disabituato alle attenzioni del mondo, più timido e impacciato di prima, tremante, perduto nella sua ascesi mistica, sottratto alle sue letture, ai suoi esercizi spirituali e alla penombra di una santa clandestinità. Guardava in silenzio e benediceva mentre un sorriso amaro si fermava sulla sua bocca per nascondere la riluttanza[…]

Il Conclave con gran difficoltà e con nuovi prelati, alla fine fu celebrato. Fu eletto Papa un cardinale venuto da una popolosa isola cristiana dell’estremo Oriente. Non era una gran figura, si puntò sulla sancta simplicitas, il fervore genuino della sua fede. E sulla comprensione del mondo verso un papa venuto da un mondo remoto. Mentre saliva nel cielo la fumata bianca che annunciava il nuovo pontefice, Papa Gesumino, ormai centenario, lasciava questa terra […]

La coincidenza tra l’elezione del nuovo Papa e la morte del Papa emerito, indusse l’eletto a scegliere come suo nome GesùMaria, nel ricordo di Cristo Nostro Signore, del predecessore Papa Gesumino col suo più umile diminutivo e per la sua devozione speciale alla Madonna. Per la prima volta un nome femminile risuonava nella nomenclatura pontificia, come un segno di apertura. Il nome suscitò turbamento ma era un tempo straordinario, di negazioni assolute e cominciamenti sovrani e furono ammessi anche nomi fuori dall’ordinario. Quando Papa GesùMaria s’insediò sul soglio di Pietro, morì Papa PierPaolo, a tre giorni dal suo predecessore. Una messa solenne per un evento mai accaduto fu celebrata dal Papa che guardava stranito e stordito le salme dei due suoi predecessori, una accanto all’altra. Uno serafico, l’altro corrucciato. Due mondi finivano e il terzo era ignoto. Qualcosa di enorme stava avvenendo, ma non si riusciva a capire se era una morte o una rinascita.

da La leggenda di Fiore (Marsilio)

Seneca riscrive la felicità…

 

 

Caro Lucilio, che farai a Natale e Capodanno? Non vorrei molestarti con le mie lettere edificanti e rovinarti le noiose festività. (Si, ho detto noia, non ho detto gioia, per citare Franco Califano). Ora che siamo entrando nella fase acuta dei festeggiamenti, vorrei aggiornare la mia lettera sulla felicità. Vi scambierete una montagna di auguri di felicità, un rito superstizioso di massa che denota quanto primitiva sia la vostra modernità. Auguri de visu e soprattutto tramite quelle lettere nane che chiamate whatsapp, sms o lasciando messaggi vocali, sempre con quell’infernale aggeggio che mi sta rendendo superato l’epistolario. Non dire, caro Lucilio, che sono il solito pedante con le mie petulanti pergamene; ringrazia il cielo che non ho il telefonino, altrimenti ti tempesterei e non ti resterebbe che bloccare il contatto…

Dopo la feste tornerete tutti a casa dalla felicità e dall’infelicità e riprenderete l’abito ordinario della mediocrità. Le vacanze hanno il privilegio di alterare la normalità e di far venire fuori impetuoso e imperativo il desiderio di felicità; ma portano alla luce anche le sommerse infelicità, rivelano i dolori e le malinconie, scoprono le carenze e le orfanità. Gli assenti pesano più dei presenti. Così nelle vacanze si scatenano la felicità e l’infelicità, vanno a braccetto, si scambiano i posti e si mettono a ballare. Anche tu festeggerai alla grande, Lucilio, perché tu mi leggi e mi ami, non ne dubito; ma poi nella vita pratica te ne strafotti dei miei consigli e vivi come ti capita e vai dove ti porta il cuore, la panza e persino il membro vile, la cosiddetta mentula. Io, da classico, trascorrerò il passaggio d’anno in disparte, a riflettere sulla felicità e i suoi spot. Le mie lettere sulla felicità vanno ancora a ruba in vista delle festività. A duemila anni dalla prima edizione fa piacere vedersi in classifica dei sempreverdi, anche se si sente un po’ fregati nei diritti d’autore, che non riscuoto da millenni. Va bene che per me vengono prima i doveri dei diritti; ma sono stoico, mica fesso.

