La nostalgia è l’amor fati. Ciò che si lascia è perduto. La rotta del destino la tracciamo noi.

Recensione di Biagio Riccio

Il presente è ponderato con difficoltà, soprattutto quando uno spezzone della vita sia stato vissuto intensamente.
Affiora il sentimento della nostalgia, dell’irripetibile condizione di un tempo passato, sfiorito.
Come se il presente si annullasse, non esistesse: vi è un conato dell’anima, uno sforzo proteso al ricordo, ad un richiamo del passato, al suo contesto già compiuto.
Se infatti si intende ripetere un film già visto, o fare una rimpatriata, non sarà mai più come prima.
Senti la vecchiezza del presente, la tristezza di una condizione impossibile.
La vigoria del fisico non si può ripristinare, nemmeno con la chirurgia plastica: certe donne non accettano la corrosione del tempo, il presentarsi implacabile delle rughe, la caduta delle forze e ricorrono ad interventi medici che ridicolmente imbruttiscono- (inesorabilmente)-con tiraggi della pelle, il volto e le parti del corpo.
Così non si fa: si ama anche la caduta del tempo: sovvien la tenerezza d’animo che è sublime.
La vecchiezza frantuma il corpo, ma non la voglia di vivere:amate le rughe, sono la gioventù dell’anima.
La nostalgia è una curva, un portarsi all’indietro per raccogliere il tempo versato. Riconosce il fascino dell’inattuale, l’ irriducibilita’ del destino, che giocoforza deve scorrere, come un fiume che deve sfociare nel mare.
La corrente non può risalire, rigurgitare, deve andare irreversibilmente verso quella direzione.
È questa condizione dell’uomo che non accetta il suo destino.
Perché se siamo felici, egoisticamente desideriamo che il tempo si fermi, diventi eterno, non corra verso l’ignoto: la paura e l’angoscia ci prendono.
Ci voltiamo, dunque, indietro e siamo nostalgici: in greco “ritorno” si dice nòstos.
Álgos significa “sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare al già vissuto.
Proust ne ha scritto un capolavoro: “Alla ricerca del tempo perduto”.
D’Annunzio dei versi bellissimi ( La sabbia del tempo): si evoca la condizione dell’ uomo, come quella di chi si pone in un ozio immobile (trattenuto dal cavo della mano) al cospetto della clessidra nella quale scorre la sabbia (sempre), anche quando la capovolgi.
“Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina mi assale”.
L’uomo dunque deve vivere ed accettare il suo destino predisporsi al futuro, ad una progettualità che deve superare anche la consapevolezza della morte.
Amor fati.
È l’amor fati: accettare il destino della vita per cambiarla, per possederla, per rimuovere la nostalgia che produce melanconia.
Questa è la filosofia dell’ottimismo, del dominio della volontà sull’evento, della forza sulle cose.
Una dichiarazione d’amore per la vita.
Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza.
Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’innocenza del divenire, come ci aveva insegnato Nietzsche.
Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza, perché essa è pura necessità.
Amor fati come ha scritto in un bellissimo libro Marcello Veneziani è un antidoto al fatalismo contemporaneo: accogliere l’essere nel suo accadere, perché essere è avere un destino, è accettare la vita con i suoi limiti e le consunte responsabilità, non struggersi per essere altro e stare altrove, è amore metafisico per la realtà, è la serenità degli inquieti, una adeguata replica alla grandezza infinita del destino.
Si deve tendere all’espansione della vita, alla ricerca del piacere e dell’ottimismo.
La mitologia segna lo scorrere del tempo: come un filo che un giorno sarà tagliato.
Le figlie della notte, le Moire sono tre: Cloto, nome che in greco antico significa “io filo”, che appunto filava lo stame della vita; Lachesi che significa “destino”, che lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto del filo spettasse a ogni uomo; Atropo che significa “inflessibile”, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La nera Atropo va rimossa : ciò che si lascia è perduto, se non è vissuto.
Amiamo il destino per tracciarne noi la rotta.

( a margine di Amor Fati di Marcello Veneziani).

