Si riparte dall’amore…

L’Amore necessario è il mio nuovo saggio appena uscito da Marsilio dedicato alla forza che anima la vita e muove il mondo. Non è un saggio sull’amore romantico, sulla coppia, sull’eros ma un viaggio nelle varie forme dell’amore che coinvolgono corpi, anime e menti e muovono uomini, animali e forze della natura. C’è l’amore degli amanti e l’amor famigliare, l’amore della vita e l’amore del mondo, c’è l’amor patrio e l’amore del destino, l’amor di Dio e della verità.
Nonostante la retorica pervasiva sull’amore c’è scarso amore nel mondo e nel nostro tempo. E’ largo l’abuso corrente di richiami all’amore, alle sue estensioni e ai suoi nomignoli correnti: diventa intercalare universale, anche in forma contratta, per rivolgersi pure ad amici occasionali, animali e avventori di prostitute. Quando tutto è chiamato amore, l’amore perde senso e profondità; come accade con l’amore per l’umanità. Se l’amore si fa generico, smette di essere amore. Tutti fratelli, nessun fratello.
L’amore comporta dedizione e predilezione, gioia, sacrificio, attenzione al mondo e agli altri; e tutto ciò difetta nella nostra epoca. Viviamo in un mondo disamorato che pure professa amore universale, a partire dai remoti e dagli ignoti; ama gli animali, le piante e il pianeta; vagheggia amori nomadi di passaggio o dipendenze travestite d’amore e proclama l’amore libero, senza limiti, fluido, senza vincoli di tempo, di natura, di sesso e di famiglia. Ma l’amore non è libero, perché la sua legge elementare è il vincolo, spontaneo e inevitabile. Può liberare, l’amore, ma in sé non è libero: è necessario, invece. E dicendo che l’Amore è necessario non si sminuisce l’amore, non lo si confonde con un bisogno impellente ma se ne coglie l’incomparabile grandezza, la sua centralità insostituibile nella vita, la sua prossimità col destino. L’amore libero passa, soggetto ai desideri volubili; l’amore necessario resta perché riguarda l’essere prima del volere; è il fondamento del mondo e la più alta motivazione del nostro essere al mondo. Senza amore si prospetta un futuro da tecnobestie artificiali. L’amore garantisce la nostra umanità. Viviamo la perdita d’amore; avviene con una rapidità che non lascia il tempo di sconcertarsi, tanto è repentina, automatica e inconsapevole l’accelerazione.  Stanchi dell’uomo, gli umani inclinano verso il vegetale, l’animale, il silice, l’artificiale. Una specie d’amore è rivolto al clima e all’aria o al pianeta, o al cane, al gatto, all’orso, allo smartphone, agli accessori o al robottino; l’umano è d’ostacolo, fastidio o residuo tossico, di cui prima o poi, finalmente, il pianeta si libererà. E tireremo un sospiro di sollievo. Da morti.  Cosa sostituisce questo collasso progressivo dell’amore? Quali sono cioè gli amori surrogati che prendono il suo posto? Gli amori superstiti oggi vigenti sono di tre tipi: l’eccessivo amor di sé, egocentrico e autoreferenziale; un vago amore dell’umanità, come una remota, astratta platea globale; un surreale amore per ciò che non c’è, il virtuale o è frutto mentale dei desideri. Tre tipi d’amore – introflesso, generico o irreale – che sorgono dal disamore profondo e radicale. Si perde l’amor concreto dell’altro, l’amore aperto verso l’alto e l’amore per la realtà vivente. Tutto alla fine ruota intorno a una sorta di egoarchia universale e circolare: Io amo Io.  L’Amore necessario affronta le nove forme, anzi i nove gradi dell’Amore, in rapporto con la vita, con chi ami, con la famiglia, col mondo, con la sapienza, e poi l’amor patrio (e familiare), l’amore del fato, l’amor di Dio e l’amor di verità. C’è anche le breve storia dell’amore nel mito e nella filosofia, tornando a Platone che fondò il pensiero dell’amore; per concludere con l’amore della verità, connubio difficile perché l’amore spesso non ama la verità o non la dice; e la verità spesso ferisce e delude l’amore. Al termine della visita ai nove gradi dell’amore, parte una gita fuori porta nel tempo presente per scoprire che l’amore è unico argine e la sola risposta umana al dominio dell’Intelligenza Artificiale: l’amore è un’energia, una molla, uno slancio che non potrà mai scaturire da un essere artificiale. E’ l’amore che lo aziona.  Insomma, l’amore è il necessario punto di partenza, nascita e rinascita, per ricominciare a vivere e pensare.
Però se dici amore, la prima immagine che ti compare è lei, la persona amata. Prima di declinare le mille forme dell’amore, la più ricorrente, sulla bocca di tutti, in forma di parola e bacio, è l’amor di coppia. Poi l’amore si allarga a quelli che vanno sotto il genere di affetti o di passioni. Ma il primo tu è la persona amata che ti infiammò d’amore e che reputi insostituibile. Magari non è la stessa per sempre, perché l’amore non invecchia invece gli amanti e gli amori appassiscono. L’amore è oltre il tempo, gli amanti ne sono dentro, anche se al loro apice si percepiscono fuori, in un tempo sospeso.  Per amor tuo fu l’espressione chiave che aprì le porte dell’amore. Fu pronunciata in un mattino, riferita a minimi risvolti, lasciata cadere forse con studiata noncuranza. Ma portò presto lo scompiglio dell’amore. Irruppe l’ospite inquietante, in forma di voce, di parola; poi si fece corpo, abbraccio, amplesso, unione e passione. E di due vite ignare fece un fascio d’amore. Breve, intenso, indelebile ricordo. Dette fiato a una storia, suscitò energie che covavano sotto la brace spenta, alitò vita nei corpi, l’intrecciò a una sorte; poi svanì. Tutto si fece “per amor tuo”.
Non nominate l’amore invano, è come un dio, aspetta la chiamata, arriva e dispone di chi lo pronuncia e di chi ne è investito.

