Non so trovare un titolo. Ma so che per me è importante.

 

Se ancora riesci a respirare.Se i tuoi polmoni si riempiono di aria.
Se il cuore batte.E pompa sangue.E di quel sangue senti il flusso caldo,nelle vene.
Se le gambe reggono il peso del tuo corpo.E ancora ti ricordi come si fa a mettere un piede dietro l’altro.
Se le braccia fanno scudo ad un cucciolo di uomo.E le mani sanno stringere altre mani.
Se gli occhi sanno piangere.E le labbra piegarsi in un sorriso.
Se riesci a ripensare al Passato senza compromettere il Futuro.
Se ancora hai un Presente.Qualche sogno nelle tasche.E la possibilità di crescere e invecchiare.
Se ancora ti resta una Vita intera davanti …

Ecco.Se hai tutte quante queste cose … sappi che sei fortunato.Non hai bisogno di nient’altro per essere felice.

Allora prendi la tua Vita.E non limitarti a guardarla da lontano,come fosse il film di qualcun’altro.Diventane protagonista.Scrivi la tua storia.Vivi come vorresti vivere.E non come ti dicono di farlo.Balla ad un ritmo che sia soltanto il tuo.Scegli chi vuoi essere,e diventalo.Anche se fa paura.E ne fa tanta.Scegli chi non vorresti essere.E stai lontano dalle strade che rischierebbero di trasformarti proprio in quello.
E’ tutto un gioco.Un battito di ciglia.Il Tempo di un respiro.Una porta che si chiude.Una finestra che sbatte.Un temporale in arrivo.Una giornata di sole.L’arcobaleno.Le nuvole,e lo zucchero filato.E’ una partita.Una follia.Una mano vincente.Una scommessa sbagliata.Una sfida.Una corsa.Una caduta.Una ripresa.Ripartenza.

Allora prendi la tua Vita.E vivila.Tutta quanta.Fino in fondo.E’ tuo dovere.Hai un obbligo preciso verso tutti coloro che vorrebbero,ma non possono.Tu non li conosci.Ma loro esistono.E non sono stati fortunati come te.

E se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e trasformale in mattoni.Costruisci un parco giochi nel giardino del tuo cuore,e corri lì a divertirti.Come quando eri bambino,e ancora sapevi come fare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e scagliale lontano.Oltre l’orrizonte.Poi,corri a riprenderle.Ma non preoccuparti davvero di arrivare alla meta.Ciò che conta è il viaggio,e come,e quanto,esso sa cambiarti.E come,e quanto,ti lascerai cambiare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e non dimenticarle.Fallo per me.Ti prego.Ho bisogno che tu te ne ricordi.

Antonia Storace

rivoglio_la_mia_vita2

Con il berretto frigio, queste Olimpiadi sono non solo pagane, pure giacobine..

Bisognava anche celebrare, con la mascotte, i rivoluzionari atei e tagliatori di teste. Bisognava proprio riesumare il berretto dei fanatici, dei settari, dei totalitari, dei terroristi di Robespierre,       e se non fosse sufficiente bisognava anche alzare agli onori dell’Ultima cena Leonardesca la bellezza della cultura Lgbtq+ con la parodia drug queen, la più grande bestemmia contro la  Religione Cattolica, che il mondo potesse ammirare ,coll’entusiasmo estasiato delle sinistre ,che  qui dovrebbero solo vergognarsi di tanta ignobiltà e , ineducazione, quando accusano di omofobia  chi osa dissentire.( Il corsivo è mio)

Santa Geneviève, patrona di Parigi, davvero grande è la tua carità se continui a intercedere per i parigini. Non bastava loro organizzare le consuete Olimpiadi pagane: le hanno volute pure giacobine. Non bastava l’osceno culto del corpo, l’idolatria della perfezione fisica e del successo sportivo (tutto opportunamente condannato dal Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 2289). Non bastava. Bisognava anche celebrare, con la mascotte-berretto frigio, i rivoluzionari atei e tagliatori di teste. I giacobini che nel 1793 bruciarono pubblicamente le tue reliquie. I vandali che distrussero la tua chiesa (non a caso la parola “vandalismo” nasce proprio durante la rivoluzione per identificare i rivoluzionari e la loro “cancel culture” avanti lettera). Bisognava proprio riesumare il berretto dei fanatici, dei settari, dei totalitari, dei terroristi di Robespierre, dei protofascisti (De Felice spiegò i legami tra giacobinismo e fascismo), scelto come simbolo da organizzatori che, forse inconsapevoli della violenza così evocata, ora temono atti terroristici. Quello scatenarsi dell’odio già evidentissimo nella partita Argentina-Marocco. Maledette Olimpiadi. Come potrai benedirle, Santa Geneviève?

