La lingua e il mio posto nel mondo…

In Alto Adige, senza il patentino di bilinguismo italiano-tedesco, sei praticamente un fantasma nel mondo del lavoro. Pubblico impiego? Scordalo. Para-pubblico? Niente da fare. Privato? Non pervenuto. Insomma, se il tedesco non è il tuo miglior amico, scordati di fare il medico, l’infermiere, l’insegnante (anche se insegni la tua lingua madre), il postino, il commesso… qualsiasi cosa. Per me, cresciuta con l’italiano, l’apprendimento del tedesco è stato inevitabile. È fattibile, certo, ma quale tedesco, esattamente? L’ho scoperto una delle prime volte che, ormai maggiorenne, mi sono avventurata in Val d’Ultimo, dove il mio ragazzo di allora prestava servizio come Carabiniere. Lui, il Maresciallo e il Brigadiere della stazione erano gli unici italiani del posto. Da innamorati sognanti, avevamo programmato una romantica escursione in malga: mano nella mano, zainetto in spalla. Boschi, prati, fiori e torrenti: uno spettacolo! Ma qualcosa andò storto. Niente cellulari, satelliti, o Google Maps: solo una cartina e il nostro – scarso – senso dell’orientamento. Dopo un lungo tratto di bosco a dir poco incantevole, ci rendemmo presto conto di esserci persi. «Torniamo indietro, forse abbiamo sbagliato al bivio di prima,» disse lui, che di nome faceva Michele. Facemmo avanti e indietro, più e più volte, finendo sempre allo stesso punto. L’ansia cominciò a prendere piede, complice l’orologio che segnava le quattro del pomeriggio e l’ombra della sera che si allungava. E il freddo. Ricordo che iniziai a sentire prima la sete, poi la fame, e infine persino il sonno. Ma soprattutto, sete. La gola arsa era una sensazione orribile. A un certo punto ci ritrovammo su un pendio dove un uomo anziano ci osservava come fossimo due alieni appena atterrati da Marte. Lo avvicinai, chiedendogli aiuto in un impeccabile Hochdeutsch scolastico. Mi rispose in una lingua mai sentita prima. «È dialetto locale,» disse Michele. «Ah sì? E tu lo capisci?» Michele scosse la testa. Senza acqua e disperati, riuscimmo a fargli capire che avevamo bisogno di un passaggio. In qualche modo si convinse che eravamo a posto e forse impietosito ci fece salire sul suo trattore e ci scaricò in paese. Alla prima fontana, mi immersi come un’assetata nel deserto. Quella sera, raccontai l’avventura ai miei genitori. «Che lingua ho imparato a scuola se non mi serviva a parlare con la gente della mia stessa terra?» chiedevo. Chi ero? Dove vivevo? Possibile che ci fosse gente che non sapeva l’italiano? E gente come me che non parlasse la lingua del posto?

Mio padre mi raccontò di Mussolini. Sapevo già che la mia provincia era speciale, ma non fino a quel punto. Decisi che era giunto il momento di capirci qualcosa di più. Per diciotto anni avevo vissuto a Bolzano, in una specie di bolla; una città dove tutti parlavano italiano. Iniziai a studiare quello che a scuola nessuno mi aveva mai spiegato bene: la guerra, il fascismo, l’italianizzazione forzata, il terrorismo degli anni Sessanta. E degli italiani immigrati da varie regioni, proprio come i miei nonni, che sono rimasti una minoranza. La lingua ufficiale è l’Hochdeutsch, ma solo una minima parte della popolazione lo parla. La maggior parte delle persone parla dialetti: diversi da una valle all’altra. Ero scioccata. Il tedesco che avevo imparato a scuola così faticosamente serviva solo per ottenere il famoso patentino, ma sul lavoro non lo avrei mai usato perché nessuno lo parlava. Il senso di smarrimento, di sentirsi apolide nella propria terra, è germogliato allora e non ha mai smesso di crescere. L’unico modo per affrontarlo, forse, è stato leggere tutto ciò che potevo sulla storia della mia terra: ma era davvero «mia»? Volevo scoprire come si erano sentiti i miei nonni prima di me: sapevano di vivere in un’enclave? Sapevano che tre quarti della popolazione altoatesina era tedesca e che solo una minima parte parlava italiano? Come si erano sentiti? E io, come mi sentivo? Leggere, capire, studiare, non bastava: dovevo raccontare.

Ancora oggi non so rispondere a queste domande con precisione. A chi dice «state bene voi lassù, in Alto Adige, con la vostra autonomia e tutta la ricchezza delle Dolomiti,» vorrei rispondere «se solo sapessi… le nostre scuole sono ancora separate per lingua.» Ma poi sorrido, ci penso e mi rendo conto che, in fondo, non è poi così male. Grazie a quella tragica giornata in montagna, mio marito ed io abbiamo fatto scelte diverse da quelle dei miei genitori e i nostri figli oggi sanno parlare Hochdeutsch, i dialetti locali a altre due lingue straniere. Ma il bisogno di raccontare dell’Alto Adige con tutta la sua storia e le sue contraddizioni non mi è ancora passato.

Katia Tenti      

apolide

Katia Tenti è in libreria con “E ti chiameranno strega” (Neri Pozza)