E tutti vissero narcisi e scontenti…

 

Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani- il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”

“Abbiamo avuto i ribelli e i rivoluzionari, oggi, nonostante il benessere e la longevità, in Occidente abbiamo gli scontenti e il mare oscuro del rancore si allarga”. Marcello Veneziani, saggista e filosofo, fa un viaggio “nelle regioni della scontentezza”, male del nostro tempo, in piazza Grande a Modena con la sua lezione magistrale in programma al Festivalfilosofia. Il ritratto dello scontento si compone di diversi elementi e di uno strano legame con gli altri e con il potere. Non è infelicità: “la scontentezza è sempre comparativa (non è il soffrire interiore dell’infelice) e ha un’ animosità e un tratto tutto moderno tanto che nella classicità non ci sono termini precisi per definirlo. La scontentezza è tipicamente occidentale e faustiana- la descrive Veneziani- è come una sete continua, un narcisismo frustrato perchè viviamo un’epoca in cui desideri e diritti vengono identificati e il limite delle nostre possibilità quando appare ci procura uno scompenso”. Come inizia il viaggio della scontentezza nella contemporaneità? Tante le cause: “Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani– il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Veneziani ne mostra la dinamica: “Chi è scontento si apparta, rifiuta la socialità, solo in alcune occasioni si accomuna agli altri e si passa al malcontento politico. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”; importante è che resti “molecolare”, frammentato nei singoli, cosi può essere gestito al meglio e ciascuno sarà chiamato a “prendersela con se stesso se non ha realizzato nella propria vita personale ciò che gli dà scontento: risolvi nel tuo personale dice il potere. Il malcontento invece porterebbe alla piazza, il potere è diventato così il grande imprenditore dello scontento che è una fabbrica ineusaribile dei desideri e dei consumi”. Non è tutto distruttivo, tiene a puntualizzare Veneziani, “esiste uno scontento positivo che rimette in discussione aspetti, che non si accontenta”. Non c’è da restare rassegnati, ma come? “Paragonando la nostra vita a quelli di altri tempi, pensando che il mondo non finisce con noi, relativizzando il nostro tempo, accettando (che non è rassegnazione) il destino, i verdetti dopo che si è provato a cambiare”, raccomanda il filosofo. Uscirne si può: bisogna tornare all’amor fati, come lo pensava Nietzsche, contro quello che è diventato un horror fati: “Dietro allo scontento c’è il primato del non essere e allora la risposta ce la dà Dante quando scrive ‘State contenti umane genti al quia’. E’ questo ‘state contenti’ il passepartout per uscire dalla prigionia di un presente percepito vicino al punto di non ritorno che ci condanna ad essere pieni di desideri irrealizzabili e di un tempo che non c’è. E invece, nonostante l’eco-ansia, tanto propagandata, il tempo c’è, invita ad osservare Veneziani: torniamo ad amare il fato. Torniamo al destino.

(Il Mattino quotidiano)

E’ diventato un volto conosciuto grazie al docu-reality “Il collegio”. Ai suoi alunni insegna che la filosofia è l’lingrediente giusto per salvarsi dal baratro. “Troppi esperti hanno un’immagine stereotipata dei ragazzi”.

 

Intervista ad Andrea Maggi

Lo hanno definito “il professore più amato d’Italia”. Grazie al docu-reality ‘Il collegio’ trasmesso su Rai 2 per otto edizioni, e al programma ‘Splendida cornice’ su Rai 3, Andrea Maggi conta più di 400 mila follower su Instagram e oltre 500 mila su TikTok. Perciò, quando dice che la filosofia è l’ingrediente giusto per salvare gli adolescenti dai fossi – e dai baratri – lungo il cammino qualche credito bisogna darglielo. Il 2 settembre il professore ha ripreso servizio nella scuola di Sacile, provincia di Pordenone, dove insegna lettere, e l’indomani è uscito in libreria ‘Il mio Socrate’ per Giunti, romanzo e dialogo tra una quattordicenne tormentata e un avatar del filosofo greco, che le indica la strada per la libertà e la felicità. Difficile intanto non pensare alla tragedia di Paderno Dugnano, dove un male insondabile ha spinto un diciassettenne a sterminare la famiglia nella notte del primo settembre. Difficile commentarla senza consumare cliché.

