La nostalgia è l’amor fati. Ciò che si lascia è perduto. La rotta del destino la tracciamo noi.

Recensione di Biagio Riccio

Il presente è ponderato con difficoltà, soprattutto quando uno spezzone della vita sia stato vissuto intensamente.
Affiora il sentimento della nostalgia, dell’irripetibile condizione di un tempo passato, sfiorito.
Come se il presente si annullasse, non esistesse: vi è un conato dell’anima, uno sforzo proteso al ricordo, ad un richiamo del passato, al suo contesto già compiuto.
Se infatti si intende ripetere un film già visto, o fare una rimpatriata, non sarà mai più come prima.
Senti la vecchiezza del presente, la tristezza di una condizione impossibile.
La vigoria del fisico non si può ripristinare, nemmeno con la chirurgia plastica: certe donne non accettano la corrosione del tempo, il presentarsi implacabile delle rughe, la caduta delle forze e ricorrono ad interventi medici che ridicolmente imbruttiscono- (inesorabilmente)-con tiraggi della pelle, il volto e le parti del corpo.
Così non si fa: si ama anche la caduta del tempo: sovvien la tenerezza d’animo che è sublime.
La vecchiezza frantuma il corpo, ma non la voglia di vivere:amate le rughe, sono la gioventù dell’anima.
La nostalgia è una curva, un portarsi all’indietro per raccogliere il tempo versato. Riconosce il fascino dell’inattuale, l’ irriducibilita’ del destino, che giocoforza deve scorrere, come un fiume che deve sfociare nel mare.
La corrente non può risalire, rigurgitare, deve andare irreversibilmente verso quella direzione.
È questa condizione dell’uomo che non accetta il suo destino.
Perché se siamo felici, egoisticamente desideriamo che il tempo si fermi, diventi eterno, non corra verso l’ignoto: la paura e l’angoscia ci prendono.
Ci voltiamo, dunque, indietro e siamo nostalgici: in greco “ritorno” si dice nòstos.
Álgos significa “sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare al già vissuto.
Proust ne ha scritto un capolavoro: “Alla ricerca del tempo perduto”.
D’Annunzio dei versi bellissimi ( La sabbia del tempo): si evoca la condizione dell’ uomo, come quella di chi si pone in un ozio immobile (trattenuto dal cavo della mano) al cospetto della clessidra nella quale scorre la sabbia (sempre), anche quando la capovolgi.
“Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina mi assale”.
L’uomo dunque deve vivere ed accettare il suo destino predisporsi al futuro, ad una progettualità che deve superare anche la consapevolezza della morte.
Amor fati.
È l’amor fati: accettare il destino della vita per cambiarla, per possederla, per rimuovere la nostalgia che produce melanconia.
Questa è la filosofia dell’ottimismo, del dominio della volontà sull’evento, della forza sulle cose.
Una dichiarazione d’amore per la vita.
Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza.
Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’innocenza del divenire, come ci aveva insegnato Nietzsche.
Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza, perché essa è pura necessità.
Amor fati come ha scritto in un bellissimo libro Marcello Veneziani è un antidoto al fatalismo contemporaneo: accogliere l’essere nel suo accadere, perché essere è avere un destino, è accettare la vita con i suoi limiti e le consunte responsabilità, non struggersi per essere altro e stare altrove, è amore metafisico per la realtà, è la serenità degli inquieti, una adeguata replica alla grandezza infinita del destino.
Si deve tendere all’espansione della vita, alla ricerca del piacere e dell’ottimismo.
La mitologia segna lo scorrere del tempo: come un filo che un giorno sarà tagliato.
Le figlie della notte, le Moire sono tre: Cloto, nome che in greco antico significa “io filo”, che appunto filava lo stame della vita; Lachesi che significa “destino”, che lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto del filo spettasse a ogni uomo; Atropo che significa “inflessibile”, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La nera Atropo va rimossa : ciò che si lascia è perduto, se non è vissuto.
Amiamo il destino per tracciarne noi la rotta.

( a margine di Amor Fati di Marcello Veneziani).

La fortuna di essere vittime…

Da qualche tempo è scoppiata una nuova epidemia: il vittimismo. Vero, presunto e presuntuoso. Dal caso Scurati al caso Canfora, ma anche prima, con Saviano, Lagioia e compagni, è una gara a figurare nel ruolo di vittime del truce regime meloniano.

Lo statuto speciale di vittime dà luogo a una serie evidente di conforti e di vantaggi, oltre che donare un’attenzione mediatica speciale su di sé e i propri prodotti, cinta di un’aureola, una fascetta di santità, che moltiplica il successo degli autori e delle loro mercanzie. bI campi più sensibili del vittimismo sono l’editoria, la cultura, il giornalismo e lo spettacolo. Essere censurati o passare per tali offre dei vantaggi inestimabili, perché oltre l’aura epica ed eroica di combattenti per la libertà con sprezzo del pericolo, fornisce una serie di benefits a cascata che si riflettono su tutte le attività esercitate. A parte i casi di sedicenti vittimismi immaginari, in realtà conviene essere vittime di provvedimenti censori o dimostrare di essere invisi ai potenti di turno per una ragione precisa: nella cultura, nell’informazione e nello spettacolo vige un canone inverso rispetto al potere politico. Qui è possibile che per via di quel fastidioso accidente che è la sovranità popolare, possa andare al governo la destra o simili in forza dei voti ricevuti. Ma una volta conquistato il potere politico, il controllo può essere esercitato nell’ambito – sempre più ristretto, in verità- delle competenze inerenti la politica e alcuni accessi derivati. Si possono lambire ambiti contigui al potere politico, come per esempio l’informazione pubblica, la Rai. Ma anche in quella sfera, la politica riesce a decidere le nomine e influenzare l’informazione che direttamente attiene alla politica, alla visibilità dei leader, ai dosaggi, alla benevolenza se non il servilismo verso chi è al governo. Ma il potere politico non incide invece sugli orientamenti di costume, sui temi civili, storici, culturali che restano invariati. Anzi, il potere politico non ci prova neanche a modificare gli orientamenti, oggi come ieri, ai tempi di Berlusconi, e magari anche prima, ai tempi della Dc, almeno dagli anni settanta in poi; in fondo va bene che il potere culturale e ideologico resti da quella parte, giacché alla politica interessa il controllo di giornata su ciò che direttamente la riguarda. Per   dirla in breve, TeleMeloni funziona – come le tv filo-governative precedenti – a pieno regime nell’ambito della politica e nella narrazione a questa direttamente connessa. Non funziona, invece, sui temi ormai presidiati dalla permanenza di una specie – ma sì diciamolo – di egemonia culturale e ideologica. Che rasenta il monopolio, riferito all’industria culturale, editoriale, cinematografica, musicale e dei grandi eventi, rassegne, premi, ecc.  Invece, nei casi di vittimismo appena citati, cosa succede? Gli autori considerati vittime di censura non ricevono alcun danno nella loro attività ma solo vantaggi: sul piano delle vendite e dell’editoria, sul piano dell’informazione e della notorietà, sul piano dei premi e delle partecipazioni a festival, eventi, cordate; per non dire dei vantaggi sul piano accademico e delle loro carriere. Un programma che li cancella, moltiplica l’effetto mediatico sugli altri programmi che poi li invitano per celebrare e propagare le parti censurate; per l’editore che manda in fretta in libreria i testi dell’autore al centro dello scandalo; per le opposizioni che ne fanno subito una bandiera e un simbolo. Un testo viene censurato? Sarà letto con ben altra enfasi nello stesso programma e ripetuto in cento altri programmi, sarà recitato dall’autore in cento manifestazioni pubbliche di piazza e di tv; lo rilancerà perfino il leader politico accusato dal testo, per attestare che è garantista e non censura i testi contro di lui; persino le foche ammaestrate finaliste dello Strega, leggeranno a pappagallo, in coro, nel Collettivo Autori Indignati, la filastrocca banale del testo censurato. Effetto moltiplicatore, altro che censura. Garanzia di successo, altro che persecuzione…

