La fine dell’uomo in scena alla Biennale..

 

 

Finalmente l’umanità sta per cessare. Finalmente il Pianeta potrà sopravvivere senza il suo inquinatore e disturbatore, in via d’estinzione. Finisce l’uomo, sopraffatto dal Transumano, dal Fluid gender, dall’Animale, dalla Macchina e dall’Intelligenza artificiale. La liberazione arriva al suo ultimo stadio, la liberazione dall’umano. Ad annunciarlo, con malcelata soddisfazione, è la Biennale di Venezia,  in laguna; il suo ambasciatore è un Elefante che campeggia a dimensione naturale nel padiglione centrale, per dare la lieta novella agli umani (presumo che a visitare la mostra non verranno altri pachidermi o altre specie zoologiche ma solo umani). L’uomo non è più al centro del mondo. Certo, se così fosse, la Biennale dovrebbe essere affidata e allestita direttamente da un team di bestie; pure gli artisti dovrebbero essere animali, che so, ippopotami, scimmie, sciacalli, zanzare, polpi. Ma con stridente contraddizione e lampante masochismo, è ancora l’uomo ad annunciare e inscenare la fine dell’uomo  .Da tempo, la Biennale è il barometro del tempo che fa, il tempo occidentale e global, ovviamente ripassato nella padella del mainstream e del politically correct. La Biennale è il catalogo dei nuovi pregiudizi, obblighi e tendenze dell’epoca ed è l’apoteosi di un nuovo determinismo; la strada è quella, senza alternative, si va in quella direzione. La Biennale raffigura, e spesso sfigura, l’ideologia del presente e annuncia il futuro secondo i canoni vigenti. È perfetta la progressione tematica di questa mostra: sparisce l’umano tra l’animale e l’artificiale; sparisce l’antropocentrismo per lasciare il posto all’ecocentrismo, il protagonismo assoluto del pianeta, dell’ambiente e dell’animalismo; sparisce la differenza tra il maschile e il femminile, sopraffatti dal transgenico, l’androgino e il femminismo militante; sparisce il corpo umano tra metamorfosi e cyborg; sparisce la nostra civiltà per far posto al terzo mondo, nella versione sradicata e apolide; sparisce la storia per far posto ai discendenti delle “vittime” del colonialismo. Si crea così una nuova piramide o gerarchia, come la Fiera dell’est di Angelo Branduardi. L’artificiale vince sul naturale, l’animale vince sull’umano, il nero vince sul bianco, l’Africa vince sull’Europa, il primordiale vince sul civile, il trans vince sui due sessi, il femminile vince sul maschile. Evviva, siamo finalmente annientati. Che sollievo.

Morte dell’arte, verrebbe da dire, ma qui a morire con l’arte è pure il mondo che abbiamo finora conosciuto e frequentato; finisce il nostro statuto di uomini, la nostra differenza sessuale, la nostra identità civile e culturale. Vince l’estraneo, muore il nostrano. Nell’esposizione, l’arte muta in spettacolo: si inscena la trovata, non il “manufatto”, un po’ come succedeva nei circhi coi fenomeni da baraccone (la donna cannone, il nano volante, il trasformista, il mangiafuoco). Tutto è allestimento, performance, installazione; non opera d’arte. Gli artisti prescelti per raccontare questa gioiosa catastrofe dell’umanità sono naturalmente donne, nere, africane, meglio se espatriate, ancor meglio se appartenenti a quelle minoranze protette che ormai ben conosciamo. Per completare l’opera del conformismo finto trasgressivo, c’è l’atto eroico d’impegno civile: è stata cacciata la Russia dal suo padiglione nella Biennale, come se gli artisti russi abbiano responsabilità nella guerra, adottando così una discriminazione di tipo etnico-nazionale; al suo posto troneggia l’Ucraina, che nella città del Luogo Comune ha una piazza centrale tutta sua, con un cumulo di sacchi come set.

Ma cos’è l’arte, cosa resta dell’arte secondo la Biennale? E’ una domanda che ci facciamo non da oggi, anche a proposito della stessa Biennale, di cui la miglior critica sul campo resta quella di Alberto Sordi e Signora in un film del ’78 dedicato alle Vacanze Intelligenti. In modo grossolano ma divertente, la coppia di fruttaroli romani in visita alla Biennale ne rivela il punto debole più elementare: non distinguere ciò che è arte da ciò che non è, al punto che i visitatori scambiano la pingue moglie seduta per un’installazione di pop art. D’altronde le stesse “opere” esposte possono essere scambiate per oggetti comuni, scarabocchi puerili, scene per il teatro. Tanto è vero che un manifestante antirusso, semi nudo con saluti nazista, è stato scambiato ieri per un’opera esposta. Al di là dell’impressionismo naive del film, assai efficace non solo dal punto di vista della comicità, qual è il punto centrale dell’arte contemporanea, espresso dalla Biennale? È la sostituzione dell’opera d’arte con l’intenzione dell’autore; non conta la capacità di arrivare alle anime tramite gli occhi, non conta l’opera e la maestria dell’artista ma le intenzioni del soggetto che l’ha prodotta (cosa ha voluto dire e denunciare l’autore). Non il valore oggettivo dell’opera ma il proposito soggettivo dell’autore, che ho difficoltà a definire artista. Conta il messaggio, meglio se in forma di denuncia e adesione militante, non la bellezza dell’opera. Un lascito del vecchio impegno ideologico. È caduto il confine tra arte e non arte, ha ragione Peter Burger. Frutto della convinzione, veicolata nel ’68, che la creatività sia universale: tutti sono artisti, non ci sono più confini tra bello e brutto, tra valore e disvalore, tra genio e banalità. Il narcisismo e la psicanalisi stuprano la realtà; l’arte perde la sua aura, il mito e la bellezza. Restano la vanità e l’inconscio dell’autore e il prevedibile sconcerto prodotto dalla sua perfomance. L’arte perde il suo linguaggio e la sua motivazione; si confonde con la società, con la non arte, con la pubblicità. A proposito, l’arte sovverte il mondo, ma poi si piega ai voleri degli sponsor. E questo la dice lunga sulla finta trasgressione e sul vero conformismo dell’arte odierna, sottomessa al mercato, all’industria e alle ditte che la sostengono, anche a Venezia. L’umanità sparisce ma ora dobbiamo andare in pubblicità; restate con noi.

 

 M V