Curiosità sullo zafferano, per chi lo ama nel risotto alla milanese o in altre gustose ricette , sia italiane, che esotiche-

Passeggiando nel corridoio delle spezie di un negozio di alimentari nel 2024, una selezione si distingue tra gli altri: lo zafferano. A Whole Foods, 0.5g di “Hand-Harvested Saffron Threads” vende per $ 8. In altre parole, è costoso. E ‘costoso anche su internet: un sito web offre solo dieci cucchiai (dieci grammi) di zafferano per $ 120.
L’ironia dello zafferano è che tutto lo zafferano deve essere raccolto a mano dalla pianta Crocus sativus, un fiore che fiorisce petali viola e blu in autunno. Lo zafferano è costoso non perché sia difficile da coltivare, ma a causa del lavoro e dei tempi noiosi necessari per estrarlo dal fiore. Le pregiate “stimmate” rossastre-arancioni si formano al centro della pianta poche settimane dopo la fioritura, e devono essere raccolte a metà mattina, quando il fiore è completamente aperto al sole. Un sito web di giardinaggio descrive il processo di raccolta dello zafferano come qualcosa che dovrebbe essere fatto con pinzette a un tavolo da cucina. Per secoli, lo zafferano è stato un prezioso colorante, spezie e profumo e il processo di raccolta non è cambiato molto. Secondo uno studio neozelandese in un campo con moderne routine di semina e fertilizzazione, ci vogliono tra 70.000 e 200.000 fiori per produrre un chilogrammo di fili di zafferano essiccati. I fiori devono essere raccolti a mano e gli stimmi rimossi per l’essiccazione, e il risultato è che ci vogliono “circa 370-470 ore di lavoro per produrre 1 kg di zafferano secco.”
Il Crocus sativus era derivato dal Crocus cartwrightianus, probabilmente originario dell’attuale Iran. Lo zafferano che conosciamo oggi dariva dal lavoro di esseri umani “selezionando gli esemplari con stigmi eccezionalmente lunghi.” Crocus sativus è sterile e non produce i propri semi fertili. Pertanto, gli esseri umani devono dissotterrare i cormi (radici e steli riproduttivi sotterranei) e piantarli altrove.

Il commercio internazionale portò lo zafferano dall’attuale Medio Oriente e Mediterraneo in Spagna, dove fu probabilmente introdotto per la coltivazione nel 921. Centinaia di anni dopo, lo zafferano poteva essere trovato ovunque dai campi dell’Inghilterra alla Russia.
Uno dei primi riferimenti allo zafferano risale al 2300 a.C., in La leggenda di Sargon di Akkad, un’opera mesopotamica che descrive il luogo di nascita del fondatore dell’impero accadico come “città dello zafferano.” La parola “zafferano” è molto simile in molte lingue in tutto il mondo. Gli etimologi fanno risalire la parola al latino medievale “safranum”, che deriva dalla parola araba az-za’Faran.
Nel 2022, abbinando arte antica e genetica, nuove ricerche pubblicate su Frontiers dimostrarono che il Crocus sativus diventò di uso comune per la prima volta in Grecia nel 1700 a.C. Molte antiche opere d’arte minoiche raffigurano lo zafferano, tra cui l’affresco di scimmie blu raccogliendo zafferano sotto.

.Il Crocus sativus è noto soprattutto per le sue proprietà culinarie. E ‘il sapore pietra angolare in molti piatti da tutto il mondo, che vanno dalla paella al biryani. Alcuni chef descrivono lo zafferano come degustazione “leggermente terroso e dolce,” mentre emana un “aroma affumicato.”Ma lo zafferano è anche apprezzato per il suo valore medicinale e aromatico. Allo zafferano in piccole dosi è stato precedentemente attribuita  proprietà sedative, espettoranti, stimolanti, stomachiche, antispasmodiche, antiisteriche e afrodisiache ed è stato prescritto anche in febbre, melanconia e ingrossamento della milza. In alcuni casi, è stato anche usato come abortivo.