E alla fine del giro, gli stessi censori veri o presunti sono costretti a passi indietro e a reintegrare, con tante scuse e risarcimenti, la Vittima; che nel riceve la solidarietà e l’alta protezione di coloro che attacca (premier, ministro, autorità).  Cosa distingue allora le vere dalle false vittime? Gli effetti che la loro posizione produce. Se scagliarsi contro il potere politico rende così tanto a così vari piani e livelli, non si tratta di vittime ma di ciniche operazioni d’investimento, speculazioni ideologiche nella borsa degli affari culturali.  Le vere vittime, invece, sono coloro che hanno da perdere per le loro opinioni, che si vedono tagliate da ogni significativa visibilità, rimosse da ogni media importante, dimenticate nella loro opposizione clandestina, anche se in molti casi tutt’altro che solitaria ma condivisa da tanti (O impediti di parlare in pubblico). Mentre le vere vittime vengono escluse dalla società inclusiva, cancellate, ignorate nelle loro opere e opinioni, le Vittime per finta, le Vittime Apparenti del Circo Illusionisti, spesso autori modesti e palloni gonfiati, assurgono al ruolo di pseudo-matteotti virtuali o di simil-gramsci in finta pelle, celebrati nella loro lotta intrepida contro il potere, con rimborso a pie’ di lista, ampio risarcimento più lauta indennità di rischio. Insomma, con l’egemonia culturale sempre nelle mani della sinistra, le vere o immaginarie censure politiche alla cultura, funzionano a contrario, sono spot promozionali ad alto reddito.

Marcello Veneziani   

La filosofia educa alla vita…

Ma poi a che serve la filosofia? Domanda di sempre, risposta di mai, sottile rimprovero di esistere nonostante la sua certificata inutilità. E magari sottintesa accusa d’impostura. Eppure la filosofia non riguarda solo i filosofi, o peggio i professori, cioè i cultori di quella scienza, come dicono le menti piccine, “con la quale e senza della quale tutto rimane tale e quale”. E invece no. E non solo perché ci sono cose inutili che pure sono necessarie per vivere e per capire il mondo. Ma la filosofia è un bene pubblico, universale, tocca ciascuno di noi, sin da bambini, quando l’attitudine poetico-filosofica è più acuta e smagliante, come tutte le cose appena inaugurate, fresche di vita. Ciascuno a suo modo, secondo la sua mente, il suo rango di pensiero e di cultura, il suo livello di comprensione e di lettura; ma tutti siamo in varia misura filosofi e ci nutriamo senza saperlo di filosofia. Lo sapevano le popolazioni del sud del mondo, non solo del nostro meridione, ma dell’infinito oriente, dove la filosofia è una pianta naturale che pure genera frutti invisibili a occhio nudo; la chiamano in modo diverso, ma la visione della vita e del mondo è essenziale per stare al mondo.
Ma oltre i motivi universali che affronta la filosofia c’è un tema specifico, diretto, pratico, che è sempre stato importante e che oggi sembra non esserlo più mentre è ancora più importante di prima: è la filosofia come educazione a vivere, esercizio pratico di vita. Traggo questa definizione, semplice e completa al tempo stesso, da un grande studioso, Pierre Hadot, scomparso nel 2010. Ho seguito Hadot lungo tante sue opere dedicate a Plotino, a Marc’Aurelio, a Seneca, al pensiero antico e a quelli che lui chiama “esercizi spirituali”. Prete mancato, ma non deluso dalla religione, solo “emancipato”, come lui dice, Hadot ha visto la filosofia non come puro sapere, ma come un mezzo per trasformare l’uomo, farlo vivere meglio, a occhi aperti, ed elevarlo.
Ora è uscita un’importante raccolta di suoi saggi, tradotta da Giorgio Leonardi, dedicata a La filosofia come educazione degli adulti (Marietti1820). E’ un’opera che esorta a vivere la filosofia e non solo a leggerla, a farla diventare esercizio quotidiano, pratica di vita, allenamento a vivere e a morire, e – se mi è permesso estendere lo sguardo – a saper invecchiare.
Il tutto è condensato in uno sguardo che il più saggio imperatore di tutti i tempi, Marc’Aurelio, sintetizzava in modo mirabile: “vivere ogni momento come se fosse il primo e l’ultimo”: lo sguardo del filosofo comprende lo stupore di essere al mondo e la lucida coscienza di lasciarlo. Nella saggezza antica Hadot fa convergere la vigilanza stoica, la gioia epicurea e l’ispirazione mistica in Plotino. Filosofare è destarsi, vivere a occhi aperti. Platone e Aristotele riconoscevano che lo stupore è alla base del filosofare, ma anche la capacità di apprendere a morire. Lo stupore di nascere e il dolore di svanire sono i confini del suo pensare la vita; la meraviglia di essere al mondo e la lucida consapevolezza di doverlo lasciare. Imparare a morire fu la lezione che Hadot trasse da adolescente da Montaigne; quella lezione traduceva la capacità di addestrarsi a morire e insieme di addomesticare la morte che già gli antichi ponevano alla base della saggezza. Da questa visione, Hadot trae un comportamento, auspica la nascita di scuole o comunità che sappiano insegnare, apprendere e mettere a frutto quei pensieri, vivendoli nella quotidianità. Proposito ancora più urgente nel tempo in cui scompaiono non solo quelle riflessioni, quella cogitatio vitae et mortis, ritenute importune, da rimuovere; ma spariscono anche i maestri e gli allievi, non ci sono più discepoli, mancano gli eredi, e tutto finisce nel nulla. Eppure la vita è connessione, trasmissione, trasferimento di conoscenze ed esperienze, ricordo e promessa, vivere è annodare ponti, stabilire continuità. Perfino Nietzsche il solitario ha sognato di vivere in comune con un gruppo di filosofi, dice Hadot, “per elevarsi a una vita superiore nel segno del dialogo e dell’amicizia”. La filosofia sorge in solitudine ma genera comunità.
Il livello più profondo di quella connessione è individuato da Hadot nella mistica, e nell’insegnamento segreto, simbolico, tramite allegoria che conduce “all’unione intima e diretta dello spirito umano al principio fondamentale dell’essere” inteso sia come vita pratica che come conoscenza. Il fine è liberarsi dall’Ego e da Narciso – dice Plotino – e ritornare al Tutto, ricongiungersi all’Uno. Oltre un certo livello, la coscienza non basta più, anzi “senza coscienza – osserva Plotino – gli atti sono più puri, intensi e vivi al più alto grado”. Giunge l’estasi, breve e folgorante, la fusione amorosa, la gioia mistica. La precede il sentimento del sacro che per Hadot suscita angoscia e serenità insieme.
Il filosofo per Hadot resta fondamentalmente un educatore, ben sapendo che come diceva Kierkegaard (ma lo diceva anche Gentile) “essere maestro è essere discepolo”. L’educazione, spiega Hadot, si assume il compito di “raddrizzare” il fanciullo, portando alla luce il bambino che è dentro di noi. La filosofia è arte di vivere: educa a essere al mondo, a comprenderlo, ad amarlo e a lasciarlo.
Compito della filosofia, aggiunge Hadot stavolta seguendo il Kant “illuminista” di “Sapere Aude!” (Osa sapere) è educare a pensare con la propria testa. Proposito mirabile se non si traduce nella pretesa autonomia della ragione da ogni testo e contesto e da tutto ciò che non nasce nella nostra testa: ci sono pensieri, tradizioni, riti, simboli e liturgie che ci precedono e ci sovrastano e la nostra intelligenza è anche la duttile capacità di mettere a frutto esperienze, patrimoni, consuetudini, idee ereditate.
Il presupposto è l’amore della verità che accompagna il filosofo. Ma come si dimostra la verità? Hadot ricorre al filosofo spiritualista Louis Lavelle: “La verità è un atto vivo…si dimostra attraverso la sua efficacia, attraverso la comunicazione che stabilisce tra noi e l’universo, tra noi e tutti gli altri esseri”. Ossia la verità non è pura enunciazione, teoria, ma prova pratica, la si scopre solo vivendola. Tesi bella e ardua.
Gli esercizi spirituali per Hadot ci permettono di superare il punto di vista individuale e parziale; ci concentrano sul presente, fanno guardare le cose dall’alto e curano l’anima. E tuttavia Hadot riconosce che spesso “noi filosofi viviamo in una bolla”, gli esercizi spirituali si riducono a esercizi intellettuali; così fallisce la missione del filosofo. Hadot ricorda quando da giovane si era chiuso per molti giorni in casa a studiare i neoplatonici; poi quando finì la sua ricerca, andò dal fornaio a comprare il pane. E lì comprese di aver vissuto lontano dal mondo, dal laborioso rumore della vita, lontano dal pane fresco, sfornato ogni giorno a scandire il ripetersi e il rinnovarsi della vita quotidiana. La fragranza di una baguette, appena sfornata, lo restituì alla semplice bellezza della vita.

