Cosa fu la Dc..

 

Rieccola, la Dc, un pezzo della vita nostra, di noi seniores. Torna per i suoi ottant’anni, ma a dir la verità, già quarant’anni fa ne dimostrava ottanta. O quantomeno così la percepivamo noi italiani, tanto ci pareva eterna, inossidabile, antica. Andreotti ci sembrava un reperto della preistoria già quando aveva solo sessant’anni; si sprecavano ironie sulla sua, sulla loro longevità politica. Essendo poi per indole e ragione sociale moderati, sobri e morigerati, i democristiani sembravano vecchi anche da giovani. Ma quella percepita antichità della Democrazia Cristiana indicava anche un’altra cosa: aderiva così profondamente alle fibre del nostro paese da essere considerata un elemento naturale della nostra vita pubblica e privata. Avevamo per così dire somatizzato la Dc o la Dc aveva somatizzato l’Italia, pur senza alcuna enfasi di italianità e di identità nazionale. Apparve quasi l’autobiografia degli italiani, come si disse pure del fascismo: il fascismo-Stato pretese di essere la versione paterna mentre la Dc-Stato fu la versione materna.

L’occasione per celebrare gli ottant’anni della sua nascita è un convegno  a Roma, introdotto da Ortensio Zecchino, moderato da Paolo Mieli, con alcuni storici, che dà il via a una serie di incontri e seminari triennali sulla storia della Dc nella storia d’Italia: Anima e corpo della Dc.

Cosa è stata la Dc per l’Italia in relazione al suo tempo? Fu in primo luogo il più grande ammortizzatore di conflitti e guerre civili, di tensioni sociali, di passioni ideali. Venivamo da un’Italia divisa in due e la Dc fu la tregua sine die, il disarmo e l’oblio dell’Italia venuta dal passato, dal Risorgimento, dalle Guerre, dal fascismo e dall’antifascismo. Riportò l’Italia dalla storia a casa, anzi non pensò all’Italia ma si prese cura degli italiani e li riportò in famiglia, alla vita di ogni giorno. Quando si spaccia il voto alle donne come una vittoria progressista si dimentica che furono le donne a far vincere la Dc contro il fronte progressista. Votarono il partito della Madonna e della famiglia, mica l’emancipazione femminista.

La Dc non pretese di raddrizzare le gambe storte degli italiani, come i rivoluzionari e i riformatori; non ebbe pretese correttive, etiche, non sognava l’uomo nuovo; assecondò il suo popolo e la sua indole, nel nome della libertà, ma di fatto della comodità, del quieto vivere, mettendo ciascuno a proprio agio. Fu indulgente la Dc, mai punitiva, mai vendicativa e di fronte a ogni massimalismo rispondeva col minimalismo rassicurante; gli estremisti li avversava in campagna elettorale, poi tentava di ammansirli e assorbirli. Se la destra coltivava la fiamma del passato e la sinistra si crogiolava nel sol dell’avvenire, lo scudo crociato si curava del presente. Era la realtà concreta, senza cedere al neo-realismo. Se la destra si appellava alla nazione e la sinistra si richiamava al socialismo sovietico, la Dc si piazzò a Occidente, tra la Chiesa e gli Stati Uniti, sotto la protezione delle vecchie zie. Non promosse crociate ma dighe per arginare il comunismo o il nazionalismo; era il partito delle piccole, solide certezze, rispetto alle avventure temerarie e ai focosi ideali. Il suo modello sociale era la versione soft dello statalismo fascista e socialista: un compromesso tra pubblico e privato, tra libertà e assistenza, mercato e stato. Alle forti convinzioni oppose le pratiche convenienze; trasferì l’invocazione dei santi nel campo delle raccomandazioni. Allevò clientele e spostò le aspettative sul piano personale e famigliare. Se l’Italia fu quella lungo il mezzo secolo democristiano, i meriti e le colpe della Dc furono sempre indiretti, mediati; fu sempre concausa, sia di sviluppo che di decadenza. Ovvero, non si può attribuire direttamente alla Dc il boom dell’Italia dal dopoguerra al miracolo economico; la Dc non ostacolò questo processo che avvenne più per dinamismo sociale, voglia e capacità di migliorare degli italiani nella loro vita; per certi versi lo assecondò, quantomeno garantendo un clima e sopendo le forti contrapposizioni. Allo stesso modo non si può attribuire direttamente alla Dc la decadenza della società, il caos, la perdita di valori, la scristianizzazione galoppante, la crisi di identità, appartenenza e cultura. La Dc non arginò queste derive, non si oppose, non pretese nemmeno di orientare culturalmente o ideologicamente gli italiani. Ma sarebbe ingeneroso attribuire il declino di una civiltà alla Dc, esattamente come sarebbe ingiusto attribuire alla Dc il merito dello sviluppo. Dopo De Gasperi non ebbe statisti, i suoi “cavalli di razza” furono politici navigati, a volte cinici, come Andreotti, a volte fumosi anche se di maggior respiro, come Moro. Forse Fanfani ebbe l’ambizione di essere uno statista e fare politica oltre la gestione dell’esistente. La duttilità della Dc, la pluralità di sensibilità e tendenze fu la sua forza e la ragione della sua durata.  Cominciò a declinare quando De Mita pretese di modificare l’indole della Dc, prima abbracciando l’Arco costituzionale con cui perse l’egemonia, poi cercando un’intesa col Pci e le forze laiche opponendosi al fronte avverso che univa a sua volta una parte della Dc di sempre con l’emergente leadership di Craxi (il mitico CAF). E sullo sfondo le ombre del dopo-terremoto (Irpiniagate).

Il primo crollo elettorale fu proprio con lui nel 1983, a cui seguì l’anno dopo il sorpasso dei comunisti alle elezioni europee, freschi orfani di Berlinguer. Poi la caduta del Muro, Mani Pulite, l’incapacità di rifondarsi e di accettare le conseguenze del bipolarismo; vano fu il tentativo in extremis di tornare partito popolare, senza l’ispirazione sturziana, in un mondo ormai mutato. Infine la disseminazione dei democristiani nei due schieramenti e il formarsi di alcuni partiti coriandolo. La Dc non morì del tutto, ma non si ricompose più per intero. Restò un flebile rimpianto, fino a che la tirannia del presente cancellò la sua impronta. Quel presente che era stata l’àncora di salvezza democristiana dalla storia, dai nostalgismi e dai progressismi, si ritorse contro di lei e la tumulò nel passato. L’Italia ci mise una croce sopra, non in segno di voto o di memoria dello scudo crociato; ma per seppellirla insieme all’Italia di ieri con le sue vecchie mappe e le sue vecchie mamme.