Marcello Veneziani 

Da L’amore liquido. di Zygmunt Bauman

 

Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. Basta pensare al cambiamento di valore della parola amico tra ieri e oggi in internet per capire come i rapporti siano diventati facili e superficiali. I nuovi rapporti vivono di monologo e non di dialogo, si creano e si cancellano con un clic del mouse, accolti come un momento di libertà rispetto a tutte le occasioni che offre la vita e il mondo. In realtà, tanta mancanza d’impegno e la selezione delle persone come merci in un negozio è solo la ricetta per l’infelicità reciproca. L’amore invece richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana, ha bisogno di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno.

bauman

Il destino esiste? Tu ci credi ?

 

 Sono fatalista ,da sempre credo in un destino, che ci accompagna dalla nascita e contro il quale non abbiamo potere per sconfiggerlo , al massimo penso ci sia stata data qualche piccola possibilità di modifica,  con esito immutabile. Per questo  ieri, appresa la notizia della morte improvvisa di Gigi Riva, mi sono detta:” Quando è la tua ora , te ne vai, anche se ti trovi nel luogo dove potrebbero evitarlo .” Infatti il calciatore, ricoverato repentinamente, ha rifiutato di fare un’ angioplastica, che avrebbe potuto salvarlo-oppure no? Sarebbe morto comunque?  Nessuno può dirlo. Tuttavia la mia curiosità mi ha portato a documentarmi. Ecco  un articolo tratto dal Sito RIZA shop.

Quando si parla di destino è facile cadere in due errori speculari: vivere con eccessivo fatalismo o pensare che tutto dipenda dalle nostre azioni. Ecco come evitarlo

destino

Destino: cos’è, quali sono le idee più diffuse (e sbagliate) a riguardo

La domanda è di quelle eterne: siamo artefici del nostro destino o siamo preda di forze che non controlliamo? Fin dagli albori della storia l’uomo si è posto questa domanda, cercando risposte nell’arte, nella filosofia, nelle scienze e nella religione. Anche in ambito psicoterapeutico emerge l’urgenza di un approccio valido a questa tematica, poiché il disorientamento cresce al pari della complessità della vita, finendo col generare un atteggiamento unilaterale, ovvero la tendenza a credere che il proprio destino dipenda da una sola componente. Si rintracciano in tal senso tre posizioni principali.

 La fiducia nel Controllo. Si crede che gran parte della realtà sia del tutto controllabile e nelle proprie mani, grazie all’uso spasmodico di elementi come la razionalità, il possesso di denaro, la forza di volontà…
  • Il senso della Forza Trascendente. È tipico di chi sente che tutto dipende da una Forza superiore che ha già scritto il nostro destino e che il libero arbitrio esista solo nelle piccole cose ma non nelle scelte decisive della vita.
  • La certezza del Caso. Si pensa che tutto sia assolutamente casuale, che viviamo in balìa di un caos privo di senso e di controllo.

Ognuna delle tre ipotesi sul destino, da sola, si rivela sempre inadeguata ad affrontare e a comprendere la vita in tutto il suo divenire. La prima conduce all’ansia da prestazione, al senso di colpa o di onnipotenza; la seconda è consolatoria, dà senso agli eventi ma ci fa vivere in modo passivo; la terza è iperfatalista e spinge al cinismo o al senso di impotenza e di insicurezza.

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Credere o non credere nel destino? C’è un’altra possibilità

Come si può ottenere allora un senso del destino più plastico e adattabile alle diverse situazioni dell’esistenza? Senza pretendere di dare risposte definitive, ricordiamo un utile aforisma dello scrittore latino Cleante: “Il destino guida chi acconsente, trascina chi si oppone”. La sensazione è che un flusso, energetico ed esistenziale, a un certo punto intervenga nella vita e che l’azione più efficace possa consistere nell’assecondare ciò che va in questa “direzione naturale”, senza sforzo e con lucidità, consapevoli che influiranno sul risultato anche elementi casuali e imperscrutabili. Saper scegliere un buon flusso vitale e lasciarsi portare, cedevolmente attenti, è il modo migliore per far sì che molti eventi possano diventare esperienze positive o, mal che vada, che vengano affrontati con prontezza e realismo.

 Non esiste una sola risposta

Non c’è nessun “atteggiamento unico” valido per tutte le situazioni della vita. A volte prevale la Dea Bendata, a volte il nostro intervento è decisivo, a volte qualcosa di “superiore” si impone. Acconsentire a che le cose vadano in una direzione naturale non significa  che sia sempre predominante il “superiore”.