Ha ascoltato le considerazioni degli esperti?

Senza dubitare delle loro competenze, mi chiedo perché quando si parla di giovani non si privilegino le voci degli insegnanti, che lavorano in prima linea e conoscono le cose in presa diretta. Spesso gli esperti hanno smesso da un pezzo di avere contatti personali con i ragazzi e ne hanno un’immagine distorta dal ricordo e stereotipata, come di manichini immutabili nel tempo.

Dica la sua opinione.

Non posso giudicare il caso specifico, ma credo che il malessere diffuso tra i ragazzi sia dovuto in larga parte all’assenza della parola nella paradossale società dell’infosfera, dove si sa tutto in tempo reale ma si chiudono i ponti di comunicazione tra i suoi membri, anche dentro le famiglie. Quando si azzerano le parole per esprimere disagio o inquietudine, ci si involve in un isolamento che può portare alla chiusura, alla sindrome dell’hikikomori, o a una esplosione di violenza.

La ricetta filosofica è davvero praticabile?

Cominciai a riflettere al libro un paio d’anni fa, quando una ragazza di terza media mi chiese: “Cos’è la filosofia?”. Pensai che Socrate potesse raccontarlo, che fosse un tramite per ripristinare il dialogo come confronto e aiuto. Il recupero della parola come di un bene che ci è stato tolto. Chi sa dare un nome al suo male è per metà guarito.

I social hanno rubato le parole ai ragazzi?

Non sono i soli responsabili, ma il rischio è che riducano il confronto e favoriscano su ogni argomento le tifoserie invece del pensiero logico. La filosofia è una medicina possibile: insegno in una scuola secondaria di primo grado e se parlo del paradosso di Zenone i ragazzi ne sono affascinati come da una favola. La filosofia declinata a seconda dell’uditorio può essere una compagna di viaggio fin dalla tenera età perché aiuta a dialogare anche con se stessi e a evitare, per esempio, che ci si iscriva alle superiori o a una facoltà universitaria influenzati dai sogni altrui senza conoscere i propri.

Quanto servono gli psicologi?

Quando la terapia coinvolge la famiglia. I genitori non devono pensare di tenersi fuori e delegare tutto alla scuola e al terapeuta. Noi insegnanti spesso ci troviamo soli a lottare ad armi impari contro un mondo che smentisce i modelli che cerchiamo di inculcare e identifica la felicità con l’auto di lusso e gli orologi costosi. Non basta un “pandoro-gate” a dimostrare la fragilità degli influencer, perché ne spuntano subito altri.

La felicità come si persegue?

Con la conoscenza di sé. Ho in mente un vicino di casa che aveva un grande talento per la falegnameria ma ha fatto l’operaio tutta la vita. Ora che è in pensione mi dice: “Sono stati quarant’anni di galera”.

I ragazzi pensano al futuro?

Nella società del boom erano tutti proiettati al futuro. Oggi si vive in un presente continuo e ci sono solo vaghe, ma alte aspettative sul domani. Non tutti faranno i soldi come youtuber e questo genererà frustrazione, perciò bisogna attrezzarsi a comprendere che la ricchezza non è la felicità.

Servono le buone letture?

Se la lettura è vista come “cosa della scuola” diventa antipatica. Dovrebbe essere una consuetudine familiare, però i genitori non possono invitarti a leggere e poi smanettare sullo smartphone senza aprire un libro.

Cosa fa leggere ai suoi alunni?