 Marcello Veneziani 

Uniti contro la Bestia…

 

 

Vedo il G7 in Puglia e mi si stringe il cuore. Non perché si faccia dalle mie parti, vicino a casa mia, ma perché vedo lì raccolto e concentrato intorno a un tavolo l’Occidente euro-atlantico, più l’ospite giapponese. E allora penso tante cose. Per mettere ordine la prendo alla lontana e parto dall’inizio: l’Europa, o meglio l’Euro-Usa, è solo una fetta del mondo, minoritaria per popolo, territorio, religione e commercio. All’interno di questo mondo che si definisce democratico, la metà del popolo sovrano non va a votare, per dissenso, disinteresse, disgusto.  Nella mezza popolazione Euro-Usa che va a votare, la maggioranza vota  A est è Putin, a Ovest è Trump, nell’Europa dell’Ovest è Le Pen, nel mezzo, almeno fino a ieri, era la Meloni più contorno di Salvini, nell’Europa dell’est è Orban e altri meno in vista (A sud-est c’è l’Ayatollah).  Ma ogni Paese ha la sua bestia interna, dalla Francia alla Spagna alla Germania, ma la bestia in questione di bestiale poi fa solo una cosa: cresce nei consensi, vince democraticamente le elezioni. Un successo bestiale. Per restare in Europa, i due presidenti più scarsi della storia di Francia e di Germania, Flic & Floc, hanno preso appena il 14 per cento dei voti della metà d’elettorato che è andato a votare; praticamente niente. Ma decidono loro le sorti dei loro paesi, dell’Europa e sono tra i grandi decisori del mondo. Schulz è di imbarazzante mediocrità, ogni cosa che fa, che dice, che esprime con lo sguardo è la vacuità, la miseria del nulla, la disgrazia del niente. Macron, invece, è di massima furbizia e minima intelligenza, ha un moralismo transgenico e intermittente, sconfinato, pari solo al suo cinismo. Sanno, i due, di non essere amati nel mondo, in Europa e soprattutto nei loro Paesi, dal loro Sovrano, il popolo francese, tedesco, europeo. Eppure stanno lì come se nulla fosse accaduto e decretano, decidono, tramano. C’è da fermare la Bestia, non possiamo scendere. In America nei confronti di Trump è in atto il più schifoso e clamoroso tradimento della democrazia, del diritto, del rispetto della libertà e della diversità di opinioni, stanno cercando di impedire di farlo candidare in tutti i modi, a colpi di sentenze, multe, colpi bassi, inguinali; mignottate, in ogni senso. L’argomento principe che motiva questa guerra preventiva per impedire l’accesso al voto è che lui porterebbe l’America fuori dalla democrazia, dai diritti, dalla libertà, dalla civiltà. E per impedire che questo avvenga sospendono la democrazia, i diritti, la libertà, la civiltà… Ma la cosa più ridicola in questa sceneggiata, è che quel signore col ciuffo alla Casa Bianca c’è già stato, abbiamo le prove di cosa succede quando va al potere; e non è successo niente di quel che oggi profetizzano in caso sciagurato di sua vittoria. Non solo, ma non ci furono guerre con lui, a differenza di chi lo precedette e di chi lo ha sostituito; non ci fu tracollo economico ma crescita e benessere; tanto è vero che quattro anni dopo, i cittadini sovrani lo rivogliono al governo. Perché la Bestia andò a casa, dopo aver perso democraticamente le precedenti elezioni (e non consideriamo l’ombra di brogli).  In Europa la Bestia è Marine Le Pen, mentre la Meloni, anche lei confermata a pieni voti al governo, sta a bagnomaria, o a bagnomarine, sotto osservazione, per vedere come si comporta, se è in o out, se si normalizza, cioè si ursulizza o si lepenizza. La Bestia in questione non ha mai compiuto nessuna bestialità, ha solo il torto grave di combattere per le sue idee da decenni; e il torto più grave di essere la più votata di Francia, più del doppio di quel che prende il giovanotto scarso e scaltro dell’Eliseo.  In Europa siamo un tantino più evoluti rispetto all’America: rilasciamo, seppure a malincuore, la patente di voto alla Bestia. Ma appena prende più voti del dovuto, revochiamo il diritto di circolazione. E se i voti sono troppi per impedire la circolazione allora imponiamo la Ztl: al centro del potere la Bestia non può accedere, sono sbarrate tutte le vie d’accesso, le alleanze, i repubblicani. L’ultimo caso è dei gollisti che da decenni sono diventati autogollisti, perché si rovinano con le loro stesse mani e anziché fare maggioranza di centro-destra e governare seppure in condominio con la Bestia, preferiscono finire in terza fila, da comparse, nel trenino di Macron.  Eppure ci sarebbe da fare un discorso semplice: se la Bestia raccoglie i voti della maggioranza del popolo sovrano non può essere più considerata bestia se non a condizione di definire bestiale il popolo sovrano e la democrazia. Quando la Bestia prende i voti che ieri erano dei gollisti, dei centristi, dei moderati, non possiamo più giudicarla come espressione di frange estremiste. C’è il vostro popolo là, non potete ignorarlo, dovete fare i conti…Nel frattempo al G7 volano stracci, aborti, follie, sanzioni e ancora soldi per Zelenskij. Ed è curiosa la rappresentazione dei fatti che viene fornita nell’EuroUsa zone, Italia inclusa, dall’informazione d’apparato: se un’incursione russa uccide nove ucraini si fa titolo sulla strage; poi passi alla Palestina e apprendi con euforia che sono stati liberati quattro ostaggi, e tutti siamo felici; piccolo particolare fatto cadere con disattenzione, nell’operazione sono stati uccisi 275 palestinesi. In Ucraina nove morti fanno, giustamente, orrore e notizia; a Gaza 274 palestinesi uccisi per liberare 4 ostaggi no, capita, normali incidenti sul lavoro. Ma in che mondo viviamo? Ma si, nel mondo, anzi nella porzione di mondo, che ritiene di essere campione dei diritti, del libero pensiero, della verità e della pace. Il mondo che si oppone alla Bestia. Siamo ridotti così male che il migliore degli ospiti della Meloni al g7 è addirittura Papa Francesco…

Marcello Veneziani                                                                                                  

Nemo è il profeta della patria europea..