Fatti portare ma ad occhi aperti ,abbandonarsi a occhi chiusi. Resta lucido e pronto a cogliere ogni segnale possa suggerirci un cambio di prospettiva.

Affidarsi al fato senza essere fatalisti

Ognuno di noi ha delle doti che, entro certi limiti, possono influire anche sugli eventi più ineluttabili, e talora essere determinanti. È bene non scordarlo.

Rispetta il Fato…degli altri!

Non cercare di forzare il destino altrui (o il flusso vitale) nella direzione che vuoi tu o gli effetti saranno nefasti. Se, ad esempio, tuo figlio ha un talento musicale, favoriscilo ma non imporglielo e non sovraccaricarlo di aspettative.

Cautela nel giudizio

È facile accettare gli eventi positivi. Ma spesso una cosa si trasforma nel suo contrario. È utile sapere che una sconfitta a volte è una vittoria, e viceversa, e che un “no” della vita può aprire le porte ad un’esistenza migliore.

Torniamo al mondo piccolo di casa nostra…

Com’era piccolo il mondo ai tempi in cui nacque Gesù Bambino. Era piccolo anche mille e duecentoventitré anni dopo, quando san Francesco a Greccio inventò il presepe, giusto otto secoli fa. O quando Dante scrisse la storia universale di tutti i tempi e dell’umanità, parlando in realtà quasi sempre di vicende accadute tra la Toscana e dintorni e trasferite in cielo o negli inferi. Era un microcosmo ancora piccino, entrava tutto in uno sguardo, come nel presepe; la terra era al centro dell’universo, il sole la riscaldava e la luna vegliava la notte. Il sole paterno, la luna materna, tutto era in famiglia. E al centro la terra, come il Bambino tra il padre e la madre, l’asino e il bue, e un piccolo popolo che andava da Lui. L’intero universo convergeva a Betlemme, ombelico del mondo. La terra era poco abitata, le città erano rare, le altre poco più che villaggi. Un impero che sembrava dominare la terra, valicare i monti, attraversare i mari, era in realtà un centro abitato in mezzo alla natura, una civiltà circondata dall’ignoto.  Il lontano era rappresentato dai Re Magi che  venivano da terre remote, ma in fondo non molto lontane, a testimoniare che tutto l’universo si dava appuntamento in un luogo, che si pensava cruciale per l’intero creato, ed era solo un punto illuminato immerso tra ombre sconfinate e oscuri cammini. Altri continenti restavano ignoti. Un punto di raccolta ben indicato dalla segnaletica celeste, raggiungibile attraverso il primo navigatore satellitare e terrestre, la stella cometa, che guidava verso quella meta. Le stelle in quel tempo punteggiavano il cielo, quasi affabili, raccolte intorno alla terra per accudirla e decorarla; e si facevano ancora più splendenti per incoronare il piccolo Re del mondo, disceso dai cieli in una grotta della Palestina.  Le distanze non erano siderali, l’infinito era un modo di dire che indicava le vie del Signore, che aveva mandato dal cielo in terra Suo Figlio, a mostrare la contiguità dei due mondi, il rapporto filiale dell’una dall’altro. Quel piccolo mondo non era affatto perfetto, era povero e crudele, a volte cruento, ma tutto sembrava a portata di mano, anche la morte e la santità erano di casa, si viveva di vicinanza. Poi si è perso quel mondo piccolo e circoscritto scagliato come una biglia tra le galassie, smarrito tra pluriversi e tempi infiniti. Tutto è svanito nella solitudine cosmica dove il tutto è niente, solo un minuscolo frammento di tempo e di spazio sperduto nell’immensa amnesia di astri, costellazioni, miliardi d’anni e pianeti. E la vita umana, la vita terrestre si riduceva a una piega trascurabile dell’universo, un lembo sottile e passeggero, come una virgola nell’infinito. Il mondo era piccolo, allora, e non conosceva altri mondi e altre vite, oltre quella che si chiamava storia dell’uomo.  Non era il piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro e nemmeno il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che alludevano uno al piccolo mondo di ieri, l’altro al mondo paesano, della provincia padana. Ma era il mondo intero a essere piccolo agli occhi di chi ci viveva dentro. E il presepe ne era la rappresentazione, la mappa. Perduto quel piccolo mondo raccolto intorno a un evento divino ma familiare, venne lo spaesamento, la fluttuazione gratuita tra essere e sparire. L’infinito è il Niente. La fisica ha ingoiato la metafisica, il buio ha inghiottito la luce, il caos ha risucchiato l’ordine del mondo; tutto svanisce negli interminati spazi e nei sovrumani silenzi, e dissolve quel presepe vivente e morente che sembrava al centro di tutta l’esistenza dell’uomo, della storia e della natura. La perdita del centro produsse effimere illusioni policentriche e poi onnicentriche, fino a che si colse la vanità di ogni confine e l’evanescenza di ogni centro. Estraneità incommensurabili, l’immenso vanifica il concreto a noi più vicino. La ricerca oltre gli spazi domestici deve continuare, la sete di conoscere è necessaria e feconda, l’esplorazione di mondi sconosciuti, l’avventura del sapere nell’ignoto non deve fermarsi; ma non può diventare il buio la misura della luce, l’infinito la misura del finito, il non essere la misura dell’essere. Altrimenti ci disperdiamo nel vuoto e nel nulla. Bisogna che il mondo resti dentro la sua misura confacente. Il piccolo, nella sua prossimità, è l’autentico, il genuino, l’identità. Per continuare a vivere, a credere, a pensare e sperare, forse dovremmo, dico forse, fermarci dentro quei limiti, non scrutare gli abissi, accettare di vivere dentro il nostro orizzonte, ancorarci alla realtà, alla natura e ai suoi confini; non siamo déi ma uomini, mortali e imperfetti. Facciamoci bastare quel mondo, quella vita, quel presepe, quella carezza, quel Bambino. E più non dimandate . I greci saggi avevano orrore per l’infinito (Apeiron) e figuravano la perfezione come un cerchio e non una retta che si perde nell’infinito come si perde la mente nella notte della pazzia. Ritenevano che la peggiore insolenza dell’uomo fosse l’hybris, la tracotanza smisurata che rende superbi e poi dementi. Non misurate la realtà coi desideri illimitati. La civiltà è un perimetro delimitato dai propri confini, non solo geografici, e dal proprio cono di luce. Salvo gli ardimentosi esploratori e le loro missioni nell’ignoto, la vita è accettazione saggia del nostro destino e dei suoi limiti. Amor fati.  Perciò conviene ripartire dal piccolo, riprendere a pensare e a vivere nella prossimità, nella realtà accessibile, tra mete raggiungibili e illuminate, in un mondo amico, vicino e comprensibile, alla nostra portata. Dovremmo forse, dico forse, rientrare in quell’habitat, accettare quel che avemmo in sorte, abbracciare i presenti, ricordare gli assenti. Rientrare nel presepe, trovare il nostro posto, riconoscere gli altri, riaffermare la vicinanza, assumerci il fardello che ci tocca in sorte. Ripartire dal piccolo, come il Bambino, ritornare alla prossimità, ritrovarsi in un mondo che non è aperto all’infinito, ma alle vicine latitudini, nella comune finitudine. L’infinito lasciamolo all’infinito; noi torniamo a casa, per Natale.