Marcello Veneziani     

Elogio dell’asino… articolo troppo bello, un peccato non condividere il mio scrittore preferito.

Ho trascorso un pomeriggio, una controra assolata di aprile, in una masseria pugliese a guardarci negli occhi e a studiarci con un’asina. Si chiamava Nina, dal pelo grigio-biondino e aveva nei suoi occhi qualcosa di arcaico, di naturale e di soprannaturale, superstite di un mondo perduto. Gli asini sono stati a lungo i più assidui compagni di vita e di lavoro. Ora sono spariti, incompatibili con l’età della tecnica. Abitavano il mondo magico delle origini, durato fino alla nostra infanzia, ne portavano il peso; oggi sembrano portarne il lutto. Antichi mezzi di locomozione e di trasporto merci, antenati delle moto e delle utilitarie, dei carrelli della spesa e dei trolley.
Animale evangelico, l’asino portò sul suo dorso il Figlio di Dio, nel giorno delle Palme, e pure sua Madre. Il suo raglio, sgraziato come il suo destino, la sua schiavitù senza riscatto, la fatica infinita come l’ingratitudine nei suoi confronti.
Figurava nelle favole di Esopo e di Fedro, si faceva asino d’oro nelle Metamorfosi di Apuleio; era con Zarathustra alla festa dell’asino, lui faceva il verso e ragliava I-A, che sarebbe poi diventato l’acronimo dell’Intelligenza Artificiale. A scuola, l’alunno ottuso e ignorante era definito somaro; due orecchie d’asino crebbero a Pinocchio quando disertò la scuola. La maestra, che insegnava l’umiltà, ci chiamava asinelli quando cominciavamo una frase con Io: “Io asino primo”, diceva; quell’I-O era per lei una variante del suo raglio e una spia della nostra presunzione. Anche il prof diceva che fare lezioni a noi studenti svogliati e disinteressati era come “un lavativo in culo al ciuccio”, cioè un’impresa inutile. Disprezzando le popolazioni dure di comprendonio, Federico II così motteggiava i sudditi di una cittadina pugliese: “gens bitontina tota asinina”.
Incapace di scegliere, l’asino finiva col morire perché non sapeva se prima sfamarsi o dissetarsi. E’ il paradosso di Buridano, usato da tanti filosofi, da Aristotele a Spinoza. L’asino veniva perfino accusato di bullismo vigliacco, sferrando un calcio al leone morente. Asino espiatorio, più del capro, caricarono sulla sua groppa e sulla sua fama troppi vizi e negatività degli umani. Lo adottò come simbolo il Napoli calcio, che un tempo aveva il cavallo, nobile retaggio del Regno borbonico. Ma la squadra, cent’anni fa, andava male e allora sorse la diceria che il suo testimonial più appropriato fosse il ciucciarello di Fechella, un venditore ambulante che aveva un somaro malridotto e scorciato. Ma col tempo il ciuccio diventò portafortuna per la squadra e fu amato come mascotte.
Anni fa sull’isola di Santorini ebbi un’avventura con un asino. Per salire dal porto al borgo non c’era che un mezzo, l’asino. Asini greci, per giunta; più antichi, più cocciuti e mitici degli altri, forse più astuti, più levantini. Montai sull’asino con qualche iniziale riluttanza che il somaro avvertì. Faceva un caldo feroce, e la povera bestia non se la sentiva di salire ancora una volta lungo il tortuoso cammino. Allora decise di farmela pagare. Faceva le curve larghe, strisciando il parapetto. Quando c’era il precipizio rasentava il burrone, per istigarmi al suicidio o per spaventarmi. Quando il tornante volgeva all’interno radeva la roccia per farmi strusciare la gamba e lacerarmi la gamba e il pantalone grigio-asino. A nulla valevano i tentativi di raddrizzarlo con le briglie, gli appelli e le mazzate. Alla fine, quando smontai dal suo dorso, emise un raglio di felicità liberatoria, a cui feci eco anch’io, adeguandomi al suo linguaggio. Fu la sua lotta di classe e di liberazione contro noi odiati turisti e parassiti. La sua gioia era l’assenza momentanea di fatica. Non chiedeva piacere, solo riposo. Gli asini, di notte, sognano altre notti.
I somari sono cavalli che non ce l’hanno fatta o che non si sono montati la testa. Il mulo tentò una mediazione equa, anzi equina. L’asino ricorda Poppea che faceva il bagno nel latte d’asina e Gina Lollobrigida popputa sull’asinello in Pane amore e fantasia. Gli asini portavano sul dorso i doni della terra. Ricordano le strade fuori dal tempo, gli alberi a cui si attaccavano per interminabile tempo, i silenzi della campagna divorata dal sole e animata dal vento. Vivono nei proverbi antichi, metafore viventi della stupidità umana. Gli asini svegliano l’eros in campagna, dove chi s’imboscava era “arrapato a ciuccio”. Evocano gli déi, sono figure mitologiche a cui la scomparsa dal mondo ha donato la grazia ulteriore dell’invisibile. Portatore ignaro di una sapienza che traspare dal suo sguardo ebete ma misterioso. Il suo fiato nella mangiatoia fu il primo climatizzatore dell’umanità, riscaldò Gesù e famiglia. Fu il primo strumento tecnologico, la prima scuola guida per donne e ragazzi prima di passare al cavallo; una specie di veicolo senza targa, di bassa cilindrata, rispetto alla berlina equina. E’ stato l’animale più utile e più maltrattato, più prezioso e più vilipeso, insieme al maiale. Ridicolizzato sul piano estetico, etico e intellettuale. Quanta santa modestia in quelle orecchie lunghe e basse: auribus demissis, dicevano i latini.
Ai bambini quando andava una bevanda di traverso, le mamme dicevano per far sollevare loro la testa: vedi l’asino che vola? Per non soffocare, anche ora dovremmo alzare lo sguardo e stupirci per l’asino che vola. Gli asini volano davvero, quando non li vede nessuno. Avevano conoscenze altolocate per via del presepe e ora che sono spariti dalla terra, se ne sono andati in cielo. Perché di loro che hanno patito in silenzio e servito in umiltà, è il regno dei cieli.