Il piroscafo, Novecento, New York…

“Tutta quella città… non se ne vedeva la fine… /
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? /
E il rumore /
Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema /
Col mio cappello blu /
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino /
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino /
Primo gradino, secondo /
Non è quel che vidi che mi fermò /
È quel che non vidi /
Puoi capirlo, fratello?, è quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne /
C’era tutto /
Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo /
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu /
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me /
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi /
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita /
Se quella tastiera è infinita, allora /
Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio /
Cristo, ma le vedevi le strade? /
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una /
A scegliere una donna /
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire /
Tutto quel mondo /
Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce /
E quanto ce n’è /
Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla… /
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare.”

 

Alessandro Baricco, Novecento. Un monologo

 

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Quando il silenzio è d’oro…

 

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Noi indiani sappiamo del silenzio. Non abbiamo paura di lui.

In realtà, per noi è più potente delle parole…I nostri anziani sono stati educati nei modi del silenzio, e loro hanno trasmesso questa conoscenza a noi. Guarda, ascolta, e poi agisci, ci dicevano. Questo è il modo di vivere.

Guarda gli animali per vedere come si prendono cura dei loro cuccioli.

Guarda gli anziani per vedere come si comportano.

Guarda l’uomo bianco per vedere cosa vuole…Guarda sempre prima, con cuore e mente fermi, e poi imparerai.

Quando hai osservato abbastanza, allora potrai agire.

Con voi è il contrario. Imparate parlando.

Premiano i bambini che parlano di più a scuola.

Durante le loro feste tutti cercano di parlare.

Al lavoro stanno sempre avendo incontri in cui tutti interrompono tutti, e tutti parlano cinque, dieci o cento volte… e lo chiamano′′ risolvere un problema”.

Quando sono in una stanza e silenzio, si innervosiscono. Devono riempire lo spazio con i suoni.

Così parlano impulsivamente, anche prima di sapere cosa diranno.

Alla gente bianca piace litigare. Non permettono nemmeno che l’altro finisca una frase. Per gli indiani questo è molto irrispettoso e persino molto stupido…Interrompono sempre.

Se tu inizi a parlare, io non ti interrompo. Ti ascolterò.

Forse smetterò di ascoltarti se è disgustoso quello che dici.

Ma non ti interromperò… quando avrai finito, prenderò la mia decisione su quello che hai detto, ma non ti dirò nulla se non sono d’accordo, a meno che non sia importante… al contrario, starò semplicemente zitto e mi allontanerò.

Mi hai detto quello che devo sapere…Non c’è nient’altro da dire.

Ma questo non è abbastanza per la maggior parte dei bianchi.

Le persone dovrebbero pensare alle loro parole come se fossero semi.

Dovrebbero piantarle, e poi permetterle di crescere in silenzio.

I nostri anziani ci hanno insegnato che la terra ci parla sempre, ma che dobbiamo rimanere in silenzio per ascoltarla.

Ci sono molte voci oltre alle nostre. Tante voci…′′Salva la tua lingua nella gioventù′′ disse il vecchio capo Wabashaw,′′ e nella maturità potresti crescere un pensiero utile al tuo popolo”.

(Ohiyesa / Dr. Carlo A. Estman, Dakota Santee, 1902)

Il piacere…

 

Tutto il mistero del piacere nel corpo di una donna sta nell’intensità della pulsazione che precede l’orgasmo. A volte è lenta, uno due, tre palpiti che poi lasciano attraverso il corpo un liquore di fuoco e ghiaccio. Se il palpito è debole, in sordina, il piacere è come un’onda più gentile. Il seme dell’estasi esplode con maggiore o minore energia, quando è più ricco tocca ogni porzione del corpo, vibrando attraverso ogni nervo, ogni cellula. Se il palpito è intenso, il suo ritmo e il battito sono più lenti, e il piacere più durevole. Frecce di carne cariche di elettricità, una seconda onda di piacere cade sulla prima, e poi sulla terza, che tocca ogni terminazione nervosa, attraversa il corpo come una corrente elettrica.  Un arcobaleno di colori sferza le palpebre. Una schiuma di musica cola dalle orecchie. E’ il gong dell’orgasmo. A volte una donna sente il proprio come uno strumento appena sfiorato, altre volte raggiunge un acme tale che pare sia impossibile andare oltre. Tanti orgasmi. Alcuni provocati dalla tenerezza, alcuni dal desiderio, alcuni da una parola o da un’immagine vista durante il giorno. A volte il giorno stesso chiede un orgasmo, giorni di sensazioni accumulate e di sentimenti inesplosi. Ci sono giorni che non si concludono con un orgasmo, quando il corpo è addormentato o sogna altri sogni. Ci sono giorni in cui l’orgasmo non è piacere ma dolore, gelosia, terrore, angoscia. E ci sono giorni in cui l’orgasmo si verifica nella creazione, un orgasmo bianco.