Marcello Veneziani 

A proposito di libri…

 

È sciocco pensare che si debbano leggere tutti i libri che si comprano, come è sciocco criticare chi compra più libri di quanti ne potrà mai leggere. Sarebbe come dire che bisogna usare tutte le posate o i bicchieri o i cacciavite o le punte del trapano che si sono comprate, prima di comprarne di nuove. Nella vita ci sono cose di cui occorre avere sempre una scorta abbondante, anche se ne useremo solo una minima parte. Se, per esempio, consideriamo i libri come medicine, si capisce che in casa è bene averne molti invece che pochi: quando ci si vuole sentire meglio, allora si va verso “l’armadietto delle medicine” e si sceglie un libro. Non uno a caso, ma il libro giusto per quel momento. Ecco perché occorre averne sempre una nutrita scelta! Chi compra un solo libro, legge solo quello e poi se ne sbarazza, semplicemente applica ai libri la mentalità consumista, ovvero li considera un prodotto di consumo, una merce. Chi ama i libri, sa che il libro è tutto fuorché una merce.»

Umberto Eco

donna tra i libri

Riconoscere gli altri per quello che sono…

Battiamo il ferro finché è caldo, finché continua il rumore per il femminicidio di Giulia, prima che torni l’indifferenza o che il maschio alfa riprenda il controllo della situazione attraverso i suoi celebri spiegoni: per carità, nessuno nega l’orrore delle violenze, ma anche basta con queste generalizzazioni! Che c’entrano, adesso, il patriarcato e la cultura dello stupro? Battiamo il ferro finché è caldo, dicevo, e partiamo dall’inizio, da quello che manca oggi e di cui, in fondo, si parla sempre troppo poco, perché è più facile attenersi agli slogan o ai luoghi comuni che riflettere su ciò di cui c’è davvero bisogno. E quindi? Quindi proviamo a parlare di riconoscimento, di quella lotta per farsi accettare che il filosofo tedesco Axel Honneth considera il cuore pulsante delle società contemporanee, di quel bisogno disperato che hanno non solo i ragazzi e le ragazze, ma anche i genitori e gli insegnanti, di essere visti e ascoltati e riconosciuti per quello che sono. Dietro il patriarcato e dietro la cultura dello stupro c’è sempre un’assenza di riconoscimento dell’alterità, e dunque una mancanza di rispetto.

C’è chi continua a imporsi, senza mai interrogarsi nemmeno una volta su come possano sentirsi coloro che cedono, si sottomettono o subiscono. E comportandosi come se le altre persone non esistessero, le cancella, le umilia, le sfrutta; abusa del proprio potere o del proprio ruolo; detta legge e decide al posto altrui cosa sia giusto o meno fare. E poi ci sono tutti coloro (la maggior parte delle persone) che si battono e lottano anche solo per essere visti. Ed esistere. Indipendentemente dal fatto che corrispondano (o meno) alle aspettative dei genitori, dei professori, dei datori di lavoro, dei mariti, dei fidanzati. Esistere. Senza cercare like e follower come surrogati di amore. Non ce n’è affatto di amore sui social, c’è solo chi è pronto a tutto pur di apparire, e avere la sensazione di essere importante (ma importante per cosa? per chi?) anche solamente per pochi istanti.