Panorama, Marcello Veneziani

 

Spiragli di luce in terra ma Dio resta in ombra…

 

Con la dichiarazione Dignitas infinita, Papa Bergoglio ha acceso finalmente un po’ di speranza e di fiducia nei cattolici di sempre e nella gente di comune buon senso, che si riconosce nella realtà della vita, nei suoi legami più forti e non nelle ideologie e nelle pratiche diffuse che vogliono negarla. Il documento del dicastero della dottrina della fede non cambierà certo le sorti del mondo, in balia di poteri e culture ben più potenti e prepotenti rispetto alla chiesa e al messaggio cristiano; ma segna un’apertura significativa e una solenne promessa d’impegno. C’è chi l’ha interpretata come un contentino ai conservatori ma non dobbiamo dimenticare le altre parti del documento che riprendono alcune tematiche sociali, pauperiste e green, care a Bergoglio e che hanno fatto parlare di lui come di un papa “comunista”, tutto accoglienza, migranti, dialogo con l’Islam, ecologia e socialismo.Con Dignitas infinita il Papa e la sua Chiesa hanno cercato di abbracciare la difesa della vita, della nascita, della maternità, della famiglia e della natura insieme con la difesa dell’ambiente, dei poveri, degli oppressi, dei migranti, delle donne e di coloro che soffrono. E sullo sfondo la difesa della pace e dei popoli dalla guerra e dalla volontà di supremazia. Ci sono cose che non piacciono ai conservatori e altre che non piacciono ai progressisti, ma il documento si può considerare nel complesso coerente allo spirito evangelico e cristiano, o quantomeno è un punto di equilibrio, anche se in certi passaggi appare a taluni troppo conservatore e reazionario o ad altri troppo socialista e rivoluzionario. Per altri ancora sarà un esempio gesuitico di cerchiobottismo, un’astuzia di pesi e di contrappesi per tenere insieme versanti diversi. Va riconosciuto il suo coraggio di opporsi allo spirito del tempo e ai suoi poteri dominanti, siano essi di natura economica, militare e politica, che ideologica, intellettuale o di genere  . Dobbiamo dunque rivedere il nostro giudizio su Papa Francesco? Non deve spaventare il suo socialismo, il suo anticapitalismo e alla fine nemmeno il suo terzomondismo, anche se non sono nelle vostre corde. Pur con qualche disagio e dissenso si può comprendere la sua posizione anche in seno alla fede. Ma la vera mancanza, il vero deficit nel papato di Bergoglio è un altro. Il Papa è restio ad affrontare il tema cruciale a cui è chiamato nel suo ruolo di pastore, vicario e apostolo: la scomparsa di Dio, l’eclissi della fede, l’avanzata dell’ateismo e del nichilismo, l’assenza di senso religioso che domina la nostra epoca. Il Papa risolve il cristianesimo nella difesa della vita e nell’incontro con l’umanità ma non affronta questo tema più arduo, più difficile ma necessario e indispensabile per il Massimo Rappresentante della Chiesa.  Esprimere la vocazione solidale e socialista nel mondo capitalista o la difesa della vita, della nascita e della famiglia nel mondo egoista e nichilista, non bastano se gli uomini voltano la spalle a Dio, alla fede e al senso religioso, anche solo come domanda. Ma è quella, prima ancora che la battaglia per la vita, per la pace o per la giustizia sociale, la priorità che si addice al Papa. Di riflesso e di conseguenza manca nel suo Papato la difesa della civiltà cristiana, dell’identità religiosa, del sacro, dei simboli e della sua tradizione. Come se la sua unica preoccupazione, la sua sola missione fosse di rispondere al suo tempo; e nel nome dell’oggi sacrificare, vanificare o cancellare ogni eredità del sacro e della tradizione. Un segnale di questo cedimento apparve anche nel pontificato peraltro grandioso e luminoso di Giovanni Paolo II: quando per un centinaio di volte Woytila chiese scusa al mondo degli errori e degli orrori compiuti nel passato dalla Chiesa e dai suoi pontefici. Apparve allora come un atto di umiltà, ma alla fine diventava un atto di presunzione: ritenere che il suo pontificato potesse ergersi ad arbitro supremo di una storia millenaria e che solo la Chiesa del nostro tempo, col suo papato, avesse capito, riconosciuto e reso onore alla verità. Invece ogni cosa va rapportata al suo tempo, non possiamo chiedere scusa per conto d’altri, di altre epoche, in altre situazioni, e di altri pontefici. Perché la verità è figlia di Dio e non è figlia del tempo. Non è un mistero che nel passato ci sono state pagine infami nel nome della Chiesa e della fede, ci sono stati papi pessimi e sono stati commessi abusi, violenze e corruzione, ai nostri occhi inconcepibili. Ma se è per questo, sono inconcepibili nel nostro tempo anche le pagine di santità, di martirio, di fede e di dedizione totale che rifulsero del passato. Se un papa deve abbracciare il mondo e ogni versante della fede, ogni sensibilità, deve anche abbracciare la storia da cui proviene, e caricarsela tutta sulle spalle, come una croce; perché quella storia non fu solo gloriosa ma non fu nemmeno solo infame. E’ storia di uomini, seppure ispirati da Dio; dunque imperfetti, coi loro limiti ed errori. Per ogni ingiustizia nel nome di Cristo i secoli hanno offerto storie luminose di abnegazione, di sacrificio, di dedizione; per ogni rogo di streghe e di eretici ci furono esempi fulgidi di martirio e di carità. Noi oggi siamo incapaci degli uni e degli altri, di quei crimini come di quella santità. E questo risale al motivo di fondo che prima dicevamo: la fede è fredda, quasi spenta e non dà luogo da noi né a fanatismi né a dedizioni gloriose. Mancano i santi, non ci sono gli esempi da imitare, dobbiamo accontentarci solo dei virtuosi sermoni. Per ricorrere a un’immagine, è come se della Basilica di San Pietro fosse rimasto solo il colonnato che sembra avvolgere l’umanità in un abbraccio largo e accogliente; ma fosse sparita la basilica con la cupola, dov’è il carisma e la liturgia, il sacro e il santo, la tradizione e la preghiera, la testa e il cuore della fede. Manca il senso religioso. E non può essere sostituito né dalla solidarietà umanitaria né dalla difesa della vita. E’ un grande passo avanti la difesa senza ambiguità, chiara, decisa e precisa, della vita rispetto alla morte e all’aborto, della maternità e della famiglia rispetto alle maternità surrogate e alla “pericolosissima teoria del gender”. Ma che ne è di Dio nei cieli e del senso religioso in terra?