Camillo Langone_da_IL FOGLIO

 Sunset Taverna

Ero stata in vacanza a Stavròs diverse estati prima. Quante, mi era impossibile stabilirlo ragionevolmente: mi veniva da dire «appena un paio» e «cento almeno» ed entrambi i conti mi sembravano tornare. Un motivo c’era. Tra la scoperta dell’Akrotiri e il ritorno in quella zona dell’isola di Creta, stava lunga distesa una forma, vuota e trasparente come la muta di una serpe, una fragile spoglia fantastica che avevo abbandonato a un certo punto, e che pure ero io: ancora, non più. La sentivo sotto i piedi, attraverso i sandali sottili, mentre camminavo sulla spiaggia nella mia pelle nuova. La calpestavo e lei si sbriciolava, arrendevole, come si erano sbriciolate al vento, al sole, all’acqua, chissà quante pietre e conchiglie, tutte cose dure e solide; altro che la vita.

Ero diretta verso la grande taverna, sempre piena di luci e di festa che, me lo ricordavo bene, stava fuori dal perimetro del Blu Beach. Mi lasciavo alle spalle i villini bianchissimi, sparpagliati a monte della piscina e del bar, svuotati e immobili a quell’ora, nel sortilegio del primo pomeriggio di luglio. Avevo verificato: era rimasto tutto come allora. Potevo dunque proseguire la mia missione fuori dal villaggio.

Mentre affondavo nella sabbia e sudavo sotto il sole greco, mi sentivo di nuovo la bambina che giocava a fabbricarsi in testa scenari avventurosi, affannandosi in pochi metri di mondo, che diventavano il suo vasto dominio. Intanto, sorrideva non vista: nessuno dei grandi aveva minimamente idea di quello che stava accadendo, che era lì lì per accadere, di emozionante, di straordinario… Poveri sciocchi. Quella volta, però, l’unica grande in giro ero io e mi sorrideva il mare, che la sapeva più lunga di me.

Superato un piccolo schieramento di sdraio vuote e ombrelloni chiusi, passata una baia d’acqua purissima, raccolta da due bordi di rocce come in un palmo, ero arrivata su quella frangia estrema di litorale occupato dalla taverna del Tramonto, detto però in inglese, Sunset, che fa subito un altro effetto. Non avevo più pensato al nome e mi tornava così, sul posto, dove, a considerare bene lo spettacolo che avevo di fronte, mancava tutto tranne la possibilità del tramonto.

Del locale erano infatti rimasti solo i muri e le fondamenta, uno zoccolo di calcestruzzo di circa tre metri e, sopra, uno spazio ampio, rettangolare, interrotto da colonne, totalmente aperto sul lato lungo, a oriente, chiuso sugli altri tre da muri coperti di graffiti, da angoli piastrellati; forse la vecchia cucina, i bagni. C’erano ancora segni di sanitari e tubature divelti. Dai tre finestroni a ovest e a nord, il mare si sporgeva a guardare dentro. Si rammentava degli ospiti che, fino alle prime ore del mattino, ogni sera, rimanevo a fissarlo nel buio, buttando, mezzi ubriachi, mezzi felici, i sassi invisibili dei loro desideri a fiore d’onda, a rimbalzare tra i riflessi della luna.

E tra gli ospiti, mi veniva in mente, sulla veranda, in un angolo, una ragazza con un vestito bianco sopra il ginocchio, le spalle scoperte. Stava seduta sull’orlo di una sedia. Accanto, un tavolo ancora mezzo ingombro di piatti e bicchieri, musica greca tutto intorno. Allungava le gambe abbronzate, come se dovesse scivolare via, le caviglie intrecciate, i piedi nudi. A poca distanza da lei si ballava. Il personale della taverna aggirava con destrezza, per nulla infastidito, il cerchio che si era formato in mezzo al locale e che girava vorticoso, per poi fermarsi e incitare qualcuno al centro, impegnato in un a solo. Quello che sembrava l’oste, intanto, girava tra i clienti in maniche di camicia. Ogni tanto si voltava a guardare lo spettacolo e batteva le mani a tempo. Poi riprendeva le sue visite. Parlava in greco coi greci e in un inglese che diventava greco a forza di suoni scivolati e aspirati, di occhiate e alzate di mento, con gli altri ospiti.