Proviamo a capire insieme cos’è che non funziona oggi, come sia possibile che un ventiduenne non sopporti nemmeno l’idea che una compagna si laurei, trovi un lavoro, magari persino un nuovo fidanzato. Non basta dire che un tizio agisce così perché è fragile, come ha sostenuto qualcuno, oppure perché privo di modelli o cresciuto a pane e pornografia, come ha suggerito qualcun altro. È davvero sufficiente parlare di fragilità o di pornografia per spiegare la frustrazione e l’aggressività che ci circondano? Non è un modo per prendere le distanze dalla violenza estrema dei femminicidi e non sentirsi coinvolti direttamente, nella carne e nel corpo, mentre invece siamo tutte e tutti in parte responsabili, per ogni volta che abbiamo smesso di ascoltare o di vedere chi ci è accanto, per ogni volta che ci siamo irritati quando un’altra persona non agiva (o non era) esattamente come avremmo voluto che agisse (o fosse)? Ricominciamo, gli uni e le altre, dal riconoscimento. Ricominciamo dall’accettazione dell’alterità.

 Michela  Marzano, da LA STAMPA

Riconoscere l'altro

De profundis per il maschio…

 L’ultimo attacco alla società maschilista l’ha fatto Bergoglio e sembra un’estrema unzione. Bisogna smaschilizzare la Chiesa, ha detto il suo principale; anzi per lui uno dei più grandi peccati della Chiesa coincide con tutta la sua storia, struttura e tradizione, anche popolare: la prevalenza del maschile. Bergoglio da tempo ha abdicato al ruolo di Santo Padre per assumere il ruolo di Influencer. Le chiese sono deserte e lui s’inventa una chiesa fluida, nomade, che si muove inseguendo i flussi d’opinione. Ha lasciato il carisma, l’autorevole tradizione, il senso del sacro, del rito, del simbolo e della liturgia; reputa una battaglia persa esortare alla fede, alla catechesi e alla riscoperta di Dio, e si pone il problema di influire sulla società contemporanea facendosi a sua volta influenzare dalle sue tendenze prevalenti, fino a sposarle, con rito civile. Compiace l’onda social del momento, cavalca l’Opinione Dominante di cui si fa veicolo clericale, avalla una versione pretesca del femminismo, reputa la Chiesa la continuazione dei social con altri mezzi. Instagram, Telegram, Papagram… In attesa che dopo di lui arrivi una papessa, magari nera, lesbica o trans per testimoniare la svolta della cristianità, resta sul tappeto la questione maschile e femminile. Stavolta non vorrei esprimere le mie idee in merito, e nemmeno descrivere le tendenze in atto nella nostra società; ma riferire, semplicemente riferire, con qualche annotazione postuma, un diverso parere rispetto al Dogma Femminista che si è imposto in questi giorni sulla scia del sangue di Giulia e delle altre donne massacrate in questi ultimi giorni.   Attingo quest’opinione dal libro di uno psichiatra e psicoterapeuta, che già si distinse per l’affilato pamphlet Psicopatologia del radical chic. Parlo di Roberto Giacomelli e del suo libro Oltre il maschio debole, pubblicato da Passaggi al bosco. Il libro mi è stato segnalato da un amico. Provo a farne una sintesi, naturalmente rischiando di essere sommario, riportando le sue tesi. L’indebolimento progressivo dell’archetipo maschile, dice lo psichiatra, ha generato maschi fragili ma anche donne profondamente scontente. Non è nata una società matriarcale, come quelle antiche, ma un vuoto di potere che ha generato caos. Le donne sono più insoddisfatte e sole che nelle società patriarcali. Le donne sono costrette a svolgere più ruoli, anche non congeniali: supplire ai padri assenti, vedersela da sole a educare i propri figli, caricarsi di mansioni che indeboliscono la loro femminilità e la loro maternità. C’è dietro questo, secondo Giacomelli, un disegno, “un interesse supremo del Sistema”, che usa manodopera femminile perché meno costosa, più soggetta allo sfruttamento. Le donne, incalza, sono abbandonate a se stesse mentre è disintegrata la famiglia; nella società del consumo compulsivo, nota, le donne preferiscono “una fatua libertà”. In realtà, sostiene Giacomelli, le donne oggi hanno acquisito solo il potere di acquisto di oggetti, inaridendosi e sacrificando i sentimenti e le relazioni parentali. Le definisce “maschi imperfetti”, mentre le differenze tra i sessi si confondono e prevale l’atomismo. A ciò concorrono fortemente le nuove teorie gender che indeboliscono le polarità maschile e femminile. Così le donne diventano aggressive, i maschi deboli, spesso depressi, devitalizzati. Questo clima, per lo psichiatra, spinge all’omosessualità e all’impotenza; o meglio alla regressione verso l’omosessualità latente e potenziale dell’età adolescenziale. Depotenziano il maschile e rendono più rabbiosa l’insoddisfazione femminile. Anche le donne patiscono la perdita del loro archetipo di riferimento, prive di guide e riferimenti, non riescono più a esprimere la loro integrale femminilità. Intanto i corpi femminili vengono ancora usati come oggetto di seduzione pubblicitaria; ma sul piano sociale i caratteri femminili “vengono abbandonati per una fisicità volgare ed informe”. Maschi indeboliti e femmine indurite, questo il risultato. Infine un richiamo alla condizione della donna dopo il 1968 che avrebbe reso nevrotiche le donne, concentrate solo su se stesse, fino all’affermazione del femminismo, “ultimo stadio di un processo degenerativo”. Da qui un conflitto permanente tra solitudini. La rovina dei maschi deprivati dai padri, trascina anche le donne, mentre crescono la sindrome ansiosa e le somatizzazioni. Maschi regrediti a puer, sempre più femminei, depilati e vestiti in modo coerente con questa immagine (al contrario delle donne, sempre più virilizzate), poco affidabili come padri e come partner. Gli uomini forti delle altre generazioni, dice Giacomelli, erano autoritari ma non avevano bisogno della violenza per imporsi; i nuovi invece diventano persecutori, aguzzini delle loro donne quanto più sono fragili. Così le donne, pur con tutte le criticità rilevate, “sono l’ultimo cardine di una famiglia disgregata e distrutta”; sono il sesso forte, eccellenti in alcune attività prima riservate agli uomini; ma infelici, frustrate. Non vado oltre.  Che dire? Da un verso è l’opinione diffusa ma inespressa di tanta gente, non solo uomini, in cui confluiscono luoghi comuni, buon senso, esperienza di vita, facili cliché e nostalgia del tempo andato. Sarebbe facile sottolineare che è una lettura con troppe semplificazioni e generalizzazioni, che non evidenzia i lati negativi della società passata e propone un modello ormai impraticabile. E allora perché proporre queste pagine come una specie di Vannacci della psichiatria?  Perché quando tutte le grandi agenzie del nostro tempo, tutti i media, tutti gli influencer, da Ferragni a Bergoglio, dalle femministe al ministro Valditara, ripetono la stessa cosa, è cosa buona e giusta allargare lo sguardo a un altro parere, radicalmente diverso. Salvo poi discuterlo, analizzarlo e confutarlo. Ma, vivaddio, riprendiamo lo spirito critico, vediamola anche da un’altra postazione; il senso della libertà e dell’intelligenza sta nel non adeguarsi, non ripetere, vilmente, a pappagallo, quello che dice il mainstream. Sollevare dubbi, a costo di scandalizzare. Ogni tanto confrontatevi col radicalmente diverso se volete capire il vostro tempo e viverci non da pecore o da robot ma da uomini vivi e pensanti.