Anais  Nim

 

Il piacere

Dedicato a tutti quelli che non riescono a vedere il proprio valore.

 

Carolina parla poco e cammina senza far rumore, si nasconde dalla vita perché non è come vorrebbe, perché non riesce a smettere di sentirsi in difetto. Non riesce a sentirsi mai “abbastanza”. E nessuno sa perchè, ma lei sussurra una canzone. Lei cammina e va lontano, ma mai abbastanza, lei lavora e sputa l’anima a lavare i pavimenti, a lustrare le maniglie di portoni, che custodiscono famiglie in doppiopetto, che salgono le scale e la salutano come quando accarezzi la testa di un cane, come quando sorridi come a dire “ti guardo per sentirmi migliore, ti guardo ancora per convicermi  di nuovo”. Lei china sulla scale sputa l’anima e i sospiri d’ammoniaca e se lo chiede e sottovoce si risponde “mai abbastanza”.

Carolina occhi scuri come il fondo della notte, si ferma un attimo e ti guarda come a dire “non azzardarti far domande, non devi accorgerti di me, è inutile che insisti, non ti lascerò entrare”. Ti sorride come a dire “adesso lasciami passare, come i viaggiatori alle stazioni, che appena son passati non ricordi neanche il viso, neanche il suono della voce, neanche se siano mai esistiti veramente”. E si guarda Carolina, nello specchio dell’ingresso e vede zigomi sabbiosi come le dune che scalava a dieci anni, vede guance screpolate, come gli affreschi nelle chiese sconsacrate, che ti senti a disagio solo a vederle a lontano. Dovrebbero esserci anche gli occhi, forse nascosti chissà dove, ma tira a indovinare, meglio non rischiare di incrociarli in quello specchio, che lei lo sa che fanno male, ti si piantano addosso, ti tormentano, ti ricordano che respiri ancora. Decisamente è meglio non rischiare. Carolina che tiene un diploma e trenta grammi di speranze in un cassetto, che se lo apre sente l’odore di quei giorni di risate, di pasticcini e luci al neon e tutti a dire “adesso sì che sei speciale, adesso esci e fatti valere e trova un uomo e metti su famiglia, che è così che si deve fare”.

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Ma lei già lo sapeva di non esserne capace, di non sapere come fare, di non essere mai abbastanza. Lei ha un figlio che ha vent’anni, vive a Londra per amore e un marito di quaranta fuggito chissà dove e non è vero che il tempo cura le ferite, per lei ogni giorno che finisce non fa altro che aumentare il sale sulla pelle, i pensieri fanno male e si piazzano di taglio sul respiro, come i gradini che torturano le ginocchia. Che a pensarci la sua storia è un po’ così, un dolore lieve e costante, che ti logora e ti scava, implacabile, incessante. Carolina che si sdraia sulla sera, come fanno le tovaglie sopra i tavoli, quelle che sono un po’ fuori misura e lasciano uno spigolo scoperto alle intemperie. Si sdraia per abitudine, in un silenzio devastante, in una solitudine che disturba. Tiene una foto sotto al cuscino, c’è un bambino che sorride, ha i suoi, occhi neri come il fondo della notte, lei si raggomitola i pensieri e si addormenta sussurrando una canzone. Il mondo fuori è soddisfatto. Carolina mai abbastanza  . La canzone che sussurra l’ha sentita un giorno, chissà dove e fa così: Da adesso in poi.