Lo zafferano può essere utilizzato anche per tingere capi di abbigliamento o pelle. Per gli indù, lo zafferano è uno dei colori più sacri, ed è talvolta “applicato come un colorante rosso sulla fronte,” scrivere Madan et al. A Roma, spiegare Basker e Negbi, “è stato utilizzato per colorare la veste del matrimonio.” Anche i monaci buddisti indossano notoriamente abiti del colore dello zafferano, anche se le vesti non sono tinte con la pianta.

Linea colorata incisione dello zafferano di C.H. Hemrich, dopo T. Sheldrake

I fiori di Crocus sativus fioriscono in autunno per pochi giorni e devono essere raccolti nelle prime ore del mattino, a mano. La natura laboriosa della raccolta ha creato un mercato in cui lo zafferano è molto più costoso di molte altre spezie popolari. Come spiega l’archeologo Jo Day, “la casa reale della Navarra del XV secolo, ad esempio, pagava otto volte tanto lo zafferano quanto il pepe, anch’esso una spezia molto costosa…”

Oggi, la maggior parte dello zafferano è coltivato in paesi in cui i lavoratori sono pagati meno rispetto ai loro omologhi dell’Europa occidentale. I produttori principali sono l’Iran, l’India e la Grecia. Il prezzo di lusso dello zafferano ha anche stimolato tentativi di farlo crescere negli Stati Uniti.

Una fattoria di zafferano, Torbat heydariyeh, provincia di Razavi Khorasan, Iran via Wikimedia Commons

Lo zafferano non è una pianta molto resistente al clima. Anche se resistente all’acqua e quindi fiorente nelle regioni semi-aride, diventa difficile coltivarla quando ci sono temperature altissime per lungo tempo, poiché lo zafferano potrebbe impiegare più tempo per fiorire, ritardando così il guadagno per molti piccoli agricoltori ,che si affidano a queste piccole piante per vivere La necessità di una diversificazione economica può essere alla base dei recenti sforzi  dei coltivatori di zafferano , atti ad offrire opportunità al turismo.

Consolatevi, eravamo così già due secoli fa…

 

Ho trovato la descrizione perfetta dell’Italia d’oggi, anno di grazia Ventiquattro. È un catalogo meticoloso e amaro della condizione presente e una diagnosi precisa dei suoi mali e dei suoi agenti. Ma con una particolarità, davvero curiosa: è scritta, si, nell’anno di grazia e disgrazia Ventiquattro, ma di due secoli fa, esatti. E’ del 1824. L’impietoso analista è tristemente e gloriosamente noto: l’eccelso, dolente Giacomo Leopardi. E anche il suo scritto non è ignoto, è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani.

