Prima di me non sono geloso…

Sempre – Pablo Neruda

Prima di me
non sono geloso.
Vieni con un uomo
alla schiena,
vieni con cento uomini nella tua chioma,
vieni con mille uomini tra il tuo petto e i tuoi piedi,
vieni come un fiume
pieno d’affogati
che trova il mare furioso,
la spuma eterna, il tempo!
Portali tutti
dove io t’attendo:
sempre saremo soli,
sempre saremo tu ed io
soli sopra la terra
per iniziare la vita!

 

jack vettriano

Elegia___Jack Vettriano
Siempre   Pablo Neruda

Antes de mí
no tengo celos.
Ven con un hombre
a la espalda,
ven con cien hombres en tu cabellera,
ven con mil hombres entre tu pecho y tus pies,
ven como un río
llena de ahogados
que encuentra el mar furioso,
la espuma eterna, el tiempo!
Tráelos todos
adonde yo te espero:
siempre estaremos solos,
siempre  estaremos tú y yo
solos sobre la tierra
para comenzar la vida.

La società senza eredi…

Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente da nessuno, non lasceremo eredità di niente a nessuno. È questa, per dirla in breve e in modo diretto e brutale, la fotografia della nostra condizione oggi. Ogni vita è un fatto a sé. La sconnessione dal prima e dal poi riguarda in varia misura e a vari livelli di consapevolezza ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Anche la politica schiva o rinnega le eredità. Restano in politica come nel commercio marchi inanimati e sbiadite icone, ma nulla che somigli a un’eredità. Per la prima volta nella storia dell’umanità, o almeno della storia a noi nota, viviamo in un’epoca senza eredi. O quantomeno è la prima a non riconoscere alcuna eredità come valore da custodire e da trasmettere. La prima epoca ad avvertire, come Re Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio; finirà con noi il mondo nostro. Dopo di noi nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà qualcosa della nostra eredità; non lasceremo tracce, tutto sarà cancellato dall’acqua e dal vento. L’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza ogni cosa. È il coerente epilogo di una società senza padre, poi diventata società senza figli, una società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei nonati, per via della denatalità e dell’aborto. L’epoca del nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla.  A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Verrà al più estratto da quel patrimonio il loro valore venale e mercantile, verrà cioè quantificato e svenduto ciò che ha valore commerciale; se privo di valore economico occorrerà disfarsene nel modo più rapido e indolore, sarà un’opera da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciar traccia di sé. Lo statuto di eredi vale finché si è dal notaio, ovvero fino alla commutazione delle intenzioni testamentarie in beni da usufruire. In ogni campo ha valore positivo ciò che non è ereditato e non lascia eredità, ciò che è nuovo, senza precedenti o destinato a sorpassare e far dimenticare ogni antefatto. In politica ogni leader e ogni movimento deve presentarsi come nuovo, deve effettuare radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da scheletri nell’armadio, ingombranti eredità da cancellare. Nuove app ci attendono, non è più tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. La tecnica ci dispone di continuo verso l’aggiornamento.  Allo stesso modo sono disconosciuti i maestri, perché non ci sentiamo eredi e continuatori della loro opera e della loro lezione, non hanno da insegnare nulla perché provengono da tempi arretrati rispetto al nostro, con tecnologie decisamente superate. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro o insegnarci qualcosa di adeguato al mondo che verrà.  Del passato viene salvata solo la memoria delle vittime, però non è un’eredità da salvaguardare e da continuare, ma vale a contrario come un monito per non ripetere quegli e/orrori. La memoria delle vittime è un atto d’accusa e di rigetto dell’eredità dei carnefici.   Come si manifesta sul piano generazionale la fine delle eredità? In primis non si fanno più figli; se ci sono partono, lasciano la casa e la città familiare, cambiano orizzonte. E se non partono si diseredano da soli, si allontanano con la mente e col cuore, reputano che vivere sia emanciparsi da chi li ha messi al mondo. Non mancano eccezioni, e non sono neanche rare; ma la tendenza generale, lo spirito del tempo, è quello. Niente eredi. I paesi si svuotano, non c’è ricambio, le famiglie sono sull’orlo dell’estinzione dalla denatalità e dall’emigrazione; presenze secolari spariranno nel volgere di pochi decenni; al più resterà dispersa nell’altrove una spaesata disseminazione. I nostri contemporanei si sentono figli del loro tempo più che dei loro genitori o dei loro paesi d’origine e dei loro maestri. Si sentono autoprodotti, si pensano autocreati, ritengono – anche se poi non è vero- di fabbricarsi e autogestire per intero la propria vita   . Di conseguenza non si tramanda più niente, l’infedeltà diventa un valore e un atto di autonomia, tutto si rende obsoleto in fretta: dall’obsolescenza programmata degli oggetti all’obsolescenza integrale e inesorabile dei soggetti, che sopravvivono solo se sono fluidi, geneticamente modificabili, mutanti.  Altra conseguenza del rifiuto dell’eredità: non vale la pena ricordare, o peggio nutrire nostalgia del passato e di chi non c’è più; tempo perso, vano esercizio, grottesco spiritismo contro il procedere ineluttabile della vita. Anche per questo si interrompe la trasmissione di saperi, principi, pratiche, consuetudini, esperienze: tutto ciò un tempo si chiamava tradizione era fondata su un principio di eredità biunivoca, ossia ricevuta e consegnata, che sintetizzo nello status di “eredi gravidi”. Il passato è privo di valore e significato, va cancellato, rimosso, maledetto, superato; tutto è accelerato, meccanizzato e sostituito. Non si trattiene nulla, tantomeno il senso della continuità.  Ogni vita finisce su un binario morto, non proviene da nessun luogo e non continua da nessuna parte. Benvenuti nella società senza eredi. Non resta che confidare nell’imprevisto, nell’ignoto, nella pietà, nei tornanti. O nel miracolo di imprecisati dei.

 Marcello Veneziani

Un eroe della cultura al cospetto della natura…

 

Manuel Escribano, il matador andaluso che a Siviglia, dopo essere stato incornato, ha preteso di essere operato in anestesia locale per tornare subito nella plaza de toros.

Leggo nomi di candidati alle elezioni europee, non leggo nomi di persone che ammiro. Forse è soltanto matematica: ammirando poche persone è improbabile che un ammirato finisca in lista. Ma io, poi, chi ammiro? Avendo poca ammirazione a disposizione non vorrei sprecarla con un politico. Meglio un torero. Meglio Manuel Escribano, il matador andaluso che a Siviglia, durante la Feria de Abril, dopo essere stato incornato ha preteso di essere operato in anestesia locale per tornare dopo sole due ore nella plaza de toros. Con la divisa de oro distrutta e i pantaloni rimediati. Nuovamente inginocchiato davanti alla buia porta dei tori, soltanto il mantello rosso fra il corpo martoriato e le corna affilate. Un eroe della cultura al cospetto della natura. La tauromachia come opposto della democrazia: non numero, valore. Manuel Escribano come grande uomo e dunque uomo che non andrà a Bruxelles. Resterà in Andalusia a insegnare lo stile e il coraggio e l’importanza di farsi il segno della croce nei momenti cruciali.

Camillo Langone __da IL FOGLIO

 

torero

Una favola indiana molto antica…

 

C’è una storia indiana antica che riguarda tre fratelli che mi piace raccontarvi:
Si narra, infatti, che alla morte di un vecchio pastore i suoi figli stavano discutendo su come dividersi l’eredità.
Un vecchio saggio, che passava di lì per caso,
udì i ragazzi litigare in maniera piuttosto animata e chiese se potesse essere loro di aiuto in qualche modo.
Fu il primo dei fratelli a rivolgersi al vecchio in modo pacato e rispettoso: “Nostro padre, prima di morire, ci ha lasciato le sue ultime volontà, ma noi non siamo in grado di adempierle. Poco prima di esalare l’ultimo respiro, infatti, lui espresse il
desiderio che la metà del suo bestiame venisse
data a me, che sono il primogenito; un terzo del gregge, invece, doveva passare a mio fratello Hasan, mentre al più piccolo dei figli, Hasin, doveva toccare la nona parte degli animali.
Ora, il problema è questo: nostro padre ci ha
lasciato in eredità diciassette cammelli. Come
facciamo a dividerli a metà? A mio giudizio,
sarebbe meglio vendere uno degli animali e poi
ripartire il ricavato della vendita, prima di
dividerci il resto del gregge, ma i miei fratelli non sono d’accordo”.
A questo punto, il secondo dei due fratelli
esordì: “Mio fratello Husain parla bene, perché è stato maggiormente beneficiato dall’eredità.
Secondo me, egli dovrebbe rinunciare ad una parte della sua quota per favorire i fratelli minori. Inoltre, questo non è certo il momento
migliore per vendere i cammelli al mercato: non
ne ricaveremmo certo un buon prezzo”.
A questo punto prese la parola Hasin, il più
giovane: “E’ per questo motivo che avevo suggerito di macellare uno dei cammelli e di offrire un solenne banchetto in onore di nostro padre, ma i miei fratelli non sono d’accordo, perché non intendono mantenere gli scansafatiche del paese”.
Husain sguainò un coltello da macellaio e
prese nuovamente la parola: “Io non vedo
alternative; dobbiamo tagliare a metà almeno una delle bestie e dividerci i resti”.
Il vecchio saggio sorrise e commentò con
tono bonario e paterno: “Voglio aiutarvi; anche io possiedo un cammello e, per agevolarvi a fare la divisione, intendo farvene omaggio. In questo modo, non dovreste avere problemi a fare le parti, rispettando la volontà di vostro padre che avrebbe certamente desiderato che voi andaste sempre d’amore e d’accordo”. I tre fratelli, lusingati da quella proposta così
generosa, accettarono ed iniziarono a dividere il gregge. Al maggiore dei figli, Husain, toccò la metà del gregge, vale a dire nove cammelli; ad Hasan spettarono invece sei animali, pari ad un terzo dei beni dell’eredità; Hasin ebbe invece la nona parte del bestiame e portò con sé due cammelli.
Al termine della divisione avanzava però un
cammello; ragion per cui, il vecchio saggio esibì il sorriso più solare di cui era capace, risalì sulla sua cavalcatura e salutò amabilmente i tre fratelli,
felici di aver adempiuto alle ultime volontà del padre.

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Quando ci sarà la vera liberazione dal fascismo?

Sarà davvero una festa, il 25 aprile, quando avverrà sul serio la Liberazione dal fascismo. Definitiva, irreversibile, generale. A ottant’anni meno uno dalla sua fine, sogno una cosa che ci è stata finora negata: la cessazione di questa gogna permanente, di questo discrimine perenne e manicheo, di questa divisione ideologica dell’umanità in giudicanti e giudicati che ci portiamo addosso da quattro ventenni nel nome di uno, con un accanimento via via crescente con gli anni, anziché decrescente, come sarebbe naturale con la morte dei protagonisti, l’allontanarsi nel tempo e lo stingersi delle passioni. Fino all’assurdo dei finalisti dello Strega che leggono tutti insieme lo squallido monologo antifascista di Scurati contro il governo Meloni, come se fossero un soviet o un Intellettuale collettivo con un solo cervello (bacato). Così usato, l’antifascismo diventa un codice immorale e incivile che antepone all’intelligenza, al valore, al talento una sorta di rito preventivo e discriminatorio di affiliazione, a cui è obbligatorio uniformarsi. Altrimenti sei fuori.
Il fascismo non è più nella storia e nella realtà da ottant’anni e nessuna forza politica in campo ne rivendica l’eredità; chi ne stabilisce allora la persistenza, chi attribuisce e certifica la definizione di fascista? Lo decide a suo insindacabile giudizio una commissione politico-mediatica-intellettuale permanente, auto-nominatasi per autoacclamazione, che corrisponde alla sinistra. Qui c’è tutta la falsità, l’impostura, l’uso intollerante e paranoico, vessatorio e diffamatorio del fascismo.
La liberazione dal fascismo, per essere vera e compiuta, comporta naturalmente anche la liberazione dall’antifascismo che ha senso solo in presenza dell’antagonista, e non in assenza o addirittura post mortem.
Fascismo e antifascismo vanno restituiti alla storia, e anche nel giudizio vanno storicizzati, cioè depoliticizzati, sottratti all’agone della polemica attuale o caricati sulle spalle di posteri che non possono portarne il peso: non ha più senso applicare quel discrimine oggi, come non avrebbe più senso il discrimine tra comunisti e anticomunisti o tra democristiani e antidemocristiani oggi che il comunismo o la Dc non ci sono più, anche se sono rivendicati o rimpianti da taluni. Ma ancora più insensato è che sia una parte a imputare il fascismo a carico dell’altra, senza reciprocità, perché non è ammessa la facoltà inversa. Noi giudici, voi imputati, for ever.
Sul piano storico vanno distinti gli antifascisti veri che si opposero al regime fascista, come Matteotti, che meritano ogni rispetto e ammirazione, soprattutto se pagarono di persona; dagli antifascisti di comodo, a babbomorto, in pieno dominio antifascista, che si attribuiscono una superiorità etica e morale in suo nome; si arrogano il potere di essere perennemente giudicanti, officianti e sovrastanti nel nome assoluto della religione Antifa.
Ai loro occhi quelli che vengono accusati di fascismo non solo non hanno diritto di difendersi ma devono prendere gli schiaffi e dar ragione a chi li schiaffeggia, mentre li schiaffeggia. Altrimenti vuol dire che sono rimasti fascisti dentro o sotto la buccia.
Peraltro è ormai comprovato e assodato che l’accusa di fascismo rivolta al governo non porta alcun profitto politico-elettorale a chi la lancia, ma serve solo a consolidare una cupola di tipo ideologico-mafioso. Questa campagna anacronistica permanente non è infatti condivisa dalla gran maggioranza degli italiani, è un citofono interno al proprio condominio; funziona a circuito chiuso, non raggiunge gli italiani ma coloro che erano già mobilitati sul tema. Rovesciando ancora oggi le colpe del fascismo su chi è al governo non si colpisce il governo in carica, che su questi temi non perde affatto consensi; si fa solo un danno agli italiani che vedono posposti i problemi reali del presente al fittizio feticcio del Passato Proibito. Ma nel nome sacro e intangibile dell’antifascismo le camorre ideologico-letterarie preservano le loro posizioni di potere.
Il giudizio in merito a quel che accadde un secolo fa non può essere ancora lo spartiacque etnico prima che etico, antropologico oltreché ideologico, tra due mondi intesi come il regno del Bene e il regno del Male. E non può cancellare la preminenza e l’urgenza delle questioni reali del nostro presente. L’opposizione può attaccare il governo in carica sul modo di governare, sulle leggi che ha varato o vorrebbe varare, sul premierato e sull’autonomia differenziata, sulla giustizia sociale e sulla sicurezza, sulla gestione della pubblica amministrazione e sui temi cruciali dell’economia, sul ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, sulla nostra posizione nelle guerre in corso. I temi non mancano e le fragilità, le incongruenze, le inadeguatezze del governo offrono argomenti reali a chi si oppone. Ma su quei temi la sinistra gioca di rimessa e di rimbalzo, anche perché tutte le cose che sta facendo o non sta facendo la Meloni, le avrebbe fatte o non le avrebbe fatte, se non le ha già fatte a suo tempo, la sinistra al governo. A partire dalla politica estera. L’unica differenza è l’enfasi e la narrazione, ossia la giustificazione ideologica e la fiction che viene imbastita sopra. Al più è la cornice simbolica a differenziarle, non la sostanza. Rispetto a questa sinistra inchiodata al fascismo, perfino i grillini appaiono più seri del Pd & affluenti. Stanno sul pezzo e non sulla reliquia.
La cosa che più sconforta è che da anni denunciamo questo accanimento terapeutico su un cadavere ridotto in polvere e da anni lo scempio prosegue, imperterrito, anzi crescente; quanto più diventa irreale il tema tanto più cresce il pathos con cui viene guarnito.
Alla destra di governo invece dico: non è servito a nulla, come vedete, tutto il vostro atto di contrizione, tutti i santini che avete baciato e tutti i riti esorcistici a cui avete partecipato. Dopo la sequela di abiure, condanne, dichiarazioni frementi di antifascismo da parte vostra, l’accusa di fascismo nei vostri confronti prosegue inalterata. Non avete capito che le vostre parole non basteranno mai perché a decidere che siete comunque fascisti non sono le vostre dichiarazioni ma le loro attestazioni. E’ in mano a loro la sentenza, voi non potete far nulla. Perciò, smettetela di stare al loro gioco, tacete sul tema, rifiutatevi di replicare, di giustificarvi, di sostenere gli esami, ribellatevi alla camorra pseudo-intellettuale di sinistra e alla loro malafede, lasciateli parlare. Che si fottano; non hanno titoli per giudicare. Sarete giudicati dagli italiani per quel che fate e farete al governo e non per la vostra irrilevante opinione sul fascismo.

Marcello Veneziani                                                                                                                         

Da John Berger, “My beautiful”…complotto.

 

Il desiderio sessuale, quando è reciproco, dà vita a un complotto di due persone contro il resto dei complotti in atto nell’universo. È una cospirazione a due.  Il piano è offrire all’altro una possibilità di respiro in mezzo al dolore del mondo. Non la felicità, ma una sorta di sospensione fisica davanti all’enorme responsabilità dei corpi nei confronti del dolore. In ogni desiderio c’è tanta compassione quanto appetito. Entrambe le cose si complementano. Il desiderio è inconcepibile senza la ferita.  Chi vive senza ferite, vive anche senza desiderio. Il desiderio si propone di proteggere il corpo desiderato dalla tragedia che lo raffigura, e ancor di più, si sente in grado di farlo.  La cospirazione consiste nel creare insieme uno spazio, un luogo, necessariamente temporale, per esimersi dalla ferita inguaribile della carne.  Questo luogo è l’interno dell’altro corpo.  I cospiratori si perdono, ciascuno dentro dell’altro, dove nessuno potrà mai scovarli.

Il desiderio è uno scambio di nascondigli.

 

desiderio

L’amore non è già fatto. Si fa.

 

L’amore non è già fatto. Si fa.
Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, cucire.
Non è un appartamento “chiavi in mano”,
ma una casa da concepire, costruire,
conservare e spesso riparare.
Non è vetta conquistata, ma partenza dalla valle,
scalate appassionanti,
cadute dolorose nel freddo della notte
o nel calore del sole che scoppia.
Non è solido ancoraggio nel porto della felicità
ma è un levar l’ancora, è un viaggio in pieno mare,
sotto la brezza o la tempesta.
Non è un “si” trionfale,
enorme punto fermo che si segna fra le musiche,
i sorrisi e gli applausi, ma è una moltitudine di “si”
che punteggiano la vita,
fra una moltitudine di “no”
che si cancellano strada facendo.
Non è l’apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente
e lungo tragitto di fiume dai molteplici meandri,
qualche volta in secca, altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

 

Michel Quoist

love puzzle

Elogio dell’asino… articolo troppo bello, un peccato non condividere il mio scrittore preferito.

Ho trascorso un pomeriggio, una controra assolata di aprile, in una masseria pugliese a guardarci negli occhi e a studiarci con un’asina. Si chiamava Nina, dal pelo grigio-biondino e aveva nei suoi occhi qualcosa di arcaico, di naturale e di soprannaturale, superstite di un mondo perduto. Gli asini sono stati a lungo i più assidui compagni di vita e di lavoro. Ora sono spariti, incompatibili con l’età della tecnica. Abitavano il mondo magico delle origini, durato fino alla nostra infanzia, ne portavano il peso; oggi sembrano portarne il lutto. Antichi mezzi di locomozione e di trasporto merci, antenati delle moto e delle utilitarie, dei carrelli della spesa e dei trolley.
Animale evangelico, l’asino portò sul suo dorso il Figlio di Dio, nel giorno delle Palme, e pure sua Madre. Il suo raglio, sgraziato come il suo destino, la sua schiavitù senza riscatto, la fatica infinita come l’ingratitudine nei suoi confronti.
Figurava nelle favole di Esopo e di Fedro, si faceva asino d’oro nelle Metamorfosi di Apuleio; era con Zarathustra alla festa dell’asino, lui faceva il verso e ragliava I-A, che sarebbe poi diventato l’acronimo dell’Intelligenza Artificiale. A scuola, l’alunno ottuso e ignorante era definito somaro; due orecchie d’asino crebbero a Pinocchio quando disertò la scuola. La maestra, che insegnava l’umiltà, ci chiamava asinelli quando cominciavamo una frase con Io: “Io asino primo”, diceva; quell’I-O era per lei una variante del suo raglio e una spia della nostra presunzione. Anche il prof diceva che fare lezioni a noi studenti svogliati e disinteressati era come “un lavativo in culo al ciuccio”, cioè un’impresa inutile. Disprezzando le popolazioni dure di comprendonio, Federico II così motteggiava i sudditi di una cittadina pugliese: “gens bitontina tota asinina”.
Incapace di scegliere, l’asino finiva col morire perché non sapeva se prima sfamarsi o dissetarsi. E’ il paradosso di Buridano, usato da tanti filosofi, da Aristotele a Spinoza. L’asino veniva perfino accusato di bullismo vigliacco, sferrando un calcio al leone morente. Asino espiatorio, più del capro, caricarono sulla sua groppa e sulla sua fama troppi vizi e negatività degli umani. Lo adottò come simbolo il Napoli calcio, che un tempo aveva il cavallo, nobile retaggio del Regno borbonico. Ma la squadra, cent’anni fa, andava male e allora sorse la diceria che il suo testimonial più appropriato fosse il ciucciarello di Fechella, un venditore ambulante che aveva un somaro malridotto e scorciato. Ma col tempo il ciuccio diventò portafortuna per la squadra e fu amato come mascotte.
Anni fa sull’isola di Santorini ebbi un’avventura con un asino. Per salire dal porto al borgo non c’era che un mezzo, l’asino. Asini greci, per giunta; più antichi, più cocciuti e mitici degli altri, forse più astuti, più levantini. Montai sull’asino con qualche iniziale riluttanza che il somaro avvertì. Faceva un caldo feroce, e la povera bestia non se la sentiva di salire ancora una volta lungo il tortuoso cammino. Allora decise di farmela pagare. Faceva le curve larghe, strisciando il parapetto. Quando c’era il precipizio rasentava il burrone, per istigarmi al suicidio o per spaventarmi. Quando il tornante volgeva all’interno radeva la roccia per farmi strusciare la gamba e lacerarmi la gamba e il pantalone grigio-asino. A nulla valevano i tentativi di raddrizzarlo con le briglie, gli appelli e le mazzate. Alla fine, quando smontai dal suo dorso, emise un raglio di felicità liberatoria, a cui feci eco anch’io, adeguandomi al suo linguaggio. Fu la sua lotta di classe e di liberazione contro noi odiati turisti e parassiti. La sua gioia era l’assenza momentanea di fatica. Non chiedeva piacere, solo riposo. Gli asini, di notte, sognano altre notti.
I somari sono cavalli che non ce l’hanno fatta o che non si sono montati la testa. Il mulo tentò una mediazione equa, anzi equina. L’asino ricorda Poppea che faceva il bagno nel latte d’asina e Gina Lollobrigida popputa sull’asinello in Pane amore e fantasia. Gli asini portavano sul dorso i doni della terra. Ricordano le strade fuori dal tempo, gli alberi a cui si attaccavano per interminabile tempo, i silenzi della campagna divorata dal sole e animata dal vento. Vivono nei proverbi antichi, metafore viventi della stupidità umana. Gli asini svegliano l’eros in campagna, dove chi s’imboscava era “arrapato a ciuccio”. Evocano gli déi, sono figure mitologiche a cui la scomparsa dal mondo ha donato la grazia ulteriore dell’invisibile. Portatore ignaro di una sapienza che traspare dal suo sguardo ebete ma misterioso. Il suo fiato nella mangiatoia fu il primo climatizzatore dell’umanità, riscaldò Gesù e famiglia. Fu il primo strumento tecnologico, la prima scuola guida per donne e ragazzi prima di passare al cavallo; una specie di veicolo senza targa, di bassa cilindrata, rispetto alla berlina equina. E’ stato l’animale più utile e più maltrattato, più prezioso e più vilipeso, insieme al maiale. Ridicolizzato sul piano estetico, etico e intellettuale. Quanta santa modestia in quelle orecchie lunghe e basse: auribus demissis, dicevano i latini.
Ai bambini quando andava una bevanda di traverso, le mamme dicevano per far sollevare loro la testa: vedi l’asino che vola? Per non soffocare, anche ora dovremmo alzare lo sguardo e stupirci per l’asino che vola. Gli asini volano davvero, quando non li vede nessuno. Avevano conoscenze altolocate per via del presepe e ora che sono spariti dalla terra, se ne sono andati in cielo. Perché di loro che hanno patito in silenzio e servito in umiltà, è il regno dei cieli.

Panorama, Marcello Veneziani

 

Sulla sinistra piovono Meloni.

È toccante lo spettacolo dell’esodo, la carovana di giornalisti e presentatori Rai, intellettuali e docenti costretti a lasciare le loro case, i loro uffici e le loro cattedre, sotto i bombardamenti del governo Meloni. Fuggono con carretti di fortuna dove hanno caricato le loro povere masserizie e si incamminano senza una meta, tra grida straziate, temendo imboscate e rastrellamenti delle truppe melonate. Commovente il loro arrembaggio per accaparrarsi i pacchi piovuti dal cielo, lanciati ad opera delle forze alleate, che mosse a pietà per l’esodo del popolo paleosinistrese, cercano di fornire loro soccorso sanitario e beni di prima necessità. L’ultima vittima della M. è il povero Antonio Scurati, biografo di M., inteso come Mussolini, oscurato per un suo monologo sul 25 aprile che era un eroico pistolotto antimeloniano in piena campagna elettorale. (Detto tra noi, ha fatto bene la Meloni a rendere pubblico il testo, anche per togliere ogni pretesto al martire presunto e ai suoi innumerevoli sponsor, con sciacalli a strascico. E per lasciare a ciascuno di giudicare liberamente il tono e il senso del monologo).
Come denunciano da mesi la Repubblica, l’Usigrai, l’Anpi e le ultime, rare voci di opposizione, il governo Meloni ha imposto il burqa tricolore alle donne che appaiono in video e il fez agli uomini. Chi conduce il tg o i programmi ha l’obbligo di esordire col saluto romano, battere i tacchi e mandare un deferente saluto alla Premier.
Non c’è più libertà di pensiero da quando impera la ducetta sgarbatella a Palazzo Chigi; fascista fuori e nazista dentro, minacciosi occhi mussoliniani fuori dalle orbite e turpe anima hitleriana nella sua intimità malvagia. Il regime meloniano ha preso di mira un antichissimo professore col bastone, Luciano Canfora, gli ha attribuito frasi deliranti sul ritorno del nazismo in Italia e per screditarlo dicono che addirittura si professi ancora comunista; così lo ha trascinato in ceppi in tribunale, per poi deportarlo in Ungheria.
Un altro vecchissimo reperto dell’antica Rai assiro-babilonese, Corrado Augias, è stato costretto ad abbandonare nottetempo la sua Torre di Babele perché volevano internarlo in un campo di concentramento, spacciato da Rsa e costringerlo ai lavori forzati, nonostante abbia ormai superato perfino l’età della pensione.
Amadeus è scappato dalla Rai perché gli avevano imposto di condurre i pacchi in camicia nera e gli avevano affibbiato per il prossimo Sanremo la Santanché al posto di Fiorello. Fuggito dalla Rai meloniana con la giacca laminata ma senza un euro in tasca, si accamperà presso una rete semiclandestina che gli passerà il pane e un posto letto in un dormitorio riscaldato. Analogo ricovero ha trovato Fabio Fazio, riuscito a evadere dalle segrete della Rai dove il regime meloniano l’aveva deportato, e ha chiesto asilo politico alla stessa emittente straniera, accontentandosi di una modesta paghetta da dividere per giunta con la Littizzetto e Filippa Lagerback. Dopo abbondanti dosi di olio di ricino, l’ormai smagrito Sigfrido Ranucci si è deciso a cambiare format al suo programma; anziché Report si chiamerà Resort e parlerà solo di turismo, creme abbronzanti e percorsi di salute. Bianca Berlinguer, invece, è sfuggita alle purghe meloniane e ha cercato rifugio in un’emittente comunista clandestina, fondata dal compagno Berlusconi, dove potrà continuare la lotta di famiglia contro il capitalismo. Si è dovuta arrangiare con mezzi di fortuna nella suddetta rete per trasmettere gratis i suoi programmi cancellati dall’Eiar meloniana. Stessa sorte per tanti altri sfortunati che hanno preferito fare programmi di tasca loro piuttosto che sottomettersi al Feccia club della Meloni. Così la povera Lucia Annunziata, espatriata dal penitenziario della Rai coi barconi degli scafisti pidini, ha chiesto asilo politico all’Unione europea. Correva l’anno, il programma di storia condotto da Paolo Mieli, è stato affidato allo storico revisionista Trucidide, e il suo nome promette cose truci. Marco Damilano è stato sostituito con Benito Dapredappio. Sono in tanti ormai estromessi dalla Rai e dalla cultura a vivere di espedienti ed elemosina.
Il prossimo festival di Sanremo sarà condotto direttamente da Ignazio La Russa che farà l’imitazione di Fiorello e sarà circondato da un trittico di procaci vallette patriottiche, chiamate le Trecce tricolori. Il dopofestival sarà condotto dal Cognato in versione agrofloreale e farà collegamenti con la sezione di Colle Oppio e con Salò. Saranno ammessi solo cantanti che accetteranno il nuovo corso: i Maneskin saranno ribattezzati italianamente I Maneschi, Dolcenera si chiamerà Ducenera, I Neri per caso diventeranno Neri per scelta, al posto della figlia di Mango premieranno la nipote di Manganello.
Anche le fiction subiranno drastici cambiamenti: si vocifera di una fiction omofoba dedicata a Ulisse, Penelope e i 40 froci, che insidiavano loro figlio Telemaco e verranno perciò giustiziati dai suoi genitori. Altre fiction inquietanti si annunciano contro i migranti, i rom e i vegani, confusi con i verdi.
In effetti bisogna capire lo sconcerto che regna in Rai, si trovano a vivere per la prima volta in vita loro un’esperienza inedita, senza precedenti: l’intrusione della politica nelle nomine, nei tg, nei palinsesti, con fenomeni mai conosciuti, come la lottizzazione (che fino a ieri, nell’età beata, indicava solo il gioco del lotto e delle lotterie e ora indica la turpe spartizione di potere). Erano abituati alla libertà, scorrazzavano felici a piede libero, e ora invece devono rispondere alla politica e al governo. Cose mai viste in Rai.
La Meloni, che nella precedente vita ha fatto assassinare Matteotti, ha rifondato i Battaglioni M che cantano il loro inno storico aggiornato: “Per vincere ci vogliono i Meloni/ di Mussolini armati di valor”. Dopo aver proibito alle donne di abortire, la ducetta ha costretto alla maternità coatta tutte le donne in età fertile, lesbiche incluse. Corsi gratuiti di rieducazione alla normalità e alla cristianità si annunciano per i gay, i trans e gli islamici; incentivazioni e superbonus per chi riesce a bonificare i quartieri e rispedire gli immigrati a casa loro. “La destra vuole gestire il corpo delle donne” e manda il mullah Brunovespa a prenderle porta a porta, per poi seviziarle e segregarle; così denunciano le martiri Dacia Maraini e Chiara Valerio, vittime attive e passive della caccia allo Strega.
Il tutto però è avvolto in un’atmosfera kafkiana: perché a occhio nudo sembra il contrario. Il paese non si è nemmeno accorto del cambio di regime e se la gente rimprovera qualcosa al governo Meloni è proprio il contrario, di rimangiarsi il loro passato all’opposizione e di essersi allineati a Draghi, Mattarella, Biden, von der Leyen, Zelenskij, Netanyau. E invece l’apparenza inganna, è solo uno specchietto per le allodole e per gli allocchi. Alla Schlein non l’hanno vista arrivare, al Duce non l’hanno visto tornare. Occhio al fascismo trans: il Duce si è coperto la pelata con una parrucca bionda…

 Marcello Veneziani