Autobiografia di un neonato…

 

 

 

Salve, vorrei raccontarvi la mia vita. È cominciata stamattina, anche se avevo fatto un tirocinio preliminare nel grembo materno, un corso di sopravvivenza di ben nove mesi. Ora è notte ed è tempo di bilanci. Non dite per favore che sono fresco di giornata, perché freschi sarete voi, mica io. Non sapete lo stress per la partenza dal covo, tutta quella sceneggiata intorno, sballottato nel viaggio, poi in corsia, mia madre che non mi sopportava più e voleva sbattermi fuori di casa, si lamentava e si contorceva; è stata una trattativa lunga e anche manesca, ricevevo minacce di continuo, c’era pure uno che suggeriva di sfondare il recinto di protezione e farmi uscire con un taglio che chiamavano “il cesareo”, manco fossi un terrorista. Poi, alla fine, è avvenuto l’atterraggio dopo una tempesta di pressioni e di spintoni; un invadente mi ha tirato fuori con la forza, io piangevo ma lui insisteva; spaventato, sono uscito con le mani alzate, in segno di resa. Quindi la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, l’inaugurazione col taglio del nastro, anzi del cordone ombelicale, troncato di brutto, senza neanche accertarsi se fossi d’accordo. E poi quella doccia forzata, nemmeno il tempo di capire dove sono arrivato e con chi avevo il piacere di intrattenermi tra le sue braccia che mi hanno investito con un getto d’acqua, come si fa con i manifestanti non autorizzati. Ma che maniere…

Poi, i complimenti a mia madre per la mia espulsione; i suoi complici in camice affaticati per l’impresa e soddisfatti: ma che devo dire io, espatriato per decreto, riluttante a uscire dall’alcova, costretto a venire al mondo, io che stavo così bene incapsulato nella mia navicella spaziale, che chiamavano placenta.

E dire che alcuni mesi fa, a poche settimane dal concepimento, c’era qualcuno in famiglia che voleva farmi fuori; io li sentivo da dentro ma non potevo replicare, non si era formata nemmeno la bocca e non avevo voce. Interrompiamo la gravidanza, non possiamo permetterci ora un figlio, e io che non avevo diritto di parola, ero allibito e impaurito. Poi, grazie al cielo o alla fortuna, ha prevalso il buon senso, forse l’istinto materno e paterno; la minaccia è rientrata. Ho fatto il corso di addestramento reclute alla vita in una specie di sottomarino. Al buio, manco fossi un sequestrato; in silenzio, manco fossi un clandestino, e sott’acqua, manco fossi una triglia o una cozza. Ma alla lunga mi ero affezionato all’habitat, il vitto era completo e gratuito, mi arrivava tutto direttamente, come con Glovo. Mi piaceva sentire dal citofono interno la voce materna e della gente. Ogni tanto mia madre faceva qualche comunicazione di servizio per me.

Ogni volta che le persone le toccavano il pancione, sfiorando le pareti in cui ero alloggiato, io sentivo la carezza, capivo che ce l’avevano con me, cercavo di mandare segnali del tipo ricevuto, passo o messaggi di cortesia; ma nessuno li capiva, ragionavano tra loro, ed io era come se parlassi a vuoto.

C’è stato un periodo, all’inizio, in cui dal garage sottostante entravano visite di corpi estranei e mia madre era o almeno sembrava contenta; visite genitoriali, di mio padre o di chi ne fa le veci… No, non volevo malignare, è che da dentro non si capiva bene chi fosse; e poi si nasce sospettosi, anzi si nasce col dubbio: dubito quindi esisto.

Poi, a un certo punto quelle pratiche movimentate si sono interrotte per via della pancia che cresceva e di una certa premura nei miei riguardi. Ho avuto però come l’impressione che ce l’avessero con me, che fossero un po’ risentiti dalla sospensione della loro attività sessuale, così la chiamavano, a causa della mia intrusione nei locali materni. Così nacque in me un vago senso di colpa e insieme il complesso che non fossi proprio simpatico e gradito alla titolare dello stabile in cui vivevo e soprattutto ai suoi accoliti.

Nella prima giornata di vita all’aperto è venuta tanta gente a trovarci, pure troppa. Vedevo ombre e sagome indistinte, sentivo voci continue, odori di fiori misti a disinfettanti; un via vai di gente che non se ne andava mai. Molti erano un po’ falsi, li sgamavo pure io che non ho una gran casistica o esperienza alle spalle. I più commossi erano dei vecchi che dicevano di essere i miei nonni; erano voci familiari che avevo sentito già quando ero nel bunker. Molesti, e anche un po’ pericolosi erano invece i bambini, soprattutto i più piccoli, che volevano toccarmi, imboccarmi e se non ci fossero stati i vigilanti a frenarli, mi avrebbero pure malmenato.

Vi chiedete come mai un neonato sente il bisogno di scrivere la sua autobiografia, in età così precoce: cos’è questo egocentrismo appena nati? Il fatto è che tutti ormai parlano solo di se stessi, badano solo a se stessi, fotografano se stessi, pensano che il mondo ruoti intorno a loro. Ci sono giovani che già si cimentano a scrivere, filmare e narrare la propria biografia. La vita si allunga, ma l’impazienza di raccontare la propria vita accorcia i tempi. Leaders, personaggi pubblici, star, gente di spettacolo scrive la propria autobiografia nel mezzo del cammin della sua vita, e anche prima. Visto che si anticipano sempre più i tempi per raccontarsi, ho pensato di bruciare tutti sul tempo e scrivere la mia autobiografia già da neonato, raccontando la sola giornata della mia vita, come se fossi una farfalla. Ma poi, scusate, avete apprezzato la Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, che si rivolgeva a una creatura nemmeno nata, e vi stupite se un bambino neonato scrive la sua autobiografia di giornata, in tempo reale? Ohi vita, oh vita mia…

  Marcello  Veneziani