Da Leonardo da Vinci…anche le sue favole sono capolavori-

Leonardo

                                          Leonardo da Vinci___Volto di fanciulla

Il salice, la gazza e i semi della zucca

Il misero salice, trovandosi non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare ovver condurre alla desiderata grandezza e dirizzarsi al cielo – per cagione della vite e di qualunche pianta li era visina, sempre elli era storpiato e diramato e guasto – e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella l’universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che non avessi bisogni dell’aiuto de’ sua legami; e stando alquanto in questa notritiva immaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, paren[do]li avere trovato compagnia al suo disiato proposito – imperò che quella è piùatta a legare altri che essere legata – e fatta tal deliberazione, rizzò i sua rami in[v]erso il cielo; attendea spettare qualche amichevole uccello, che li fussi a tal disiderio mezzano.

In fra’ quali, veduta a sé vicina la sgazza, disse inver di quella: «O gentile uccello, per quello soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti, quando l’affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli riposi che sopra me ispesso hai usato, quando l’alie tue a te riposo chiedeano; e per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne ne’ tua amori, già hai usato, io ti priego che tu truovi la zucca e impetri da quella alquante delle sue semenze, e di’ a quelle che, nate ch’elle fieno, ch’io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate l’avessi e similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione persuasive sieno, benché a te, maestra de’ linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai, io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento de’ mia rami, insieme colla tua famiglia, senza pagamento d’alcun fitto.»

Allora la sgazza fatto e fermi alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bissie o faine sopra sé mai non accettassi, alzato la coda e bassato la testa e gittatasi del ramo, rendé il suo peso all’ali, e quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una zucca, e con bel saluto e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze. E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co’ piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerch[i]o a esso, essi grani piantò. Le quali in brieve tempo crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento de’ sua rami a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male, seguendo le zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de’ teneri rami inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando alquanti giorni in simile inganno, perché la bona e forte collegazione tal pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello soffiò forte. Allora s’aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse sé medesimo, e conobbe chi era nato per non aver mai bene.

La salvezza di Napoli è nella favola…

 

 

 