Provo a sintetizzare il suo sguardo e proiettarlo nel nostro presente. Gli italiani d’oggi sono cinici, indifferenti a tutto, non hanno stima di nulla, sono propensi a buttarla sul gioco e sull’ironia, deridono tutti e disprezzano tutto, convinti dell’infinita vanità di ogni cosa. Gli intellettuali, le sette illuminate, hanno distrutto la morale tradizionale, hanno “liberato” il popolo dai suoi principi tradizionali, con la promessa di una vita migliore ma hanno generato solo una nuova barbarie. La “barbarie rinnovata, la barbarie della riflessione”, di cui parlava un secolo prima Giambattista Vico. Il riferimento polemico, di Vico come di Leopardi, è alla setta intellettuale degli illuministi. La distruzione dei valori ha avuto conseguenze nefaste sui costumi, perché l’agire umano si è trovato privo di fondamenti, di motivazioni alte e profonde, di senso del limite. Il testo leopardiano esordisce facendo riferimento a “questo secolo presente”, che descrive come nomade e globale, esattamente come il nostro. Si spegne “l’amore e fervor nazionale” e in genere “di tutte le passioni degli uomini”; “il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”. Leopardi nota che le leggi senza i costumi non bastano, e gli altri paesi “hanno un principio conservatore della morale e della società” che noi non abbiamo; anzi da noi è venuta a mancare “la società più stretta” che potremmo chiamare la classe dirigente, l’élite guida. Si è perso il desiderio di gloria,”incompatibile colla natura dei tempi presenti”, dopo “la strage delle illusioni”; ma anche il suo succedaneo, il sentimento dell’onore. Prevale un becero individualismo – “ciascun italiano fa tuono e maniera da sé” – e una filosofia pratica, cinica e scettica, a fronte di una carenza di studi e letture filosofiche. Anzi, per Leopardi, “gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi dei maggior filosofi”. E qual è il succo di questa filosofia pratica? La vanità di tutto, la mancanza di illusioni che rendono degna la vita, e insieme l’assenza di sostanza, verità e prospettiva futura, perché la visione “è ristretta al solo presente”; ne segue la “total frivolezza delle loro occupazioni”, “la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose”, la solitudine, la “dissipazione giornaliera e continua senza società”, lo sviluppo dell’immaginazione “per l’assenza del vero e della realtà e della pratica”. Perciò, insiste Leopardi, gl’italiani sono “molto più filosofi di qualunque filosofo straniero”; ma il perno di questa filosofia, la vanità di tutto, produce sui costumi “il maggior danno che si possa pensare”. “Indifferenza profonda”, “disinganno”, “pieno e continuo cinismo d’animo”. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche, ma anche “il popolaccio italiano è il più cinico de’popolacci”. Gli italiani, dice, ridono di tutto e si deridono a vicenda; ridono della vita e disistimano anche se stessi; la loro conversazione è il cazzeggio (il neologismo non è leopardiano). Da qui “l’infelicità sociale e nazionale” dopo la perdita dei fondamenti “che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti”. Ci restano usanze e abitudini, piuttosto che costumi, e ne patisce lo spirito pubblico; la nazione che era più calda e vivace del mondo, è ora “la più morta, la più fredda” la più indifferente. Leopardi rimpiange perfino che non si trovino più in Italia “veri fanatici di nessun genere”.

Anestesia generale, e nazionale.

Non vado oltre, mi soffermo sulle analogie col presente. Sorprendenti ed estese. Ma la vera sorpresa è un’altra: noi credevamo che “lo stato presente” degli italiani dipendesse dal mondo attuale, dai modelli prevalenti, dal distacco tra paese reale e paese legale, dai traumi storici del secolo scorso, guerre, fascismo e antifascismo e dalla guerra civile perdurante; credevamo che il suo aggravarsi nei nostri anni dipendesse dai social, dalle tecnologie, dall’uso narcisistico degli smartphone, dalla secolarizzazione e dalla scristianizzazione odierna. Leopardi invece descrive il nostro stato presente in un’epoca che precede tutto questo. Che vuol dire? Che i mali denunciati come mali presenti sono invece mali atavici, se non endemici; e l’occhio critico e negativo degli osservatori ci fa vedere tutto più scuro di quanto realmente sia. Tra corsi e ricorsi, cicli e ricicli, le epoche si somigliano, come le egemonie intellettuali; l’illuminismo di ieri riverbera nel nichilismo di oggi. E questo ci può condurre a due esiti opposti: lo sconforto assoluto, irrimediabile e irredimibile, perché tutto era e sarà così, non c’è nulla da fare; o viceversa la fiducia che se con questi mali conviviamo da secoli, possiamo sopravvivere ad essi, coabitarci e non escludere che ci possano essere risorgimenti e rinascimenti seppure provvisori. La fiducia nasce sulle basi della disperazione. E qui vi confesso una sensazione che vorrei condividere. Quando leggo i grandi pessimisti del passato, io mi rincuoro. Più sono tragici, e catastrofici, e più mi consolano. Non solo Leopardi ma anche Cioran, Ceronetti, Sgalambro. Perché descrivono la decadenza e la fine dell’Italia o del mondo già secoli prima del nostro tempo. E dunque ci fanno capire che non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che non abbiamo toccato ora il punto più basso; dopo tante catastrofi l’Italia è arrivata fino a noi, longeva e benestante, ferita, ammaccata, sfregiata ma viva. E quei mali non sono mortali ma cronici, ovvero possiamo conviverci a lungo. Anzi, la decadenza dell’Italia, descritta nel 1824, precede addirittura l’Unità d’Italia, del 1861…

Insomma, Leopardi vede nero, ma alla fine ci rincuora: niente di nuovo sotto il sole, ombre incluse. Allegria dei naufragi.

