Di che vive una famiglia di oggi?

01_Ckn&Ckn

ILLUSTRAZIONE DI ZAC

 

Chicken & Chicken

 Arianna aveva sette anni e tutti i sabati aspettava suo padre davanti al portone di casa. Era alta un metro e pesava ventisei chili. L’azzurro dei suoi occhi era potente quando ti guardava. Quasi imbarazzante per la sua forza e bellezza. Se non ci fosse stato il setto nasale a fare da argine e gli zigomi alti, quell’azzurro sarebbe straripato sui tratti del suo piccolo volto come un fiume in piena. I suoi sguardi, senza dire una parola, spesso sbriciolavano gli argini rassicuranti e consolatori degli adulti intorno a lei. Arianna era stata bocciata in prima elementare. Un anno in silenzio. Muta. Aveva deciso di non parlare più con gli adulti. Poi dette un’altra possibilità a quel mondo e piano piano cominciò a leggere e a scrivere. Arianna era una bambina che amava vivere, giocare e nascondersi nel silenzio. Il resto, per lei, sebbene non ne fosse pienamente consapevole, era soltanto regole, sintassi, accenti, frasi convenzionali da rispettare. Le piaceva osservare le facce degli adulti durante il suo mutismo. Proposte, suppliche, sorrisi forzati, imbarazzi, gesti nervosi. Fondamentalmente detestava usare le parole, i suoni, le punteggiature, gli accenti. In fondo aveva ragione: le regole grammaticali e quelle convenzionali non possiedono un contenuto affettivo. Sono regole e basta! Regole da rispettare! Necessarie, senza dubbio, ma non sono tutto. Comunque la bambina, fondamentalmente, non amava vivere nel mondo degli adulti.

Suo padre parcheggiava la Bmw X 5 alle ore 13.30 nel parcheggio di via Olona. Alle 13.45 Arianna era già fra le sue braccia in Via San Vittore. Quella bambina, con dietro quel portone gigantesco, ricordava Alice nel paese delle meraviglie in una delle sue trasformazioni. Piccola, silenziosa, rimaneva immobile e tranquilla. Sapeva che sarebbe arrivato suo padre. Sapeva che avrebbero pranzato da Chicken & Chicken. Amava alla follia le alette fritte di pollo. Sua madre detestava e disapprovava il fritto, ma accontentava sua figlia. In fondo lo avrebbe mangiato soltanto una volta alla settimana con suo padre. E quelle alette fritte l’avrebbero resa felice.

Elisa, una mattina, dopo due anni dalla nascita di Arianna, senza tanti giri di parole annunciò al marito: ”E’ finita! Non sono più innamorata di te! E ho  voglia di vivere con mia figlia!”. Non disse altro. Chiuse la porta e uscì di casa con in braccio la figlia. Da quella mattina, erano  già trascorsi cinque anni. Lui si buttò nel lavoro e negli aperitivi milanesi per un anno intero. Tutte le sere a mangiare riso freddo e olive ascolane. E qualche rapporto occasionale  con un’altra divorziata, magari leggermente depressa, che non faceva altro che parlare prima di lavoro, poi al terzo bicchiere di vino si metteva  a piangere raccontando del suo ex e concludendo in macchina con un rapporto sessuale frettoloso. Lei ebbe una storiella con un collega sposato. Ma il ruolo di amante la stufò ben presto e si dedicò totalmente alla crescita della figlia. Entrambi rimasero su quel tram e continuarono a vivere su quei binari, ma questa volta da soli e non in coppia. Nessuno dei due cercò da quel deragliamento di cogliere un tratto inaspettato e nuovo nei loro caratteri. Si adattarono alla separazione come a una delle tante fermate che si incontrano lungo la linea.

Facevano il tratto di strada in silenzio, mano nella mano. La mano della bambina cominciava a sudare e si trasformava in una grondaia rotta. Era sempre così. Il padre stringeva con delicatezza la mano di sua figlia per trattenere meglio quel flusso d’acqua fino all’entrata del Fast Food.

 

Arianna ordinava sempre Family Meal. Una porzione troppo abbondante, ma c’era un patto fra loro due, che sarebbe durato una settimana: la bambina avrebbe mangiato una sola aletta di pollo fritto e un po’ di patatine e il resto del piatto lo avrebbe finito a casa suo padre nei giorni successivi.