Napoli si salva solo nel mito mentre è dannata nella realtà. Non è un paradiso abitato da diavoli, come diceva Benedetto Croce, citando Goethe. Perché ha l’inferno sotto casa. Persino Galileo Galilei localizzava la porta dell’inferno nei Campi flegrei, a due passi dalla città; il lago d’Averno dantesco si trova lì. Non a caso la guida di Dante all’inferno, il suo tassista d’eccezione, è un napoletano d’adozione, Virgilio, che evidentemente conosceva i posti infernali. Il Vesuvio, il fuoco, lo zolfo, un paesaggio infernale sotto la buccia amena di un eden baciato dal sole, dal cielo, dalla natura. Napoli è un paradiso poggiato sull’inferno, un roof garden sull’abisso; i suoi abitanti sono poveri diavoli, anche quando sono furbi e ingannatori. Perché alla fine vivono peggio degli altri, anche se magari sognano di più, grazie al mito e alla loro indole festosa e fantasiosa.
Pensavo a Napoli come mito sotto l’effetto ammaliante del film Parthenope di Paolo Sorrentino. Amo i suoi film, i dialoghi, la fotografia, le sequenze, le musiche, l’atmosfera, quando entra nella sfera del favoloso, del sogno, della fantasia coinquilina della realtà. E Parthenope ne riflette lo splendore, con pochi punti down. Il film naviga come una fiaba smaliziata nella mitologia napoletana, anche più recente: da Achille Lauro, o’Comandante, a Sophia Loren, da Maradona alla stessa Partenope, nata come Afrodite dall’onda del mare. Di vertiginosa, incantevole bellezza, pericolosa e in fondo impenetrabile come una Sirena. Da perdere la testa. Anche nella realtà l’attrice ha le generalità di un mito, si chiama Della Porta Celeste.
Don Achille è il pascià di una Napoli ricca e potente ma in fondo generosa, empatica col suo popolo e la sua città. Maradona è il mito sotto traccia di Sorrentino come ne È stata la Mano di Dio. A Sophia Loren, rappresentata nella sua volgarità venale e nel suo carisma di diva, è affidato invece il discorso più terribile su Napoli e sui napoletani. Il mito vivente si rivolta contro la realtà della sua città e del suo popolo. Altre figure incontra Partenope, lo scrittore americano, il cardinal blasfemo, il riccone, il professore misantropologo; amori inesplicabili, casti e profanatori. L’amore di Sorrentino per la sua città non lo acceca, anzi gli dona una spietata vista: se nella realtà Napoli è una brutta chiavica nella visione affascina il suo splendore e la sua saudade che la rendono inimitabile, cioè mitica.
Forse non è solo Napoli a salvarsi nel mito, ma il sud, e perfino l’Italia intera, una volta perduta la storia, la realtà, la natalità. Anche se vedendo ora Roma né il mito né la storia né la cristianità riescono più a sollevarla da quella decadenza senza gloria; obesa di turisti e lurida, malata e rattoppata, insozzata e paralizzata. Il Giubileo tra due mesi sembra esserne l’estrema unzione.
Roma e Napoli sono come il latino e greco, due lingue morte, seppur gloriose. Parthenope, giusto il nome, è la nostra grecità rispetto alla romanitas; ma una grecità turchina, turchese, infiltrata da un aroma turco, un nonsoche di orientale, bizantino e musulmano, ma temperato dall’irridente scetticismo dell’indole napoletana. Il turco napoletano non è solo un film di Totò ma una mezza vocazione napoletana. Non è un caso che a sollevare il velo di Napoli sia stato un regista turco come Ferzan Ozpetec, con Napoli velata. Anche Mario Martone, con Nostalgia, ha raccontato una Napoli buia, intima e torbida sotto la buccia del mito e il suo canto ammaliatore.
Se il cinema ha reso attraente la Puglia attraverso lo splendore bianco della sua luce, dei suoi paesi, tra campagna, cucina e mare, il cinema restituisce la regalità a Napoli attraverso il mito, che è insieme nostalgia, sapienza di velare e svelare, fascinazione e mistero. Anche torbido, e violento.
E poi tutto quell’universo brulicante sotto la sua superficie che proviene dal mondo magico dei munacielli e degli scazzamurielli, delle santarelle e della pezzentelle, dei femminielli e dei malommi; e costeggiando il mondo dei morti, delle cape gloriose e delle capuzzelle, le anime d’o’ purgatorio; e le megere, gli iettatori, la mitologia urbana, tra figure che spiccano per la loro eccentrica singolarità ma recitano sempre una parte in commedia; sono tipi, se non maschere. Un teatro dal vivo, e anche dal morto, in certi casi. Napoli ha persino un suo dio apposito, san Gennaro, con poteri straordinari; quel santo taumaturgo e sanguinante che per Alexandre Dumas “è il vero dio di Napoli”. Insomma Napoli oltre che un inferno ad hoc ha anche un dio tutto suo.
Perché “la realtà è deludente” e per sopportarla, e farsela piacere, occorre darsi alla favola, al miracolo. E quando non è possibile, meglio arrendersi alla natura, al sole, al mare, e ai suoi figli. Come Partenope o come il figlio d’o’ professore, un immenso, bianco chiattone mitologico fatto di acqua e sale; un enorme frutto di mare, una balena ridente, spiaggiata in salotto a vedere la tv, un monstrum che suscita meraviglia e paterno, fraterno affetto.
Gli dei napoletani, a differenza di quelli siciliani, di cui parlava Tomasi di Lampedusa, non si prendono mai sul serio, sanno ridere, capiscono di non abitare nell’Olimpo ma in condominio, non sono pugnaci come i pupi siciliani ma salaci come Pulcinella. Non prendono sul serio la vita, non si battono per l’onore, nonostante la guapparia; ma cercano il modo migliore per aggirarla, coglionarla, e sopravvivere allegramente ai morsi della fame e alle pernacchie della farsa.
Il mito preserva la giovinezza, a cui questo film è dedicato; la giovinezza vissuta come sospensione favolosa del tempo e trasfigurazione magica della realtà. Poi la vecchiaia è il ritorno al reale.
Lasciatevi catturare dal fascino di lei, Parthenope. Io ne sono stato stregato e ho vissuto con lei una storia d’amore unilaterale per due ore. Ho amato il suo sguardo, i suoi sorrisi, il suo corpo, le sue movenze, le sue pronte risposte, la sua sfuggente, venerea lievità. Avrei detto anch’io a lei, come le dice o’Comandante: “se avessi quarant’anni di meno mi sposeresti?” Ma già conosco l’astuta risposta: “E se li avessi io quarant’anni in più mi sposeresti?”. Eccoli, i raggiri del tempo, gli amori beffardi perché non combacianti, le non coincidenze fatali sui binari divergenti del caso.
L’unico riscatto è nel mito. E il fascino vero del cinema, al di là delle menate ideologiche e degli stereotipi ossessivi di oggi, è nella sua capacità di suscitarlo. Cantami o diva….

Marcello Veneziani 

Una favola e la politica…. e io preferisco le favole vere a quelle quotidiane della realtà!

Ecco una favola molto antica, che mi è capitata sotto gli occhi oggi e che prima mi ha fatto verificare  chi fosse l’autore .Mi si presenta come scritta da Leonardo, ma che tradussi  dal greco Esopo e poi dal latino Fedro . Anche se questo può avere la sua importanza sapete che mi ha fatto pensare ? A quanto grande sia la stupidità dei nostri governanti e mi riferisco all'”eccelso”Biden “, seguito dai governanti dell’Europa e poi dei nostri Luminari, che si sono precipitati a sanzionare Putin in ogni modo possibile senza prima aver pensato alla spaventosa crisi energetica in cui avrebbero cacciato buona parte del mondo, senza preoccuparsi minimamente del popolo, ma solo di compiacere la Nato. Putin andava punito, non noi,e questo le gente non lo dimentica, non lo dimenticherà tanto presto.