La ragazza con il vestito bianco guardava due ballerini, due ragazzi sui vent’anni, come lei. Erano i più bravi e più chiassosi. Anche loro, tra un salto, uno schiocco di mani e un opa, la guardavano. Anzi, ballavano per lei, perché era molto bella e loro pure. Quando si accorgeva dei loro occhi, si girava e si metteva a parlare con qualcuno, coperto dalla folla, sorridendo improvvisamente, da seria che era un attimo prima; o rovesciava la testa indietro, sullo schienale della sedia, e si stirava annoiata. Fissava la luna capovolta, mentre il vestito scendeva sul seno e saliva sulle gambe. In una pausa dei balli, me lo ricordavo bene, erano scesi insieme dietro la taverna, sugli scogli, senza parlare. Degli amici si sbracciavano a chiamarli, dalla spiaggia. Forse li avrebbero raggiunti.

Quella sera io tenevo in braccio mia figlia ancora piccola. C’era anche mia madre, più giovane. Aveva ballato anche lei. Il vino bianco resinato, servito freschissimo, le aveva impedito di opporsi al genero, che la voleva a tutti i costi nella mischia. Io ero rimasta seduta a guardarli per un po’. Poi eravamo andate via. Era l’ora di dormire. Avevamo attraversato da sole la baia, la spiaggia attrezzata, per salire fino al nostro villino bianchissimo. Dall’altra parte della taverna i ragazzi forse facevano il bagno.

Non ero mai stata dall’altra parte. Così ho aggirato quel grande involucro vuoto e ho trovato, svoltando a sinistra, un altro muro scrostato, un altro tag; ma non un disegno, una frase in corsivo greco: Abbiamo scritto con lo spray il nostro amore per rendere famosi questi muri, ti ricordi?
Sì, mi ricordavo.
– Mamma, ma cosa fai? – La voce di mia figlia arrivava da dentro.
– Arrivo – risposi d’istinto e tornai dentro. La trovai a gambe divaricate e braccia conserte in un fascio di luce che entrava da un finestrone. Aveva lo sguardo corrucciato di una super eroina adolescente ed era incantevole. Sfidava così tutto quel cumulo di rovine, quel tramonto in un primo pomeriggio di luglio.
– Ma com’è che mi hai trovata? – chiesi.
– Guarda che non è mica così lontano. Dalla piscina ti vedevo che camminavi… Voglio fare il bagno. Dai, vieni, che non c’è ancora nessuno. Mi annoio da sola -.
Saltò giù dallo zoccolo di calcestruzzo e si avviò attraverso la piccola baia. Io dietro a lei.

La taverna aveva chiuso qualche anno prima; quanti, nessuno del Blu Beach sapeva dirlo con esattezza. Dovevano essere molti visto lo stato di abbandonato del luogo. Eppure, non erano convinti che fosse passato effettivamente molto tempo. I due soci avevano litigato, uno se ne era andato, l’altro non ce l’aveva fatta a fare fronte da solo a tutte le spese … C’era dietro una faccenda d’amore, c’entrava una donna, assicurava la signora del bar, alzando gli occhi al cielo. I camerieri annuivano, non credo perché ne sapessero qualcosa. La storia pareva loro verosimile. Anche a me, dopo tutto.

Il giorno dopo, alla stessa ora, tornai alla taverna, spoglia fantastica, fragile che avevo abbandonato e che stava là, a tramontare in pieno sole. Eppure, sì, mi ricordavo altre forme, spazi, ore. Mi confondevo in mezzo a tutti i personaggi di una festa d’estate. La spiaggia deserta sull’Akrotiri era fatta dei granelli di una gigantesca clessidra che si era rotta.