La televisione accesa con il volume alto, cartoni animati, tavoli arancioni, pareti rosse, plastiche colorate, personale in rosso, odore di fritto, clientela che mangiava e parlava con la bocca piena.

E luci sparate sulla testa come in un vero allevamento di polli. Un allevamento di polli che ritrovi identico a Milano, a New York, a Berlino, a Tokio, a Dallas.

Arianna mangiava la sua aletta di pollo fritto e non staccava gli occhi dai Simpson. Suo padre la guardava, mangiando qualche patatina. Il piatto doveva rimanere quasi intero: sei pezzetti di pollo fritto rispetto ai sette, qualche patatina in meno, una salsa e mezzo rispetto alle due, una bibita che lui avrebbe bevuto sul lavoro. Quando finiva l’aletta di pollo fritto, Arianna rimaneva un’oretta a guardare il cartone animato e riprendeva la mano del  padre. Il piano rosso del  tavolo dove loro erano seduti diventava un lago artificiale, un lago di ceralacca.

Uscirono, sempre mano nella mano, e si salutarono davanti al portone di casa. Lui la sollevò e lei suonò il campanello numero cinque. Poi lei ritornò sulla terra e aiutata da suo padre aprì il portone. Scomparve e lui voltò le spalle. Aveva con sé, nella mano sinistra, il sacchetto con il piatto Family Meal. Prima di entrare nel parcheggio buttò quella porzione di alette di pollo fritte nel solito cestino della spazzatura davanti al Pam e si accese una sigaretta.

 

 Questo racconto è pubblicato su “Il Corriere della Sera”, il primo di una serie che il giornale si propone di pubblicare durante l’estate. Lo propongo per chi non l’avesse letto curiosa di sapere quali emozioni susciti in chi lo legge. Da parte mia ho provato una tristezza infinita, uno scoramento nel constatare come si sia ridotta oggi  la vita famigliare. La cosa che più mi rattrista è che tutto questo avviene in nome del diritto alla felicità, che è sacrosanto per ogni persona,  in nome dell’amore che non è eterno ed ognuno può permettersi di rinnovarlo,  e infine per favorire una crescita felice, equilibrata dei figli, che hanno il bisogno e  il diritto di crescere in ambiente sereno. In questo quadretto famigliare io non vedo tanta felicità .Rimarchevole il finale!!

Il padre, la badante, l’abbraccio. Una notte d’ amore (a 95 anni)

Che dire di un uomo di novantacinque anni trovato nella notte nel suo letto abbracciato a una ragazza di 30 anni, che lo assiste? Che non merita ironie e rimproveri, ma sguardi delicati e tenere carezze. Vi parlo di un uomo che sente e vede la sua vita sempre meno e non solo per l’udito sordo e la cecità incipiente. Ma anche perché la sente allontanarsi giorno dopo giorno e compie a senso alterno i suoi esorcismi e le sue rese. E una notte, la temuta notte, lo trovano avvinghiato alla più giovane, alla più avvenente delle sue badanti.

Lei che spiega con disagio e meraviglia: non so cosa gli ha preso stanotte, non l’aveva mai fatto; lui scoperto dalla figlia che finge sorpresa e mostra torpore o forse il contrario. Di solito la notte si lamenta, dà voce per avere voce, come una sentinella sull’orlo del nulla che vede ombre di tartari all’orizzonte; chiede più volte di orinare, sarà la prostata, sarà il terrore della solitudine notturna; si alza, sospira, chiama la figlia, poi la badante, infine chiama la morte.

Vive la sua morte ogni giorno, la invoca e la teme, spavaldo per spavento. Vuol provare la sua presenza con la petulanza, vuol scacciare l’assenza, farsi vivo. Allestisce cerimonie notturne di egoismo per dimostrare che esiste, e vuol essere al centro del suo piccolo universo, mescolando teatro ad agonia. Ma quella era una notte tiepida d’agosto, c’era la luna piena, l’aria era calda e leggera e la sua dolcezza non escludeva nessuno, neanche i vecchi.

E così le ha chiesto di entrare nel suo letto matrimoniale, di mettersi al suo fianco, e l’ha cinta in un abbraccio, ha cercato pure la sua bocca. Il giorno dopo diceva di non voler più avere come badante quella ragazza, come se fosse stato molestato lui o come se si vergognasse per l’accaduto e volesse cancellare la prova vivente del misfatto; o forse no, quella richiesta è un capriccio e una vendetta, s’aspettava qualcosa in più da lei, un bacio, una carezza, un soffio di complicità.

