Qualche riflessione…e Auguri !

 

Ultimo giorno dell’Anno, giorno di riflessioni, di bilanci, l’anima che cerca almeno il pareggio per potere affrontare ancora con qualche stimolo l’inizio di un nuovo anno. L’atmosfera spirituale non è che l’eco dei tempi andati, della frenesia per le feste della sera, quando il tempo pareva non bastare per tutto quello che erano i preparativi, le aspettative, i sogni , i desideri. Quando i capodanni ai quali abbiamo brindato sono ormai tanti, i calici augurali sono troppo pochi, quando non c’è più quel bacio speciale di mezzanotte, allora che capodanno è-Spero tanto di iniziarlo sotto le coperte, abbracciata ai miei ricordi più belli, che sarei felice mi regalassero un sogno indimenticabile, come tanti risvegli tra le braccia di chi ho amato e amo oltre la vita. Non credo più nel nuovo anno migliore, più bello di quello passato; l’esperienza mi ha insegnato che il nostro mondo, come la nostra vita non ci soddisfa mai, mai all’altezza delle nostre aspettative. Il mondo, la vita dei giorni nostri non mi appartiene più, come se fossi stata catapultata in un mondo parallelo, che non ha più nulla in comune col mio , nei cui valori non mi riconosco e non crederò mai, la corsa sfrenata al denaro, che ha preso il posto delle piccole gioie, dell’educazione, della gentilezza, dell’empatia, la competizione che rovina l’amicizia e persino l’amore. E ho capito una cosa che sono davvero poche le persone che lasciano un segno profondo nella nostra vita, quelle che ci vogliono bene e si preoccupano per noi sempre, oltre le incomprensioni, le utilità , oltre anche i litigi . Ho capito che l’amore vero è molto difficile da dare, ma quasi impossibile da ricevere nella sua bellezza limpida , schietta, che non conosce ipocrisia alcuna.
Grazie alle tante persone, che passano su questo mio blog ogni giorno, auguro loro di finire in bellezza questo anno e che l’Anno nuovo dia loro tanta salute e quanto sta nei loro desideri e prospettive- BUON 2024 !!

Gustav Klimt  albero di natale

Gustav Klimt__Albero  per le feste.

L’uomo , di fronte all’amore materno degli animali, si incanta e si commuove…

 

Difficile rimanere indifferenti di fronte a questa scena di immensa tenerezza di questa mamma orsa, che dimostra tutto l’amore per il suo cucciolo.
Guardare al mondo animale per trarne tutto ciò che può essere paragonato al nostro modo di vivere è molto interessante soprattutto se si osservano aspetti come l’amore materno, concetto indubbiamente universale che riguarda ogni essere che vive su questa terra.

scimmia

Possiamo scoprire, ad esempio, che, mentre lo svezzamento dei bambini non rispetta tempi e modi standard, ma ogni bimbo ha il suo svezzamento, diverso nei tempi e nei modi da quello di un altro, e questo è entrato a far parte della nostra cultura, molte scimmie che diventano mamme decidono invece di prolungare l’allattamento per lunghissimo tempo in modo da donare tutte se stesse al piccolo appena nato per tutto il tempo di cui avrà bisogno prima di procreare ancora una volta e dedicarsi a quel punto al nuovo nato. È forse un modo per proteggere la salute psico-fisica del cucciolo senza il rischio che questo possa sentirsi trascurato a causa di un eccessivo numero di figli. E come ogni mamma parla e canta al bimbo appena arrivato, anche le mamme non umane offrono immediatamente il suono della loro voce ai piccoli; ed ecco che le galline cantano ai pulcini mentre sono ancora dentro l’uovo, e nasce così il legame indissolubile perché quel suono sarà per il nuovo nato tutto ciò che lo terrà in vita e darà voce ad ogni suo bisogno.