Marcello Veneziani                                                                                                                    

Sul potere e il ritirarsi… di Marcello Veneziani

 

Maestro mio grande, ogni volta che mi avvicino al potere, mi allontano con rabbia e ribrezzo. So che non dovrei, perché la mia mansione profana mi conduce inevitabilmente a frequentare le stanze del potere. E poi so che nessuna città potrà mai sopravvivere senza lo scettro del comando e l’autorità. Il potere è causa di molti mali come di tanti beni, violenta e protegge, rende giustizia o impone ingiustizia, unisce e separa, guarisce e ferisce. Il potere è come Giano bifronte, signore del bene e del male, e di mille gradi intermedi o solo diversi.
Capisco dunque l’ambigua ma necessaria natura del potere, e lo rispetto a distanza, osservo le leggi, le decisioni e la sua autorità. Ma preferisco abitare lontano e costruire la mia vita al di fuori del suo raggio. Cerco la lontananza, la luce e il mare per eludere la sua sorveglianza e non sentire i miasmi del suo fiato e dei suoi servitori. Come te, del resto. Ma se devo esserti sincero, come tu esigi, non condivisi quel che scrivesti anni addietro: il saggio, dicesti, pur di mettere in salvo la sua missione e dedicarsi alle cose che contano, eseguirà anche ciò che non approverà e adatterà i costumi alle circostanze. Ci sono compromessi necessari per vivere, piccoli cedimenti e temporanee remissioni finalizzate a salvaguardare scopi superiori; ma la doppia morale mi pare inaccettabile proprio alla luce della tua dottrina perché tocca principi e beni che non si esauriscono nella sfera dei mezzi ma intaccano la sfera dei fini. Meglio sottrarsi alla vicinanza del potere, come tu hai fatto poi, e ritirarsi; o se possibile, meglio ribellarsi, e in extremis sottrarsi alla vita pur di non eseguire ordini ripugnanti e non farsi complice della malvagità. Muovendoti queste obiezioni so di essere in buona compagnia, perché ho dalla mia parte Seneca e altri suoi stessi pensieri.
Il potere si circonda di servi e di adulatori, si nutre del falso e di privilegi, si esalta nella sopraffazione e gode nell’annientare chi si frappone. La colpa di quell’abuso è dei potenti solo per un terzo; per un altro terzo è dei conniventi e dei consenzienti; e per un terzo infine è insito alla natura stessa del potere, cresce alla sua ombra indipendentemente dall’indole dei sudditi e dei potenti. Degli abusi di potere i potenti sono colpevoli solo in parte. Tanti valentissimi uomini si comporterebbero da prepotenti se fossero loro a comandare. E non sempre è poi vero che detiene un posto di comando chi ha una predisposizione malvagia, un’attitudine alla prepotenza. Lungo la strada tralignano anche buone nature e rette intenzioni. E’ divino essere infallibili ma è umano saper rimediare ai propri errori, accorgersi in tempo e sottrarsi al degrado. Il potere corrompe ma a volte schiaccia gli stessi potenti e li rende suoi servi. Questo vale non solo per chi ha in mano le sorti di un Impero o di una città, ma per chiunque abbia un potere, perfino domestico. Il potere si combatte solo con il potere, bilanciando le forze e commisurando al male i rimedi. Ma quando il potere opprime e si è inermi al suo cospetto, l’importante, insegnano i tuoi autori, è che ciò su cui noi non possiamo nulla, possa il meno possibile su di noi. E’ necessario cucirsi addosso una corazza impenetrabile per resistere ai suoi oltraggi, alle sue tentazioni e alla sua violenza e vivere in dignitosa libertà.
Il saggio non può vivere a lungo accanto al potere: nella migliore delle ipotesi perde il suo tempo, perde la vita nella ipotesi più sinistra e perde l’anima nella peggiore delle ipotesi, perché cede alla potenza e alle lusinghe del male. Accadde a Platone accanto a Dionisi II, Tiranno di Siracusa, accadde ad Aristotele accanto ad Alessandro, e accadde anche a te, Seneca con Nerone, se dopo hai preferito la casa di campagna al palazzo reale. Non è solo l’iniquità del sovrano che spinge il sapiente a ritirarsi o perfino esiliarsi, ma la natura stessa del potere che se non corrompe certo distrae dalla saggezza; e la natura stessa del pensiero che predilige l’indipendenza al comando, la solitudine alla corte e il raccoglimento alla dispersione.

