Per ogni anno che passa, togli qualcosa…

 

Qualche giorno fa conversavo con un’amica, la quale mi ha raccontato un colloquio con il suo medico. Una raccomandazione del dottore mi ha colpito. «Signora – ha detto lo specialista – si ricordi: per ogni anno che passa lei deve dire addio a qualcosa». Il consiglio era quello di una rinuncia progressiva, graduale, inversamente proporzionale all’età.
Più invecchi, più devi alleggerirti.
Più si accumulano gli anni, più devi eliminare cose alla tua vita.
Clic Per una come me che da anni affina l’esercizio della sottrazione (con risultati altalenanti), quella raccomandazione è immediatamente suonata naturale, oltre che molto sana. Ma per buona parte della serata ho continuato a riflettere su quel bizzarro movimento a correnti alternate e contrarie: cresce l’età, diminuisce il peso (dell’anima e della mente). E ho concluso che nella vita che conduciamo spesso avviene l’esatto opposto.Più invecchiamo e più ci arrocchiamo sull’accumulo, ci attacchiamo alle certezze e restiamo appesi, impotenti, alla paura di perdere qualcosa. L’età (non sempre ma spesso) porta dei benefici e delle posizioni conquistate che innescano un meccanismo di sopravvivenza: per mantenere quello che ho non posso fermarmi, ma devo andare avanti e ottenere sempre qualcosa di più. Non parlo solo del lavoro: mantenere il basso continuo di una relazione sentimentale, per esempio, impone un incessante «allungo», un inesauribile orizzonte di progresso. E allora, mi sono chiesta, come si fa a togliere una cosa per ogni anno che passa? Intanto è utile riconoscere l’accumulo. Perché è un rumore sottile, qualche volta si confonde con la necessità. Quel «sì» detto nonostante una vita piena di impegni, è davvero necessario? Ho veramente bisogno di dispiegare tempo ed energia in questa cosa, oppure è solo la paura di vedere crollato un castello inesistente? Perché, sia chiaro, ogni costruzione che crediamo di avere edificato è fatta di sabbia: basta un imprevisto, anche invisibile, a demolire ogni cosa. Allenarsi alla precarietà, allora, può essere un ottimo esercizio. C’è un bel libro che spiega bene questo meccanismo ed è «Niente di speciale», scritto da Charlotte Joko Beck (in Italia tradotto dall’editore Ubaldini e oggi pressoché introvabile). Beck è stata un’insegnante di meditazione Zen e in questa guida, molto semplicemente, invita a guardare le cose come sono. Quello che ci capita senza che noi facciamo nulla per farlo accadere, è ogni volta un piccolo miracolo: la pura vita, l’essenza di quello che ci succede ogni giorno, la bellezza della quiete. Togliere ogni sforzo, come in un asana dello yoga fatto bene, sentire il sostegno della terra e fidarsi di quello che ci sta davanti agli occhi. Restare eleganti e pieni di grazia anche nella tempesta, perché come affermava Pema Chödrön, una famosa monaca buddista, «tu sei il cielo, il resto è solo il tempo che fa». Sembra facile, ma per molti è difficile, per alcuni impossibile. Allenarsi alla precarietà vuol dire lasciare andare e osservare momento per momento la nostra vita. Diventare pura osservazione. Allora ho pensato che questo allenamento alla lenta purificazione, eliminando quello che non serve, possa essere un lenitivo. Come lo sciroppo per la tosse grassa, può sciogliere quei nodi che ci lasciano appesi alle passioni, ai desideri inutili, alla rabbia priva di senso. Cose che con il tempo, come rifletteva Gabriel García Márquez, assumono una sgradevole sfumatura triste. Notarle, dare loro un nome, equivale a stabilizzarle. Un po’ come quando ci mettiamo a osservare con calma e insistenza gli occhi della tigre: ci troviamo un lampo di arrendevolezza.

Roberta Scorranese
Salvatore lamberti

Illustrazione Salvatore Lamberti