Francesca Sensini
sunset taverna

   Illustrzione  Lavinia Fagiuoli

Francesca Sensini è in libreria con “Afrodite viaggia leggera”, Ponte alle Grazi

Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

Scompare il freno a mano, e l’uomo è defitivamente addomesticato dalla tecnica..

Comprare una macchina nuova e scoprire che esiste il freno di stazionamento elettronico. I vantaggi sono risibili. Torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”

Compro una macchina diesel per tornare all’antico e scopro che è scomparso il freno a mano. Dove caspita è finito? Chiedo al venditore, sorride: è stato sostituito da un freno più moderno, il freno di stazionamento elettronico. Al progresso non c’è proprio modo di sfuggire… Vantaggi? Il venditore sorride di nuovo: adesso li fanno così. Insomma non li conosce nemmeno lui i vantaggi. Per trovarli devo guardare su internet e sono, sarebbero, due: 1) libera spazio; 2) è comodo. Il vantaggio 1 è risibile: eliminando la leva del freno si liberano pochi centimetri cubi. Il vantaggio 2 è inquietante: a chi mai un pulsante risulterà più comodo di una leva? A un ibrido uomo-mollusco? Ovviamente ci sono degli svantaggi, il primo è la manutenzione maggiore: per settare il freno c’è bisogno di taratura elettronica, dunque di personale iperspecializzato. Mi torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”. Il freno di stazionamento elettronico, di utilità dubbia e fragilità certa, è un’altra tappa dell’addomesticamento dell’uomo da parte della tecnica. Che ormai è del tutto autonoma e serve innanzitutto a sé stessa. E’ la tecnica a decidere il percorso: l’uomo può soltanto sorridere, accettare, atrofizzarsi.

Camillo Langone_da_IL FOGLIO         

mani legate                                                              

Speciale empatia…

Riservo a pochi il diritto di avere accesso al mio cuore e per me raccontarsi è una forma di intimità. Ho un’idea d’amore e amicizia oramai rara, perchè ogni legame per me richiede profondità. Il bene che ti darò sarà un prolungamento del bene che mi voglio.

La mia felicità diventerà la tua ed il tuo dolore sarà anche il mio. Questo è l’unico modo di amare che conosco. Un modo che mi lega tanto a chi amo, ma anche un modo che mi dimostra quanto sia doloroso confondere gli altri con te stesso.

Charles Bukowski

 

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L’overparenting è una trappola per genitori e figli. Si chiama così la tendenza, facilitata dalla tecnologia, a controllare sempre più i figli, dalle cose di scuola alle uscite, con conseguenze di cui si discute molto.

 

Il messaggio che non vorresti mai ricevere a mezzanotte è il messaggio di un altro genitore, inizia con «non sono solito intervenire nelle questioni dei ragazzi…», continua con «ma tuo figlio ha fatto questa cosa orribile» e di solito proviene da una persona che è assolutamente solita intervenire a gamba tesa in questioni minori come il prestito di cancelleria. Di solito opto per la parte del cane bastonato, e rispondo con iperboli fuori luogo che sono “mortificatissima” e che mio figlio è un essere abbietto; e in genere la contromossa funziona, ridimensionando l’ira del genitore elicottero.Tenersi informati sui dettagli della vita scolastica e relazionale dei bambini in età scolare e ostinarsi a timonarla da remoto è solo uno dei primi segnali dell’overparenting, un fenomeno che – originatosi negli anni Ottanta in una società americana che vedeva espandersi la forbice sociale – insorge innocentemente tra neogenitori che al parco non tollerano il minimo graffietto, ma continua pericolosamente con la geolocalizzazione degli adolescenti attraverso l’opzione “trova il mio iPhone” o, come nel caso di una famiglia che conosco, con l’installazione di telecamere di sicurezza in tutte le stanze della casa, bagni compresi, per sorvegliare i figli liceali mentre in genitori sono in ufficio. «Ma lo sai che tuo figlio è a casa mia? Ho appena visto la sua giacca buttata sul divano in un’inquadratura del soggiorno». (Ovviamente io non lo sapevo.)  Da genitore poco elicottero – per questioni di tempo e salute – non amo sentirmi riferire pettegolezzi sui miei figli. Di solito fermo gli zelanti informatori: non l’ho saputo perché non lo voglio sapere. Ovviamente, la maggior parte di loro pensa che io sia una sciamannata. La storia dell’overparenting è molto più complessa e interessante di quanto la banale aneddotica personale possa restituire, e i suoi effetti sono dibattuti da studi e ricerche che ne comprovano alternativamente i danni o i benefici. Se negli anni Settanta, quando il gap salariale tra laureati e non-laureati negli Stati Uniti era piuttosto basso, lo stile genitoriale passò da autoritario a permissivo, negli anni Ottanta, in concomitanza con l’allargarsi del dislivello sociale, e quindi con l’aumentata competitività per entrare nelle scuole giuste, si sviluppò uno stile “interventista”, caratterizzato da grandi investimenti nelle attività extrascolastiche, un monte ore triplicato ad affiancare i figli nei compiti, e un’ansia da prestazione generalizzata.