Lo diceva già il proverbio antico: “Nemo propheta in patria”: così Nemo, cantante non binario, sui generis, è stato eletto profeta canoro della non-patria europea. Nemo, che in latino vuol dire Nessuno, è svizzero e applica la neutralità anche al genere sessuale. Non ce ne saremmo mai occupati della notizia in sé, anche se ieri continuavano sulle prime pagine dei nostri più rispettabili giornali, bavose apologie del cantante “non binario” e del mondo che cambia in quella direzione. L’Eurovision ha riconosciuto, premiato, fatto trionfare un cantante la cui speciale virtù è quella di essere un mutante in bilico, che non si vuol riconoscere nel sesso nativo e nemmeno in quello adottivo. Hai qualcosa contro chi si definisce non binario? Figuriamoci, non sono mica un passaggio a livello, non mi occupo di chi attraversa i binari. Non ho il minimo interesse a spiare la vita altrui dal buco della serratura o da altri orifizi. Il problema non è la sua vita, come lui si sente, cosa vorrebbe essere, un camaleonte o una zucchina, fatti suoi e dei suoi intimi. Il problema non è nemmeno l’esibizione in mondovisione, con messaggio annesso, del suo sesso variabile, come il tasso dei mutui; ma il riconoscimento pubblico, l’attestazione internazionale, il premio alla sua mobilità sessuale, alla sua estemporaneità di genere. Come se fosse un precursore, un pioniere e un modello, esempio per tutti. La notizia su cui si sono concentrati tutti, al pari della motivazione del successo, non era la sua canzone, la sua esibizione, ma il suo status non binario, di umanità in transito, personale viaggiante dal maschile al femminile verso l’ignoto, senza fissa dimora. Cambia qualcosa nella nostra vita dopo quella pagliacciata in eurovisione e quel glorioso coming out salutato come un evento epocale, tale da scomodare cieli e inferi? Ma no, assolutamente niente, si allarga semmai il disgusto, la nausea, il senso di estraneità verso tutto ciò che proviene dalla sfera pubblica, anche nell’ambito dell’intrattenimento e della ricreazione. Appena c’è qualcosa che evoca l’Europa, una guerra, una tragedia, un accidente o anche solo un festival, si allunga un’ombra di squallore. Amedeo Minghi da cantante s’indigna, e lo capisco, ha ragione; il generale Vannacci da militare vede una conferma che il mondo va a contrario, e capisco pure lui, ha ragione. Ma la cosa va ben oltre un banalissimo festival e un fatto intimo elevato a Ragione Universale. A me quello che sconforta è che non c’è scampo, se vuoi volgere lo sguardo altrove, e occuparti d’altro, passi da un Nemo a un altro, ovvero da una nullità a un’altra, da un trasformista all’altro; sai che la Nullità mutante è andata al potere, va sul podio, vince i premi nella musica, come nel cinema, nell’arte, nella letteratura. È il trionfo del Nessunismo, cioè la negazione dell’identità come merito, meta e compito per tutti. Nemo non è un singolo ma un fenotipo, un’ideologia. Dicendo di chiamarsi Nessuno l’astuto Ulisse trovò un espediente per sfuggire a Polifemo. Qui invece la scelta non è di sfuggire alla furia dei ciclopi ma sfuggire a se stessi, alla propria natura, alla propria identità nel nome dei propri desideri, “perché così mi sento”. Dai su, direte voi, cosa vuoi che sia una pagliacciata canora, un fenomeno da baraccone; lascia il circo, pensa alle cose serie. Ma è lì che sorgono i problemi, anzi è lì che si amplificano e diventano sistema, paradigma universale. Perché quando passi dallo spettacolo alla vita seria, alla politica, alle relazioni sociali, all’impegno civile il quadro che si prospetta è la continuazione del Medesimo, per dirla con Alain de Benoist; ossia è la continuazione del circo, dell’Eurovision in altre forme, è sempre la stessa roba, la stessa ideologia dominante. L’eurovision coincide con la visione dell’Europa. Nemo per tutti, tutti per Nemo. Insomma, per dirla in modo più chiaro, il problema non è Nemo che vince un festival, ma è Nemo che guida l’Unione europea, ne è il parametro, lo spread e l’unità di misura. Quel Nessuno rappresenta un popolo ridotto a moltiplicarsi in tanti Nessuno, privi di identità; la cosa che oggi unisce l’Europa è il ripudio dell’identità comune e personale, individuale e generale, famigliare e di civiltà. La canzone ne è solo la sintesi fatua e simbolica a uso pop.

La perdita dell’identità, decantata come un’emancipazione, una liberazione, una presa di coscienza, un passaggio – per stare alle parole della canzone di Nemo – dall’inferno al paradiso, ha una serie di effetti nefasti che ricadono a cascata sulla vita concreta degli europei. L’identità di genere è solo il primo livello dell’identità, quello più elementare, più evidente, più naturale: poi c’è l’identità civica, l’identità culturale, l’identità popolare, l’identità derivata dalla storia e dalla tradizione, l’identità di civiltà. Il rifiuto dell’identità o Euronemia produce danni a più livelli. Impedisce di riconoscere e accettare chi siamo davvero, la realtà nostra e degli altri, i corpi, i limiti, i confini, le eredità. Rende più vulnerabili e soccombenti rispetto a chi invece preserva e difende la propria identità, come per esempio gli islamici. E riduce i corpi a gelatine, le persone a tatuaggi, i pensieri a capricci e celebra storie intime come se fossero storie universali, tappe gloriose nel quadro dell’evoluzione della specie. Sappiamo che in assenza di riferimenti alti, superiori e ulteriori, alla fine chi rappresenta, incarna ed esprime l’Europa e la sua icona è quello che ci giunge dagli eventi e dai personaggi pop, dai racconti di massa imbastiti sul terreno dello spettacolo e dell’intrattenimento. Di Nemo all’Eurovision chi se ne frega; ma deprime la visione dell’Europa ridotta a celebrare, non solo nei festival, il Nemo di turno e l’euronemia. Farà una brutta fine questa specie d’Europa, investita sui binari incustoditi dal treno della realtà.

Marcello Veneziani

Quello stupro di massa dimenticato…

Se cercate la madre di tutte le violenze alle donne, gli stupri e i cosiddetti femminicidi, dovete risalire a 80 anni fa nel centro-sud d’Italia. È il capitolo amaro e atroce delle cosiddette marocchinate. I singoli episodi di violenza e di abusi che si leggono quotidianamente e che suscitano ribrezzo e preoccupazione, impallidiscono di fronte a una vera e propria mattanza di corpi femminili, ragazze, minorenni o sposate, che avvenne nella primavera di ottant’anni fa, in Italia, in un’area che va dalla Toscana alla Campania e alla Sicilia, con particolare accanimento nel basso Lazio. Non fu opera di sciagurati maniaci sessuali, ma fu quasi pianificato e autorizzato come bottino di guerra, ed ebbe come protagonisti soldati in divisa di eserciti di liberatori, come i francesi.
Esorto le femministe di lotta e di denuncia, le compagne di piazza e di corteo, le parlamentari progressiste e radicali, le combattenti antifasciste, antisessiste e le attrici impegnate, ad aprire e approfondire quella pagina di storia che risale alla primavera del 1944.  E vi suggerisco un insolito punto di partenza. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha i titoli a posto per essere celebrata dalle femministe progressiste.
Perché proprio lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare quel capitolo scabroso e rimosso della seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le migliaia di donne italiane stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate e messe incinta, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.
Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi, venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini si estendeva a mezzo centro-sud, il numero di 50-60mila marocchinate indicato da alcune ricerche è plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha ridotto la portata e coperto con un velo protettivo di omertà le reali dimensioni della tragedia. Si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità delle loro donne, e non sottoporle anche a una gogna. La responsabilità, oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, nella barbarie di quel tempo. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe è raccapricciante per la ferocia animalesca. Una pagina rimasta impunita e rimossa.
Migliaia di storie strazianti e interi paesi violentati, quando il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.
Ma è da sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’amor di verità di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da migranti. O a dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale; o stuprate in Istria. La stessa omertà che accompagna il vergognoso racket di uteri in affitto, dove la dignità della donna è venduta al capriccio danaroso di benestanti, spesso coppie omosex. Il Pci sessista di quegli anni aveva donne più rappresentative nei suoi ranghi, che provenivano dalla lotta politica, dalla piazza, dalla militanza di base e anche dalla guerra civile.
Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché quelle pagine infami ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso. Suggeriamo alle femministe perennemente mobilitate in campagne contro i maschi e i loro soprusi, di ricordarsi di una femminista, comunista e antifascista che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione. Sarebbe il caso che il presidente della repubblica, che non si lascia sfuggire mezzo anniversario di quel che accadde nella storia della seconda guerra mondiale e della resistenza, si ricordasse anche di questo evento corale, che mortificò la dignità femminile e stuprò i loro corpi, la loro verginità, la loro maternità. Gli orrori della guerra vanno raccontati e ricordati per intero, senza amnesie (come ad esempio il silenzio sugli ottant’anni dello scempio dell’abbazia di Montecassino, bombardata dagli Alleati). Per aiutarlo a ricordare e a ripararsi dietro un’immagine inattaccabile, si ricordi almeno della compagna partigiana comunista Maria Rosaria Rossi, del film di Vittorio de Sica e del libro dello scrittore filocomunista Alberto Moravia. Tre alibi per poter raccontare in modo inattaccabile, compiacendo l’antifascismo dominante, una storia dolorosa di cui furono vittime così tante donne italiane.