E poi ci si sente presi per le terga diventare un best seller in un’epoca che la pensa all’opposto di me. D’accordo, ho vissuto sotto Caligola e Nerone, però voi sotto Conte e Draghi…Mi sento tirato per la tunica un po’ dovunque. Ho visto in libreria una caterva di libri dedicati alla felicità e scritti quasi tutti da barbari, celti, galli o affini. Ho preso nota per deformazione professionale: c’è addirittura una storia della felicità, come se la felicità potesse avere una storia, quando al contrario ne è una fuoruscita. Si parla pure di economia della felicità ma la felicità è la cosa più anti-economica che esista, vive nello spreco. Un tempo a voi vicino, persino il civis romanus Antonello Venditti mi infilava nelle sue canzoni; vada a rompere las pelotas a Epicuro (ogni tanto mi sfugge un’espressione ispanica, perché sono di Cordoba) e lasci in pace me che non sono nemmeno della Roma, ma del Real Madrid. Tutti questi libri e cd costano molto più delle mie lettere sulla felicità, stampata in economica. Quel laccio inutile che pende dai vostri colli come un guinzaglio colorato, che chiamate cravatta, lo pagate venti volte più del mio libro solo perché firmato da un sarto. E un libro firmato da Seneca, antico di duemila anni, costa solo mezzo sesterzo…Vergogna, pidocchiosi.

In tema di felicità cito due posteri francesi; Louis Aragon che diceva: “Chi parla di felicità ha gli occhi tristi” e Proust “Gli anni felici sono sempre perduti”. Quanto infelice dev’essere un’epoca che esalta così fanaticamente la felicità, ne scrive, ne canta, ne parla, inonda di auguri…Dev’essere schiava di un edonismo sofferente, malato. Magari fossero epicurei, no, sono gaudenti ma infelici, famelici di gioia ma disperati, golosi e incontentabili…Perché la felicità sparisce appena è desiderata, arriva quando è inattesa, ospite volatile e latitante. Gioie e dolori dolgono entrambi, ma in tempi diversi; perché la felicità si sconta prima o poi, cari pueri. Gli inverni vengono per farci pagare le estati.

Un tempo pensavate che la felicità fosse un bene pubblico, politico, anche quella più intima e privata; ora siete caduti nell’errore opposto e credete che la felicità sia solo un fatto privato. Ma la felicità non è un proclama politico e nemmeno una mutanda rossa, roba intima…Invece ci sono infelicità che passano dalla vita pubblica e altre dalla vita privata.

La felicità, caro Lucilio, non è un progetto ma una carezza, è il convergere fugace di clima, sospensione e gesti, solitudine beata o combaciante compagnia. Non è un programma politico ma un fuori programma; figuriamoci se può essere un piano industriale o di consumi. La felicità fiorisce selvatica e leggera nel giardino della dimenticanza. Mente chi dice: sono felice. Perché la felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Quando sei cosciente la felicità non è presente, quando è presente non sei cosciente. La felicità avrà il cuore aperto, ma ha gli occhi chiusi. Cerca piuttosto la saggezza, non la felicità. E non solo perché è più importante e dona la beatitudine, è una felicità più vera e duratura; ma anche perché la felicità vive di furti e imboscate, ama improvvisare e viene sotto falso nome. Insomma, Lucilio, ha ragione un collega di Venditti, mio mezzo omonimo – Lucio Dalla – che cantava tenero e misterioso: “La felicità, su quale treno della notte viaggerà…”

(Panorama, n.52)