mamma topa

La mamma e il figlio sono infatti tutt’uno fino al momento in cui il piccolo sarà pronto al distacco, motivo per il quale la femmina del topo, dopo aver partorito, considera i topini appena nati come prolungamento di se stessa facendone suo anche l’odore. Noi riconosciamo i nostri bambini, non possiamo perderli; per gli animali, invece, è proprio l’odore a fare la differenza, questo viene infatti memorizzato dalla madre che saprà così tornare dal proprio piccolo per nutrirlo.
Succede soprattutto in mare dove è facile perdersi o allontanarsi un po’ troppo dai figli ,che richiamano le madri quando sono affamati; quando queste tornano li odorano bene per essere sicure che i piccoli siano proprio i loro. Compito di ogni madre nelle prime fasi dello sviluppo del bambino è insegnargli a conoscersi partendo proprio dal corpo; ed ecco le mamme ad accarezzare i piccoli corpi dei neonati, toccarne i punti più nascosti mentre piano piano il bambino riconosce se stesso.
È identico il comportamento istintivo delle mamme del mondo animale che osservano i cuccioli e li accarezzano affinchè questi possano sentirsi e riconoscersi, diventare consapevoli di ciò che sono e sfruttare al meglio ciò che il loro corpo offre.

gatta-e-cuccioli

La dolce fase durante la quale il bambino sta per nascere e la cameretta è già pronta è identica alla preparazione di quel nido caldo al quale lavorano più famiglie di uccelli in attesa che le uova si schiudano.
Mentre gli uccellini escono dal guscio autonomamente, specie fin troppo diverse come maiali ed elefanti vengono assistiti durante la complicata nascita mentre i compagni aspettano poco lontano per accogliere insieme i nuovi arrivati tanto attesi.

 

 

 

 

Il personaggio dell’anno stavolta non è umano.

 