Marcello Venaziani

Mafie ideologiche e governi impotenti…

Ma come è finita la partita tra intellettuali e potere? Trent’anni fa, quando nacque il primo governo di centro-destra, esprimevo così il disagio bilaterale di chi viene definito intellettuale di destra: tra gli intellettuali non ti perdonano di essere di destra, nella destra non ti perdonano di essere intellettuale. E aggiungevo che a sinistra sono faziosi, leggono solo autori di sinistra mentre a destra no, perché non leggono né autori di destra né di sinistra. Trent’anni dopo si legge meno, si pensa meno, ci si confronta meno tra chi pensa in modo diverso, c’è più acidità e più rancore, c’è più intolleranza e chiusura verso chi non entra nel suo recinto. Ha meno senso usare quelle categorie di trent’anni fa; ma quel disagio bilaterale resta in vigore, oggi più di ieri. Certo, il potere non è il governo, che del potere è solo un’espressione secondaria e una diramazione periferica. Viviamo il tempo delle sovranità bonsai. A un anno e mezzo dall’avvento del governo Meloni, non è mutata l’egemonia culturale nei suoi tratti peggiori. Anche le fabbrichette del consenso di cui dispone chi va al governo si limitano a ossequiare il governo ma poi restano genuflesse come prima al potere culturale vigente, ai suoi precetti, ai suoi paletti e al suo catechismo. Non è cambiato nulla nella mentalità, nei temi e nel racconto dominante. Forse ha ragione il filosofo argentino Miguel Benasayag a sostenere, nel suo ultimo libro, L’epoca dell’intranquillità (tradotto da Vita e Pensiero), che i cambiamenti non partono mai dal potere politico ma raggiungono il potere e la rappresentazione politica solo dopo. La politica ha esaurito la sua spinta propulsiva, non suscita più passioni civili, tantomeno ideali, a sinistra come a destra, e la corruzione ne è uno degli effetti; agita fantocci e surrogati, non entra nella vita reale e nemmeno nella cultura, al più la mima meccanicamente. Nella girandola di governi – di centrodestra o centrosinistra, antipolitici, populisti o tecnocratici – le aspettative di cittadino, di italiano, di uomo di destra sono rimaste parimenti disattese; mutano i governi ma nulla è mutato. Alla fine chi pensa liberamente si riconosce in Diogene il cinico al cospetto di Alessandro Magno. L’uomo più potente della terra chiese al filosofo pezzente cosa potesse fare per lui. Diogene rispose: Scòstati dal sole. Ossia non farmi ombra, lasciami godere in libertà dei suoi raggi, non ti frapporre tra me e il mondo, la vita, la luce. Traduco nel gergo più confacente alla classe politica: levati dai coglioni. Cent’anni fa Giuseppe Prezzolini, quando andò al governo chi si era formato e abbeverato alle sue riviste e alle sue idee, si dichiarò apota e preferì il solitario, volontario esilio piuttosto che assumere un ruolo di regime. La prova che Diogene (o Prezzolini) avesse ragione la fornì a contrario Niccolò Machiavelli: dedicò il suo capolavoro, Il Principe, al potente del suo tempo, il duca d’Urbino Lorenzo de’ Medici (da non confondere con Lorenzo il Magnifico) e gli donò la sua opera insieme a due cani da caccia. Il Duca Lorenzo apprezzò molto i due segugi più che l’opera; magari non la lesse nemmeno o non la capì. Questo conferma quanto sia sterile e vano il rapporto della cultura col potere, salvo rari momenti. La consolazione del dotto fu che a distanza di secoli quel principe coi suoi due cani non li ricorda più nessuno mentre ancora si legge nel mondo Il Principe di Machiavelli. Meglio dedicare la propria opera e la propria fatica a imprecisati déi piuttosto che a piccoli potenti di passaggio.  Certo, ci furono eccezioni nei secoli: con Marc’Aurelio o Federico II di Svevia, ad esempio, il rapporto tra potere e cultura fu fertile; Bacone oltre che filosofo fu gran ministro e Gentile da ministro riuscì a realizzare istituti e riforme, smentendo l’idea che il filosofo al potere sia sempre perdente, inefficace o dannoso. Ma gli esempi virtuosi sono rari e considerando il livello e il tenore odierni, anche con le migliori intenzioni l’impresa sarebbe oggi velleitaria. Non si tratta di dare/avere posti, come pensano i più; ma intraprendere sul serio strategie culturali e disegnare fattivi programmi futuri.  Qual è dunque alla fine il rapporto tra cultura e politica? Quasi inesistente o solo cerimoniale; i punti di contatto avvengono quando la cultura smette di essere tale o quando il potere smette di esercitare il comando. Una pausa, un momento di sospensione collega la cultura al potere. Viceversa restano intoccate le piccole cupole del potere culturale nei regni della letteratura, del cinema, delle accademie, dei premi, delle organizzazioni che gestiscono la cultura. Possiamo non chiamarla egemonia, anche perché è eccessivo scomodare Gramsci e il suo disegno culturale; meglio parlare di mafie, o nei casi più blandi di “amichettismo”, ovvero di conventicole, logge di accoliti, amici-mici. Piccole mafie gender-ideologiche che si autopromuovono ma soprattutto si compattano quando si tratta di escludere, porre il veto, ostracizzare gli estranei, i non allineati. Le stesse logiche si ripetono pure in periferia. La settimana scorsa, per esempio, mi è accaduto di essere chiamato in quanto “biografo” di Vico a celebrare il cinquantesimo anniversario di un liceo dedicato a lui, in provincia di Taranto. Ma l’ho fatto in contumacia, presso un altro istituto, perché la dirigente d’istituto del Vico non ci voleva nel suo liceo. Meschine faziosità locali riflettono esempi altolocati di miserabile faziosità, a livello d’istituzioni, grandi media, giurie letterarie. Sono abituato da una vita a veti e divieti. Luca Ricolfi ricordava su La Stampa che più di vent’anni fa mi fu impedito di parlare all’Università di Torino (lo stesso accadde a Pisa, a Firenze, a Genova; e nessun potere culturale, nessun docente deprecò o si dissociò). Cambiano i climi e i governi, ma la situazione non muta. L’intolleranza militante di base, l’epurazione del potere culturale, e la politica che fa spallucce, le volta, ma resta lì, non si scosta nemmeno dal sole… Si passa la vita tra veti, ostracismi ed esclusioni; e non ti puoi lamentare sennò le anime belle ti accusano pure di vittimismo. Vi lascio immaginare la stanchezza e l’amarezza che si prova a tarda età anche se poi prevale la noncuranza. Ma è andata così e andrà così finché morte non ci separi, quando tutto sarà cancellato. O verrà salvato da imprecisati dei.

