Non è colpa mia se sono bianco etero-

Siamo di fronte a una specie di corporativismo della sofferenza che non è solamente antisociale, perché rinchiude in nicchie e in definizioni quasi maniacali problemi che appartengono all’intera comunità

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Caro Serra, sono marito felice di una moglie in carriera che guadagna molto più di me; figlio di una donna che delle istanze femministe ha fatto la sua bussola; amico e collega di tante di straordinaria capacità con le quali condivido orizzonti e idee; padre di due figlie alle quali non ho mai neanche dovuto spiegare perché mia cognata è innamorata di un’altra donna e vive con lei, tanto è naturale per loro. Nel mio orizzonte i problemi della disuguaglianza di genere e delle discriminazioni sessuali non esistono. Ovvio, sono e restano questioni sociali di scandalosa urgenza, che richiedono grande attenzione e cura: sarei stupido a ricavare dal mio felice microcosmo conclusioni universali. Ma la questione è un’altra: sono stanco di dovermi giustificare per appartenere alla categoria del maschio bianco eterosessuale. Non sopporto l’idea che su alcune questioni non sia ammesso il dissenso a chi non appartiene direttamente alle categorie discriminate. Non è concepibile che ogni argomento dissonante sia immediatamente squalificato come “suprematista”, “patriarcale”, “omofobo” o con analoghe etichette. Anche un recente articolo di Luca Ricolfi ha trovato il medesimo contrappunto censorio. L’argomentazione perde subito aderenza con i temi trattati e si sposta sulle caratteristiche personali di chi formula un’obiezione. Di qui, il passo verso il linciaggio è breve e spesso viene compiuto. Dolorosissimo è stato assistere alle scostumate contumelie che hanno investito Natalia Aspesi (la Aspesi!) quando si è azzardata a esprimere alcune perplessità sul modo in cui alcune battaglie femministe sono condotte. Un livore insopportabile, che mi spinge a irrigidirmi verso posizioni che nemmeno mi appartengono. Ma un mondo in cui non posso dire serenamente la mia è un mondo a cui sono estraneo e che combatto. Serra, le riconosco il merito di essersi sempre sottratto alla logica dello scontro e allo schematismo della contrapposizione amico-nemico in cui il dibattito rischia di soffocare. Mi chiedo però se rispetto a certi atteggiamenti il fair-play sia sufficiente e se non serva contrastare in modo più deciso quel furore che trasmoda in fanatismo. Anche se al servizio di una buona causa, sempre di fanatismo si tratta. E ci rende tutti peggiori.
Andrea Merlo

Caro Merlo, lei scrive che «su alcune questioni non è ammesso il dissenso di chi non appartiene alle categorie discriminate». Forse è anche peggio: non si ammette nemmeno il consenso di chi non appartiene alle categorie discriminate. Siamo di fronte a una specie di corporativismo della sofferenza che non è solamente antisociale, perché rinchiude in nicchie e in definizioni quasi maniacali problemi che appartengono all’intera comunità; è anche rovinosa, perché rende impopolare, e a volte ridicolizza, la lunga e dura lotta per i diritti, per l’inviolabilità e  l’autodeterminazione di tutte le persone umane.

È un grave errore, però, lasciarsi intimidire o suggestionare dalle tribù organizzate (spesso in lotta tra loro) che si pretendono concessionarie uniche delle battaglie di libertà. Molte, troppe persone prima di aprire bocca o di scrivere sui giornali si domandano “come reagiranno i social”. Gravissimo peccato di viltà. Questo è un momento storico nel quale l’esercizio della parola va tutelato con scrupolo, e se necessario con durezza. “Non sei tu il mio giudice” è la sola risposta che meritano le falangi di depositari della Verità. Qualcuno di loro ha piaghe da curare e sofferenze da lenire, ed è una giustificazione importante. Molti altri hanno solo spocchia intellettuale e astio personale, e in aggiunta (recente) devono valorizzare, strillando, rendite di posizione che derivano dalla loro inedita visibilità politica, non dal loro talento. Di loro non bisogna curarsi. Ci vogliono un briciolo di coraggio (ben altre prove, per difendere la libertà di parola, hanno dovuto affrontare le generazioni precedenti) e soprattutto molta serenità.

E dunque no, non ci si deve giustificare per essere maschio, bianco e eterosessuale. Non è un merito, non è una colpa, è solo una condizione umana molto diffusa. Ognuno di noi deve rispondere solo dei propri comportamenti e della propria storia personale. Il resto è da respingere al mittente, e immagino che anche Aspesi e Ricolfi lo abbiano fatto.

Sul Venerdì del 12 Novembre 2021

Non è colpa mia se sono bianco etero-ultima modifica: 2021-11-12T22:17:30+01:00da g1b9

Un pensiero riguardo “Non è colpa mia se sono bianco etero-”

  1. Anche questo un problema di questi tempi, una dimostrazione chiara e netta di come abbiano voluto portare acqua, ciascuno al suo mulino. “Chi va al mulino s’infarina” cita un vecchio adagio popolare e oggi, questa è diventata la nostra società: se non sei sporco di farina e non appartieni a un “salotto” culturale e/o sociale, non fai parte di nessuna parrocchia e non frequenti un circolo stemmato, non puoi essere social e sociale. Pertanto il pensiero liquido deve prendere tutti indistintamente e portare acqua a a ogni mulino. Insomma, tanto per essere in tema, ognuno con il suo bravo “green pass” deve dimostrare la sua “posizione”, la sua appartenenza e soprattutto, la sua discendenza.
    Buon giorno Giovanna.

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