(Il Borghese, aprile 2024) Marcello Veneziani

La società senza eredi…

Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente da nessuno, non lasceremo eredità di niente a nessuno. È questa, per dirla in breve e in modo diretto e brutale, la fotografia della nostra condizione oggi. Ogni vita è un fatto a sé. La sconnessione dal prima e dal poi riguarda in varia misura e a vari livelli di consapevolezza ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Anche la politica schiva o rinnega le eredità. Restano in politica come nel commercio marchi inanimati e sbiadite icone, ma nulla che somigli a un’eredità. Per la prima volta nella storia dell’umanità, o almeno della storia a noi nota, viviamo in un’epoca senza eredi. O quantomeno è la prima a non riconoscere alcuna eredità come valore da custodire e da trasmettere. La prima epoca ad avvertire, come Re Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio; finirà con noi il mondo nostro. Dopo di noi nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà qualcosa della nostra eredità; non lasceremo tracce, tutto sarà cancellato dall’acqua e dal vento. L’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza ogni cosa. È il coerente epilogo di una società senza padre, poi diventata società senza figli, una società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei nonati, per via della denatalità e dell’aborto. L’epoca del nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla.  A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Verrà al più estratto da quel patrimonio il loro valore venale e mercantile, verrà cioè quantificato e svenduto ciò che ha valore commerciale; se privo di valore economico occorrerà disfarsene nel modo più rapido e indolore, sarà un’opera da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciar traccia di sé. Lo statuto di eredi vale finché si è dal notaio, ovvero fino alla commutazione delle intenzioni testamentarie in beni da usufruire. In ogni campo ha valore positivo ciò che non è ereditato e non lascia eredità, ciò che è nuovo, senza precedenti o destinato a sorpassare e far dimenticare ogni antefatto. In politica ogni leader e ogni movimento deve presentarsi come nuovo, deve effettuare radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da scheletri nell’armadio, ingombranti eredità da cancellare. Nuove app ci attendono, non è più tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. La tecnica ci dispone di continuo verso l’aggiornamento.  Allo stesso modo sono disconosciuti i maestri, perché non ci sentiamo eredi e continuatori della loro opera e della loro lezione, non hanno da insegnare nulla perché provengono da tempi arretrati rispetto al nostro, con tecnologie decisamente superate. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro o insegnarci qualcosa di adeguato al mondo che verrà.  Del passato viene salvata solo la memoria delle vittime, però non è un’eredità da salvaguardare e da continuare, ma vale a contrario come un monito per non ripetere quegli e/orrori. La memoria delle vittime è un atto d’accusa e di rigetto dell’eredità dei carnefici.   Come si manifesta sul piano generazionale la fine delle eredità? In primis non si fanno più figli; se ci sono partono, lasciano la casa e la città familiare, cambiano orizzonte. E se non partono si diseredano da soli, si allontanano con la mente e col cuore, reputano che vivere sia emanciparsi da chi li ha messi al mondo. Non mancano eccezioni, e non sono neanche rare; ma la tendenza generale, lo spirito del tempo, è quello. Niente eredi. I paesi si svuotano, non c’è ricambio, le famiglie sono sull’orlo dell’estinzione dalla denatalità e dall’emigrazione; presenze secolari spariranno nel volgere di pochi decenni; al più resterà dispersa nell’altrove una spaesata disseminazione. I nostri contemporanei si sentono figli del loro tempo più che dei loro genitori o dei loro paesi d’origine e dei loro maestri. Si sentono autoprodotti, si pensano autocreati, ritengono – anche se poi non è vero- di fabbricarsi e autogestire per intero la propria vita   . Di conseguenza non si tramanda più niente, l’infedeltà diventa un valore e un atto di autonomia, tutto si rende obsoleto in fretta: dall’obsolescenza programmata degli oggetti all’obsolescenza integrale e inesorabile dei soggetti, che sopravvivono solo se sono fluidi, geneticamente modificabili, mutanti.  Altra conseguenza del rifiuto dell’eredità: non vale la pena ricordare, o peggio nutrire nostalgia del passato e di chi non c’è più; tempo perso, vano esercizio, grottesco spiritismo contro il procedere ineluttabile della vita. Anche per questo si interrompe la trasmissione di saperi, principi, pratiche, consuetudini, esperienze: tutto ciò un tempo si chiamava tradizione era fondata su un principio di eredità biunivoca, ossia ricevuta e consegnata, che sintetizzo nello status di “eredi gravidi”. Il passato è privo di valore e significato, va cancellato, rimosso, maledetto, superato; tutto è accelerato, meccanizzato e sostituito. Non si trattiene nulla, tantomeno il senso della continuità.  Ogni vita finisce su un binario morto, non proviene da nessun luogo e non continua da nessuna parte. Benvenuti nella società senza eredi. Non resta che confidare nell’imprevisto, nell’ignoto, nella pietà, nei tornanti. O nel miracolo di imprecisati dei.

 Marcello Veneziani

Quando ci sarà la vera liberazione dal fascismo?