Marcello Veneziani

La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.

Se la canzone riflette il male di vivere…

 

Spesso il male di vivere ho incontrato, poetava Eugenio Montale. Quel male di vivere s’insinua anche nella musica leggera, che pure esprime la voglia di leggerezza e di spensieratezza.

La canzone e il nulla. Tema vago e vagamente minaccioso. Ne abbiamo parlato l’altra sera al Festival di popsophia ad Ancona, tra una canzone e l’altra. Il tema era nientemeno “nichilismo e canzonette”. L’accostamento così stridente tra pensiero del nulla e canzonette a prima vista spiazza, induce a un effetto di straniamento. Troppo pesante il fardello del nichilismo sulle fragili spalle della musica leggera. Ma se è vero che il nichilismo è sceso dalle altezze dei filosofi solitari a fenomeno di massa e permea la vita di ogni giorno, i consumi, i linguaggi, la canzone non ne è immune. Il nichilismo intuito due secoli fa da Turgenev e Dostoevskij, Stirner e Nietzsche, poi germogliato tra gruppi, intellettuali e alta società nel secolo scorso, è diventato clima epocale di massa, e se ne fa interprete la musica leggera. Qualche anno fa il filosofo nichilista Manlio Sgalambro, amico e paroliere di Franco Battiato, scrisse una Teoria della Canzone; sostenne che la canzone non è la pappa del cuore, tutta romanticherie e fatuità, ma riflette il tema della nostra epoca, “la morte dello spirito”. La canzone dura quanto la vita di un insetto ma si replica tante volte, sostituisce l’attimo con l’eterno; e la discoteca, arriva a dire, è una palestra di nirvana in versione attuale-occidentale. Eppure è rassicurante la banalità delle canzonette, con le vecchie rime di cuore e amore, il recinto privato dei languori, la storia ridotta a vita intima. Ma per Sgalambro i corpi sputano l’anima sotto le note, si scoprono nel nulla.  Se ascoltate con attenzione alcune canzoni, per esempio Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, Dio è morto, di Francesco Guccini, Voglio una vita spericolata di Vasco Rossi, o Avec le temps di Leo Ferrè, anche nella versione italiana di Patty Pravo (Col tempo sai) o Ne me quitte pas di Jacques Brel, cogliete il male di vivere, la disperazione affidata alla canzone. E Domenico Modugno de L’uomo in frac, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Mia Martini e altri ancora, fino alla più recente “voglia di niente”della musica leggerissima di Colapesce e Dimartino “per non cadere dentro al buco nero che sta a un passo da noi”; cresce il lato d’ombra della musica leggera.  Sotto l’epidermico mondo delle canzonette, in pieno boom economico, poi in pieno impegno ideologico, ora in piena solitudine globale, scorre quel fiume carsico, il sottofondo disperato della società opulenta, oltre la frenesia di vivere e divertirsi. Tragico fu il destino di Luigi Tenco, col suo epilogo suicida; nelle sue canzoni la malinconia della vita oscilla tra la noia e il dolore, il perdersi nel tempo e il vuotarsi dei motivi per vivere che trascina nel nulla. L’epica nichilista è esaltata in Vasco Rossi, con la sua vita spericolata, piena di guai; il caos in cui annega l’esistenza tra fumi e alcol, il vivere per niente, l’istigazione a perdersi nel fiume della trasgressione. Il nichilismo assume tratti apparentemente nietzscheani e dionisiaci, che sembrano evocare il vivi pericolosamente e l’al di là del bene e del male. Quando scrissi di questo fondo nichilistico in Vasco, i suoi fan insorsero con veemenza e lui mi rispose risentito, da un verso negando il nichilismo, che aveva forse confuso con una sostanza stupefacente, e dall’altro spacciando un autoritratto di uomo dedito alla famiglia, con un quadro fiscale, sanitario e giudiziario irreprensibile (ma nessuno si era riferito a queste cose). Ma poco dopo uscì una sua canzone che era un vero manifesto del nichilismo musicale: in Dannate nuvole canta versi come “Niente dura niente”, “Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare”, “non esiste niente, solo del fumo, niente di vero”. Il vitalismo assoluto si rovescia in un nichilismo cupo, proiettato nel male di vivere senza senso. Siamo oltre Nietzsche, oltre Dioniso, oltre Sartre e gli esistenzialisti, oltre perfino la trasgressione. Altri brevi trattati di nichilismo e di male di vivere si affacciano in molte star e gruppi rock; il più famoso è Jim Morrison, ma è solo la punta di un iceberg. Facile ritrovare scampoli di nichilismo nella musica rock americana e nelle sue varianti hard o heavy e trovare riscontro in certe vite e certe morti precoci o suicide, tra droga, sesso, velocità e rock and roll. Il nichilismo rock, tra allucinazioni e perdita della realtà, insegue déi e demoni estemporanei, vite capovolte, cupio dissolvi, oscuri abissi. La canzone del male di vivere e la scoperta amara che niente ci aspetta, il nulla come destinazione, una volta reso niente il destino.  Sbiadisce il nichilismo nella musica leggera più recente, tra canzoni banali, narcisismo generazionale chiuso al mondo, fantasmi virtuali e autistici. Vivere a orecchio, sostituire il pensiero con l’emozione, la riflessione con la vibrazione, percorrendo il cammino inverso dell’illuminismo kantiano: non elevare l’uomo da mezzo a fine, ma il contrario e vivere di energie emotive, impulsi, ebbrezze aleatorie. L’uomo si fa chitarra, batteria, suono e percussione, veicolo musicale. Dietro l’amoreggiare della musica leggera, serpeggia quella perdita di senso e di scopo nel rifugio nelle pulsioni. Così le canzonette, magari senza volerlo, diventano la scuola elementare del nichilismo, di cui fornisce i primi assaggi o forse gli ultimi cascami. In realtà sono lo specchio di una società snaturata e deculturata, priva di principi, valori, eredità, legami. La musica rispecchia il suo tempo e propaga le sue ossessioni. I pensieri alti come cieli plumbei si specchiano in basso, nelle pozzanghere della quotidianità e si riflettono nella musica leggera. A dimostrazione che esiste un clima d’epoca che i filosofi chiamano Zeitgeist, che colpisce “in alto e in basso”, per dirla con Zarathustra. Nulla da obiettare a chi canta e a chi ascolta, ma i demoni dell’epoca serpeggiano pure nelle canzoni…

