Somalia, la grande fame. In altri luoghi privilegiati, il lusso sfrenato.

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Nunei Kalamo Daruf, 16 anni, tiene in braccio la sua bimba appena nata: la piccola si chiama Salma, ha 3 mesi e pesa 2,5 chili.
Quando è arrivata a Baidoa, sei mesi fa, Oray Adan era incinta, sfinita e denutrita al punto da non avere più nemmeno la forza di mangiare. Suo marito è un agricoltore del villaggio di Bakal Yere, o meglio lo era, prima che la siccità seccasse la terra, condannasse a morte il bestiame e portasse la famiglia alla fame. Nei mesi che hanno preceduto la sua fuga dalla campagna tre dei loro quattro figli sono morti di stenti, malattie altrove curabili con un antibiotico e che in Somalia uccidono un bambino in una settimana, come il morbillo.
Per salvare il figlio superstite di due anni e quello che portava in grembo Oray Adan ha camminato due settimane e ha raggiunto il primo centro urbano in cerca di cure, acqua e cibo. È arrivata a Baidoa, città nella zona centro meridionale della Somalia, ed è stata indirizzata in un centro medico per bambini malnutriti. Scheletrica lei, scheletrico il figlio che teneva per mano, deperito il neonato che stringe tra le braccia con la cura che si deve a qualcosa di fragile che rischia di spirare da un momento all’altro. Si chiama Shukri Mohamed, ha quattro mesi, dovrebbe pesare otto chili, ne pesa solo due. Oray Adan avvolta in una veste che la copre tutta. Di lei ci sono ossa, pelle sottilissima e secca, la tubercolosi e il viso della malattia, della fame e della sete. Ho perso tutto – dice solo questo – ho perso tutto. La siccità le ha tolto le bestie, i campi, l’unico sostentamento che aveva,il cibo e la salute, le ha tolto i figli, ha reso fragili quelli rimasti in vita. Ho perso tutto, ripete. Poi stringe a sé il bambino tra l’avambraccio e il petto, lo dondola del cullare delle madri – il gesto universale di chi spera che il calore del corpo plachi il pianto e spenga la fame – poi lo stende sul letto del Centro di Stabilizzazione della città. E come lei arrivano a centinaia qui e in altri centri come questo, dove si trovano aiuti di quel volontariato internazionale, che continua a lavorare , nonostante tutto, gli aiuti del mondo sempre più scarsi e il disinteresse per tutti quei luoghi che non siano appetibili per valore economico, dove ,si sa ,le grandi potenze economiche arrivano con la scusa di stabilizzare paesi in continua guerriglia. La siccità, che dura da oltre tre anni ha contribuito non poco a ridurre in questo stato un paese già disastrato- Non sto a raccontare altro di quanto ho letto in questo reportage di Francesca Mannocchi, notizie su altre città, la stessa disperazione, morte e fame, racconti di donne e uomini disperati con l’unica certezza,questa : che il mondo intanto aspetta che i numeri dei morti soddisfino i criteri, le soglie tecniche, per definire la carestia e a quel punto, solo a quel punto, agiranno. A quel punto anche queste vite saranno diventate fantasmi.  Erano stati 122. Dodici mesi dopo, a ottobre del 2022, sono stati 809. Indicatore, uno dei tanti, dell’emergenza umanitaria che sta attraversando il Paese e che le agenzie umanitarie avvertono potrebbe diventare una crisi senza precedenti sia per dimensioni che per letalità se non verranno messe in campo, subito, le risorse necessarie.

Leggere tutto questo è stato un pugno nello stomaco, diventato doppio quando alla fine dell’articolo mi compare la pubblicità della Moka Dolce& Gabbana. Davanti ai miei occhi scorre nella mente il Pandoro Chiara Ferragni, i suoi quaderni firmati negli zaini Fedez, un mucchio di cose inutili fino al water Luis Vuitton. Pensare a cosa sia diventato questo mondo e a cosa mirino le grandi Potenze industrializzate sta diventando un pensiero che può soltanto far inorridire chiunque provi una briciola di empatia.

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