Una volpe era caduta in un pozzo e non
poteva più uscirne. Un caprone assetato viene
allo stesso pozzo guarda dentro e la vede: – E’
buona quest’acqua? Era la fortuna inattesa. –
Se è buona! Scendi giù, amico mio! Scendi: è
una delizia!
E quello stordito si caccia giù e beve sino a
saziarsene. Quando ebbe bevuto, si guardò
intorno. – E ora come si fa a risalire?
– Già, è un affaraccio; ma c’è un modo di
salvare te e me. Guarda: tu appoggi i piedi
davanti, così, in alto, contro il muro, e rizzi le
corna; io m’arrampico e poi ti tiro su. Va bene?
– Facciamo pure così rispose quel bonaccione; e
così fece.
La volpe, saltando lesta lungo le gambe, le
spalle e le corna del suo compagno, si trovò
subito al collo del pozzo; e già se ne andava.
– Ohé, – gridò il malcapitato – te ne vai? E così
mi tradisci?
La volpe si rivoltò verso di lui : – Se tu avessi
tanti ragionamenti nella testa quanti hai peli
sotto il mento non saresti sceso giù, prima
d’aver pensato al modo di risalire.

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La Speranza e la sua storia…

Speranza-d

Un giorno giunse al mondo la Speranza, e il Padre della Vita la guardò con grande tristezza, dicendole:

Sei figlia degli uomini e come tale non ti rinnegherò, ma il tuo canto molto male farà.

Rispose la Speranza:

Padre, sono adorna di candide vesti, e il mio canto è dolce più del miele. Non sarò certamente io a far del male ai tuoi figli, se essi useranno con moderazione i miei sogni.

Speranza, nel tuo dire riconosco le tue malefiche intenzioni, tu sai bene quanto è doloroso il cammino dell’uomo, e conosci anche la sua spasmodica ricerca di sollievo. Come può un uomo immerso nella sofferenza possedere lucidità e moderazione. Tu sei giunta per arrecare dolore, ma sappi che non esiste in vita elemento che sfugga al controllo superiore della vita stessa.
Seppur le tue intenzioni sono buie come la più nera delle notti, grazie a te molti uomini apriranno gli occhi alla vita. Il tuo meschino gioco sortirà l’effetto contrario, l’uomo ti riconoscerà per quel che sei, e quel giorno tu non avrai più ragione di esistere e pertanto ti dissolverai.

Padre, so che sei il creatore di tutto e che le tue parole sono legge, ma ti prego non mi lasciar morire anche io ti son figlia, lasciami una Speranza?

Speranza proprio tu che uccidi senza lasciar scampo, mi chiedi di darti una speranza?
Ed io ti dico che morirai come danno, e risorgerai al vivere come figlia della luce. Quando l’uomo avrà superato il tuo inganno ti vedrà per quello che invero sei.
Già posso scorgere la tua sconfitta, ma prima che ciò accada molti valorosi perderanno la loro vita, accecati dalle tue false promesse. Io raccoglierò goccia a goccia il sangue che tu avrai fatto versare ai miei figli, e il loro sacrificio non resterà vano, il loro dolore sarà l’unguento che sanerà i primi figli che ti vedranno per quello che sei. E per loro mano tu sarai sconfitta.
Speranza sei bella come un raggio di sole, ma sei una figlia disonesta, come tale non godrai della mia benevolenza finché mentirai e ucciderai.

Padre mio ti prego.

Disse nella più completa disperazione la speranza.

Non scagliare contro di me la tua ira, che colpa ne ho, se sono così.

Proprio in virtù di ciò, ti dico che conserverò in parte la tua essenza, ed un giorno quando l’uomo avrà riconosciuto il tuo inganno io ti concederò di unirti al vivere.
Inizia a contare le tue ultime ore come nefasta creatura, un altro uomo ha scoperto il tuo inganno e molti ancora ti vedranno per quello che sei, spoglia del tuo abito candido, mostri un corpo devastato e corroso dal tempo.
Speranza tu inietti negli animi il più lento e mortale dei veleni, accechi le tue prede conducendole sino alla fine del loro cammino.
A quel punto non saprei chi di loro potrà dirsi fortunato, colui che morirà accecato, o chi comprenderà l’inganno un attimo prima.
Figlia dell’uomo da lui generata, ricorda nulla di ciò che nasce ha un fine diverso da quello che Io ho stabilito.

Non sono responsabile della mia malefica natura, son venuta al vivere innocente come un agnello, non farmi pertanto pagare le pene della tua ira, anche io ti sono figlia, dammi una speranza.