Uno studio dell’Università di Minnesota del 2018 osservava che bambini i cui genitori tendevano a pilotare i giochi nella prima infanzia sviluppavano nel tempo più problemi relazionali e disturbi d’ansia, e una minore capacità di problem-solving. Un’indagine più recente invece, confluita nel volume Love, money and parenting: how economics explain the way we raise our kids, sostiene che in una società diseguale, quelli che chiamiamo eccessi genitoriali portano a benefici duraturi. Pare infatti che i ragazzi monitorati costantemente dai genitori (quelli, insomma, che a differenza dei miei figli non dimenticano mai il flauto) ottengano voti più alti degli altri. A questo proposito, mi viene da obiettare due cose. La prima è che altrettanti studi attestano l’aggravarsi della salute mentale dei ragazzi adolescenti (sebbene questa condizione venga associata più spesso agli strascichi della pandemia o l’utilizzo degli smartphone, che con le pressioni dei genitori). La seconda obiezione – più ironica – è che, nella mia modesta esperienza, la ragione per cui i ragazzini over-parentizzati ricevono voti migliori è esattamente il terrore che professori e presidi provano ormai verso questo tipo di genitori, sempre pronti a contestare una nota, una valutazione, una scelta educativa dell’insegnante. Si arriva a un punto in cui i più rilassati di noi iniziano a sentirsi in colpa per non essere al corrente di ogni futile risvolto della vita del proprio figlio, a sentirsi in difetto per non aver partecipato a tutti i ricevimenti professori e open-day cittadini; finendo per adottare controvoglia uno stile più presenzialista e aggressivo, pur di difendere i propri orfanelli dalle ingerenze di quegli altri. Una cosa a cui forse noi genitori di minorenni non pensiamo mai, ma su cui varrebbe la pena di concentrarsi, è che un certo livello di coinvolgimento negli affari dei propri bambini oggi si traduce in una relazione altrettanto dipendente con i figli nella fascia 18-34 anni. E non mi riferisco alla vecchia e sana famiglia allargata coi nonni a portata di mano; perché i figli under 34 non li fanno, i nipoti. Mi riferisco proprio al cordone ombelicale come fardello eterno.

Secondo sondaggi del Pew Research Center di Washington, la gran parte di genitori e figli americani non è d’accordo con me. I primi si dichiarano soddisfatti dei rapporti intensi coi propri giovani adulti, e questi ultimi a loro volta apprezzano i consigli di vita provenienti da cinquantenni esperti e genuinamente interessati a loro. Eppure, questo perpetuo “parental control” che da un lato previene i comportamenti a rischio dei giovani e innalza il loro livello di istruzione, dall’altro li scoraggia a formare nuove famiglie, lasciandoli in una precarietà emotiva e in un bisogno di attenzione e cura che aumenta l’occorrenza di malattie mentali, e soprattutto rinnova il bisogno della tutela genitoriale. Le ricerche citate si rifanno a osservazioni fatte nel lungo periodo su una generazione per la quale l’uso della tecnologia non era ancora così invasivo. Quel che ancora è poco trattato è quanto le tecnologie recenti abbiano allargato le potenzialità del controllo. Dagli anni Dieci a oggi, le chat e sotto-chat di genitori sono diventate incubatori di panico collettivo e dietrologie, nonché facilitatori dell’emarginazione degli elementi meno assimilabili, e naturalmente strumenti atti allo spionaggio costante dei propri bambini e dei passi falsi degli insegnanti. Alle scuole medie, gli stessi telefoni, regalati direttamente ai bambini, sono diventati cercapersone, microchip, termometri dell’umore e suggeritori di risposte persino durante le lezioni, tanto che alcuni genitori forniscono ai figli perfino un telefono rotto da consegnare nella cesta all’inizio della mattinata, per poter tenere addosso il secondo smartphone funzionante. La mattina, collegandosi all’app del registro scolastico, gli ansiosi controllano l’esito dell’appello, e se il figlio risulta “assente” si attaccano subito al telefono. Il poveraccio di solito è solo cinque minuti in ritardo: inutile marinare la scuola con gli strumenti attuali di tracciamento; inutile mentire sulle strade percorse, perché il braccialetto contapassi collegato all’app Salute di papà potrebbe smentirli anche su questo. «Quella disgraziata non è a dormire dall’amica a Porta Romana», diceva un padre durante una cena guardando l’iPhone. «La localizzo in mezzo a un campo. È a un rave fuori Milano. Lei non sa che la seguo col satellite».