Sarà davvero una festa, il 25 aprile, quando avverrà sul serio la Liberazione dal fascismo. Definitiva, irreversibile, generale. A ottant’anni meno uno dalla sua fine, sogno una cosa che ci è stata finora negata: la cessazione di questa gogna permanente, di questo discrimine perenne e manicheo, di questa divisione ideologica dell’umanità in giudicanti e giudicati che ci portiamo addosso da quattro ventenni nel nome di uno, con un accanimento via via crescente con gli anni, anziché decrescente, come sarebbe naturale con la morte dei protagonisti, l’allontanarsi nel tempo e lo stingersi delle passioni. Fino all’assurdo dei finalisti dello Strega che leggono tutti insieme lo squallido monologo antifascista di Scurati contro il governo Meloni, come se fossero un soviet o un Intellettuale collettivo con un solo cervello (bacato). Così usato, l’antifascismo diventa un codice immorale e incivile che antepone all’intelligenza, al valore, al talento una sorta di rito preventivo e discriminatorio di affiliazione, a cui è obbligatorio uniformarsi. Altrimenti sei fuori.
Il fascismo non è più nella storia e nella realtà da ottant’anni e nessuna forza politica in campo ne rivendica l’eredità; chi ne stabilisce allora la persistenza, chi attribuisce e certifica la definizione di fascista? Lo decide a suo insindacabile giudizio una commissione politico-mediatica-intellettuale permanente, auto-nominatasi per autoacclamazione, che corrisponde alla sinistra. Qui c’è tutta la falsità, l’impostura, l’uso intollerante e paranoico, vessatorio e diffamatorio del fascismo.
La liberazione dal fascismo, per essere vera e compiuta, comporta naturalmente anche la liberazione dall’antifascismo che ha senso solo in presenza dell’antagonista, e non in assenza o addirittura post mortem.
Fascismo e antifascismo vanno restituiti alla storia, e anche nel giudizio vanno storicizzati, cioè depoliticizzati, sottratti all’agone della polemica attuale o caricati sulle spalle di posteri che non possono portarne il peso: non ha più senso applicare quel discrimine oggi, come non avrebbe più senso il discrimine tra comunisti e anticomunisti o tra democristiani e antidemocristiani oggi che il comunismo o la Dc non ci sono più, anche se sono rivendicati o rimpianti da taluni. Ma ancora più insensato è che sia una parte a imputare il fascismo a carico dell’altra, senza reciprocità, perché non è ammessa la facoltà inversa. Noi giudici, voi imputati, for ever.
Sul piano storico vanno distinti gli antifascisti veri che si opposero al regime fascista, come Matteotti, che meritano ogni rispetto e ammirazione, soprattutto se pagarono di persona; dagli antifascisti di comodo, a babbomorto, in pieno dominio antifascista, che si attribuiscono una superiorità etica e morale in suo nome; si arrogano il potere di essere perennemente giudicanti, officianti e sovrastanti nel nome assoluto della religione Antifa.
Ai loro occhi quelli che vengono accusati di fascismo non solo non hanno diritto di difendersi ma devono prendere gli schiaffi e dar ragione a chi li schiaffeggia, mentre li schiaffeggia. Altrimenti vuol dire che sono rimasti fascisti dentro o sotto la buccia.
Peraltro è ormai comprovato e assodato che l’accusa di fascismo rivolta al governo non porta alcun profitto politico-elettorale a chi la lancia, ma serve solo a consolidare una cupola di tipo ideologico-mafioso. Questa campagna anacronistica permanente non è infatti condivisa dalla gran maggioranza degli italiani, è un citofono interno al proprio condominio; funziona a circuito chiuso, non raggiunge gli italiani ma coloro che erano già mobilitati sul tema. Rovesciando ancora oggi le colpe del fascismo su chi è al governo non si colpisce il governo in carica, che su questi temi non perde affatto consensi; si fa solo un danno agli italiani che vedono posposti i problemi reali del presente al fittizio feticcio del Passato Proibito. Ma nel nome sacro e intangibile dell’antifascismo le camorre ideologico-letterarie preservano le loro posizioni di potere.
Il giudizio in merito a quel che accadde un secolo fa non può essere ancora lo spartiacque etnico prima che etico, antropologico oltreché ideologico, tra due mondi intesi come il regno del Bene e il regno del Male. E non può cancellare la preminenza e l’urgenza delle questioni reali del nostro presente. L’opposizione può attaccare il governo in carica sul modo di governare, sulle leggi che ha varato o vorrebbe varare, sul premierato e sull’autonomia differenziata, sulla giustizia sociale e sulla sicurezza, sulla gestione della pubblica amministrazione e sui temi cruciali dell’economia, sul ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, sulla nostra posizione nelle guerre in corso. I temi non mancano e le fragilità, le incongruenze, le inadeguatezze del governo offrono argomenti reali a chi si oppone. Ma su quei temi la sinistra gioca di rimessa e di rimbalzo, anche perché tutte le cose che sta facendo o non sta facendo la Meloni, le avrebbe fatte o non le avrebbe fatte, se non le ha già fatte a suo tempo, la sinistra al governo. A partire dalla politica estera. L’unica differenza è l’enfasi e la narrazione, ossia la giustificazione ideologica e la fiction che viene imbastita sopra. Al più è la cornice simbolica a differenziarle, non la sostanza. Rispetto a questa sinistra inchiodata al fascismo, perfino i grillini appaiono più seri del Pd & affluenti. Stanno sul pezzo e non sulla reliquia.
La cosa che più sconforta è che da anni denunciamo questo accanimento terapeutico su un cadavere ridotto in polvere e da anni lo scempio prosegue, imperterrito, anzi crescente; quanto più diventa irreale il tema tanto più cresce il pathos con cui viene guarnito.
Alla destra di governo invece dico: non è servito a nulla, come vedete, tutto il vostro atto di contrizione, tutti i santini che avete baciato e tutti i riti esorcistici a cui avete partecipato. Dopo la sequela di abiure, condanne, dichiarazioni frementi di antifascismo da parte vostra, l’accusa di fascismo nei vostri confronti prosegue inalterata. Non avete capito che le vostre parole non basteranno mai perché a decidere che siete comunque fascisti non sono le vostre dichiarazioni ma le loro attestazioni. E’ in mano a loro la sentenza, voi non potete far nulla. Perciò, smettetela di stare al loro gioco, tacete sul tema, rifiutatevi di replicare, di giustificarvi, di sostenere gli esami, ribellatevi alla camorra pseudo-intellettuale di sinistra e alla loro malafede, lasciateli parlare. Che si fottano; non hanno titoli per giudicare. Sarete giudicati dagli italiani per quel che fate e farete al governo e non per la vostra irrilevante opinione sul fascismo.

Marcello Veneziani                                                                                                                         

L’Europa è abortita .

