Dopo aver finito un lavoro complesso che ha dato ottimi risultati, dopo aver cucinato una serie di delizie per la cena con gli amici, ecco che al momento del trucco e parrucco davanti allo specchio tutto precipita: che capelli brutti, che faccia pesta, quante rughe, accidenti, così non si può andare avanti, ci vorrebbe un anno di lifting, e via di seguito in un crescendo di insoddisfazione che nasce dall’autocritica spietata miscelata al confronto con un’immagine ideale che forse risale a 20 anni o, peggio, per ovvi motivi non regge il paragone con la modella della porta accanto, diciassettenne filiforme alta 1,83 che si nutre di sedano.
Ma perché farsi del male? Perché non smetterla di competere con noi stessi e con il resto del mondo?
Se solo riuscissimo ad ammettere che la corsa continua a voler essere sopra la media per sentirci meritevoli di approvazione quando non addirittura d’amore, unita al bisogno di essere perfetti in tutto non dà la felicità ma, piuttosto, porta a essere scontenti e, soprattutto, a non amarci. Alcuni psicologi hanno dato un nome -self-compassion- al potere che la compassione verso noi stessi ci offre, aiutandoci a gestire le emozioni distruttive, perché è esattamente questo sentimento di benevolenza che siamo più propensi a sperimentare verso il prossimo che verso le nostre auguste persone che ci può aiutare a cambiare: se impariamo a trattarci con la stessa gentilezza, sensibilità e cura (in pratica, con la stessa compassione) con cui trattiamo chi soffre attorno a noi, abbandoneremo la maggior parte dei nostri pensieri autocritici.
Lasceremo andare quel continuo dialogo interiore che ha la forma di svalutazione costante e spietata e che ci porta a formulare nei nostri confronti (mai di qualcun altro, per carità), giudizi incontrovertibili come: «Ti sei comportata/o da idiota», oppure: «Non ce la farai mai». Sono atteggiamenti talmente comuni queste feroci autocritiche e questi comportamenti, che viene da pensare che chi li mette in atto lo faccia per assicurarsi l’accettazione altrui, un po’ come se preventivamente si dicesse: «Mi critico io prima che lo faccia tu». Un po’ come se fossimo stati programmati per non piacerci, per non essere mai abbastanza contenti, e forse è quello che impariamo in famiglia, quando madri e padri utilizzano la critica continua come mezzo per migliorare i figli, e nel cervello dei ragazzi si stampa come un tatuaggio quella modalità denigratoria che nella vita adulta diventerà l’abituale: «Potevi fare di più», «Non sei all’altezza».
Ma invece di condannarci per i nostri sbagli e fallimenti possiamo abbandonare le aspettative irreali di perfezione che ci rendono insoddisfatti, e iniziare a trattarci con la compassione di cui abbiamo bisogno, considerando che siamo esseri umani, quindi per definizione imperfetti, connessi e non isolati dagli altri: questo succede se non opponiamo più resistenza alla sofferenza e cominciamo ad elaborare le circostanze difficili che la vita ci propone con gentilezza. Molte persone pensano di non dover essere gentili con se stesse, specialmente se hanno ricevuto questo messaggio nell’infanzia, oppure se pensano che l’auto-compassione sia sinonimo di autoindulgenza. Ma la gentilezza verso sé comporta molto di più che smettere di auto-giudicarci. Implica saperci dare conforto, reagendo come faremmo con un caro amico. E se il nostro dolore è causato da un passo sbagliato che abbiamo fatto, è il momento giusto per offrirci compassione.
Quando plachiamo le nostre menti agitate con gentilezza e compassione invece di denigrarci siamo in grado di notare cos’è giusto e cos’è sbagliato, in modo da poterci orientare verso ciò che ci dà gioia, cominciando finalmente a smettere di chiederci: «Sono bravo come gli altri?». Interrompere questo ciclo è possibile. Non che sia facile, ma il modo per contrastare l’auto-criticismo è individuarlo, capirlo e sostituirlo con una risposta più gentile. Se ci soffermiamo e riconosciamo la nostra sofferenza -come faremmo ascoltando un nostro amico o una nostra amica in difficoltà- non potremmo non commuovervi davanti al nostro dolore. Spesso non siamo in grado di accettare che stiamo soffrendo perché la cultura occidentale tende a esortarci a stringere i denti, a tener duro e probabilmente ci è stato insegnato che non dobbiamo lamentarci, che dobbiamo essere forti e mostrare sofferenza è da deboli. Ma visto che la nostra cultura ci invita anche ad essere gentili con gli amici, la famiglia, i vicini di casa e non solo quando si trovano in difficoltà, perché non dovremmo comportarci con altrettanta gentilezza con noi stessi?
Quando commettiamo un errore o falliamo, perché dovremmo anche darci una mazzata in testa invece della pacca sulla spalla che avremmo tanto bisogno? Magari abbiamo sempre fatto così, e probabilmente il solo pensiero di confortarci ci sembra assurdo, ma c’è la possibilità di modificare il nostro modo di vedere le cose. Anche se quando il dolore proviene dall’auto-giudizio è difficile da riconoscere per quello che è, cioè un momento di sofferenza, se impariamo a lasciarci commuovere dai tormenti che proviamo a causa della tendenza a criticarci sempre, e a provare benevolenza e gentilezza nei nostri confronti, sperimentiamo il desiderio di guarigione. Che coincide con il momento in cui diciamo basta al dolore auto-inflitto. Quando arriviamo a riconoscere che la debolezza e l’imperfezione sono parte dell’esperienza umana, siamo connessi ai nostri compagni di viaggio nella vita, vulnerabili e imperfetti come noi. Possiamo lasciar andare il desiderio di sentirci migliori di quello che siamo e migliori degli altri.
Anna Tagliacarne