Alcuni professori, per normalizzare la socializzazione degli adolescenti, propongono gite smartphone-free nella natura. Ma anche lì c’è un’alzata di scudi: se voglio sentire mio figlio ogni sera, ne ho il diritto. Non c’è da stupirsi se metà degli adolescenti, seguiti da mamma e papà su Instagram, abbiano secondi profili segreti dove condividono la loro vera identità, costretti a sdoppiarsi e a essere trasgressivi più per mancanza di privacy che per vera ribellione. Ma quali sono i sentimenti dietro alla mania di controllo di questo tipo di genitori? In piccola parte, c’è l’egoismo di voler placare le proprie ansie o di volersi affermare attraverso figli eccellenti; ma per lo più, c’è il desiderio sincero di proteggerli dai pericoli di un mondo che capiamo sempre meno e di oliare le strade che dovrebbero portarli ad avere “successo.” Qualcuno ha detto anche che orientare i comportamenti dei figli a compiacere le aspettative del mondo della scuola e del lavoro rischia di formare generazioni di individui meno liberi e meno creativi. Io penso che fare proiezioni sulla felicità e l’affermazione personale di bambini che vivranno in un mondo surriscaldato e abitato dall’intelligenza artificiale sia poco realistico. Se dobbiamo allentare le maglie del controllo genitoriale, è perché la dedizione richiesta da un simile approccio e consentita dai mezzi a disposizione è potenzialmente illimitata, e fa male prima di tutto a noi adulti.  Lo so perché io stessa, per non farmi mettere i piedi in testa, ho finito per dover diventare un po’ control-freak dei figli. Ma qualche volta, in teoria per punirla per qualcosa, tolgo il telefono a mia figlia. Lei immancabilmente in quelle settimane offline arriva a casa in ritardo, ha contrattempi, perde cose per strada. Io inizio a chiamare la scuola, gli insegnanti, le vicine, i panettieri sulla strada. Ma poi penso a me stessa, a quando a mezzanotte cercavo a Parigi una cabina telefonica per dire ai miei che ero rientrata in collegio. E penso che in quella mezz’ora di macabri scenari mia figlia è proprio il contrario che in punizione: lei in quella mezz’ora è una ragazza libera. E mi sto liberando anch’io, che mi devo allenare a perderne pian piano le tracce prima di ritrovarmi a cullare una venticinquenne insicura. E sono ancora più orgogliosa di me quando torna a casa, e incasso la sua storia inventatissima sull’imprevisto che l’ha fatta tardare. Sono orgogliosa della mia tempra finché arriva mezzanotte e qualche over-parent mi messaggia: «Non è mia abitudine interferire con le vite dei ragazzi, ma è bene che tu sappia che tua figlia alle sei di sera cazzeggiava allo skatepark».

Arianna Giorgia Bonazzi __rivista STUDIO

 

genitoriiperprotttivi

Il miracolo delle feste di giovani non tatuati e in giacca e cravatta..

Non si creda che tutti i ragazzi siano tatuati e trappizzati. E ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata.