L’anno scorso ‘Il Milione’ di Marco Polo. Superata l’osticità della lingua, hanno scoperto che l’uomo medievale abitava il mondo con una presenza concreta, analitica, attenta alle altre culture. Che era molto più moderno di quanto non si creda. Quest’anno vorrei leggere brani da ‘La Gerusalemme liberata’ per far capire tante cose sulla guerra.

Com’è recepita la poesia?

È messa male. Il congelamento della parola la uccide e l’amore è visto più come possesso che con romanticismo. I maschi controllano i profili social delle fidanzatine e guai a sgarrare, e le ragazze si assoggettano. È come se si fosse interrotta la comunicazione anche con certe conquiste del passato. Come se la Generazione Alpha ricominciasse da zero. Bisogna riaprire i ponti con tutta la storia. Far sapere che in Afghanistan e in Iran prima del burqa e del velo c’è stata la minigonna, e i musulmani che combattevano per Francesco Giuseppe avevano per slogan: niente rum, niente battaglia.

Un altro fenomeno sommerso dai luoghi comuni è il bullismo.

Se ne parla in occasione di episodi eclatanti, ma nelle forme più striscianti è quotidiano, un altro frutto delle frustrazioni di chi vive una vita che non ritiene sua. La prevenzione è ancora nel dialogo. Torniamo sempre a Socrate.

Francesco Palmieri

 

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Sono il tuo corpo…

 

Sono il tuo CORPO, e mi rivolgo a te.

Sono così come tu mi pensi; ti prego, pensa che io sia bello; lo sarò.

Quando pensi alle malattie e le cerchi in me… sono costretto ad obbedire e m’ammalo.

Quando hai molti pensieri negativi, m’ammalo, perché stai sperperando per questi pensieri la forza vitale.

Quando gioisci, ringiovanisco e fiorisco.

Le mie risorse sono tante. Credi in me, posso guarire anche quando i medici emetteranno una sentenza della fine. Aiutami semplicemente con la tua fiducia in me.

Sono fatto per funzionare per tantissimi anni; perché inizi a pensare alla vecchiaia già a 35-40 anni? Perché credete che i 100 anni sia un limite?

Quando vuoi mangiare qualcosa, chiedimelo se ne ho bisogno. Se imparerai a sentirmi, ti risponderò.

Sulla bellezza. Non riempirmi di vari integratori, botox, gel, silicone… posso essere bello anche senza questa roba, aiutami solo, e assumerò le forme che vorrai tu.

Mi piace passeggiare, nuotare, correre, ballare, mi piace il massaggio, il sesso. Mi piacciono le occupazioni che ti portano gioia.

Stare tutto il giorno davanti al computer o la Tv… non troppo.

Ti credo molto. Se tu credi di ingrassare perché hai mangiato un pezzo di torta, realizzerò il tuo pensiero e ingrasserò.

Ti amo molto. Mi piacerebbe sentire da te delle parole d’amore e di gratitudine. Almeno qualche volta. Ma se non lo farai… ti amo lo stesso.. incondizionatamente.

Sono io, il tuo corpo… il tuo Universo. Anche tu sei una particella dell’immenso universo.

Ti ringrazio.. esisto perché tu lo hai voluto. E sono così come mi vuoi vedere. Aiutiamoci!

Francesco Oliviero

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Torniamo all’essenziale…

 

 

Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino,  e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.

Marcello Veneziani  

Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.

Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta.  Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza.  Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.

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” Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia”.

Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia, ed erano più i baci che le sentenze. Più ai seni che ai libri correvano le mani, e gli occhi riflettevano l’incanto dell’amore più spesso che non si volgessero alla lettura del testo. Per non suscitare il minimo sospetto talvolta la percuotevo, ma era per amore non per furore, era per piacere non per ira, un piacere più soave di qualunque balsamo. A poco a poco gustammo bramosamente tutti i gradi dell’amore, senza trascurarne alcuno e se l’amore ebbe mai il potere di escogitare piaceri insoliti noi ce li concedemmo.