(Da Vivere non basta. Lettere di Lucilio a Seneca sulla felicità, Mondadori, 2011)

potere

Questo post su libri e tarocchi è per gli uomini

“Il patriarcato impone agli uomini di diventare storpi emotivamente”.

Come l’Imperatore al regressivo, cresciamo svendendo le nostre emozioni,chiudendo il petto, la nostra capacità di essere sensibili per ottenere lo scettro, il finto dominio del patriarcato. Abbiamo il dovere di assumerci la responsabilità della nostra cura, altrimenti resteremo niente di  più che bambini traumatizzati ed estremamente violenti, idioti emotivi e tirannici .E per quante ferite possiamo aver ricevuto, se non scegliamo di prendercene cura attivamente, scegliamo allora automaticamente di  diventare gli unici responsabili e perpetratori della violenza. Tutti. E ho visto ancora troppi pochi di noi fare terapia, ho incontrato ancora pochissimi nei gruppi di consapevolezza, pochissimi sforzarsi di trovare i mezzi per riaprire il proprio cuore, troppo pochi scendere in piazza e sostenere il femminismo. E ho visto ancora troppi difendere con i denti la propria violenza, o non riconoscerla (che è lo stesso).

Nelle parole preziose di Bell ooks:

“Nessun uomo che non decide attivamente di impegnarsi a cambiare e a mettere in discussione il patriarcato riesce a sfuggire alla sua influenza. Se i semi del pensiero patriarcale sono stati impiantati nella sua psiche, anche l’uomo più passivo, buono e tranquillo può arrivare a commettere atti di violenza.”

“L’indottrinamento che comincia durante l’infanzia include un’iniziazione psicologica che impone ai bambini di accettare il fatto che la loro disponibilità a commettere atti di violenza ne fa dei patriarchi.”

“Ogni volta che le pensatrici, in particolare quelle femministe, parlano del problema diffuso della violenza maschile, la gente è pronta a contestarle dicendo che la maggior parte degli uomini non è violenta. Si rifiuta di ammettere che masse di ragazzi e uomini sono stati programmati fin dall’infanzia a credere che a un certo punto della loro vita devono diventare violenti, fisicamente e psicologicamente, per dimostrare di essere uomini.”

“Dobbiamo immaginare alternative alla mascolinità patriarcale. Tutti dobbiamo cambiare”.

@daniele.tarot

 

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Identità, tradizione e negazione (spunti della relazione tenuta a Radici, festival dell’identità, da Marcello Veneziani)

 