Chi è il personaggio dell’anno del morente 2023? La ditta umana non ha sfornato quest’anno un protagonista assoluto, ma tanti deuteragonisti, e tanti scomparsi. Sicché, se vogliamo essere obiettivi e universali dobbiamo ammettere: il personaggio globale dell’anno è I.A. che non è il raglio di un asino, ma l’Intelligenza Artificiale. E’ lei, è essa, è costei, non so come definirla, la vera regina dell’anno che si spegne e forse non solo di quello. Mai si è parlato di Intelligenza Artificiale come in quest’anno, anche se la Signorina imperversa ormai da alcuni anni. Mai si è scritto, detto, benedetto e maledetto tanto intorno a lei e alla Sostituzione che tramite lei si sta compiendo della vecchia, sfatta umanità, cresciuta enormemente di numero, decresciuta di peso, per non dire di prestigio. L’umanità è finita tra asterisco e cancelletto, ovvero fuor di metafora da tastiera smartphone, tra la negazione della natura e l’adozione simbolica dell’asterisco per denotare la totale reversibilità, transitorietà e insignificanza dell’identità di genere; e la cancellazione della storia, della tradizione, della civiltà, della realtà. La prima si chiama in sigla schwa, la seconda nella formula magica di cancel culture, due forme parallele e convergenti di imbecillità autolesionista, e che siano parallele e al tempo stesso convergenti conferma la loro infondatezza e la loro stoltezza.
Ma il risultato finale di quell’idiozia doppia è che al posto dell’umanità, la protagonista assoluta dell’ultimo anno, con affaccio sul futuro, è l’Intelligenza Artificiale e il suo inserviente, il robot. Anzi, per essere precisi, l’umanità è schiacciata tra due follie: il macchinismo e l’animalismo. Stiamo diventando un ponte superfluo tra le due sponde: il robot e l’animale che ci sembrano meglio di noi.
Ho capito che siamo arrivati a un punto di non ritorno nella corsa verso il robot supplente che sostituisce l’uomo, quando ho visto che perfino i carabinieri hanno adottato Saetta, il carabiniere robot a quattro zampe, agile e disinvolto, in grado di fare le veci dei suoi colleghi umani, con una professionalità, una fedeltà, una precisione e un’abnegazione che non t’immagini. Cammina un po’ strano, il quadrupede tecnologico, sembra quasi un granchio di grandi dimensioni, seppure vestito con i colori dell’Arma. Ma è la rappresentazione in divisa dell’Intelligenza Artificiale nei secoli fedele. In altri tempi, quando imperversavano le barzellette sui carabinieri, avrebbero detto che la robotica vuole vincere facile se si propone di sostituire l’intelligenza di un carabiniere. Barzellette che hanno avuto successo finché erano considerate irriverenti e oltraggiose; ma da quando i primi a raccontarle sono diventati i carabinieri stessi, che hanno così dimostrato un sano senso dell’autoironia, si è capito che non avevano più ragion d’essere e di accanirsi con l’Arma. Però ora arriva Saetta e siamo punto e a capo.
A volte ho l’impressione che l’Intelligenza Artificiale si sarebbe comportata meglio in molte situazioni che stiamo vivendo, sostituendo leadership, governi, banchieri e militari; la stupidità intelligente dell’umanità a volte ti fa invocare i robot.
Giro intorno e ci scherzo su, preferisco andare sul paradosso per non dire la verità: ma l’egemonia intellettuale dell’Intelligenza Artificiale, giustamente indicata come il personaggio dell’anno, è una sconfitta che non ci dovrebbe rendere orgogliosi. Facile dire che comunque è un prodotto dell’uomo, e dunque la sua gloria è in realtà solo riflessa, secondaria, subordinata a coloro che l’hanno realizzata. Ma vedendo la progressiva espropriazione/abdicazione di funzioni, processi e pensieri, col relativo travaso dall’umano all’artificiale, hai la netta sensazione che d’ora in poi non ci chiederemo più di chi è figlia l’Intelligenza Artificiale, perché ormai è maggiorenne, adulta e in via di autonomia. L’Intelligenza Artificiale lascia la casa famigliare e va a vivere per conto suo, da single o insieme con altre intelligenze artificiali. L’apprendistato sta per finire, tra poco si metterà in proprio.