Si prega di non generalizzare, di informarsi meglio, di vincere la pigrizia degli stereotipi, di non credere che tutti i giovani siano tatuati e trappizzati. In questo periodo ho conosciuto ventenni e trentenni che non c’entrano nulla con quella inguardabile immagine, con quella inascoltabile colonna sonora. Che partecipano abitualmente a feste cravatta nera, uomini in smoking e donne in lungo negli antichi palazzi delle vecchie capitali italiane, da Torino a Palermo, o a feste romane, nei circoli, senza smoking ma in giacca e cravatta anche d’estate. Incredibile, lo so, ma vero. Ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata. Il mondo è bello perchè è vario e loro sono più belle perchè non standardizzate. Dio perpetui il miracolo di questi giovani differenti.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

cravatte

Al mondo tutto è possibile…

 

E l’uomo allora disse:

“La verità sul mondo, è che tutto è possibile. Se non l’aveste visto tutto fin dalla nascita e quindi non  lo aveste deprivato della sua stranezza vi sembrerebbe per quello che è, una tripletta in uno spettacolo di medicina, un sogno febbrile, una trance che si anima di chimere che non hanno né analogie né precedenti, un carnevale itinerante, un tendone migratorio la cui destinazione finale, dopo molti passi in molti campi fangosi , è indicibile e piena di pericoli oltre ogni calcolo.
L’universo non è una cosa con confini  ,e l’ordine al suo interno non è vincolato da alcuna latitudine nella sua concezione al fatto che si debba ripetere ciò che esiste là in qualsiasi altra parte. Anche in questo mondo esistono più cose fuori dalla nostra conoscenza , come l’ordine ,nella creazione che vedete  , è solo quello che avete messo lì, come una corda in un labirinto, in modo da non perdere la strada. Perché l’esistenza ha il suo ordine e la mente di nessun uomo può orientarla come vuole, poichè la mente stessa non è altro che una casualità fra tutte le altre.

Cormac McCarthy,  Meridiano di sangue, o,  Il rossore di sera nell’ovest-

 

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La sposa faidate, lui non lo sa..