“Come le lampade hanno bisogno di petrolio, così gli uomini hanno bisogno di essere nutriti di una certa quantità di ammirazione. Quando non sono abbastanza ammirati, muoiono”, (Henry de Montherlant – Pietà per le donne).

Pinocchio non c’è più__blog

Addio al doppiaggio ?

 

Drive-Away Dolls di Ethan Coen, in sala dal 7 marzo, verrà distribuito solo in lingua originale coi sottotitoli. Ecco perché potrebbe essere l’inizio di un cambiamento.

 CLICCA L’IMMAGINE PER IL TREILER
https://www.esquire.com/it/cultura/film/a46682921/doppiaggio-lingua-originale-drive-away-dolls/?utm_source=pocket-newtab-
preview for Drive-Away Dolls - Official Trailer (Universal Pictures UK)
Nel 2024 probabilmente non ha più senso parlare di una guerra – o almeno,
di uno scontro – tra doppiaggio e lingua originale. Nel corso del tempo, le due cose sono andate di pari passo, hanno imparato a convivere e a sostenersi a vicenda (ora l’ho visto in italiano, prossimamente lo recupererò in originale) e grazie alla possibilità che tutte le piattaforme danno di scegliere la lingua della serie o del film che si vuole vedere le differenze sono state pressoché appianate. Non al cinema, però, dove la tradizione – perché è una tradizione, con una sua scuola, le sue famiglie, i suoi grandi protagonisti – del doppiaggio continua a essere più diffusa e incisiva. Il perché è abbastanza ovvio: doppiare un film in italiano permette di raggiungere un pubblico potenzialmente più vasto. Come ha sottolineato Alessandro Rossi, storica voce italiana e direttore del doppiaggio de Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki, il doppiaggio è “un’esigenza commerciale, non un’esigenza artistica”. E questa esigenza commerciale deve rispondere a un’operazione culturale: “Se noi dissociamo l’esigenza culturale dall’operazione culturale, si creano dei mostri”.
ragazzo airone ultimo film miyazakicourtesy of Lucky Red

Insomma, è importante avere bene in mente quelli che sono gli obiettivi del doppiaggio. E tenere in considerazione anche la quantità di titoli che in questi ultimi anni hanno invaso, rischiando talvolta di sommergerlo, il nostro mercato. I doppiatori, gli adattatori e i direttori del doppiaggio sono un numero limitato, più o meno stabile. La stessa cosa non si può dire delle serie e dei film che, ogni mese, arrivano in Italia: continuano a crescere, non diminuiscono, e se da una parte questo assicura alla categoria che lavora nell’industria del doppiaggio un’occupazione praticamente costante dall’altra mette a dura prova la qualità delle singole interpretazioni, delle traduzioni e delle sessioni di registrazione. Ciò che inevitabilmente diminuisce è il tempo. E le distribuzioni che sono pronte ad aspettare, a posticipare l’uscita a un’altra finestra, sono veramente poche. Così come sono veramente pochi quei professionisti che, pur di mantenere un certo standard, sono disposti a rifiutare un’offerta (attenzione: non è una cosa né scontata né tantomeno dovuta; è chiaro che si parla di lavoro e, quindi, di rispondere a necessità quotidiane). Non è un caso se ultimamente, sulle piattaforme streaming, alcuni titoli sono stati pubblicati prima in lingua originale e solo in un secondo momento hanno ricevuto un doppiaggio italiano. È indubbio che questa è la direzione verso cui si sta muovendo il mondo intero. Anni fa, durante la cerimonia degli Oscar, lo disse anche il regista Bong Joon-ho: una volta superato l’ostacolo dei sottotitoli, avrete accesso ad altri mondi e ad altre storie.

hollywood, california july 22 margaret qualley attends sony pictures once upon a time in hollywood los angeles premiere on july 22, 2019 in hollywood, california photo by axellebauer griffinfilmmagic
Axelle/Bauer-Griffin//Getty Images