Pietro Abelardo__ Lettere (inizi XII secolo).

 

abelardo ed Eloisa

 Ricordate chi era Abelardo, il consacrato del   Medio Evo, il cui amore per una fanciulla diventò un mito come quelli celebri di Dante e Beatrice,  Petrarca e Laura,  Paolo e Francesca ? Chi era Lei?

Sacra o no, la libertà di coscienza non è più così ovvia in questo mondo..

 

Un concetto dato per scontato e condiviso troppo in fretta. Mentre per Kant la libertà era ancora la ragione d’essere della vita morale, a noi sembra essere diventata quella dell’indifferenza.

Il concetto di libertà di coscienza sembrerebbe tra i più ovvi e condivisi. “In coscienza sento di doverti dire questo”, “In coscienza sento di dover fare quest’altro”, “In coscienza non so che cosa fare” sono tante espressioni di uso comune, nelle quali l’appello alla coscienza rappresenta una sorta di ultima istanza rispetto alla quale il nostro interlocutore può dissentire, cercare di farci cambiare idea, ma alla fine deve chinare il capo, a meno che non voglia farci violenza. Questa la sostanza della libertà di coscienza. Basta però grattare un poco la patina di scontata familiarità che ricopre tale concetto per rendersi conto dei problemi che nasconde e che lo fanno diventare addirittura una vera e propria sfida.  Il fatto, a esempio, che una scelta venga compiuta “in coscienza” non vuol dire che si tratti di una scelta giusta. In coscienza ci si può anche sbagliare. L’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni. Esiste insomma un criterio del giusto che non risiede soltanto nella nostra coscienza. E tuttavia dobbiamo anche sottolineare che nessuna azione giusta può avvenire “contro coscienza”. Di qui la responsabilità, non saprei come dirlo altrimenti, che ciascuno di noi ha di “farsi una coscienza”, una coscienza alla quale rispondere, per essere una persona veramente autonoma, uscita dallo stato di minorità di cui parlava Kant.  Per molti versi è strano, ma almeno fino a una ventina d’anni fa i diversi dizionari filosofici e politologici in circolazione non contenevano nessuna voce dedicata alla “libertà di coscienza”. Eppure il concetto l’avrebbe senz’altro meritata, considerato che la posta che con esso viene messa in gioco è niente meno che il riconoscimento dell’inviolabile dignità della coscienza dell’uomo, quindi della sua libertà di essere e di agire secondo ciò che egli ritiene il proprio dovere. Come si legge al n. 16 della Gaudium et Spes, “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”.  Non so se gli uomini d’oggi, nel sacrario della loro coscienza, si trovino veramente “soli con Dio” o non piuttosto in una sorta di abisso senza fondo; in ogni caso mi pare che il brano appena citato contenga in nuce il senso più impegnativo del problema di cui stiamo parlando. Se la coscienza è il “sacrario dell’uomo”, allora niente che violi questo sacrario può essere detto buono o giusto. Di passaggio vorrei richiamare come la fonte di tutti i nostri diritti sia da cercare in ultimo in questa riconosciuta “sacralità” della coscienza. È qui che si misura l’inviolabile dignità, l’irripetibile unicità, la trascendenza di ciascuno di noi, diciamo pure, la nostra irriducibilità alle condizioni biologiche o socio-culturali della nostra esistenza. Tuttavia da questa “sacralità” non possiamo affatto dedurre ciò che mi sembra stia diventando una sorta di luogo comune del nostro tempo, e cioè che si possa considerare buono o giusto tutto ciò che viene fatto o pensato “in coscienza”. La coscienza, infatti, per stare alla citazione di cui sopra, non soltanto può non sentire più la “voce” di Dio, ma, lasciata a se stessa, non abituata a coltivarsi, può anche ridursi a mero riflesso dei nostri istinti e dei nostri desideri. Altro che “norma suprema dell’agire morale” come avrebbe voluto Kant. Siamo liberi di scegliere soltanto se ammettiamo che ci siano princìpi che oggettivamente dovremmo scegliere, altrimenti la coscienza diventa il luogo dell’arbitrio, il piano in cui tutte le prese di posizione si equivalgono. L’idea stessa di norma morale implica non a caso un legame, una validità non soltanto per me, bensì universale, o quanto meno condivisa da una pluralità di uomini, da una comunità. Per questo è importante l’educazione, l’educazione a coltivare la propria coscienza e quella delle generazioni più giovani, a tenerne aperto il senso critico nei confronti di se stessi prima di tutto e poi anche degli altri. Ci piaccia o meno, ognuno di noi nasce in un determinato contesto socio-culturale, è figlio di un determinato tempo, deve fare i conti con i valori della comunità in cui nasce e vive: ecco l’elemento eteronomo con cui non possiamo non confrontarci in vista della nostra autonomia morale. Una libertà di coscienza declinata soggettivisticamente, a propulsione interna, come se gli altri non esistessero, è destinata allo scacco e alla solitudine. Come ebbe a dire Roger Scruton, “il diavolo ha un solo messaggio, che non c’è alcuna persona plurale… Promettendo di liberare l’io, il diavolo stabilisce un mondo nel quale niente se non l’io esiste”.