Viva la sposa autarchica di Martina Franca. Una ragazza di quarant’anni si sposa in chiesa, nella bella chiesa di San Martino del bellissimo borgo pugliese, nei giorni del festival della Valle d’Itria; fa addobbare la chiesa di fiori, spende una cifra per il ricevimento nuziale, arriva in auto vestita da sposa e aspetta invano il suo sposo; ha deciso di convolare a nozze all’insaputa del suo prescelto o nonostante il suo parere contrario. Poi quando il parroco la invita a lasciare la Chiesa per evidente vizio di procedura, non può celebrare con lo sposo contumace, lei decide di sfogare nel mare di Puglia la sua solitudine di sposa faidate, autoreferenziale, solitaria. E il naufragar è salato in questo mare… Una storia surreale, per certi versi romantica, che colpisce in modo particolare me che scrissi anni fa La sposa invisibile. Stavolta invisibile è lo sposo, che esiste ma non ha mai detto di si alla sposa, si dice anzi che sia già impegnato.
La storia si può interpretare in tre modi diversi. Il primo è che l’amore di coppia è fondato su un elementare principio: la reciprocità. Mancando quella prima condizione, manca di conseguenza tutto il resto. Certo, l’amore è asimmetrico, a volte si ama senza essere (del tutto) ricambiati ma non si può prescindere dal consenso, almeno iniziale. Ci sono persone rimaste sole tutta la vita perché non sono riuscite a dimenticare o rimpiazzare il loro amore perduto. Esistono poi gli amori ideali, all’insaputa dell’amato o senza il suo consenso. Ma gli amori ideali non pretendono di convertirsi in realtà ad ogni costo. Restano nella sfera ideale, come l’amore di Dante per Beatrice e di Leopardi per Silvia, e si sublimano in ispirazione poetica. Diventano invece persecutori, paranoici e anche aggressivi quando pretendono amore anche se non sono ricambiati. I casi peggiori viaggiano tra lo stalking e la violenza, fino a uccidere la persona amata.
In questo caso pugliese l’amore autarchico non infierisce sulla persona amata; si limita alla scena virtuale, alle nozze unilaterali e incompiute.
Qui si accede a un secondo livello. Ed è quel fenomeno sociale, ormai diffuso da più di trent’anni, tra il Giappone e gli Stati Uniti, che è la sologamia. A differenza della sposa pugliese, le nozze qui non prevedono la presenza neppure virtuale – in cartonato o in ologramma – di uno sposo reale; è un consapevole matrimonio solo con se stessi. Una pratica più diffusa tra le donne, in misura minore dagli uomini; di chi sente il bisogno di celebrare il suo statuto di singolo, sposandosi con se stesso. Un amore narcisistico che nel mio libro dedicato all’Amore necessario ho catalogato attraverso la formula Io amo Io. Certo, un matrimonio così non ha bisogno di una chiesa e di un sacerdote, e nemmeno di un ricevimento, ma è in totale autarchia, è solipsismo nuziale, autosufficienza amorosa, una forma nuova di onanismo nuziale. È il sintomo più vistoso della solitudine contemporanea, la perdita dei confini tra il virtuale e il reale, l’individuo assoluto che non ha bisogno di nessuno e si marita con se stesso, in selfie, pur sapendo che la scelta non produce autogravidanza, al più ricorre a uteri in affitto e fecondazioni artificiali. Del resto, la nostra società prevede l’esistenza della famiglia mononucleare, che non allude alla mononucleosi ma vuol dire che il singolo fa famiglia da solo; da non confondere con la famiglia monoparentale, dove c’è un solo genitore ma ci sono figli, magari frutto di precedenti unioni. A me sembra assurdo e del tutto improprio definire famiglia qualcosa che ne è la negazione, perché priva di un noi. Chiamatelo come sempre è stato, celibato; la donna che non si sposa, da noi in Puglia, è chiamata vacantina, alludendo alla vacatio maritale; non si è sposata, è rimasta signorina.
A proposito, qui si accede al terzo livello, si lascia il nostro tempo e si entra invece nel nostro luogo. Il matrimonio resta nel sud, anche in tempi di single e di matrimoni di breve durata, il culmine della vita personale e sociale, il principale investimento famigliare e la principale industria, con un indotto pazzesco. Nozze che costano un occhio della testa, ricevimenti che dissanguano famiglie, feste che durano tantissimo, in proporzione più dei matrimoni che celebrano. Non a caso, in Puglia vengono a sposarsi anche pascià e sultani, perché la festa nuziale da loro dura a lungo, per giorni. Dodici ore filate tra attese, messa, lancio del riso, servizio fotografico, pranzo infinito, ballo, trenino, presepe familiare e amicale al completo; sfibrano anche i più volenterosi sposi e i più eroici invitati. E li conducono già durante il ricevimento a delineare separazioni e rotture tra i clan familiari. Il matrimonio al sud, in Puglia, è un test psico-attitudinale di convivenza nella lunga durata che comporta pazienza, resistenza, recita ad oltranza, capacità di sopportare il caldo e altre avversità: è davvero una scuola di alta formazione al sacrificio per mettere su famiglia.
In passato ho raccontato che in una interminabile festa nuziale, corse come una invocazione diffusa, il paragone tra nozze e funerali e la preferenza per questi ultimi: le celebrazioni funebri durano meno, non devi farti l’abito per la cerimonia, non devi dissanguarti coi regali e i ricevimenti; il morto non dà bomboniere e muore una volta sola, invece gli sposi a volte si risposano; ai funerali puoi partecipare anche restando in disparte, dopo la messa devi solo sobbarcati una breve passeggiata detta corteo funebre; e non c’è il disc jockey. Insomma, capite, se si arriva a rivalutare perfino i funerali, c’è qualcosa di perverso e di insopportabile in quelle cerimonie nuziali. Nozze, voce imperfetta del verbo nuocere. Si aggiunga che in Puglia il lancio del riso è considerato troppo lieve, da noi il riso va di solito con patate e cozze; ma il lancio di riso patate e cozze colpirebbe molto più pesantemente gli sposi e i loro accoliti, detti testimoni, lasciandoli felici e contusi.
Invece la sposa autarchica di Martina Franca ha sognato di sposarsi anche senza sposo e senza invitati, pur prevedendo in astratto entrambi. Si è sobbarcata gli oneri nuziali e ha risparmiato al mondo e allo sposo presunto quella terribile giornata nuziale nel caldo torrido di luglio. Dite quel che volete, ma considero questa scelta il più grande dono d’amore che la sposa ha fatto al suo sposo riluttante e ai suoi cari…

Marcello Veneziani.