Qualcuno insiste a dire che noi abbiamo solo da guadagnarci, scaricheremo su di lei un sacco di funzioni, di compiti, di fatiche ingrate. Ma non avete capito che una volta svuotati di ogni mansione, missione, funzione, l’uomo sarà prima dipendente dalla prima e poi si renderà prima irrilevante, poi superfluo, infine dannoso, d’ostacolo all’espansione libera e possente dell’Intelligenza Artificiale.
Un tempo Lenin scriveva che il capitalismo avrebbe offerto al proletariato la corda con cui farsi impiccare. La storia non è andata proprio così, ma non è impossibile immaginarsi che l’uomo stia fornendo all’Intelligenza Artificiale, il tasto, il chip, con cui verrà cancellato.
Ci sarà un momento in cui non ci accorgeremo più di questo processo, non sentiremo il bisogno di denunciarlo e nemmeno di comunicarlo: quel momento indicherà lo switch off, ovvero il passaggio dall’umano-naturale all’artificiale-tecnologico, il momento in cui si spegnerà l’umano e il suo posto verrà preso dall’IA. Ma appena avverrà avremo smesso di preoccuparcene, perché sarà disattivata la nostra facoltà critica, previsionale, oltre che la nostra capacità di guidare il processo, di orientarlo.
No, non c’è fatalismo in quel che dico, e non c’è nemmeno luddismo né odio e paura ancestrali per la macchina e per il futuro.
Non c’è nemmeno la convinzione che l’Intelligenza Artificiale sia un male. Al contrario, i risultati che stiamo ottenendo suo tramite sono prodigiosi, molti vantaggi di cui già usufruiamo, sono indubbiamente positivi. No, quel che più ci preoccupa non è l’avanzata dell’intelligenza artificiale ma la ritirata dell’intelligenza umana. Non siamo in grado di governarla. Ne spiegheremo meglio il senso prossimamente. Intanto approfittando dell’allegria natalizia  festeggiamo IA, personaggio dell’anno.

Però se mi ferma il brigadiere Saetta parlo solo in presenza di Alexa.

Marcello Veneziani             

…e per fortuna non ho perso la fede.

Ho conservato la fede. Dopo la messa di Natale, la peggiore messa di Natale della mia vita: bonghi africani, chitarre americane, predica pronunciata in mezzo ai banchi, alleluia con battiti di mani e rotear di braccia. L’oscena coreografia è stata il momento più turpe (io sbigottito, impalato) di una messa cattoprotestante stile Anni Settanta, assordata da “sottoprodotti sotto-Sanremo” come li chiamava Arbasino. Con un tocco contemporaneo, genderista, rappresentato dalla chierichetta dai lunghi capelli. Più volte ho pensato di uscire ma rischiavo di non trovare altre messe e recare un ulteriore dispiacere a Gesù, già tanto offeso da tanta dissacrazione. Allora ho pregato affinché a bonghista e chitarrista si paralizzassero le mani, ai coristi le corde vocali, alla chierichetta venisse un attacco di diarrea, al celebrante di afonia… Non metterò più piede in quella chiesa (non la nomino perché lo sfacelo della liturgia è generale e perché i parroci sono spesso trascinati dai parrocchiani: la Chiesa puzza sia dalla testa, Papa Francesco, sia dalla coda, i coristi cattochitarristi). Ma ho conservato la fede. Ho troppo bisogno di quel Bambino in cattive mani.

https://www.ilfoglio.it/preghiera/2023/12/27/news/la-peggiore-messa-di-natale-della-mia-vita-6046943/

Grande aristo-sodale tra tanta plebaglia, Camillo Langone.