L’identità è un bisogno radicale dell’animo umano. Un bisogno naturale e culturale, personale e comunitario, su cui si fonda il riconoscimento di sé e il rispetto dell’altro; vale anche l’inverso. Non c’è dialogo che non avvenga tra identità differenti; chi pretende di dialogare mettendo da parte se non addirittura cancellando le identità, rende inutile e impossibile il dialogo; non può esistere infatti un dialogo tra nientità neutre, intercambiabili.
L’epoca che stiamo vivendo è invece protesa a deprimere e vanificare le identità, a considerarle d’ostacolo alla pace e all’inclusione, residui tossici e contundenti di una chiusura al mondo. È un bombardamento dell’identità così vasto, costante e capillare; dall’alto, dall’interno e dal basso. Una cappa di obblighi, emergenze e disposizioni calata dall’alto, un’infiltrazione continua di modelli d’influenza ostili attraverso i media e le istituzioni, e un’affluenza massiccia di flussi migratori che producono alienazione, tensioni e disagio.
Il triplice attacco all’identità produce reazioni ostili di tre tipi principali: un rifugio introverso nel proprio habitat, un atteggiamento di rabbia e scontentezza verso l’esterno, una richiesta di protezione securitaria e insieme di rappresentazione identitaria. E’ quel che sta accadendo nel mondo, in Occidente, in Italia. Larga parte dei conflitti e del malessere che attraversano le società deriva dall’identità in pericolo, il mancato riconoscimento e rispetto di ciò che siamo, la desertificazione delle differenze, la vertigine del mondo globale e spaesato.
L’identità, tuttavia, non è inerte, solida come un macigno e inamovibile. L’identità entra nella storia, ed è comunque un essere nel divenire; il fluire dell’identità si chiama tradizione, che è un trasmettere in cui persistenza e duttilità cercano un punto di equilibrio. L’identità non presuppone un mondo immobile ma una società che sa mutare, ricordare, far tesoro dell’esperienza e del patrimonio ereditato ma anche affrontare le sfide del futuro. La tradizione non è immobilità o culto del passato ma continuità, procedere e tornare; e, mutatis mutandis, salvare quel che non merita di perire. Gioia delle cose durevoli.
L’avversario dell’identità e della tradizione non è dunque il progresso e l’avvenire, ma l’ideologia woke contro la realtà, la storia e la natura; e dai suoi derivati, a partire dalla cosiddetta cancel culture. E’ in corso un’aggressione capillare e pervasiva di tutto ciò che costituisce l’habitat naturale e culturale, biologico e storico della nostra civiltà; il senso religioso, i legami comunitari, le appartenenze affettive, il sentire comune dei popoli.
Chi colse per primo, agli albori della nostra modernità, la negazione del reale e dello spirituale, mediante un attacco al sentire comune, alla famiglia, al senso religioso e al legame territoriale, fu Giambattista Vico, a cui ho dedicato di recente la prima biografia . Vico oppose al dominante razionalismo ateo, e poi illuminista, del suo tempo e alla “boria dei dotti”, il richiamo alla civiltà e a ciò che la connota: la memoria storica e il ricordo delle origini, la tradizione, il linguaggio, la poesia ma anche la famiglia, il sacro, l’amor patrio. In quella visione che connetteva anziché separare o porre in antitesi mito e scienza, storia e pensiero, filosofia e religione, fisica e metafisica, Vico difendeva l’identità come principio di realtà.
Prefigurava tre secoli fa, quel che poi darebbe avvenuto, fino al rovesciamento della realtà, in base al quale, si denuncia la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia per non vedere la patriofobia, la teofobia e la famigliofobia, e più in generale l’odio e la vergogna per la propria civiltà e la sua storia, la sua vita, la sua natura e cultura. E’ una cancellazione sistematica e aggressiva di tutti i vasi sanguigni entro cui scorre la vita di un uomo; dalla famiglia alla natività e al ruolo genitoriale, dalla comunità cittadina alla comunità nazionale, dal lessico corrente ai simboli alle tradizioni in cui è nato e cresciuto agli stili di vita. In questo contesto degradato provate a immaginare dove possa finire la sua identità, l’identità di popolo e di sé persona. Ma poi quando allinei tutti questi fattori, quando metti insieme una demolizione dopo l’altra, ti accorgi che alla fine di te non resta niente, se non il dispositivo che ti fa dir di si, come una foca ammaestrata, per accedere al secondo gradino e poi al terzo, al quarto… O che ti punisce, ti priva di riconoscimento, se scegli una strada diversa. Resti spaesato, esacerbato, ma soprattutto disconnesso, perdi i contatti con le tue origini, la tua vita, il tuo mondo, vivi solo l’ebbrezza del transito. Perdi la libertà di essere te stesso nel miraggio di diventare tutto e il suo contrario, in una fluidità incessante; perdi la relazione col tuo ambiente, la dignità di quel che sei e le tue sicurezze. Perché l’identità non è un sorta di icona che riposa negli iperurani ma è la tua vita col calore di un’anima e dei suoi affetti, il fervore di un’intelligenza collegata alla realtà, la carne dei tuoi amori, il sangue della tua memoria e la rètina delle immagini che vi sono impresse e documentano la tua storia. Dell’identità ti accorgi solo quando è in pericolo, altrimenti ci vivi dentro senza accorgertene. Quando perdi l’identità perdi la familiarità con te stesso e la tua storia; e la familiarità col mondo e con la storia, sul piano dell’identità comunitaria. Diventi mutante in orbita e straniero in casa tua. L’identità è semplicemente quel che siamo, la nostra realtà di uomini, anima, mente e corpo. Anche senza esserne pienamente consapevoli, i popoli chiedono di tutelare la propria identità: e sul piano pratico prima che culturale, passando naturalmente per gli interessi e i bisogni. Con l’identità insorge un’energia negata che scompagina le carte, i teoremi e gli assetti e riapre la storia all’imprevedibile avvenire.