Marcello Veneziani 

Antropologia di un gesto, Paolo e Francesca si baciano ancora.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, il bacio di Paolo e Francesca
Jean-Auguste-Dominique Ingres, il bacio di Paolo e Francesca

Dalla Divina Commedia ai personaggi contemporanei. Non c’è contatto che abbia colpito di più la fantasia letteraria

Dal bacio di Paolo e Francesca a quello di Paola e Francesca. Il primo, reso immortale da Dante finì in tragedia, il secondo fra Paola Turci e Francesca Pascale, con un matrimonio. Gli amanti della Divina Commedia furono sorpresi sul fatto dal di lei marito. La cantautrice e l’ex di Berlusconi sono state paparazzate labbra sulle labbra. In un caso galeotto fu il libro, nell’altro uno yacht. Eppure, al di là delle differenze è pur sempre un bacio a simboleggiare l’amor che a nullo amato amar perdona. E non è un caso che magazine, tv e social in questi giorni abbiano tutti rispolverato i versi del V Canto dell’Inferno, rendendo iconiche le testimonial dell’amore LGBTQIA+.

Perché quello di Paolo e Francesca è il bacio più celebre della letteratura. Un bacio che nasce da un altro bacio letterario. Quello altrettanto proibito che Ginevra, moglie di re Artù, scambia con il prode Lancillotto, raccontato dal grande poeta Chrétien de Troyes, nel libro che accende la passione dei due young adulterers.

Quel turbine di desiderio immortalato dalle terzine vertiginose di Dante ha colonizzato la vita sentimentale di generazioni di studenti. Mescolandosi ai turbamenti dell’adolescenza. “Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene – dice Antonello Venditti in Compagno di scuola – perché, ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco?”.

Gli unici a poter contendere agli amanti di Rimini la palma del bacio fatale sono gli amanti di Verona, Giulietta e Romeo. Con una bella differenza. I primi sono due ragazzini ingenui, tutti fremiti e palpiti. Basta un libro a farli andare fuori di cabeza. Mentre la Giulietta di Shakespeare appare molto più scafata di Romeo, quasi una metrosexual. Lui, ingenuo, paragona le sue labbra a due timidi pellegrini in cerca della sacra bocca dell’amata. Mentre la ragazza Capuleti la sa lunga e valuta da uno a dieci l’arte filematica del Montecchi. “You kiss by a book” – gli dice compiaciuta – “baci come un libro stampato” o, se preferite, “baci da manuale”. Insomma, il libro galeotto è diventato un tutorial.

Il sì di Paola Turci e Francesca Pascale a Montalcino il 2 luglio 2022

Il sì di Paola Turci e Francesca Pascale a Montalcino il 2 luglio 2022 

Quello che evidentemente non ha letto Otello che, accecato dalla gelosia, scambia i baci d’amore di Desdemona per prove del suo tradimento. E quando la uccide nel sonno, la bacia e continua a parlarle di baci: “E non c’è altro modo che questo: uccidermi, per morire in un bacio”. La scena ha una lunga eco letteraria e musicale, fino al libretto scritto da Arrigo Boito per l’Otello di Verdi dove il Moro dopo il femminicidio canta “un bacio, un bacio ancora, un altro bacio”. Con una sorta di triangolazione delle citazioni, perché la frase di Boito si ispira a un passo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo dove Lorenzo, uno dei protagonisti del romanzo, scrive all’agognata Lauretta “O! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a’ miei sogni e a’ miei soavi delirj: io ti morrò ai piedi”.