E‘ da una vita che si assiste a questo degrado, a questo sciogliersi nel finto sociale soviet perdendo ogni caratterizzazione e ogni senso, sempre peggio, purtroppo non limitatamente ai “sottoprodotti sotto-Sanremo”. L’unica cosa non ipocrita è che Dio non lo nominano manco più, in quei consessi là dentro. Giustamente si vergognano.

In stazione.

 

La stazione

 

Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire
all’ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.
E’ scesa molta gente.

L’assenza della mia persona
si avviava verso l’uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L’insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.

E’ avvenuto perfino
l’incontro fissato.

Fuori dalla portata
della nostra presenza.

Nel paradiso perduto
della probabilità.

Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole

Wislawa Szymborska

 

in stazione

Torniamo al mondo piccolo di casa nostra…

Com’era piccolo il mondo ai tempi in cui nacque Gesù Bambino. Era piccolo anche mille e duecentoventitré anni dopo, quando san Francesco a Greccio inventò il presepe, giusto otto secoli fa. O quando Dante scrisse la storia universale di tutti i tempi e dell’umanità, parlando in realtà quasi sempre di vicende accadute tra la Toscana e dintorni e trasferite in cielo o negli inferi. Era un microcosmo ancora piccino, entrava tutto in uno sguardo, come nel presepe; la terra era al centro dell’universo, il sole la riscaldava e la luna vegliava la notte. Il sole paterno, la luna materna, tutto era in famiglia. E al centro la terra, come il Bambino tra il padre e la madre, l’asino e il bue, e un piccolo popolo che andava da Lui. L’intero universo convergeva a Betlemme, ombelico del mondo. La terra era poco abitata, le città erano rare, le altre poco più che villaggi. Un impero che sembrava dominare la terra, valicare i monti, attraversare i mari, era in realtà un centro abitato in mezzo alla natura, una civiltà circondata dall’ignoto.  Il lontano era rappresentato dai Re Magi che  venivano da terre remote, ma in fondo non molto lontane, a testimoniare che tutto l’universo si dava appuntamento in un luogo, che si pensava cruciale per l’intero creato, ed era solo un punto illuminato immerso tra ombre sconfinate e oscuri cammini. Altri continenti restavano ignoti. Un punto di raccolta ben indicato dalla segnaletica celeste, raggiungibile attraverso il primo navigatore satellitare e terrestre, la stella cometa, che guidava verso quella meta. Le stelle in quel tempo punteggiavano il cielo, quasi affabili, raccolte intorno alla terra per accudirla e decorarla; e si facevano ancora più splendenti per incoronare il piccolo Re del mondo, disceso dai cieli in una grotta della Palestina.  Le distanze non erano siderali, l’infinito era un modo di dire che indicava le vie del Signore, che aveva mandato dal cielo in terra Suo Figlio, a mostrare la contiguità dei due mondi, il rapporto filiale dell’una dall’altro. Quel piccolo mondo non era affatto perfetto, era povero e crudele, a volte cruento, ma tutto sembrava a portata di mano, anche la morte e la santità erano di casa, si viveva di vicinanza. Poi si è perso quel mondo piccolo e circoscritto scagliato come una biglia tra le galassie, smarrito tra pluriversi e tempi infiniti. Tutto è svanito nella solitudine cosmica dove il tutto è niente, solo un minuscolo frammento di tempo e di spazio sperduto nell’immensa amnesia di astri, costellazioni, miliardi d’anni e pianeti. E la vita umana, la vita terrestre si riduceva a una piega trascurabile dell’universo, un lembo sottile e passeggero, come una virgola nell’infinito. Il mondo era piccolo, allora, e non conosceva altri mondi e altre vite, oltre quella che si chiamava storia dell’uomo.  Non era il piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro e nemmeno il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che alludevano uno al piccolo mondo di ieri, l’altro al mondo paesano, della provincia padana. Ma era il mondo intero a essere piccolo agli occhi di chi ci viveva dentro. E il presepe ne era la rappresentazione, la mappa. Perduto quel piccolo mondo raccolto intorno a un evento divino ma familiare, venne lo spaesamento, la fluttuazione gratuita tra essere e sparire. L’infinito è il Niente. La fisica ha ingoiato la metafisica, il buio ha inghiottito la luce, il caos ha risucchiato l’ordine del mondo; tutto svanisce negli interminati spazi e nei sovrumani silenzi, e dissolve quel presepe vivente e morente che sembrava al centro di tutta l’esistenza dell’uomo, della storia e della natura. La perdita del centro produsse effimere illusioni policentriche e poi onnicentriche, fino a che si colse la vanità di ogni confine e l’evanescenza di ogni centro. Estraneità incommensurabili, l’immenso vanifica il concreto a noi più vicino. La ricerca oltre gli spazi domestici deve continuare, la sete di conoscere è necessaria e feconda, l’esplorazione di mondi sconosciuti, l’avventura del sapere nell’ignoto non deve fermarsi; ma non può diventare il buio la misura della luce, l’infinito la misura del finito, il non essere la misura dell’essere. Altrimenti ci disperdiamo nel vuoto e nel nulla. Bisogna che il mondo resti dentro la sua misura confacente. Il piccolo, nella sua prossimità, è l’autentico, il genuino, l’identità. Per continuare a vivere, a credere, a pensare e sperare, forse dovremmo, dico forse, fermarci dentro quei limiti, non scrutare gli abissi, accettare di vivere dentro il nostro orizzonte, ancorarci alla realtà, alla natura e ai suoi confini; non siamo déi ma uomini, mortali e imperfetti. Facciamoci bastare quel mondo, quella vita, quel presepe, quella carezza, quel Bambino. E più non dimandate . I greci saggi avevano orrore per l’infinito (Apeiron) e figuravano la perfezione come un cerchio e non una retta che si perde nell’infinito come si perde la mente nella notte della pazzia. Ritenevano che la peggiore insolenza dell’uomo fosse l’hybris, la tracotanza smisurata che rende superbi e poi dementi. Non misurate la realtà coi desideri illimitati. La civiltà è un perimetro delimitato dai propri confini, non solo geografici, e dal proprio cono di luce. Salvo gli ardimentosi esploratori e le loro missioni nell’ignoto, la vita è accettazione saggia del nostro destino e dei suoi limiti. Amor fati.  Perciò conviene ripartire dal piccolo, riprendere a pensare e a vivere nella prossimità, nella realtà accessibile, tra mete raggiungibili e illuminate, in un mondo amico, vicino e comprensibile, alla nostra portata. Dovremmo forse, dico forse, rientrare in quell’habitat, accettare quel che avemmo in sorte, abbracciare i presenti, ricordare gli assenti. Rientrare nel presepe, trovare il nostro posto, riconoscere gli altri, riaffermare la vicinanza, assumerci il fardello che ci tocca in sorte. Ripartire dal piccolo, come il Bambino, ritornare alla prossimità, ritrovarsi in un mondo che non è aperto all’infinito, ma alle vicine latitudini, nella comune finitudine. L’infinito lasciamolo all’infinito; noi torniamo a casa, per Natale.