L’ultimo atto a Bruxelles rivela cos’è davvero l’Unione europea: un aborto. L’Unione Europea non è mai nata, ha rifiutato di darsi un’identità, in compenso ora inserisce l’aborto tra i fondamenti etici e giuridici dell’unione. Lo fa non per un’esigenza pratica ma è una pura petizione di principio, una professione di fede e ideologia. Questa specie d’Europa vota a larga maggioranza, compresi molti cristiani e popolari, l’aborto come un suo cardine. La destra di governo tace. Proprio all’indomani del documento della Chiesa in cui si definiva l’aborto un omicidio.Sono passati trentadue anni dal trattato di Maastricht, per non parlare dei decenni precedenti della CEE, ma l’Europa non è ancora nata come soggetto politico autonomo e sovrano, con una sua unitaria politica estera e una sua forza militare, un suo governo elettivo e una sua Costituzione, che giusto vent’anni fa, nel 2004, abortì senza più rinascere. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia in un editoriale del Corriere della Sera quando sostiene che l’Europa non è un soggetto politico perché non ha un’identità, non ha il senso della propria storia. Da troppo tempo crediamo che la politica sia solo la gestione del presente, il regno dell’attualità e delle emergenze quotidiane; ma la politica priva di radici s’insecchisce, non fiorisce e tantomeno dà frutti. L’Europa ha rinunciato ad avere un ruolo autonomo e iniziative indipendenti, ma si è di nuovo raccolta sotto l’ombrello atlantico della Nato e degli Stati Uniti, evitando di assumersi la responsabilità di un ruolo strategico di equilibrio, con capacità autonoma di negoziare sul piano internazionale.
Lo vediamo in Ucraina, in Israele, a Gaza, e ovunque.
L’Europa non ha voluto capire due cose elementari che sono le premesse necessarie alla sua identità e alla sua sovranità: la prima è che il mondo è uscito da tempo sia dal bipolarismo americano-sovietico sia dal nuovo ordine mondiale a guida statunitense, con gli Usa arbitro e garante del pianeta. Il mondo oggi è diviso in aree differenti, dalla Cina all’India e alla Russia, nonché varie medie potenze che esercitano un’importante egemonia di area o mantengono una loro irriducibile autonomia, dalla Turchia all’Iran, fino al Brasile e alla Corea. Per non parlare di aree in ebollizione come il Medio Oriente, l’Africa, il sud est asiatico. Dunque, all’Europa tocca diventare maggiorenne, riprendersi le chiavi di casa e agire nel mondo confrontandosi con le altre potenze sovrane, senza delegare a nessuno.  Ma per avere un’identità devi porti sul piano internazionale non come l’emanazione periferica del Blocco Occidentale, la propaggine allineata alla politica degli Usa ma devi essere ben consapevole che la geopolitica, prima ancora che gli interessi primari dei popoli europei, ti portano a differenziare la tua posizione da quella di un Paese che ha storia, interessi e mire differenti, ed è separato da un oceano dal blocco euroasiatico e dall’Africa, mentre noi siamo attigui.
Ma dietro il tema politico e strategico carente, c’è il tema identitario, anzi la voragine, il vuoto identitario. La sua rappresentazione migliore è proprio quella simbolica, l’icona della sua bandiera: tante stelle intorno a un vuoto, un buco nero al centro. Il tema dell’identità non è solo storico, come invece ritiene lo storico Galli della Loggia, giacché investe le radici culturali, spirituali, religiose, che non sono riducibili alla sola dimensione storica, pur così importante.  Qui s’innesta il tema di fondo che attraversa la memoria storica e investe il più complesso tema della civiltà: l’Europa da tempo ha rimosso le sue matrici; e infatti negando le sue radici greco-romane e cristiane, a cui l’aveva vanamente esortata Giovanni Paolo II, la Costituzione abortì, cioè la Carta d’identità europea non fu emessa.
Ma dopo aver rimosso le sue matrici, glissato sulla sua storia recente, dalla storia delle nazioni europee al trauma dei due conflitti mondiali che l’hanno smembrata e depotenziata, l’Europa vive ora nell’orbita americana. E si sta massacrando con le sue stesse mani con l’ideologia woke, il politically correct, l’anticolonialismo e l’antirazzismo, la cancel culture e chiede scusa al mondo di esistere.  Come pensate che possa emergere un’identità europea se l’Europa rinnega la sua civiltà o arriva a considerarla come una barbarie? Se nessuno difende la memoria storica europea e la civiltà cristiana –  cattolica, protestante ed ortodossa – se dobbiamo leggere le epoche del passato solo come tempi di cui vergognarsi perché dominati da imperi, guerre, soprusi e conquiste. Se arriviamo a smantellare perfino le comunità naturali come la famiglia e nel nome dei diritti civili stabiliamo a livello di norme e di corti europee, un continuo primato dell’individualismo, dei diritti scissi dai doveri e coniugati ai desideri, il diritto alla morte, in forma di aborto ed eutanasia a spese del diritto alla vita e alla nascita; degli uteri in affitto anziché la difesa e la promozione della fertilità naturale e della natalità, cosa pensate che resti della civiltà europea e delle sue tradizioni?
La guerra che l’Europa ha ingaggiato contro se stessa non riguarda solo l’identità storica, come sostiene Galli della Loggia, ma sconfina contro la natura, la famiglia naturale, la procreazione naturale, il diritto naturale, la natura umana.  Salvo poi sventolare l’ecologismo in difesa dell’ambiente, dopo aver tradito la natura nei suoi luoghi e riferimenti più significativi.
Facile dire che il limite dell’Europa è la sua nascita intorno a un’intesa economica, l’Europa delle banche e dei mercati, l’Europa della moneta e non dei popoli. Ma siamo ridotti a quella reductio economica perché non si è fatto nulla per svegliare, rafforzare e proiettare un’identità comune europea, rifiutando il sostantivo “identità”. Così l’Europa è colata dall’alto come una vernice ed è calata come una gabbia di norme, restrizioni e direttive. Ma una vernice e una gabbia non fanno un’identità.

Marcello Veneziani

Corso accelerato d’imbecillità suicida…

 

 

 

Ma in che mondo ci stanno portando? Dunque ricapitoliamo la situazione per chi si fosse distratto, avesse perso il filo complessivo della situazione o si fosse messo in contatto con il mondo solo adesso, dopo aver vissuto da automa. Stando a quel che abbiamo appreso in questi giorni, noi dovremmo scendere in guerra con Putin, chiudere un occhio sugli eccidi di Gaza perché non sono un genocidio, interrompere ogni tentativo di arginare i flussi migratori, non celebrare le nostre feste religiose ma solo il ramadam, inserire nella Costituzione non più il diritto alla vita ma il diritto ad abortire, seguire le prescrizioni woke nelle scuole, nelle università, sui social, in famiglia e nelle relazioni pubbliche e private, ovunque. A suggerirci questo catechismo non sono isolati maestrini che si sono bevuti il cervello, ma nell’ordine i vertici dell’Unione europea e di alcuni suoi governi nazionali, come la Francia; gli Stati Uniti, intesi sia come superpotenza e apparato militare che come mecca dell’ideologia woke, della cancel culture e del politically correct; e poi le fabbriche mediatiche di opinione pubblica, locale e occidentale, scuole e Università sparse in Italia e in tutto l’Occidente, e infine il personale di bordo della sinistra. La ricaduta reale di questo degrado è sotto gli occhi di tutti: andate a vedere come è ridotta la capitale d’Europa, Bruxelles, per capire che alle parole seguono i misfatti, il degrado urbano, la decadenza civile si fa vita quotidiana. Viviamo in un corso intensivo e accelerato di imbecillità globale col rilascio finale di una patente che ti fornisce tutti gli alibi e tutti gli elementi per il suicidio finale della nostra civiltà e di noi stessi; preceduto dal suicidio della propria identità, storia e tradizione. Le regole elementari del vivere, l’istinto di autoconservazione e di sopravvivenza, il riconoscimento della realtà e dei nostri limiti, la difesa della propria identità, dignità e libertà di pensiero critico, e tutto ciò che salva la vita e l’intelligenza, vengono violate, calpestate, bandite ogni giorno, in alto e in basso. In più, non riusciamo a vedere le cose nel loro insieme e nell’effetto combinato disposto che producono quando vanno a sommarsi; non riusciamo che a vederle un pezzo alla volta, a sé stante, in modo isolato e frammentario; e ogni cosa così slegata dal resto e dal contesto, perde la sua carica negativa che si moltiplica combinandosi alle altre. Cosa volete che sia una dichiarazione pubblica guerrafondaia, cosa volete che sia la voce aborto entrata nella Costituzione in Francia, cosa volete che sia un giorno a scuola saltato in una scuola frequentata da molti ragazzi di famiglia islamica; cosa volete che sia la censura a quel genitore, a quel docente, a quel calciatore, a quel tale? Episodi locali, circoscritti.   Basterebbe usare il buon senso nelle piccole cose e il senso della realtà nelle grandi. A proposito del primo, per esempio, non sarebbe stato più facile proseguire le lezioni a scuole ed esonerare dalla lezione coloro che per motivi religiosi intendono osservare in quel giorno il riposo, piuttosto che adeguare la scuola intera all’islam? Non si trattava nemmeno di negare loro il diritto alla loro festa ma di non subordinare la nostra scuola al loro credo.   Non sarebbe stato più semplice dissentire dalla citazione di David Hume del professor Spartaco Pupo, spiegandone le ragioni, anziché usare il potere di censura e proporre assurde punizioni giacobine con effetto immediato sulla sua carriera e reputazione? E ancora, non sarebbe più intelligente separare la rivendicazione della verità sul processo Regeni dai rapporti complessivi tra stati, e dall’opportunità di arginare il fenomeno immigrazione irregolare? Non sarebbe senso della realtà e onesto giudizio critico riconoscere che la Russia di Putin è una falsa democrazia ma con vero consenso di popolo, riconoscere che nonostante la nostra propaganda, Putin sta vincendo in Ucraina e ammettere che trattiamo da sempre con regimi autocratici, dispotici, totalitari e dobbiamo fare i conti con colossi come la Cina, che non è certo una democrazia liberale? Perché scandalizzarsi e gridare al tradimento dell’occidente per chi, come Salvini, ha osato dire queste cose? Ci chiediamo dove porterà questa escalation di dichiarazioni bellicose, questa assenza di volontà negoziale, auspicata vanamente pure dal Papa? Ci rendiamo conto che stiamo raggiungendo il punto di non ritorno in questa folle spirale di guerra? Siamo consapevoli che l’Occidente oggi non può più dare le carte al mondo, stabilire il giusto e il torto, ma è un soggetto tra gli altri, e ci sono vaste aree geografiche, forti potenze mondiali, che non sono allineate ai nostri codici ?  E dove porterà all’interno della nostra società, questo continuo, permanente bigottismo censore e punitivo di tutto ciò che concerne le relazioni tra uomo e donna, i ruoli di genitori e figli, i linguaggi della vita e delle comunicazioni, la memoria storica e la difesa delle nostre eredità? Ma che materia hanno nel loro cervello (un sospetto ce l’avrei) quei docenti inquisitori che in virtù del loro codice ideologico di condotta dell’ateneo, intimano a un collega di rimuovere un post in cui è riportata la citazione di un filosofo empirista del ‘700, ridotto oggi a fautore del “patriarcato” e nemico del femminismo; da cui il docente, suo traduttore, avrebbe dovuto prendere le distanze? Ripeto, ogni singolo episodio in sé non vale nulla, è un trascurabile dettaglio, non può suscitare allarme, semmai ironia, una battuta e via. Ma l’addensarsi e il moltiplicarsi di questi episodi producono un clima e concorrono a mutare un modo di pensare e infine un mondo, soprattutto se poi questi micro-comportamenti si incontrano con i macro-comportamenti degli stati e dei loro capi, fino alla mobilitazione delle leggi e delle forze al servizio di questi deliri. Urge una calmata, un freno critico, un filtro dell’intelligenza; ma soprattutto urgono forze sovrane in grado di contrastare la marcia dell’imbecillità verso l’autodistruzione di massa.