Facile sorridere, facile deprecare. Si è bevuto il cervello, che figura.

Io invece ti capisco, padre, ti capisco. Non oso spiegare con la demenza senile il suo fittizio disperato amplesso, quel sussulto di giovinezza misto a carenza antica di maternità. In quell’abbraccio c’era il ragazzo di una volta, c’era l’uomo, ma c’era anche il bambino. Si cumulavano in quel gesto tante età. C’erano i vent’anni dei suoi primi amori, c’ erano i settant’anni dei suoi ultimi amplessi, c’erano gli abbracci infantili dei tre anni. E c’era la somma esatta di quelle età, che tutte le abbracciava, insieme alle loro pulsioni e al loro ricordo sfatto. Quel bisogno di sentirsi ancora un corpo e non una malattia, di sentire la vita e non solo la sua evanescenza.

Una vita che sbiadisce e cerca occasioni estreme e furtive, come ladri nella notte. Forse c’è la rivalsa involontaria contro la gioventù; tu nipote esci quando io vado a letto, per una volta torni a notte fonda e mi trovi sveglio che abbraccio una donna, perché la vita riguarda pure me, non vegeto soltanto. Nella vita ho ancora permesso di soggiorno e so che il letto non serve solo per il sonno e l’ infermità.

Però fa male vedere la dignità di un uomo ridotta in vecchiaia a mendicare un bacio.

Ti trattano come un ingombro, occasionali badanti ti danno del tu e ti riducono a pacco, bimbo demente, ti scansano i più giovani. Come finisce male una vita longeva, in quale imbuto.

La sua sobrietà di preside del liceo, di studioso di filosofia, di educatore, finita nei gesti estremi del suo mangiare con la testa nel piatto, nel suo digerire senza riguardi, nel suo spogliarsi senza ritegno.

Lo capisco quando se la prende col suo medico che col pace maker gli ha prolungato una vita che reputa ormai di troppo. Vorrei finire anch’io prima della notte; capisco le sue invocazioni di congedi, la vita sarà un valore ma se vissuta con dignità. Altrimenti è sopravvivenza animale che cancella in un’ appendice vergognosa biografie operose e rispettabili.

E pure l’ho immaginato quella notte nella sua vecchia camera da letto, con i morti tutti a vegliare sul comò, madri, padri, moglie e santi, con un lumino acceso moltiplicato per tre volte da altrettanti specchi ed un letto matrimoniale da tempo dimezzato, abitato da un ingombrante vuoto.

L’ho immaginato lì, tra le sue lenzuola sfatte, i suoi orinali intorno, qualche feticcio estremo di vita, come la radio, la sveglia sul comodino e le caramelle all’orzo. Ed un Sacro Cuore che esplode sul suo letto, un Cristo che si sporge con la testa e con la mano benedicente, e si affaccia quasi sul suo letto a curiosare.

L’ho immaginato lì, a far l’amore con la vita, a salutare il passato con l’ ultimo sorso rimasto nel presente, a far capire alla badante che lui non è vecchio da sempre; ma fu ragazzo e anche bel ragazzo, amò e fu amato. Voleva lasciar traccia di sé e cercava trasfusioni estreme di vita da una ragazza florida.

Trovo commovente quell’abbraccio di una persona che reclama dell’amore non il frutto ma almeno il torsolo. Tenera è la notte, tenerissima per un vecchio in cerca di resistere alla notte.

MV

ANZIANI-

L’abbraccio dell’orso

Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l’esperienza della paternità. Nel suo cuore regnavano la gioia e l’amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica. Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli. Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza. Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce, e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti. Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese : “Dove vai buon uomo? Vedo nei tuoi occhi la gioia “l’uomo le rispose : “Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice. D’ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa. Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo.”
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva. Poi lo guardò e gli disse: ”Ascoltami bene. Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché? Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume. Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido. Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere. Prima o poi piangerei per il mio errore, perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi. “Io, amico mio” disse l’aquila, “amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità”.
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte. L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l’uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

(tratto da “Guida per genitori – PNL con i bambini” di Eric de la Parra Paz)

Eagle Feeding Chicks