Metafora della vita..

 

OIG

La vita è questa: persone che vanno, persone che vengono. Persone che conoscerai bene, altre che non riconoscerai più. Persone sincere, altre a cui cadrà la maschera. Persone che amerai oppure odierai, che ricorderai o rimpiangerai. Sì, la vita è questa, persone che vanno e persone che vengono, ma quelle importanti sono quelle che restano…

Un Quasimodo non troppo ermetico, ma bellissimo…

 Un Quasimodo non  troppo ermetico, ma bellissimo, una sublime poesia, un canto del cuore , che mi ha sempre affascinata. Amo questo suo essere partecipe della vita, che trionfa sempre, che nasce dal nulla. Il più grande miracolo che accade nel mondo continuamente…nonostante tutto.

 Sogno

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era..

Salvatore Quasimodo

 

albero

 

Una maschera per vivere…

 

In ogni lingua europea l’uso della parola “person”è involontariamente appropriato. L’origine di “person” è “persona”, una maschera ,come quella che gli attori erano soliti indossare sui palcoscenici antichi;ed è sicuramente vero che la maggior parte di loro non mostravano se stessi come erano, ma indossavano una maschera della quale interpretavano il ruolo. Infatti, la nostra posizione sociale può essere paragonata ad una continua commedia.
Ed è  per questo motivo che l’uomo che sa riconoscere il valore delle cose trova la maggior parte della società senza alcun interesse , mentre l’incompetente e credulone si trova perfettamente a suo agio, come se fosse a casa sua. E’ stato guardandomi intorno che mi sono ricordata della visione pessimistica della vita di Shopenhauer  e, sinceramente, mi pare attualissima.

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E’ nell’incertezza l’habitat naturale della vita dell’uomo…

La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare.

Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida. L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane.

Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità «autentica, adeguata e totale» sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso.

Zygmunt Bauman, da “L’arte della vita” .

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L’egemonia demenziale del nostro paese..

Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne l’apologia? Ma davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo, violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega? Ma davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri? Ma davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno rubando? (Avrebbero dovuto dire: esponenti della cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi). Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina oggi proibita, e tanto altro. Si sono bevuti il cervello.

Non è solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione. Puoi avere avuto una vita esemplare, una carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti, della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco “‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto, ogni tuo requisito.

Poi c’è sempre un cazzullo qualunque che dice: ma non c’è nessuna egemonia culturale, è una fandonia. E’ vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio; ha perso i suoi residui caratteri culturali, tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà. Ed è così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una lente deformante.

L’altra sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di volte a settimana. Ho visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e dintorni. Variante, i migranti. Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay, trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero, conservatore, sessista e omofobo. Devi sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella confezione. Alla fine non sono andato al cinema. E quando l’ho scritto nei social, oltre a ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene, che loro al cinema non ci vanno più. Va bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in modo demenziale ed infame. Non si può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano la loro pappa ideologico-correttiva. Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il lato b di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di culture, movimenti e produzioni diverse. Il carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio coatto).

Non ne parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste condizioni. E so già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata dal diario di bordo dei nostri giorni. Così il dissenso muta in defezione e la defezione in rabbia. Ma rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia. Rabbia impotente, se si considera che perfino un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le elezioni e governa in paese. E sai già che nulla potrà fare per cambiare le cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.

Qualcuno obbietta: si vede che sta bene alla gente tutto questo, se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta. No, signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti nella loro vita di singoli, impotenti. E il martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi, accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia, farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la tua mente. E la cancel culture applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale? Ma alla lunga è più facile cancellare che costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare; basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia. Per costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita di cura e di manutenzione. No, è molto più facile liberarsene, disfarsi, cancellare. Per questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.

MV

Disattenzione…o senza impegno ?

 

Disattenzione

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

Wislawa  Szymborska

 

pane

 

la vita all’alba…

L’alba sta per manifestarsi. Il banchetto della notte è finito. I primi bagliori della luce del giorno diffondono il loro tepore. La pietra riprende colore. Le cime degli alberi sono le radici del giorno che non è ancora cresciuto. La luna, collana d’argento da cui Venere penzola come una perla, sfoggia ancora il suo brillare. Intorno l’infinito è soltanto un punto di vista, la location di questo spettacolo. E ci saranno nidi su alcuni rami. La vita.

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Tempo+spazio=vita.

L’idea del tempo esiste solo nella nostra mente. In Esso non esiste, poichè per Lui non esiste tempo. Il tempo è solo un idea che nasce in noi quando percepiamo di esistere e da quel momento creiamo un concetto di tempo a scadenza ignota in cui vivere attimi che sono per pochissimo presente per diventare subito passato e immetterci nel futuro, nel quale poniamo propositi, sogni , desideri da realizzare. Ed  è in questa specie di spazio  che ci muoviamo freneticamente, timorosi di non riuscire a realizzarci in tempo. E non ci accorgiamo che Noi siamo tempo e spazio , oltre il tempo e lo spazio che si sono incontrati per una Vita.

il tempo

Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi.

Abbiamo scambiato il giorno con la notte. Sogniamo a occhi aperti, viviamo a occhi chiusi. Non riusciamo a sognare e non riusciamo a vivere la realtà. Due osservazioni di segno opposto, ricorrenti e veritiere per descrivere la vita presente. La chiave per comprendere perché due verità così divergenti hanno un comune fondo di verità è nel loro campo d’applicazione: come succede ai lattanti, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Ovvero applichiamo alla veglia le categorie del sogno e al sogno le categorie della veglia. Da un verso cresce la paura della vita e della realtà. Paura della violenza, dello straniero, del razzista, delle malattie, del contagio, del buio, dell’inquinamento. E paura di far figli, di perdere il tenore di vita, paura del futuro ma anche del passato. Allora si cerca rifugio nelle illusioni, nella mitologia secondaria o d’asporto, nel fumo, nelle trasgressioni, nella vacanza, nel video, nella cuffia, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni: cambiano i veicoli, gli oggetti usati, non gli effetti.

In un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrore, la violenza. C’era chi bruciava i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. I disagi, le violenze, le paure del presente sono passate con gli anni dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa tendenza a scambiare il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere la realtà quotidiana alla luce del sole, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all’incanto o all’irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l’amore è ridotto alla libido, la religione è ridotta a transfert nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l’arte è ridotta all’audience e alle condizioni socio-economiche, le idee ai rapporti di produzione e consumo, la cultura al potere culturale. Ci snaturiamo quando dovremmo vivere secondo natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all’astrologia: Theodor Adorno in Stelle su misura analizzò questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne. L’inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel surrealismo e poi nel ’68 una formula di successo: l’immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l’uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, cioè con la praxis, ribaltando così il rapporto col cielo e la terra. I malesseri del presente – come i dolorosi furori del passato – hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, li chiudiamo quando c’è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.

Gli psicanalisti, come Hethan Watters, raccontano cosa succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. È la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale: la pretesa di calcare il cielo con i piedi e di camminare con la testa. Così i nostri dei e i nostri miti sono pedestri, all’altezza delle nostre suole, o al più dell’inguine, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell’immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi, chiamava psicocrazia. I miti caduti in terra si chiamano malattie. Viviamo bene in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell’attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà si fa maledizione inflitta da altri. Così la vita diventa una confortevole patologia. La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini, mai scambiandoli di posto e di momento.

MV, Alla luce del mito

sogni