Marcello Veneziani       

La fine che fanno i dissidenti, a est e a ovest…

 

 

Da una parte c’è una vera autocrazia, dall’altra parte c’è una falsa democrazia. La morte di Alexei Navalny e la vicenda di Julian Assange possono essere sintetizzate in questo modo un po’ brutale. Da una parte un regime autoritario, erede della storia sovietica e zarista, viene accusato della morte di un dissidente, detenuto nelle sue prigioni e verosimilmente ucciso. Dall’altra, una democrazia liberale, che ha tanti scheletri nell’armadio, perseguita un giornalista, in carcere da anni, che ha portato alla luce pagine vergognose della storia americana, crimini di cui dovrebbe vergognarsi un Paese che fa la predica umanitaria al mondo.
I primi potrebbero dire a loro difesa che Putin gode di un largo sostegno popolare, viene rieletto periodicamente in votazioni almeno all’apparenza democratiche e non aveva oggettivamente alcun vantaggio ad eliminare Navalny, in un momento in cui l’incidenza del dissenso è minima e la prospettiva di vittoria russa in Ucraina è massima. Ma quella morte pesa e non trova spiegazione altrettanto convincente di un assassinio; così come è innegabile l’impronta autocratica del regime putiniano, e la sua biografia di uomo del KGB ai tempi dell’Urss comunista. I secondi, invece, potrebbero pur dire che Assange aveva svelato con Vikileaks delicati segreti di stato, e magari lavorava per la Russia (ma lo stesso dicono in Russia di Navalny con gli Usa) e che comunque quel che accade in America e in Occidente è alla luce del sole e sotto l’occhio dei tribunali. E comunque gli Stati Uniti storicamente hanno difeso la libertà nel mondo e da noi.
Per chiarirci prima di entrare in argomento, partiamo da una doppia premessa: chi scrive è critico da svariati decenni nei confronti dell’Occidente e dell’egemonia statunitense sul mondo, è critico verso il suo modello ideologico ed economico, il suo nichilismo e il suo catechismo woke: il modello occidentale è una negazione della stessa civiltà europea da cui pure trae origine, e dalle sue matrici culturali, religiose, morali e civili.
Con la stessa franchezza però dico: se critico l’Occidente, non vivrei mai sotto un regime come quello russo. O cinese, o islamico. Tanto per chiarirci. Preferisco denunciare a vuoto le miserie dell’occidente, ma restare qui, piuttosto che patire i regimi autocratici e dispotici dell’Asia o del Medio Oriente. E ringrazio la sorte di essere italiano e di vivere in Italia, pur avendo un giudizio assai critico sul nostro Paese. Dovrebbero avere l’onestà di dirlo tutti i critici radicali dell’Occidente e del nostro Paese.
Poste queste premesse, entro nella questione. Non da oggi le democrazie hanno rapporti con regimi dispotici e perfino sanguinari; rapporti non solo commerciali. La politica internazionale va interpretata con uno sguardo realista e geopolitico, e non con categorie morali o politicamente corrette.
Il ruolo di Putin a livello internazionale, è stato per anni, importante, decisivo; sia per gli equilibri mondiali, sia per le sue posizioni politiche e culturali. Non ho difficoltà a riconoscere che negli anni passati l’ho considerato, pur nelle sue ombre sinistre, un grande statista e un leader mondiale.
L’attacco all’Ucraina è stato per metà colpa sua e del suo regime, per metà dell’Occidente sotto la guida statunitense, che non ha voluto rendersi conto della situazione, dei rischi e dello squilibrio che si andava creando con l’Ucraina che decideva di passare alla Nato, tramite l’Unione europea. Se la Russia pretendeva di essere trattata come una superpotenza mentre non lo è più dal 1991, gli Stati Uniti ancora pretendono di essere gli arbitri del mondo e non lo sono più da un pezzo. I tre quarti del pianeta sono contro il suo dominio. In più l’Occidente ha sostenuto e foraggiato un leader come Zelenskij, figura poco credibile di guitto e di marionetta, che ha epurato più ministri e generali di Putin in Russia, che guida un regime tra i più corrotti nel mondo e che vorrebbe trascinare l’Occidente intero in una guerra mondiale pericolosa e insostenibile, pur di evitare un ragionevole negoziato con i russi. Entrambi, Putin e Zelenskij, con l’appoggio degli Usa e dei suoi alleati, hanno esposto a un calvario immane di morte, distruzione e deportazione il popolo ucraino.
Il falso su cui regge l’assedio a Putin è che voglia minacciare l’Occidente e attaccare l’Europa: sappiamo invece che vuole ripristinare il ruolo egemone della Russia in quell’area che era sotto la dominazione russa al tempo dell’Unione sovietica e dell’Impero zarista.
Ma la Russia non vuole invadere l’Europa, è strategico e funzionale anche per loro che l’Europa abbia un suo ruolo autonomo e sovrano; un’Europa con cui trattare, accordarsi o confrontarsi, non ridotta a succursale degli Stati Uniti. Ieri c’era una lettera obiettivamente sensata, storicamente circostanziata e ben argomentata dell’ambasciatore russo in Italia, Alexey Paramonov, su la Repubblica. Naturalmente si deve fare la tara di quello che dice, considerare il Cicero pro domo mea che inevitabilmente un rappresentante della Federazione russa di Putin deve compiere in una difesa d’ufficio del suo Paese.
Ma il messaggio di apertura all’Europa va colto. Bisogna in realtà ripristinare il dialogo con la Russia; come dialoghiamo con la Cina che è un regime ben più dispotico e minaccioso per l’Occidente, anche perché – a differenza della Russia- cavalca la globalizzazione e ha una potenza demografica, commerciale ed espansiva nel mondo assai superiore.
cioè la sua autonomia e il suo ruolo internazionale, che non può essere quello di propaggine dell’impero Usa. In questa chiave è da auspicare un cambio di passo degli Stati Uniti, magari con l’arrivo di Donald Trump, sottoposto a una vergognosa e indecente persecuzione giudiziaria, economica e mediatica, indegna di una vera democrazia.
Si deve infine notare che i crimini americani denunciati da Assange dimostrano che esiste ancora un giornalismo libero di cui l’Occidente dovrebbe essere orgoglioso. Intanto accontentiamoci di rilevare, che benché incarcerato e ricercato, perlomeno Assange è vivo e invece Navalny è morto. Ma poi dobbiamo affrontare tutto il resto.

