Antonio Ligabue, l’artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo…

 

Una mostra ricorda il pittore morto nel 1965 a Gualtieri, Reggio Emilia |
Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

«Leonessa con zebra», 1959

Quando ci si avvicina a un artista come Antonio Ligabue, il rischio di essere retorici è forte: il «pittore naïf», la «visceralità della natura», «l’innocenza» e «l’ingenuità» sono stati il cardine di numerose letture critiche che, non sempre ma spesso, sconfinano nella verbosità inutile. Che l’artista nato a Zurigo nel 1899 e morto a Gualtieri (Reggio Emilia) nel 1965 sia stato un autodidatta con numerosi problemi di inclusione sociale ormai si sa. Se non bastasse, la popolarità del film di Giorgio Diritti con Elio Germano, «Volevo nascondermi», ce lo ha ricordato quattro anni fa.

Antonio Ligabue

Ma questa vita complicata, tra manicomi, ricoveri coatti, fughe improvvise, risse ed emarginazione sociale, non può bastare a spiegare la popolarità del pittore. E certamente non è la chiave di lettura di una tecnica molto raffinata: la minuzia con cui descrive la savana pur non essendoci mai stato o i dettagli quasi fotografici nella rappresentazione di una tigre meritano una riflessione più approfondita. Perché non si diventa Ligabue da un giorno all’altro, come conferma «Antonio Ligabue. La grande mostra», in programma a Palazzo Albergati di Bologna dal 21 settembre al 30 marzo dell’anno prossimo, curata da Francesco Negri e Francesca Villanti, prodotta da Arthemisia con catalogo Moebius.

Antonio Ligabue

Anche perché il suo vero cognome era Laccabue, acquisito dal patrigno, un patrigno mai amato nella prima infanzia in Svizzera. Quando, nel 1919, Toni venne espulso dal territorio elvetico e spedito a Gualtieri (Comune di nascita del padre), la prefettura di Como, nel passaggio, storpiò il cognome in «Ligabue» e l’artista lo tenne fino alla fine. Da allora la vita di Toni è stata un’altalena tra reclusioni, vita sociale difficile, attaccamento vigoroso alla pittura, disperato tentativo di tradurre in arte un universo personalissimo che l’artista si è sempre portato dentro, nutrendolo di numerose suggestioni. Per esempio, le figurine che raffiguravano animali feroci, molto diffuse a partire dal secondo dopoguerra: tigri, leoni, leopardi immersi nella natura verdissima di paesi esotici e percepiti come autentici, come dei paradisi pericolosi.

Antonio Ligabue

Ma nel Reggiano, specie nella provincia profonda e fluviale di Gualtieri, Antonio osservava un’umanità colorita e lavoratrice, fatta di riti e simboli, immagini sacre o, all’opposto, orgogliosamente laiche. Un mondo racchiuso nei romanzi e nei racconti, per esempio, dello scrittore reggiano Silvio D’Arzo, morto di leucemia nel 1952 dopo averci consegnato un piccolo capolavoro come «Casa d’altri», racconti ambientati nella provincia padana dove «appaiono strane anche le cose più ovvie». Nelle sue storie preti, suore, madri e pirati si danno il cambio in una girandola immaginifica dalla quale discenderà la poetica di Ermanno Cavazzoni, tanto per fare un nome.

Antonio Ligabue

 Una linea «folle» quella di Reggio Emilia, nella quale Ligabue si inserisce con la bellezza nuda di un artista autodidatta, analfabeta, «adottato» ora dallo scultore Renato Marino Mazzacurati — importantissimo nell’insegnargli dell’uso dei colori e della composizione scenica — ora dall’amico pittore Andrea Mozzali di Guastalla, che, in piena seconda guerra mondiale, accettò di accogliere in casa Ligabue, che era stato internato per la seconda volta presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Ma la mostra bolognese contribuisce a sfatare un altro mito: che la critica accademica non lo abbia mai preso sul serio. Dopo una iniziale emarginazione, infatti, il percorso di Ligabue cresce e si evolve in modo interessante. Scrive Villanti nel catalogo: «Scoperto negli anni Cinquanta grazie a Marino Mazzacurati e sostenuto da critici come Bartolini e Vigorelli, l’artista godette di un riconoscimento ufficiale, culminato con una personale alla Barcaccia di Roma nel 1961». Una mostra molto importante, perché — presente lo stesso pittore — è qui che nasce «il caso Ligabue», cioè l’intreccio saldo di una vicenda umana e artistica che incuriosì il mondo culturale.

Antonio Ligabue

È proprio dalla mostra romana che prenderà vita, anni dopo, lo sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita, «Ligabue», trasmesso nel 1977 da Rai 1 in tre puntate e poi acquistato dalle televisioni di tutto il mondo (nei panni dell’artista, Flavio Bucci). Poi verranno i film di Raffaele Andreassi, «Lo specchio, la tigre e la pianura», del 1960, Orso d’argento al Festival di Berlino, e altre due opere dello stesso Andreassi, «Nebbia», del 1961, e «Antonio Ligabue pittore» del 1965. E poi libri, studi, documentari. Fino alla morte dell’artista, avvenuta quasi sessant’anni fa. È proprio qui che avviene una curiosa disgiunzione: la critica accademica si fa sempre più tiepida, ma cresce in modo esponenziale la curiosità popolare nei confronti dell’artista, non solo per la sua vita ma anche per la sua arte.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

Il recente film di Giorgio Diritti non è che un esempio della popolarità del pittore: ci sono i romanzi sulla sua esistenza (da «La campana di Marbach» di Renzo Martinoni fino a «Il genio infelice», di Carlo Vulpio); ci sono i documentari, i saggi e anche il mercato oggi lo premia, perché nel giugno scorso, nell’asta indetta da Pandolfini, il suo «Lotta di galli» ha superato i 470mila euro. È solo curiosità per la biografia di un «irregolare»? No, c’è dell’altro e opere come Tigre, del 1954 o Aquila con volpe, del 1949, lo dimostrano.

Ligabue si è inserito perfettamente nell’alveo della modernità, mettendo al centro i demoni interiori: le paure, l’istinto di sopravvivenza che ci rende feroci, la lotta della specie, il bisogno ancestrale di difendersi. Ma, a differenza di artisti come Van Gogh (al quale è stato più volte assimilato) non stravolge la rappresentazione della realtà, non la riduce a simbolo, bensì la amplifica.La esaspera nei dettagli minuziosi, nei colori vividi, nelle espressioni più forti. Nel bestiario di Ligabue c’è vita vera: la ferocia della provincia, la paura dell’essere «irregolari», l’ambizione a diventare «i più bravi», il terrore di essere inadeguati e la consapevolezza di sentire le cose meglio degli altri. È anche per questo che la sua produzione privilegia scene animali e autoritratti: come a sottolineare una profonda connessione tra l’istinto primitivo delle belve e la feroce sensibilità dell’artista.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

rscorranese@corriere.it