Il mondiale l’ha vinto il Denaro…

Oltre che all’Argentina e al dio Messi, la Coppa del Mondo nel Qatar è stata assegnata all’economia e al dio Denaro. Anche un paese refrattario al calcio, estraneo allo sport, può diventare il Tempio mondiale del football perché dispone della ricchezza. E’ stata una consacrazione plateale, spettacolare della dominazione del denaro, non affidata solo ai vistosi premi: la coppa aurea, un premio complessivo per i vincitori, record assoluto, pari a 440 milioni di dollari, un’ostentazione di ricchezza in ogni evento e in ogni immagine del Qatar; ricchezza sugli spalti, negli spogliatoi e soprattutto nel retrobottega del mondiale. Anche lo scandalo dell’Europarlamento, le mazzette del Qatar, sono ancora la cresta di un fenomeno globale in espansione da tanto tempo ma divenuto ora assoluto, totale, inesorabile. Dietro la patologia della corruzione c’è ormai la fisiologia di un dominio globale. Con un risvolto kitsch da far impallidire magnati russi e pacchianerie americane. Ma lo sport è al guinzaglio del denaro come la politica e perfino i diritti umani; gli stati appesi alle banche centrali e sovranazionali, le risorse del pianeta appese alla mercé della finanza, l’umanità appesa al business, la salute appesa ai profitti. Il mondo è mosso dai soldi; sono il motore principale, gli altri sono motori secondari. Ci raccontavano il contrario, o meglio lo raccontavano a rovescio, che il mondo è mosso dalla povertà; per i vecchi schemi marxisti il mondo è mosso dalla lotta di classe dei poveri contro i ricchi; i popoli poveri fanno le rivoluzioni, o secondo la visuale liberale, i singoli poveri cambiano la società nella loro ricerca di migliorare; così come i migranti poveri partono in cerca di fortuna e generano circolazione dell’umanità. Ma la povertà è solo il risvolto secondario della Ricchezza che è il vero Re del Mondo, non solo nel Qatar. Ha sempre avuto peso la ricchezza, dai tempi di Creso e di re Mida; ma una tendenza antica, potenziata nell’ultima modernità, diventa oggi l’orizzonte globale del nostro presente e ancor più del nostro avvenire. L’idea stessa di globalizzazione è la traduzione universale del mercato globale, applicata a uomini, flussi e merci. Se nel mondo tramontano la religione e la politica, il pensiero e l’arte, le civiltà e le tradizioni, potete non attribuirlo al potere alienante e distruttivo della finanza e del commercio; ma dovrete convenire che a sostituire tutti quei mondi è sempre l’economia, nella forma della finanza, dei consumi e della tecnica. L’unica universalità riconosciuta da tutti, l’unico fattore mondiale di scambio, l’unica certezza d’intermediazione, è nel potere del Denaro, nella divinità della ricchezza e nel suo linguaggio che si fa capire da tutti. Poi restano gli epifenomeni, ossia i fenomeni di superficie, apparenti o vistosi, come può essere una partita di calcio, una sfida appassionata tra calciatori, il talento naturale dei fuoriclasse e degli atleti, l’effetto degli allenamenti e l’intelligenza della tattica. Ma sotto il soffice manto erboso c’è un campo d’energie che muove il mondo e determina le cose. Gli uomini fingono di non vederlo, non capiscono o non vogliono capire e si illudono come bambini che vogliono farsi raccontare le favole anche quando hanno smesso di credere a Babbo Natale. E si affidano ai piedi de dios, alla bravura del “genio”, alla dea fortuna. Noi italiani, popolo giocoso per eccellenza, ci siamo appassionati pur essendo fuori da questo mondiale: ma non abbiamo tifato per la vicina Francia, la sorella latina ed europea, non abbiamo seguito le direttive europee; ci siamo lasciati trasportare dal Corazon, dall’affinità sanguigna e naturale con gli argentini, che per metà hanno il nostro stesso sangue, e per indole somigliano al nostro sud, avendo per giunta un santo in comune, come Diego Armando Maradona. Ma quello è il mondo come rappresentazione; la volontà sottostante è tutta altrove e coincide col potere dei soldi. E’ sempre il meccanismo dell’economia a determinare luoghi, flussi e domini. E’ così potente l’economia da aver seguito ormai la parabola delle religioni: dapprima naturali, con gli dei identificati nelle forze della natura, visibili e perfino con fattezze umane o animali; poi le religioni evolvono, si fanno da un verso monoteiste e dall’altro si fanno invisibili, a partire dal loro Dio. Così è l’economia: il denaro si smaterializza, si fa elettronico, la ricchezza si fa finanziaria più che reale, diventa teologica, mentre le banche sono le nuove cattedrali e il Debito Sovrano viene elevato a Peccato originale dei popoli ma anche dei singoli, perché ormai nasciamo con quel male e non basterà il battesimo in banca per estinguerlo ma ce lo porteremo per tutta la vita. Lo stadio teologico dell’economia è giunto a tal punto che nessuno parla più del Capitalismo nel momento in cui governa il mondo: non nominare il nome di dio invano, non osare chiamare per nome il Signore, meglio termini più neutri e rifratti come globalizzazione, mercato mondiale e interdipendenza. L’interrogativo che alla fine ci resta è però cruciale e non possiamo evitarlo: quanto potrà durare l’umanità sotto la dominazione assoluta dell’economia? Come credete che possano vivere gli uomini e i popoli disfacendo ogni loro legame, salvo lo scambio economico tramite il denaro e la tecnologia? Per quanto tempo ancora la società potrà reggere senza orizzonti comuni di fede e di pensiero, di civiltà e di identità, di tradizione e di storia, connessa solo dallo scambio commerciale, dal transito delle merci e dal valore stabilito dai mercati finanziari? La società sopravvive perché mantiene ancora, benché logorati e deperiti, i legami comunitari ereditati dalla vita e dalla storia, di tipo famigliare, territoriale e civico, religioso e culturale. Cosa accadrà quando saranno definitivamente vanificati, grazie anche alle ideologie di supporto del mondialismo economico che puntano a sradicare l’umanità e renderla fluttuante, mutante, nomade? Sarà economico l’ultimo stadio dell’umanità. E finirà ai rigori.