Per Kant la libertà era ancora la ratio essendi della vita morale; per noi sembra essere diventata la ratio essendi dell’indifferenza: posso scegliere in un modo, ma anche diversamente; non c’è alcun ideale di vita morale condiviso che mi guidi nelle scelte che faccio. La prima persona plurale “noi” sembra essere scomparsa dal vocabolario. Siamo ripiegati narcisisticamente sul nostro io. In questo modo la nostra coscienza svapora, sempre più impotente, oltretutto, di fronte alle molteplici forme di “noi” oppressivo sempre in agguato nella storia.

Sergio Belardinelli __da__IL FOGLIO

 

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Il cardinale, lo scienziato e l’aldilà…

 

 

Che sarà di noi? Alla fine è questa la domanda che rivolgiamo al religioso, al filosofo e allo scienziato. Ci giriamo intorno e parliamo di tante altre cose che ruotano intorno a quell’interrogativo ma quando si va a stringere è quella la domanda delle domande a cui vogliamo una risposta o anche solo un conforto quando ci sporgiamo oltre la vita.
C’è un dopo? è il titolo del libro scritto dal cardinale Camillo Ruini, alla veneranda età di 93 anni, dedicato all’Aldilà. Parallelamente leggevo un nuovo libro del fisico e inventore Federico Faggin, Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono (entrambi editi da Mondadori). Alla stretta finale, quando devono affrontare il tema cruciale, l’appuntamento con la morte, sia l’uomo di fede che l’uomo di scienza fondano la loro fiducia e la loro convinzione non sulle certezze religiose né sulle verità scientifiche, ma sui racconti di esperienze vissute al confine tra la vita e la morte.
“La verità è che non lo sappiamo” confessa il cardinal Ruini che poi si affida alle testimonianze di persone, oggetto di studi scientifici, a un passo dalla morte e poi tornate alla vita. Scrive il cardinale: “L’ammalato può udire il medico che lo dichiara morto, poi ha la sensazione di entrare in un tunnel lungo e oscuro; quindi improvvisamente si ritrova fuori dal proprio corpo, che ora può vedere dall’esterno e dall’alto, insieme ai medici e infermieri che lavorano su di esso. Scopre così di possedere un altro corpo, molto diverso da quello fisico che ha abbandonato, e dotato di facoltà nuove. Gli si fanno incontro altri defunti, in particolare parenti e amici che lo aiutano, e soprattutto gli appare un essere di luce, uno spirito d’amore che gli fa rivivere gli avvenimenti più importanti della sua esistenza. A un tratto si trova vicino a un confine che sembra essere quello tra la vita terrena e l’altra vita. Sente di dover tornare sulla terra perché non è ancora arrivato per lui il momento della morte, tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita, ma si riunisce in qualche modo al proprio corpo fisico e torna in questo mondo”. Questi racconti, dice il prelato, somigliano a quelli di grandi mistiche come Caterina da Siena o anche al mito di Er narrato da Platone, l’uomo risuscitato che aveva poi narrato il suo viaggio ultraterreno. Pure lo scrittore cattolico Antonio Socci lo raccontò in Tornati dall’aldilà (Rizzoli).