Marcello Veneziani

Primum vivere? No abortire.

Prima nel mondo, con orgoglio giacobino, la Francia ha inserito il diritto d’aborto nella Costituzione. A larga maggioranza, compresa una cospicua fetta della destra lepenista. Tanti esultano, molti tacciono, rari osano dissentire. Resta in solitudine la Chiesa cattolica a considerare un valore non negoziabile il diritto alla vita, fino a reputare l’aborto un omicidio, per dirla con Papa Francesco. L’aborto è diventato un diritto più sacro e inviolabile della nascita e della vita. Parafrasando un noto detto, primum abortire, deinde vivere. Chi osa confutarlo o chi è obiettore di coscienza è ora un nemico della Costituzione e delle donne; ma anche chi non lo rimette in discussione e prospetta solo la libera possibilità di un’alternativa ad abortire viene considerato come un delinquente retrogrado. Perché dovrebbe essere un crimine aiutare le donne a scegliere per la vita, restando pur sempre libere di accogliere o no l’aiuto? Perché difendere il diritto alla vita di una creatura sarebbe un sopruso e una violenza? Come in Orwell le parole si usano a rovescio, diventa barbaro e violento voler salvare una vita e minaccioso il solo pensarlo. I punti di forza degli abortisti sono il diritto delle donne a decidere della loro maternità e la tesi che il feto non sia ancora una persona con i suoi diritti. I punti di forza dei “nascisti” sono invece il diritto prioritario alla vita e la convinzione che una vita si formi al suo concepimento: il feto è già una persona e una promessa reale di vita. Gli abortisti dicono: se tu non vuoi abortire sei libera di non farlo ma lascia alle altre il diritto di farlo. Ma se consideri l’aborto la soppressione di una vita, non puoi dire: uccidi? fatti tuoi, io sono libero di non farlo… Tra i due fronti si può tentare di stabilire una zona di frontiera. Del tipo: rispettando le due opposte convinzioni e decisioni, si può concordare sul fatto che abortire è comunque una tragedia e perciò è lecito e doveroso, da parte della società, aiutare a non farlo, senza negare la facoltà di abortire. Ovvero non boicottare chi abortisce, ma in positivo, aiutare chi recede dal suo proposito . L’aborto, dicono i suoi sostenitori, esisteva anche prima ma era clandestino; ma mettendolo nella Costituzione ora lo Stato, la Legge, la Sanità, si sono messi dalla parte dell’aborto: il diritto a sopprimere una vita precede il diritto alla vita. Sbaglia chi pensa che il conflitto tra abortisti e anti sia il conflitto tra antichi e moderni. Nelle società arcaiche l’aborto c’era ma impressionava meno; c’era più famigliarità con la mortalità infantile, c’era più dimestichezza con la natalità e con la morte, spaventava meno di oggi. Anni di battaglie sui diritti umani, di difesa dei più deboli, i diritti dell’infanzia e dei disabili, ci hanno reso più sensibili. Perciò oggi più di ieri fa più impressione sopprimere una vita. E fa più impressione in Francia che in Africa.  So bene l’obiezione: in Italia ci fu un voto di maggioranza più di 40 anni fa. Va rispettato, anche se il tempo ci cambia; negli Usa la maggioranza è ora antiabortista. Ma se avessimo fatto un referendum popolare sulla pena di morte, sugli immigrati clandestini, sul linciaggio in piazza dei pedofili, sullo scioglimento dei partiti, cosa sarebbe venuto fuori? La democrazia referendaria non è un valore eterno e assoluto, e non vale solo quando coincide col proprio punto di vista.  Capisco l’aborto terapeutico quando è in pericolo la vita della madre. Capisco, con più fatica ma capisco, l’aborto per chi è stata violentata. Terribile anche se comprensibile è l’aborto eugenetico quando il feto ha gravi malformazioni: è umano il dramma dei genitori e la preoccupazione per un figlio non autosufficiente, anche se spaventa dove può portare questa selezione darwiniana. Ma l’aborto più praticato è quello compiuto per ragioni di libertà personale, per motivi psicologici e sentimentali, per situazioni famigliari e socio-economiche. Temi importanti ma possono giustificare la soppressione di una vita? La vita è un diritto elementare che precede tutti gli altri. Perché il diritto alla vita deve essere rivendicato per i condannati a morte che hanno ucciso altri uomini e non vale invece per una creatura inerme e innocente? Obiezione elementare, anzi infantile. Davvero qualcuno pensa ancora che la vita prenatale non si possa considerare vita, pur avendo mille riscontri opposti? Trovo ipocrita chi dice di farlo per il bene della vittima, per risparmiarle una vita infelice: lasciate che sia lui a decidere da grande, non avete diritto di vita o di morte su di lui nel nome della sua felicità. Lasciate stare le giustificazioni umanitarie. Semmai giustificatelo dicendo che non si può estirpare questa piaga, non si può sradicare, siamo fragili, incapaci di sopportare il peso di una vita sgradita. Ma evitate di fingere superiorità etica o accampare ragioni di filantropia. Comprendiamo il travaglio di chi abortisce, non conosciamo gli inferni altrui e soprattutto non abbiamo alcun titolo per mandarli noi all’inferno. Ma siamo uomini e dobbiamo assumerci la quota di corresponsabilità che ci spetta, non possiamo restare neutrali e indifferenti davanti a una vita che viene spenta nell’indaffarata indifferenza generale. Che vale prendersi cura del mondo (I care) e poi fregarsene del nascituro della casa accanto? Sconcerta questo rifiuto della nascita, salvo che per gli uteri in affitto. E spaventa questa macabra prevalenza dei morti sui vivi che segna l’Europa. Se essere un paese civile vuol dire che le bare battono le culle, preferisco vivere in un paese incivile. Ma so che è il contrario: civile è tutelare la vita, non la sua soppressione.