Marcello Veneziani 

Elogio del presepe…

Ottocento anni fa, in vista del Natale dell’anno di grazia 1223, Francesco d’Assisi a Greccio mise al mondo il primo presepe. Era vivente, una rappresentazione teatrale sacra; poi sarebbero venuti i personaggi, le icone, i paesaggi ricostruiti, le belle statuine dei presepi nati dall’artigianato devoto. Il presepe è la rappresentazione più viva e compiuta della comunità cattolica, della famiglia cristiana, della coralità italiana. I più acuti e i più ottusi diranno in coro che il presepe è la sintesi domestica di Dio, patria e famiglia. Perché celebra in modo tenero, casereccio, concreto l’amor di Dio, il senso religioso della vita e l’evento più importante per la storia della cristianità; perché è un frutto della nostra naturale, italica socievolezza, della nostra fantasia domestica e dell’arte di arrangiarsi nonché del nostro senso estetico, scenico e teatrale; infine il presepe è famiglia, narra della sacra famiglia, e fa famiglia in casa. Per lunghi anni ha serpeggiato un bipolarismo natalizio tra i fautori del laico, nordico, protestante e ora green albero natalizio e del cattolico, personalista e comunitario, mediterraneo e sudista presepe; fino a che non si è insinuata la tendenza filantropica, inclusiva, verde e umanitaria, di bocciare ambedue perché offenderebbero sensibilità atee o religiose differenti, escludendo i non cristiani; in più è il segno di uno scempio ecologico se l’albero issato in casa non è sintetico ma è rubato alla natura.  Anni fa spiazzò la confessione di Umberto Eco: da ragazzo, confessò, faceva la Madonna nel presepe vivente del suo paese. Ho l’impressione che avesse continuato a fare la Madonna nel presepe intellettuale del nostro Paese. Spero che non avesse già la barba all’epoca in cui interpretava il ruolo della Santa Vergine. Ma non lo faceva per devozione o spirito natalizio, ammise; solo per vanità e privilegio, per stare al centro dell’attenzione e al riparo della grotta.  Amo il presepe ma non quello vivente; capisco quelli che si tramandano da tempo, ma quei festini in maschera sponsorizzati dalla pro loco e dalle associazioni umanitarie, danno un po’ fastidio. In primo luogo stridono col presepe morente del Medio Oriente, dove le grotte e i cunicoli sono abitati dai terroristi e Betlemme è zona di guerra. I presepi viventi animano poi una gara campanilista ma soprattutto sono concepiti come piccole orge di retorica umanitaria: il presepe è un piccolo congresso delle nazioni unite, i Re Magi sembrano rappresentanti di Ong o Amnesty International, i pastori sfilano come in un corteo pacifista, san Giuseppe è una specie di Casarini dell’antichità, la Madonna una hostess multilingue e magari pure fluida, della società multirazziale e multisessuale; e il Bambino se è di colore vale il doppio. Ma se è nato in provetta, con l’utero in affitto, è ancora meglio. Gli angeli svolazzanti sulla grotta sono una via di mezzo tra i caschi blu e il gay pride, con quell’alone transessuale, variopinto, con polvere bianca, da paradisi artificiali. Il presepe diventa un pretesto per piazzarci la solita stucchevole menata sulla pace, l’antirazzismo, Buone Parole e Tutti Fratelli, dimenticando il miracolo della Santa Natività. Come i bambini, nei presepi viventi anch’io sono attratto dal bue, dall’asino, dalle galline e dal cammello, piuttosto che dalla sacra famiglia, di cui si avverte la finzione, ridotta a una specie di stand filantropico-turistico in costume. Gli animali invece non fingono.

Il presepe che portiamo nel cuore è quello dell’infanzia, con l’ovatta per la neve, la carta d’imballaggio per le montagne, i laghetti ricavati dagli specchietti della vanità femminile e il muschio rubato dai cortili. Era un piccolo miracolo di edilizia sacra, di urbanistica domestica a sfondo infantile e religioso, dai risultati goffi e commoventi. Ricordo i personaggi raccogliticci: i re Magi, per esempio, erano tre ma due appartenevano a una collezione e il terzo a un’altra più bonsai, sembrava un nano imbucato. Poi due arrivavano col cammello, il terzo a piedi; sarà arrivato con l’autostop, in taxi o in autobus? Impressionava Gesù Bambino che era un bambinone più grosso di sua Madre e, quel che più impressionava, perfino del bue e dell’asino. A san Giuseppe si spezzava ogni Natale il bastone ed era sempre in riparazione; si rimediava col fil di ferro. Di Madonne ne avevamo tre, come le Marie del panettone; le altre due erano mescolate tra i pastori ma stavano lì in lista d’attesa; in caso di necessità si rendevano disponibili, come dicono le hostess per le maschere d’ossigeno. Tra i personaggi c’era un venditore di cocomeri clamorosamente fuori stagione; ma se è per questo i personaggi erano per metà vestiti d’estate e per metà d’inverno. I primi erano giustificati dal luogo (è pur sempre continente africano), i secondi dal tempo (è pur sempre dicembre). Nel presepe c’era quasi sempre un infiltrato, un personaggio fuori tempo, magari vestito con abiti borghesi dei nostri giorni, forse un agente del Mossad. Ricordo la difficoltà di sospendere in alto la stella cometa, attraverso fili invisibili che tanto invisibili non erano. Più drammatico era piazzare sulla grotta i due angioletti che sistemati precariamente cadevano in continuazione provocando stragi di papere e pastori, giustamente protestanti verso i due involontari terroristi caduti dal cielo. Era un po’ grottesco il presepe domestico, così raffazzonato. Ma emanava calore umano e davvero sembrava che in quei giorni ad abitare la casa non fossimo solo noi della famiglia.