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L’ Italia divisa… di chi la colpa?

L’Italia, l’Europa, il mondo sono spaccati tra chi si riconosce negli orientamenti conservatori e chi, invece, si riconosce negli orientamenti progressisti. In realtà l’Italia non è spaccata in due ma in ventidue, anzi c’è un’Italia per ogni italiano. Ma differenza principale è tra questi due modi di pensare .La sinistra coltiva, per eredità marxista e illuminista, la convinzione che la storia abbia un percorso già definito a senso unico: marcia verso quel che ritiene essere il progresso, l’evoluzione, la modernità. E chi si oppone a quella marcia inesorabile si pone fuori dalla storia, è un disturbatore, un brigante appostato agli angoli della storia a tendere imboscate (la reazione in agguato).
In realtà la storia, lo insegna l’esperienza, non ha un cammino prestabilito e obbligato La sinistra ha tutto il diritto di battersi perché trionfi la propria idea di società; ma abbia l’onestà, l’intelligenza e l’umiltà di considerare che c’è un’altra Italia, un’altra Europa, un altro mondo che non la pensa come loro ma ha altri valori, altre sensibilità, altre aspettative. Non dirò che gli uni siano migliori degli altri, perché i migliori e i peggiori sono mescolati tra gli uni e gli altri. Dunque, nessuna supremazia etnica o etica ma due diverse visioni della vita e del mondo. Ciascuna ha diritto di ritenere che la sua sia la verità e faccia il bene degli uomini; ma la realtà dice che al mondo ci sono posizioni antitetiche e se crediamo davvero alla libertà e alla democrazia dobbiamo accettarlo. Ma non potete ritenere vergognoso chi le esprime e chi rappresenta quella metà di popolo (fermiamoci alla metà, non rivendichiamo maggioranze) che in quelle idee si riconosce. Non si possono estirpare o mettere al bando. Si deve accettare la loro esistenza, e riconoscere che è legittimo difendere la famiglia, la tradizione religiosa, nazionale e civile di un popolo, come è legittimo ritenere dall’altra parte che il progresso comporti il loro superamento. La politica è questo: scontro tra due o più visioni contrapposte o fortemente diverse. Per esempio le questioni sull’aborto sono superabilissime, basta volerlo poichè non c’è alcuna imposizione da nessuna delle due parti- se la sinistra è antipatica (come dice Luca  Ricolfi), se non è popolare, è perché è boriosa e suprematista, non ammette margini di mediazione e non riconosce legittimità a chi la pensa diversamente. Basterebbe un piccolo sforzo per avere un paese con meno odio. Mi piace avere fiducia, aspetto smentita.