Insomma, sulla letteratura piovono baci in tutte le direzioni, come quelli di cui Vronsky copre il viso e le spalle di Anna Karenina nell’omonimo romanzo di Tolstoj. Ma la fiaba e il fantasy sono un vero catalogo di prodigi filematici, aspirazioni bocca a bocca, suzioni fatali. A cominciare da quelle del Dracula di Bram Stoker, il più nefasto tirabaci dell’Ottocento.

Ma la magia del bacio, il suo potere di cambiare anima e corpo delle persone ha nelle favole e poi nel cinema la sua consacrazione. L’idea di fondo è che in ogni ranocchio è nascosto un principe e in ogni serpente una principessa che solo un bacio potrà restituire alla loro bellezza originaria. A questo genere appartengono storie come La donna serpente di Carlo Gozzi una favola teatrale settecentesca. O ancor prima l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, dove il prode cavaliere Brandimarte libera la fata Febosilla trasformata in rettile da un mago invidioso. Va da sé che l’indomito slinguazza senza esitazioni il biscione. E il lieto fine è assicurato.

Alla stessa famiglia di miracolate appartiene la Bella addormentata nel bosco, svegliata dal bacio del principe dopo un sonno di cento anni. Senza dire di Biancaneve che dopo aver assaggiato la mela della strega piomba in uno stato di ibernazione da cui solo le labbra amorevoli del principe la tirano fuori. Più o meno come succede ad Anna, principessa di Arendelle e coprotagonista di Frozen-Il regno di ghiaccio, il film d’animazione che ha stracciato tutti i record d’incasso.

Ma non si creda che siano solo e sempre le donne ad aver bisogno degli uomini. Anche i principi hanno i loro inestetismi da incantesimo. Trasformati in mostri come ne La bella e la bestia. E nemmeno i paperi fanno eccezione. Ne La leggenda di Papertù, geniale crasi fra Paperino e Artù, il pennuto più famoso di sempre viene trasformato in rospo dalla perfida maga Ameliana. L’incantesimo viene spezzato solo dal bacio della principessa Paperinevra, Paperina più Ginevra.

Ma adesso, al tempo del #MeToo, quei baci favolosi incappano spesso e volentieri nelle censure del politicamente corretto. Nel 2017 Sara Hall, una mamma inglese, ha chiesto di cancellare la Bella addormentata dai programmi scolastici del Regno. Motivazione. Il principe è uno stalker che ha baciato la dormiente senza il suo consenso. Ha rincarato la dose la sociologa giapponese Kazue Muta che ha accusato il principe di Biancaneve di atti osceni su una partner priva di sensi.

Per ragioni analoghe l’attrice Keira Knightley ha deciso di vietare a sua figlia Cenerentola e pure La sirenetta. Con tutto il rispetto, accusare di sessismo un autore di 2000 anni fa o i fratelli Grimm è come multare per eccesso di velocità i piloti di Formula Uno.

In realtà, questo revisionismo applicato alla fiaba è la prova provata della potenza simbolica di questo gesto antico quanto il mondo. A partire dalle Metamorfosi di Ovidio dove lo scultore Pigmalione bacia la statua di Galatea e la trasforma in una bellissima donna in carne e ossa. Fino al mondo dei Manga e degli Anime, dove siti specializzati stilano la classifica dei baci più amati dagli adolescenti. Insomma, con buona pace della cancel culture, il bacio resta un evergreen del discorso amoroso. Di ieri e di oggi.

Ogni cosa ha la sua storia,anzi deve averla per forza… E

Nella vita di tutti i giorni è difficile accettare le cose per come si presentano; dobbiamo avere una spiegazione, quasi la vita fosse  un teorema matematico da dimostrare. Non per niente mi affascina questa poesia di Wislawa Szymborska dove, con l’acume ironico che  é una delle sue solite prerogative, analizza la molteplicità dei casi della vita , quasi per darci un misura di analisi.

Ogni caso
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

Wislawa Szymborska

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