Quel ragazzo nella soffitta…

 

Ogni tanto mi chiedo se nella vita non avrei dovuto pormi degli obiettivi più ambiziosi. Se uno scrive, forse dovrebbe immaginarsi avventuriero alla Hemingway, o dannato quanto Céline, o saggio solitario come Hermann Hesse. Io invece ho sempre voluto essere soltanto John-Boy. Ve lo ricordate John-Boy? Era il figlio maggiore della famiglia Walton, il protagonista della serie televisiva intitolata «Una famiglia americana». In Italia devono averla mandata in onda negli anni Ottanta, perché la guardavo da bambino. Si svolgeva in una comunità rurale della Virginia durante la grande depressione. C’erano genitori, fratelli, sorelle, nonni. I maschi erano vestiti con delle salopette di jeans, mentre le ragazze avevano bellissimi capelli lunghi. Facevano i contadini, naturalmente, ma John-Boy sognava di fare il romanziere. Alla sera, infatti, al termine delle avventurose giornate in cui la sua famiglia superava le fatiche di una vita modesta in quel contesto di crisi economica, si rifugiava in una soffitta con le travi di legno, accedeva una lampada a olio sopra un tavolino e cominciava a riempire le pagine di un diario. Gli spettatori lo vedevano al lavoro e sentivano la sua voce calda che riassumeva con parole meravigliose – così almeno mi apparivano allora – le vicende della puntata. John-Boy trovava sempre il modo di dare una chiave di lettura efficace dei fatti accaduti per trasmettere a noi, acquattati al di qua dello schermo, uno slancio in avanti, qualcosa che agisse non tanto sulla ragione, quanto sul cuore.

Penso che gran parte del mio immaginario sull’essere scrittore derivi dal ricordo di quel ragazzo nella soffitta, avvolto dalla luce della lampada e dal silenzio più profondo, che cerca di dare un ordine alla vita dove è stato immerso tumultuosamente per tutto il resto del tempo. Della costanza di quel suo lavoro notturno, condividevo il senso quasi sacrale di un’attività artistica e artigianale insieme che mi pareva davvero in grado di proiettarmi verso il cuore dell’esistenza, senza pretendere di capirlo e meno ancora di spiegarlo, ma piuttosto di sperimentarlo. John-Boy è un personaggio di fantasia, i Walton non sono mai esistiti, eppure la loro storia è accaduta davvero perché la loro vicenda ha trovato il modo di generare in me la forza di un incontro. Questa è la magia della scrittura, come racconta anche Elias Canetti nel primo volume della sua autobiografia, «La lingua salvata». Dice infatti che sin da ragazzo usava trascorrere le serate a conversare con la madre dei personaggi incontrati nei libri e ne discutevano come fossero persone reali. L’intensità di quelle storie era tale che aveva creato in lui un nucleo di emozioni ed esperienza tanto forte da condizionare tutta la sua esistenza. Quando la scrittura di un romanzo è abbastanza efficace, la storia che si racconta è sempre vera, anche se è del tutto inventata, perché è in grado di toccare le corde dell’animo umano con la stessa efficacia di un incontro significativo. Forse ci pensava anche John-Boy nella sua soffitta, in cerca delle parole adatte per riempire il suo diario. Guardava fuori dalla finestra. Non mi ricordo come fosse la stanza in cui lavorava, ma una finestra doveva pur esserci. Casa Walton era piena di finestre. Insisto su questo aspetto perché la finestra è una bella metafora per spiegare un altro elemento della scrittura: in narrativa, la scrittura è la storia, perché è lei a dare forma a ogni cosa e, soprattutto, a determinare lo spazio e il modo in cui lo scrittore osserverà il mondo. Per questo va reinventata ad ogni romanzo, perché se è diversa, ci permette di vedere altre cose, di pescare dentro di noi in profondità sconosciute e portarci a nuove rivelazioni. E dunque – ecco la metafora – è come guardare il giardino di casa Walton da finestre differenti. Lo spazio è sempre quello, ma la prospettiva cambia e la porzione di mondo che si rivela è molto diversa. John-Boy la pensava certamente così ed era talmente sicuro dell’importanza per lui di scrivere, da trovare comunque il modo di farlo dopo le sue lunghe giornate di lavoro. Quell’attività gli dava pace, placava i suoi pensieri, gli regalava la certezza di aver usato bene il suo tempo perché rispondeva a un bisogno profondo. Infatti alla fine si trasferisce in città dove riesce a diventare scrittore. Io non credo di avere mai avuto la sua costanza e soprattutto la fiducia di poter un giorno guadagnare dai libri abbastanza da poterne fare un mestiere. Ho sbagliato, perché questo atteggiamento rinunciatario mi ha sottratto energie e, forse, tante belle opportunità. Alla fine però la realtà è più forte delle nostre idee e la vita mi ha portato esattamente dove sapevo sin da bambino che avrei dovuto stare: nella soffitta di John-Boy, nel silenzio delle sue sere. L’unica cosa che mi ha concesso è di non indossare la salopette di jeans. Quella, davvero, non l’ho mai sopportata.

Luca Saltini

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Luca Saltini è in libreria con “Sarà la montagna” (Neri Pozza)

Quel ragazzo nella soffitta…ultima modifica: 2024-09-30T18:59:43+02:00da g1b9

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