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Nelle mani il destino…

C’è chi nasce coi pugni serrati, chi con le mani spalancate e chi col pollice in bocca, qualcuno persino con le mani giunte o protese in avanti, come per difendersi. Il carattere già si profila dalle mani, perché il neonato non ha ancora a fuoco la vista; la luce originaria e il buio del passaggio, lo hanno reso provvisoriamente cieco. Sicché le mani parlano al suo posto. C’è chi rimane cieco per tutta la vita, anche se vede.
L’infanzia è una mano che si apre, e stringe altre mani, per gioco o per farsi guidare, conosce il mondo maneggiando le cose; la gioventù spalanca le mani, afferra con vigore il mondo, abbraccia la vita. La vita adulta si abituerà poi a prendere e lasciare la presa, ad afferrare pesi, armi, valigie; a maneggiare, manipolare, condurre per mano, tendere la mano per soccorrere o essere soccorsi. La vecchiaia è una mano che si chiude, si rinserra nel pugno, si appoggia a un bastone, stringe quel che resta, temendo di perderlo, fino a che non gli resta più nulla e stringe un pugno d’aria. Il mondo del vecchio si restringe, si fa sempre più piccolo, introverso, a volte si rinchiude dentro il suo corpo, il suo intestino, i suoi organi che funzionano male. Le sue mani sono impotenti, il mondo è sempre meno a portata delle sue mani, che cominciano a tremare e cercano sostegni.
Le mani sono la gloria dell’uomo rispetto agli animali; sono l’intelligenza del corpo, pensiero tattile, prensile, toccante. Sono la mappa dove è segnata la sua fatica passata ed è scritto il suo cammino futuro”.

da La leggenda di Fiore

La Pasquetta, che non c’è più…

Il bello della Pasqua era che a differenza delle altre domeniche non annunciava la mestizia leopardiana del lunedì (“diman tristezza e noia recheran l’ore”). Perché alla domenica di Pasqua seguiva il Lunedì dell’Angelo. La Santa Pasqua si faceva puttanella con la Pasquetta. La vezzosa e ovipara Pasquetta, in campagna o al mare, tra i cibi avanzati della Pasqua, più i tegami e le tielle da asporto, e il mitico cucuo (focaccia); la Pasquetta civettuola, tra camicette gonfie, corpi scoperti e prime voluttà che annunciavano l’estate. Il sole che torna sulla pelle, il contatto con la terra, per i più arditi il primo bagno a mare, tra grida disumane ed eccitazione goliardico-vascolare. Alla Pasquetta c’era una regressione infantile: si giocava al pallone, alla bandiera, a mago o libero, a tezzuare le uova e sopra tutto al ciuccio: c’erano due squadre contrapposte, una formava un serpentone di corpi intrecciati e piegati, in posa da rugby, come un lungo animale e l’altra squadra doveva montarvi sopra con la massima irruenza per far scoffolare (crollare) il ciuccio. Di solito i bestioni più obesi saltavano per ultimi, per dare al ciuccio il colpo di grazia. Se il ciuccio reggeva, vinceva la partita. Viceversa, se gli avversari toccavano terra o smontavano dal ciuccio prima che si sgriduasse (decomponesse), perdevano loro. A volte durava un tempo infinito prima che il ciuccio schinicchiasse (scricchiolasse). Una guerra di resistenza punteggiata da minacciose frasi: “Pes u’ chiumme?” (Pesa il piombo?). Risate e imprecazioni quando nel salto si squartavano i pantaloni o quando si cadeva uno sull’altro. Si andava in visibilio in caso di rumorose flatulenze digestive che tramortivano il ciuccio. La sera i più fortunati s’imboscavano con la minenna (la ragazza), gli altri si sfogavano intorno a una chitarra. E si tornava a casa svociati e contenti, ubriacati d’aria. Sazi di vita, di luce, di focacce e taralli.

Da Ritorno a sud (M V)

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