Anche lo scienziato Faggin fonda la sua convinzione di una vita invisibile oltre la morte richiamandosi alle “esperienze di premorte sperimentate da centinaia di migliaia di persone”. E accoglie come possibile benché inspiegabile la testimonianza di una donna che diceva di aver visto una persona appena deceduta in ospedale entrare dalla finestra per congedarsi da sua moglie sofferente in un lettino dello stesso ospedale nel piano inferiore. Un racconto che lascia turbati ma ancor più sorprende se a riferirlo è uno scienziato.
Faggin, fisico e inventore del microprocessore e del touchscreen, entra da scienziato in territori lontani dalla scienza e dalla fisica, riguardanti la metafisica e la filosofia dell’essere ma anche l’etica e la religione. Per Faggin la scienza si occupa del come, la spiritualità del perché; la loro correlazione è necessaria. La coscienza, per lui, viene prima del cervello e della materia, “è fondamentale e irriducibile”. Contrariamente a ogni riduzionismo evoluzionista,”dal più può derivare il meno, ma non viceversa”. Ovvero dal superiore discende l’inferiore, non il contrario; è possibile il degrado, l’involuzione, la decadenza; mentre si può pensare il progresso, l’evoluzione, lo sviluppo solo tramite l’intervento di forze superiori. Faggin respinge sia il caso che il creazionismo, e quando parla di spiritualità va oltre le religioni e abbraccia idee (come la reincarnazione e l’unità delle religioni) che vanno oltre il cristianesimo. In tema di reincarnazione Faggin si spinge a sostenere: “E’ quasi certo che ci sia la reincarnazione. C’è anche evidenza scientifica in bambini che si ricordano della vita precedente e che riportano fatti salienti di una vita che non hanno alcuna ragione di conoscere. Fatti che sono stati poi verificati”. E conclude che “la reincarnazione è sensata” perché non avrebbe senso vivere una sola vita. Tesi suggestiva, argomentazione un po’ fragile.
Lo scienziato ci fa sapere che dopo un’adolescenza di credente e osservante, secondo una rigida educazione cattolica (si faceva la comunione tutti i giorni) e una gioventù-maturità da materialista e scientista, è infine approdato, attraverso una vera e propria illuminazione, a una visione spiritualista integrale che espone con argomenti scientifici, citazioni di filosofi e passione di missionario. A volte cede a qualche venatura new age, o a quella “pappa del cuore” che copre come una glassa umanitaria il cinismo del nostro tempo. Torna più lucido quando parla con realismo dell’intelligenza artificiale, delle sue possibilità e dei suoi limiti. A differenza del robot noi abbiamo coscienza, comprensione dei fenomeni, siamo creativi; ma soprattutto la forza che ci muove è l’amore, mentre nessuna I.A. è mossa da amore, è in grado di amare né di generare amore. Faggin chiama Nousym il ponte tra scienza e spiritualità, sintesi di mente e simbolo.
Torniamo alla domanda iniziale: non troveremo mai una risposta certa e definitiva. Però sappiamo che per trovare il cammino e per dare un senso alla ricerca, dobbiamo rimettere insieme le sette vie: il mito, la religione, il pensiero, l’arte, la scienza, la storia e la biologia, senza saltarne nessuna.

 Marcello Veneziani

Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani