C’è chi continua a imporsi, senza mai interrogarsi nemmeno una volta su come possano sentirsi coloro che cedono, si sottomettono o subiscono. E comportandosi come se le altre persone non esistessero, le cancella, le umilia, le sfrutta; abusa del proprio potere o del proprio ruolo; detta legge e decide al posto altrui cosa sia giusto o meno fare. E poi ci sono tutti coloro (la maggior parte delle persone) che si battono e lottano anche solo per essere visti. Ed esistere. Indipendentemente dal fatto che corrispondano (o meno) alle aspettative dei genitori, dei professori, dei datori di lavoro, dei mariti, dei fidanzati. Esistere. Senza cercare like e follower come surrogati di amore. Non ce n’è affatto di amore sui social, c’è solo chi è pronto a tutto pur di apparire, e avere la sensazione di essere importante (ma importante per cosa? per chi?) anche solamente per pochi istanti.
Proviamo a capire insieme cos’è che non funziona oggi, come sia possibile che un ventiduenne non sopporti nemmeno l’idea che una compagna si laurei, trovi un lavoro, magari persino un nuovo fidanzato. Non basta dire che un tizio agisce così perché è fragile, come ha sostenuto qualcuno, oppure perché privo di modelli o cresciuto a pane e pornografia, come ha suggerito qualcun altro. È davvero sufficiente parlare di fragilità o di pornografia per spiegare la frustrazione e l’aggressività che ci circondano? Non è un modo per prendere le distanze dalla violenza estrema dei femminicidi e non sentirsi coinvolti direttamente, nella carne e nel corpo, mentre invece siamo tutte e tutti in parte responsabili, per ogni volta che abbiamo smesso di ascoltare o di vedere chi ci è accanto, per ogni volta che ci siamo irritati quando un’altra persona non agiva (o non era) esattamente come avremmo voluto che agisse (o fosse)? Ricominciamo, gli uni e le altre, dal riconoscimento. Ricominciamo dall’accettazione dell’alterità.
Michela Marzano, da LA STAMPA