Marcello Veneziani                                                                                                               

Forse non basta la voglia di amare…

 

Non si può amare solo con la voglia di amare.
Con il voler amare.
Con il voler restare.
Con il crederci.
Con io lo amo.
Perché poi non basta.
Non regge.
L’amore non basta per amare.
Bisogna che ci sia la storia, per amare.
La vita, per amare.
Non bastano le parole, per amare.
Neanche quelle giuste, bastano.
Neanche le parole d’amore
bastano per amare.
Dobbiamo fare una passeggiata.
Dobbiamo cenare insieme.
Leggere un giornale.
Andare a fare la spesa.
Fare una cosa insieme.
Che sia nostra.
Che siamo noi.
Io e te.
Non basta fare sesso per fare l’amore.
Anzi.
Ci vogliono i baci.
Ci vuole anche solo stare con la fronte appoggiata alla fronte.
Per amare ci vuole una storia.
Da vivere.
Vissuta.
Ci vuole tempo.
Non puoi non esserci mai.
Per amare ci vuole una storia.
Da fare e raccontarsi.
Non puoi non aver voglia di parlare.
Non puoi parlare sempre.
Una storia da fare insieme.
Non puoi trovare tutto pronto.
Arrivare quando tutto è fatto.
Io amo solo chi fa la giornata con me.
Chi fa la vita con me.
Chi fa la spesa con me.
Chi fa una passeggiata con me.
Chi fa tempo con me.
Chi fa storia con me.
Non amo se no.
Amo solo chi sa stare tutto con me.
Chi parla con me.
Chi torna da me.
Chi chiama per non dire niente.
Chi mi bacia la testa, tra i capelli,
passandomi vicino.
Chi mi porta i capelli indietro.
Io non le voglio le romanticherie.
Voglio le cose che sono nella mia giornata.
le voglio con te.
Fatte con te.
Raccontate a te.
E poi ti racconto le cose solo mie.
Che faccio io.
Entro e esco dalla tua vita.
E tu dalla mia.
Come l’ago che cuce .
Come l’ago che per unire, entra e esce.

Mauro  Leonardi

 

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Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù di F.Dostoevskij. (seconda parte)

 