La decisione di Universal Pictures di distribuire Drive-Away Dolls, il nuovo film di Ethan Coen con Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan, esclusivamente in lingua originale si inserisce nel solco di questi eventi. Dall’inizio dell’anno, al cinema sono arrivati diversi titoli in – diciamo così – doppia versione, e molte delle proiezioni originali sono sempre andate esaurite. Quindi una base numerica da cui partire, benché minima e ridotta all’eccezionalità di una distribuzione più centellinata, c’è. C’è, poi, la voglia di sperimentare, di provare a distribuire titoli come questo, firmati da un grande autore e con una loro specificità, in un certo modo. Ovviamente, così facendo, si riducono i costi: non ci sarà più un cast di doppiatori da dover pagare. E allo stesso modo sarà più facile – ma non per forza immediato – distribuire un film in contemporanea con gli Stati Uniti (che viste le differenze di comunicazione e di marketing può essere decisamente utile per non dover organizzare un’altra campagna pre-release). Le controindicazioni di un’operazione del genere sono abbastanza palesi: il pubblico a cui poter puntare sarà chiaramente di meno. Drive-Away Dolls arriverà in sala il 7 marzo. E sarà sicuramente interessante vedere come risponderà il pubblico e soprattutto come si piazzerà al botteghino, se riuscirà o meno a competere con gli altri titoli, molti dei quali doppiati o girati direttamente in italiano, programmati nei cinema.

Gianmaria Tammaro

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù, di F.Dostoevskij.

 

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù

Ma io sono un romanziere e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.
Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fluire questo vapore dalle labbra  si diverte a guardare come vola via.
Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà  finita lì?
Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era
improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste  ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre
per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. «F proprio freddo qui» pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini pe riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti
alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.
Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai
cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo. Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e
fumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla.  (continua)

dal Diario di uno scrittore, gennaio 1876   

feste natalizie

Mi piace troppo…

 

Mi sono imbattuta in questo video stupendo. Adoro la tigre siberiana in particolar modo,di certo il mio animale preferito dopo il cane, compagno di vita, non potendo scegliere ovviamente questo stupendo esemplare di essere vivente ,al quale la natura ha dato tutto il meglio, bellezza, eleganza, austerità, forza e resistenza.
La Panthera tigris altaica è più conosciuta come tigre siberiana o tigre dell’Amur, due nomi che derivano proprio dal territorio abitato da questo grande felino, ovvero la Siberia orientale, dove nasce il fiume Amur, che è lungo quasi 3mila chilometri ed attraversa Russia e Cina.

La regione russa che fa da habitat a questo mammifero è molto particolare, dato che è praticamente divisa in 2 fasce climatiche: se il nord è caratterizzato da un clima continentale, con inverni lunghi e molto freddi, la parte sud vanta infatti la presenza dei monsoni. È in questa zona che si trovano gli habitat principali della tigre siberiana, ovvero la foresta boreale, detta anche taiga, e la foresta temperata, nelle quali da abile predatore quale è va a caccia di cinghiali, cervi nobili, ma anche caprioli, sika (o cervi del Giappone) e goral, oltre ad animali di taglia più piccola come lepri o salmoni.
Tra i suoi tratti fisici degni di nota, poi, ci sono le zampe enormi che consentono però all’animale di camminare senza sprofondare sulla neve. Per quanto riguarda il carattere la tigre siberiana è piuttosto solitaria, ad eccezione dei momenti in cui avviene la riproduzione, in seguito alla quale nascono i cuccioli, di solito dopo una gestazione di circa 100 giorni.Naturalmente, l’uomo è tra i principali responsabili del calo di popolazione della tigre dell’Amur, di cui si contano ormai poche centinaia di esemplari, circa 500. Prima veniva cacciata per la sua pelliccia, unica nel suo genere, ora che la caccia è vietata la causa della sua scomparsa è il taglio massiccio delle foreste, che costituiscono proprio il suo habitat, restringendo sempre più il territorio utile alla sua sopravvivenza. Spero che ci possa essere ancora tanta vita per questo felino, le cui caratteristiche non si trovano in altre specie. Osservarlo potrebbe essere una gioia grande per molti, come lo è per me, che mi sono innamorata di questo video, tanto da volerlo qui su questo mio blog.

tigre