Ma era così brutta, odiosa e maschilista l’Italia dell’immediato dopoguerra, quando c’erano ancora i soldati americani per le strade?
Ho visto il film di Paola Cortellesi, C’è ancora un domani, che primeggia nelle sale e gode di giudizi largamente positivi. Confesso che da amante del cinema sto diradando la mia assidua frequentazione delle sale perché non riesco a sopportare più gli ingredienti obbligati che dominano i film e li rendono scontati, stucchevoli. Non c’è storia di vita e d’amore che non ruoti intorno al gender, al femminismo e all’omosessualità, o che ne abbia almeno una dose d’obbligo; non c’è storia di popoli che non ruoti intorno al razzismo, al vittimismo o che non abbia almeno una figura positiva di nero, di arabo, di immigrato; non c’è film di guerra che non ruoti intorno al male nazista o contro il fascismo; tutto il resto della storia è cancellato. E potrei continuare. Non c’è evento storico, personaggio famoso, artista o scienziato, che al cinema non sia ripassato in padella attraverso quei canoni obbligati, a volte assommandoli tutti.
Il film della Cortellesi già in partenza mostrava alcuni di questi requisiti ma era piaciuto ad amici e familiari e ciò mi ha spinto a vederlo. Confermo che è un bel film, ben fatto e ben interpretato. Salvo qualche luogo comune sui maschi, sulle donne, sui neri (il soldato americano buono è naturalmente nero). Quel che critico è la riduzione del passato a uno schema manicheo secondo un pregiudizio del presente. Si può davvero rappresentare quel tempo, quel mondo, quell’umanità attraverso la storia di un marito violento che mortifica sua moglie, in una società patriarcale e maschilista in cui le donne devono tacere e sono considerate inferiori? Quel mondo, quella generazione è quella dei nostri padri, delle nostre madri, dei nostri nonni. E non erano dei mostri, anzi. Che in quella società avesse una forte preminenza maschile il pater familias, è vero e le ragioni sono antiche e comprensibili: quando era il padre a portare i soldi e il pane a casa, quando i maschi andavano in guerra e avevano la responsabilità delle famiglie, la società reggeva su quella divisione di ruoli e di gerarchie. La famiglia era una piccola monarchia. Anche se non mancavano famiglie matriarcali, in cui era la donna a guidare la famiglia e il marito. Quel modello maschile rispondeva allo spirito del tempo, alla situazione reale, ed era vissuto in larga parte in modo consensuale, e non solo per rassegnazione. Per un marito che malmenava e umiliava la sua donna, c’erano dieci padri e mariti premurosi che si sacrificavano per la famiglia, come le madri; in cui era saldo l’amore, la dedizione, il riconoscimento reciproco; gran parte delle famiglie non reggevano sulla paura del padre. Le donne, andando meno a scuola, al lavoro, in pubblico, erano su un piano inferiore rispetto ai maschi. Poi le condizioni sono cambiate; di quel mondo abbiamo perso alcune odiose disparità e certi deplorevoli vizi ma abbiamo perduto anche generosità, doti e virtù. Quella era una più viva umanità, con legami più forti e più duraturi, non solo per necessità; un senso della famiglia e della comunità; c’era un’energia vitale, una forza di vivere, una gioia per le minime cose, un’aspettativa di domani che oggi non abbiamo più. Quando ci confrontiamo col passato non dimentichiamo che dobbiamo calarci in un periodo storico che aveva altri termini di paragone. E dobbiamo saper riconoscere quel che abbiamo guadagnato ma anche quel che abbiamo perduto rispetto a quel tempo. Nell’immediato dopoguerra c’era una voglia di vivere, la passione di costruire, far nascere, che oggi non abbiamo più. L’umanità non era fatta solo di mariti violenti, di parassiti, di “cravattari”(usurai), di cafoni arricchiti in modo disonesto, di puttanieri, come ce li rappresenta il film, salvo alcune figure virtuose (tutte donne, naturalmente, oltre il soldato di colore). E poi, per la verità storica, le peggiori violenze che subirono le donne in quegli anni non furono in casa ma per strada. Pensate alle migliaia di donne “marocchinate”, cioè stuprate dai soldati di colore delle truppe alleate; o pensate all’orrenda prostituzione per fame di mogli, madri e figlie anche minori, narrata da Curcio Malaparte ne La Pelle o descritta nel diario Quasi una vita di Corrado Alvaro, ora ristampato.
Il film dà al voto alle donne per la prima volta il significato di una liberazione e una svolta epocale. Vorrei ricordare che il voto alle donne fu determinante per sconfiggere il fronte progressista e socialcomunista, perché le donne votarono in larga maggioranza nel nome di Dio e del parroco, alla Democrazia cristiana. E in alcune zone d’Italia, soprattutto al centro-nord, la prima trasgressione delle mogli rispetto ai loro mariti fu il loro voto cattolico, familista e conservatore rispetto ai mariti che votavano per Baffone (Stalin era il loro mito) e per la sinistra socialcomunista.
Vorrei poi far notare che quella società così maschilista registrava meno femminicidi di quella odierna: dopo tutta l’ondata di femminismo, parità delle donne, lotta contro le violenze alle donne, il risultato è davvero scoraggiante.
Insomma, un film è un film e non un saggio storico o un trattato sociologico e antropologico, è inevitabile che racconti una storia particolare da un punto di vista particolare. Ma è sconfortante che il punto di vista sia sempre lo stesso e i casi raccontati siano sempre in quella direzione.
Marcello Veneziani