Agosto al lavoro, barca o piscina, e l’arte dello scrocco…

Questa stagione è un libro felice: da quelli che dai suoceri ci mandano solo i figli, a quelli che scarpinano in montagna ore e in verticale così si guadagnano la cena.

Quelli che ce l’hanno e non ci vanno mai.
Quelli che se la sognano, la casa al mare.
Quelli che non la comprano apposta “sennò smetti di viaggiare”.
Quelli che si sono dovuti fare i conti e quest’anno si va dai tuoi cinque giorni al paese.
Quelli che si sono fatti i conti e la vacanza coi tuoi manco se mi pagano due stipendi.
Quelli che dai suoceri ci mandano solo i figli, la migliore idea dell’anno.
Quelli coi figli a Londra.
Quelli coi figli a Londra che dopo tre giorni hanno finito i soldi.
Quelli coi figli a Londra che non hanno parlato una parola di inglese ma al college si sono fatti un sacco di amici italiani.
Quelli coi figli senza compiti per le vacanze, anzi il professore ha mandato a tutti una bella poesia nella chat dei genitori.
Ludus animo debet aliquando dari, ad cogitandum melior ut redeat tibi. “Ma che vuol dire, che li devono fare o non li devono fare?”.
Quelli coi libri da leggere per le vacanze. “Se questo è un uomo”, “I Malavoglia”, “La coscienza di Zeno”. Approvazione silente dei genitori per i grandi classici: per forza o per amore, basta che li leggano.
Quelli col professore moderno che assegna Erin Doom. Magari leggono.
Quelli che una volta i bambini li dovevi recuperare frolli in mare dopo tre ore di bagno e ora fanno la fila al bar, neanche per il gelato, per farsi mettere in ricarica l’iPhone.
Quelli che in vacanza ci vanno a settembre e ad agosto lavorano benissimo.
Quelli che provano per la prima volta agosto in città, pensavano di farcela invece si deprimono. Non ci sono manco le anime dei morti.
Quelli incontentabili.
Quelli accontentabili, va bene pure il bagno nella bacinella blu.
Quelli che come si mangia in Sicilia.
Quelli che si lamentano che tornano chiatti dalla Sicilia.
Quelli che non si può più andare in Sicilia perché fanno 42 gradi.
Quelli che Marzamemi sei anni fa la conoscevano solo loro.
Quelli che vanno a Capri da sempre e sanno tutti gli aneddoti locali su Gianni Agnelli e Jackie Kennedy. Lo chiamano l’Avvocato, come gli amici.
Quelli che la Liguria, gli porti i soldi e ti trattano così. Ce l’avete coi milanesi?
Quelli che la Sardegna, gli porti i soldi e ti trattano così. Ce l’avete coi milanesi?
Quelli che la Sardegna sì, ma non Costa Smeralda.
Quelli che la Campania sì, ma non Costiera Amalfitana.
Quelli che sono cafoni e contenti: Capri, Positano, Porto Rotondo, Forte dei Marmi, Portofino.
Quelli con la barca.
Quelli che “i due giorni più belli se hai la barca sono quando la compri e quando la vendi”.
Quelli che hanno l’amico con la barca.
Quelli con caratteri meravigliosi, gli spassosi e sempre allegri, li trovi ovunque, loro vacanza gratis, e c’è la gara a invitarli. Se li conosci capisci che non è scrocco, è arte.
Quelli che vanno al porto di Bordighera alle sette e mezza ad aspettare il battello perché il pescatore gli tiene da parte la cassetta del pesce appena pescato, solo a loro.
Quelli che al ristorante come il signore del Glen Grant bendati ti dicono se il branzino è allevato o no. Vanno al banchetto del ghiaccio, come i sommelier di pelle di pesce, e ne scelgono uno “perché ha un’ombra verdastra sotto le branchie, vuol dire che è di mare”. Il cameriere lo accompagna con ampi cenni di assenso, per confermare che il signore la sa lunga.
Quelli complottisti, con tutto il pesce che serve ad agosto in Italia secondo te ti danno il pescato, imbecille.
Quelli che affittano la villetta con piscina in Umbria e non sono mai stati così bene, non c’è nessuno per chilometri.
Quelli che vanno in montagna.
Quelli che scarpinano in montagna ore e in verticale così si guadagnano la cena. Che vita.
Quelli che non c’erano mai andati ma adesso cominciano ad apprezzare le cime, il laghetto, la pace, la copertina, il maglioncino. Passa un cervo e fanno una foto. Giusto ogni tanto, all’imbrunire dopo la doccia, si chiedono se è vecchiaia.
Quelli che la vacanza è solo sull’isola perché stacchi.
Quelli che la vacanza è solo in barca perché stacchi.
Quelli che hanno bisogno di andare all’estero, per staccare.
Quelli che si chiedono cosa devono staccare.
Quelli che hanno bisogno di andare ancora più lontano, in Oman.
Quelli che leggono sempre, quelli che non leggono mai ma un libro per agosto lo comprano per tradizione. Questo libro, spesso un saggio o un finalista Strega, frulla per giorni sulla sdraio, al vento, bagnato dagli spruzzi. Le pagine si gonfiano, diventano dorate sotto il sole. Passa una bella estate pure lui, è un libro felice..