Marcello Veneziani   

Quando il cinema ti riporta alla vita…

 

 

Buone notizie dal cinema. Non ci sono solo i prodotti stucchevoli del rococò woke, i film prigionieri nella trama e nelle immagini del modelli prefabbricati che sai già come si svolgono prima di entrare in sala, a colpi di gender, femministe, migranti, neri, green, nazifascisti, eterne vittime, eterni colpevoli, il Bene e il Male, il progresso e la reazione. C’è anche altro nell’umanità, nella vita, nel mondo. E ci sono film di qualità che riescono a parlare alla tua mente e al tuo cuore, che arrivano perfino a commuoverti, e comunque ti chiamano dentro le loro trame, e raccontano la realtà senza partito preso.

Ho visto tre film diversissimi tra loro che in modo diverso ti lasciano qualcosa. Non sono film storici sul passato o di fantasia, ma sono sull’oggi. L’uno è di un collaudato regista italiano, figlio d’arte di un grande regista, rimasto nella storia del cinema; l’altro di un giovane, ambizioso regista, anche lui figlio d’arte, che con l’insolenza egocentrica dei ragazzi fa pure il protagonista del suo film; il terzo è di un grande regista tedesco, maestro del cinema europeo, anche se in questo caso in versione orientale. Il primo film è fatto di senilità, morte e rinascita, in un microcosmo separato dal mondo, in attesa collettiva di chiamata all’altro mondo; il secondo è fatto di grida, violenze e spaccio nel cuore marcio della Capitale; il terzo è fatto di luce, silenzi e fogliame pur in una pulsante metropoli di masse, traffico e cemento.

Il primo descrive il tenerissimo rapporto che sorge tra due ragazzi spacciatori e consumatori di droga che devono scontare la loro pena in una Rsa e i vecchi ospiti della medesima; il secondo si agita nel cupio dissolvi di chi vive al massimo, tra ricchezze sfrenate, vite sfasciate e desideri insaziati. Il terzo contempla il mondo, la vita, nei suoi minimi particolari, e vive dimesso e appartato nelle periferie di una metropoli d’oriente, in una decorosa povertà vissuta con gratitudine.

Il primo mostra come l’umanità sia capace di miracoli, può cambiare pur partendo dal peggio o nell’estremo lembo della sua vita, se presta attenzione e ascolto alla vita degli altri e può trovare affetti e premure anche laddove sembra impossibile, e da chi non avresti mai detto. Il secondo descrive gli spasmi di una vita gaudente e insensata, in una Roma degradata, che ha smesso pure di divertirsi, una specie di Grande Bellezza versione juniores, tra citazioni famose di altri filoni e un po’ di narcisismo malato. Il terzo, invece, descrive la bellezza poetica della vita minima in Tokio, che si accontenta e sorride al corso dei giorni, alla loro ripetizione, ai dettagli, al lavoro ritenuto più umiliante – pulire i cessi pubblici (che a Tokio sono bellissimi e vari mentre a Roma, la città di Vespasiano, erano immondi e sono spariti).

Sono tre film diversissimi, tre registi imparagonabili tra loro, tre storie che ti lasciano in bocca sapori diversi, teneri, amari e sereni: il primo è pensato nel nome del padre, ti riporta ai cari perduti, alle tenerezze dell’estrema vecchiaia e alle esplosioni improvvise d’euforia sul finire della vita al tempo in cui si era bambini, ragazzi, spensierati e danzanti, giocosi e intemerati con la neve.

Il secondo invece ti lascia turbato, proiettato com’è nel miraggio di vivere niccianamente al di là del bene e del male: ma al di là del bene e del male non c’è nulla anzi c’è solo il Nulla, che è il nemico del bene e la placenta del male. Il terzo, infine, ti lascia il gusto, la bellezza di essere al mondo se fai con scrupolo e passione la tua piccola parte; amare il proprio destino, anche il più umile, vivere serenamente nei giorni che si ripetono uguali, dove perfino la monotonia è una benedizione rassicurante della vita che promette solo se stessa, il suo svolgersi quotidiano, perché “adesso è adesso”.

Sto parlando de Il punto di rugiada di Marco Risi, figlio di Dino, Enea di Pietro Castellitto (con un magnifico Sergio in scena nel ruolo reale di padre) e Perfect days di Wim Wenders. Come vedete, non hanno nulla che li accomuni, e gli amanti di uno di questi film resteranno sconcertati, se non indignati, per l’accostamento agli altri due. Il primo è incentrato sui vecchi di una casa di riposo, il secondo sui ragazzi della Roma bene che bazzica la mala e il terzo sulla solitudine serena di un lavoratore avanti negli anni che vive la linea dei giorni come tanti cerchi perfetti. Non sto facendo paragoni, lo ripeto, né pretendo di scovare affinità tra questi film; sto dicendo che nella loro diversità rappresentano finalmente la realtà, senza griglie o paraocchi ideologici, scavano nella nostra interiorità e nei nostri giorni, e ti lasciano in fondo qualcosa. Parlano della nostra vita con gli occhi della vita. Non faccio classifiche, non esprimo giudizi perché i tre film in questione sono diseguali sotto tutti i punti di vista: si potrebbe dire hegelianamente che il primo rappresenta la tesi, il secondo l’antitesi o l’uscita da sé e il terzo la sintesi o il ritorno ma i tre film ti fanno vedere la realtà, ti fanno pensare nella realtà. Non ti donano altro che lo sguardo sulla realtà in corso d’opera.

I tre film ci riportano al crocevia delle nostre vite, dove confluiscono strade diverse, persone diverse e veicoli diversi. Ma insieme costituiscono la nostra vita, da giovani, da vecchi, da solitari, dentro e fuori dal mondo, o ai suoi margini periferici.

Il racconto della vita è essenziale alla vita stessa, laddove la fiction si fa più vera della realtà, e non c’è vita degli altri che non sia anche un po’ vita nostra, giacché siamo consorti e connessi, assai più di quanto il web possa dire. Tutto questo, in breve, si chiama umanità.

Marcello Veneziani