Il bimbo fugge via e corre, corre senza sapere dove va. Avrebbe voglia di piangere, ma ha paura e continua a correre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo assale poiché all’improvviso si è sentito così solo, così pieno di paura. E poi, di colpo, oh Signore, ma che c’è ancora di
nuovo? Una folla di persone osserva rapita: dietro il vetro, sulla finestra, vi sono tre piccoli automi, vestiti di rosso e di verde, e sembrano quasi vivi!
Uno è un vecchietto seduto che pare intento a suonare un grosso violino, mentre gli  altri stanno in piedi e suonano dei piccoli violini, dondolando a tempo la testa e  guardandosi l’un l’altro, e muovono le labbra proprio come se parlassero, solo che  dal vetro non si ode nulla. E il bimbo da principio ha creduto che fossero veri, ma  poi ad un tratto ha capito che si trattava di automi ed è scoppiato a ridere. Non aveva mai veduto bambole simili e non pensava neppure che potessero esistere!
Avrebbe voluto piangere, ma era così buffo guardarli! All’improvviso gli sembrò  che qualcuno lo afferrasse per la camicina: un ragazzaccio cattivo lo colpì alla testa  e gli strappò il berretto, facendogli lo sgambetto. Il bimbo ruzzolò a terra, intorno si  udirono delle grida, lui rimase inebetito, e poi balzò in piedi e corse via; senza  rendersene conto, entrò di corsa dentro un portone, in un cortile sconosciuto, e si sistemò su un mucchio di legna. «Qui non mi troveranno, e poi è buio.»
Sedeva tutto rattrappito, senza riuscire a riprendere fato dalla paura, ma tutt’ad un
tratto si sentì così bene le manine e i piedini non gli facevano più male e avvertiva  un tale senso di tepore, come se si fosse trovato sopra una stufa; ma poi prese a  tremare tutto. Ah, già, si era quasi addormentato. Come era bello addormentarsi lì!
«Rimarrò per un po’ e poi andrò di nuovo a guardare gli automi», pensò il bimbo e  sorrise, rammentandosene: «parevano proprio vivi!…» E all’improvviso udì sopra  di lui la voce della sua mamma che gli cantava una canzoncina: «Mamma, sto dormendo. Ah, come è dormire qui!».
«Vieni da me a vedere l’albero di Natale, piccino» bisbigliò ad un tratto una voce sommessa sopra di lui.  Dapprima pensò che fosse stata la mamma a parlare, ma no, non era stata lei; non  riusciva a vedere chi l’avesse chiamato, ma qualcuno si era chinato su di lui e lo aveva abbracciato nel buio e lui gli aveva teso la mano… e poi d’improvviso, che luce! Che albero di Natale! Ma no, non era neppure un albero di Natale, non aveva mai veduto prima di allora alberi simili! Dove si trovava? Era tutto un brillio di luci e vi erano bambole ovunque, anzi no, si trattava di bimbi e di bimbe, ma erano così luminosi, gli vorticavano intorno, volando, e lo baciavano, lo afferravano e lo trascinavano con loro, anche lui volava. E vedeva la sua mamma che lo osservava e rideva gioiosa.
«Mamma! Mamma! Oh, com’è bello qui, mamma!» gridava il bimbo,mentre
scambiava dei baci con gli altri bambini, e avrebbe voluto subito raccontare degli automi che aveva scorto dietro il vetro. «Chi siete, bimbi? Bimbe, chi siete?» chiedeva ridendo, pieno d’amore per loro. «È l’“albero di Natale di Gesù”» fu la loro risposta. Gesù in questo giorno ha sempre un albero di Natale per i piccoli che non ne hanno uno…» E scoprì che tutti i bambini erano proprio come lui, ma che alcuni di loro erano morti assiderati sulle scale davanti alla porta di qualche impiegato di Pietroburgo dentro le ceste in cui erano stati abbandonati, e che altri, affidati dall’orfanotrofio, erano stati soffocati dalle balie, o ancora che erano morti al seno inaridito delle loro madri o nel fetore di carrozze di terza classe, ma ora tutti erano lì, come angeli, da Gesù ed egli era fra di loro, tendeva loro le braccia e benedice loro e le loro madri colpevoli… E anche le madri si trovavano lì in disparte e piangevano, riconoscendo ciascuna il proprio bimbo o la propria bimba che andavano verso di loro e le  baciavano, asciugavano le loro lacrime con le manine, scongiurandole di non  piangere, poiché si stava tanto bene lì…
Mentre laggiù verso il mattino i portieri ritrovarono il cadaverino di un bimbo capitato lì per caso e morto assiderato dietro un mucchio di legna; rintracciarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui: si erano ritrovati in Cielo dal Signore Iddio.
Perché mai avrò scritto una storia come questa, così poco adatta ad un normale ragionevole diario, e ancor meno a quello di uno scrittore? E dire che avevo promesso dei racconti su fatti realmente avvenuti! Eppure, ecco, ho come l’impressione che tutto ciò sia potuto accadere davvero; mi riferisco a quel che è avvenuto in cantina e dietro il mucchio di legna, quanto all’albero di Natale da Gesù non saprei dirvi se sia andata proprio così! Ma non per nulla sono un romanziere e qualcosa devo pur inventare!

dal Diario di uno scrittore, gennaio 1876

feste natalizie

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù, di F.Dostoevskij.

 

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù

Ma io sono un romanziere e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.
Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fluire questo vapore dalle labbra  si diverte a guardare come vola via.
Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà  finita lì?
Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era
improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste  ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre
per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. «F proprio freddo qui» pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini pe riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti
alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.
Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai
cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo. Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e
fumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla.  (continua)

dal Diario di uno scrittore, gennaio 1876   

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