La Pasquetta, che non c’è più…

Il bello della Pasqua era che a differenza delle altre domeniche non annunciava la mestizia leopardiana del lunedì (“diman tristezza e noia recheran l’ore”). Perché alla domenica di Pasqua seguiva il Lunedì dell’Angelo. La Santa Pasqua si faceva puttanella con la Pasquetta. La vezzosa e ovipara Pasquetta, in campagna o al mare, tra i cibi avanzati della Pasqua, più i tegami e le tielle da asporto, e il mitico cucuo (focaccia); la Pasquetta civettuola, tra camicette gonfie, corpi scoperti e prime voluttà che annunciavano l’estate. Il sole che torna sulla pelle, il contatto con la terra, per i più arditi il primo bagno a mare, tra grida disumane ed eccitazione goliardico-vascolare. Alla Pasquetta c’era una regressione infantile: si giocava al pallone, alla bandiera, a mago o libero, a tezzuare le uova e sopra tutto al ciuccio: c’erano due squadre contrapposte, una formava un serpentone di corpi intrecciati e piegati, in posa da rugby, come un lungo animale e l’altra squadra doveva montarvi sopra con la massima irruenza per far scoffolare (crollare) il ciuccio. Di solito i bestioni più obesi saltavano per ultimi, per dare al ciuccio il colpo di grazia. Se il ciuccio reggeva, vinceva la partita. Viceversa, se gli avversari toccavano terra o smontavano dal ciuccio prima che si sgriduasse (decomponesse), perdevano loro. A volte durava un tempo infinito prima che il ciuccio schinicchiasse (scricchiolasse). Una guerra di resistenza punteggiata da minacciose frasi: “Pes u’ chiumme?” (Pesa il piombo?). Risate e imprecazioni quando nel salto si squartavano i pantaloni o quando si cadeva uno sull’altro. Si andava in visibilio in caso di rumorose flatulenze digestive che tramortivano il ciuccio. La sera i più fortunati s’imboscavano con la minenna (la ragazza), gli altri si sfogavano intorno a una chitarra. E si tornava a casa svociati e contenti, ubriacati d’aria. Sazi di vita, di luce, di focacce e taralli.

Da Ritorno a sud (M V)

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