Ester Viola__da __IL FOGLIO

 

estate

L’agosto di Cesare Pavese e non solo…

Agosto, il mese adolescente

Agosto non è un mese ma uno stato d’animo; è l’adolescenza dell’anno, in cui si esce dal mondo e dal tempo e si entra nella natura e nel mito. Il tempo è sospeso anche se corrono i giorni, e ciascuno vive in agosto l’esperienza primitiva del ritorno all’origine. La festa patronale, le stelle di San Lorenzo e l’apoteosi del ferragosto, le cicale e le notti bianche, il caldo e il mare, i corpi liberi e vogliosi di vita; e poi la luna e i falò, la spiaggia, la bella estate, feria d’agosto. Cesare Pavese cantò, sin nei suoi memorabili titoli appena citati, la bellezza e il mito d’agosto e dell’estate.  Da meridionale associo agosto al sud, è il mese del ritorno a sud, della discesa a sud di tanti settentrionali. Eppure se l’agosto naturale e sensuale, marino e salmastro, solare e notturno, è situato al sud, l’agosto in parole e poesie è associato a uno scrittore del nord più profondo che raccontò le Langhe e le sue colline. Lui, Pavese. Agosto, dicevo, è il mese adolescente. In agosto di solito debutta l’adolescenza, i primi amori, le prime scoperte, la libertà e la trasgressione già nel tirar tardi la sera e allontanarsi da casa. Ma in agosto è il mondo adulto che torna adolescente, perché cerca il gioco, il trastullo, la vita senza diaframmi che si mostra nuda, come i corpi e i pensieri. Agosto è poi maledetto perché è mese di folle e di file; tutto si fa meno bello per spalmarsi come una crema abbronzante su più persone. Ma l’età di agosto è l’adolescenza, dimentica gli affanni passati e quelli venturi, è una tregua, un oblio, una fuoruscita dai giorni consueti. Nell’adolescenza, spiega Pavese in Feria d’agosto, c’era un tesoro che noi non sapevamo; c’è fascino e stupore, come dentro una favola. Tutto è visto con altri occhi, sotto altra luce: è l’essenza del mito. Verrà poi la nostalgia a ricordare quel tempo mitico, gremito di simboli, però ci mancherà “la purezza iniziale di vivere nell’essere genuino”. Gli unici paradisi a noi concessi, si sa, sono i paradisi perduti; lo disse Proust, lo disse Borges, lo dice in altri modi Pavese. Quando sei in paradiso non ci fai caso; quando ci ripensi e ne avverti la mancanza il paradiso è già perduto. Prima si vive, poi si conosce, non si vive e si conosce nello stesso tempo; questo è il mistero di vivere secondo Pavese. L’infanzia per lui è il vivaio dei simboli; l’adolescenza sprigiona la voglia di viverli con tutti i sensi, anche quelli nascosti. La vita adulta, avverte Pavese, aggiungerà ben poco al tesoro infantile di scoperte. L’essenza dello stupore, lo stato di grazia, per lui, non è restare dentro se stessi ma spargersi nei luoghi fino a sparire dentro di essi: farsi quel campo, quel cielo, quel bosco; aggiungo, quel mare. Io non esisto, esiste il cielo. Io non esisto, esiste agosto. Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico, dice Pavese. Nessun bambino sa cosa sia il paradiso dell’infanzia; anzi, l’infanzia è poetica solo per gli adulti. C’è nel bambino “un immediato e originario contatto alle cose”. Che si perde quando si diventa adulti, e finisce agosto. Tornando nei panni dello scrittore, Pavese annota: “quando si prende in mano la penna per narrare sul serio, tutto è già accaduto, si chiudono gli occhi e si ascolta una voce che è fuori dal tempo”. Il poeta cerca di “rinverginarsi” dice Pavese, cioè tenta a ritroso di ritrovare la purezza perduta. La narrazione, l’arte, è il ritorno cosciente all’adolescenza, ossia a quella stagione della vita che è ponte tra il mito e la realtà, tra l’infanzia e la vita adulta, tra lo stupore e la conoscenza. Cosa rende mitico e sacro un paesaggio? È avvertire quello spazio nella sua unicità. Così sono nati i santuari, nota Pavese; isolando un luogo dal mondo, come è d’altronde il significato etimologico di templum. “Feste, fiori, sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Lì sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare un dio”. Prima che cogliere il significato delle parole, sentite la musica, il ritmo, l’atmosfera propizia, il suono delle parole che cantano quei luoghi. Il mito è lì. La festa ricelebra il mito e insieme lo instaura ogni volta, come se fosse la prima volta. Pavese scriveva queste cose all’indomani della Grande Storia, subito dopo la tragedia della guerra mondiale, in quel Novecento dove tutto era schiacciato sotto il peso della storia. La letteratura come il cinema, si rifugiava nel realismo per applicare la narrazione storica alla vita minuta dei giorni e della gente comune. Pavese invece presta l’ascolto al mito, nello stormire delle foglie, riconosce il battito della natura, volge lo sguardo al piano simbolico, avverte da lontano la danza del dio. La storia nel suo tempo è un divenire incessante, imperativo; una retta che corre verso l’infinito, il progresso è la sua legge inesorabile ed euforica: invece Pavese si rifugia in agosto, nell’adolescenza, nel mito, nella natura, sente il ciclo della vita e delle stagioni, scorge la circolarità dei destini e il loro perentorio accadere. Negli anni trenta si era rifugiato nella letteratura americana, di cui sentiva l’afrore giovanile e selvaggio delle passioni contro il retaggio senile della storia europea. La mitopeia infantile, scrive, ha questo di particolare: le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. È una conoscenza di seconda mano, non si vedono le cose la prima volta, “quello che conta è sempre la seconda”. Ciascuno di noi, avverte, possiede una mitologia personale: e qui la mente di ciascuno si popola di ricordi mitizzati della propria infanzia d’agosto. “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, e tutto era bello, specialmente di notte”.

Fu proprio in agosto che Pavese si tolse la vita. D’estate era nato, d’estate chiuse il suo cerchio. La bella estate.

Marcello Veneziani