Marcello Veneziani

Alessandro, la gloria finisce in un bacio gay…

L’Occidente comincia con Alessandro Magno e finisce con lui. Fu lui il primo a demarcare i confini tra Oriente e Occidente, a combattere i persiani, a sentirsi erede di Achille che assedia con gli altri achei Troia, simbolo dell’Asia Minore. Fu lui il primo imperatore, il primo Caesar precursore dei cesari romani, a spingersi fino in India, a unificare gli occidenti, dalla Grecia a Roma, che si sottomise a lui e da lui apprese la vocazione imperiale. Fu lui, Alessandro dai capelli rossi e ricci come un Sinner dell’antichità, a segnare simbolicamente l’atto costitutivo dell’Occidente, la decisione di tagliare il nodo di Gordio, altrimenti insolubile da secoli. La supremazia dell’Occidente fu in quella decisione-recisione, il primato dell’agire sulla pazienza di sciogliere, l’azione risoluta che spezza la profezia oracolare e secolare legata a quel mitico nodo. Ne scrisse millenni dopo Carl Schmitt. Fu lui, Alessandro, a fondare l’egemonia, definito – come suo padre – Hegemon della Lega ellenica. Ma nell’Occidente contemporaneo, che è passato da Callistene e Plutarco a Netflix e al gay pride, Alessandro Magno è l’imperatore gay che ha una tresca col suo generale Efestione; del film resta per l’immaginario collettivo dello storytelling occidentale il loro bacio omosessuale. Qui finisce l’Occidente, nel politically correct, a cui seguirà qualche altro racconto su Alessandro l’Inclusivo, l’Accogliente coi migranti, che abbatte i confini perché sogna un mondo di eguali, senza frontiere, non solo sessuali. Eppure Alessandro era grande per ben altre, eccezionali imprese, senza precedenti nel mondo antico. Aveva vinto battaglie e conquistato terre lontane, in rapporto al suo tempo, aveva unificato sotto il suo scettro popoli e aveva fondato il primo impero d’Occidente. Alessandro il Macedone era grande perché aveva avuto come precettore il più grande filosofo della sua epoca, e non solo, il maestro di color che sanno, il grande Aristotele, che fu il suo primo spin doctor e influencer, altro che Fedez e Casalino. Alessandro bambino era già così risoluto e capace da domare il mitico cavallo Bucefalo, che lo accompagnò in tutte le sue battaglie per tutta la sua breve vita, e anche dopo, al suo funerale. Alessandro fu il primo uomo di potere che blandì un intellettuale e gli offri qualunque cosa per ingraziarselo e dargli un riconoscimento. Ma ebbe la sfortuna di incorrere in Diogene il cinico, che viveva come un cane e un barbone, per strada; e quando l’imperatore si parò davanti, e gli chiese cosa potesse fare per lui, la risposta del pezzente fu grandiosa: Scostati dal sole. Ossia l’intellettuale non chiedeva onori e ricchezze, ma che l’Imperatore lo lasciasse libero di godere la luce del sole, che non gli facesse ombra. La richiesta del filosofo fu di non frapporsi tra lui e la luce, il calore dei raggi, lo splendore della visione del mondo illuminato dal vero signore dell’universo. Fu la più grande lezione di libertà e umiltà di un filosofo, la fondazione del pensiero libero. E Alessandro, che si rivelò veramente grande, non si irritò per l’insolente risposta, come era nel suo temperamento irruento, e per il rifiuto che l’ultimo uomo, più povero e impotente della terra aveva opposto al primo, più grande e potente uomo del mondo. Ma commentò che se non fosse Alessandro avrebbe voluto essere Diogene. Una lezione che vale anche oggi, che il potere occidentale è alla frutta.   Ma di Alessandro oggi si racconta, si fanno le fiction, perché è considerato il precursore dell’amore gay, l’archetipo politico-militare dell’omosessuale; non solo i filosofi dell’antichità, ma anche i grandi condottieri, gli imperatori sono ormai riconosciuti solo se hanno qualcosa che sia woke, omo, al passo dei nostri giorni.  E poco importa aggiungere che Alessandro ebbe anche grandi amori etero, ebbe figli e ben tre matrimoni, pur essendo morto giovane, all’età di Cristo. Quel che importa sottolineare è che aveva una love story con Efestione, come si dice di Achille con Patroclo: quel che importa è ridurlo al nostro presente, alle sue ossessioni, ai suoi piccoli ma tenaci pregiudizi. Netflix, come già aveva fatto con Cleopatra, si inventa un Alessandro paladino e precursore Lgbt. E sforna un “Alexander: the making of a God” allineato ai più beceri conformismi woke dei nostri giorni. Il ministro della cultura del governo conservatore greco, Lisa Mendoni, oltre a sottolineare le numerose inesattezze storiche e la scarsa qualità della fiction, coglie il nodo “gordiano” della questione: non possiamo interpretare le pratiche e le persone di 24 secoli fa, applicando il nostro metro attuale. Quello è in effetti, al di là del feticismo lgbtq+, il problema: la riduzione di tutta la storia, nei suoi millenni, nelle sue grandezze e tragedie, al metro piccino dei nostri giorni; quello che viene chiamato presentismo o meglio egocentrismo del presente. Peccato che lo stesso governo conservatore greco si sia adeguato alla ventata woke introducendo i matrimoni omosessuali. Al di là delle possibili obiezioni, c’è un argomento preliminare: se la gente ha deciso di votare per un governo conservatore anziché progressista, è perché vuole vedere tutelati e difesi alcuni valori, alcune distinzioni e priorità, alcune salvaguardie, come per la famiglia naturale e tradizionale. Altrimenti voterebbe direttamente per i progressisti. Ma al cinema, a teatro, in tv, ormai è tutta un’orgia woke: del passato si parla solo se allude all’oggi, in modo correct. La storia dell’occidente finisce in un attimo fuggente…

Marcello Veneziani