Alain Delon..

alain Delon

 Penso che pochi uomini siano entrati nell’immaginario femminile come è stato ‘per Alain Delon, la sua bellezza era folgorante, maschile nonostante il tutto bello che c’era  nel suo volto. I suoi occhi chiari sprigionavano un fascino irresistibile, e si comprendono tutti i suoi amori durevoli  od effimeri. Vederlo insieme a Romi Schnaider, uno dei suoi grandi amori, riempiva un quadretto di perfetta sintonia, stupiva chiunque lo incontrasse, nonostante non avesse un carattere facile, e non avesse quella statura particolarmente alta… forse avrebbe avuto troppo.  Ma la vita  è inesorabile, non guarda in faccia nessuno, gli anni che passano non ti chiedono chi sei , come fa il mondo reale, per riservarti un trattamento di favore.Nella sua vecchiaia non è un uomo felice e mi rattrista pensare che ,in fondo in fondo, nonostante i successi, le favole vissute,  tendiamo tutti alla medesima fine.

Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

Gli scrittori odierni che da bambini si permettevano di rifiutare le verdure..

Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno. Altro che quelli di oggi.

susanna

“Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte” ha decretato Gómez Dávila, e dunque “Vestivamo alla marinara” di Susanna Agnelli è letteratura. L’ho letto nell’altro secolo, l’ho riletto ora con nuovo piacere e nuovo profitto. Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno (stoicismo di lusso ma pur sempre stoicismo). Infermiera ovviamente volontaria abbracciava le tubercolotiche morenti che le colleghe schifavano, guidava ambulanze sotto i bombardamenti, attraversava il Mediterraneo su navi ospedale spesso silurate dagli angloamericani (in barba alla Convenzione di Ginevra), sfidava le pallottole dei cecchini fascisti, a Firenze, per recuperare il corpo di una donna colpita malgrado l’evidente gravidanza… Senza mai una lamentela, puro dovere e puro stile fin nella scrittura asciutta, perfetta, senza un grammo di grasso e di compiacimento. Anche un grande esempio di educazione (a Torino, da piccola): “Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente”. Dopo Susanna Agnelli come faccio a leggere gli scrittori odierni, senza vita e senza stile, che da bambini, è chiaro, si permettevano di rifiutare le verdure?

Camillo Langone  __da il FOGLIO             

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne.

Se fosse stato dipinto oggi e messo in mostra in questi nostri tempi, in cui il contesto storico ha ridimensionato il pensiero e il sentire comune, integrando nelle nostre vite la gente di colore, e tutte le persone considerate anormali, nessuno ricorderebbe la sua esistenza e lo scalpore che fece a quei tempi. Oggi si può ammirare al Louvre e capita ancora di imbattersi in qualche rivista, magari non attualissima, che ne racconta la storia.

M.G.Benoist, “Ritratto di una donna nera”: la storia di due donne

Parigi,primavera del 1800, grande eccitazione per l’edizione annuale del Salon, l’esposizione ufficiale di belle arti. E’ la prima, da quando Napoleone Bonaparte ha iniziato, con la nomina a Console, la sua irresistibile ascesa politica. Mai come questa volta, le sale sono affollate: raffinati gentiluomini e signore alla moda, si fermano perplessi davanti a un dipinto. Nell’aria c’è odore di scandalo. Dopo la Rivoluzione, anche le donne sono state ammesse a esporre. Ed è proprio una pittrice, Marie-Guillemine Benoist (1768-1826), a presentare il quadro che ha fatto scalpore. Perchè il dipinto, di cui si parla tanto, è questo:

negresse Benoist

Una giovane donna, vista di tre quarti, è seduta su una sedia “a medaglione”, vestita da un tessuto blu, riccamente drappeggiato, in una posa riservata ai ritratti delle dame dell’alta società, come la tunica alla moda stretta in vita da una sottile cintura rossa. Lo sfondo è spoglio, il tono austero, la presenza di accessori ridotta al minimo, come nei ritratti alla moda di Jacques-Louis David, il pittore più celebre del tempo. Ciò che sconvolge è il fatto che la donna è nera e per la prima volta rappresentata come una dama e  non in uno stato servile, l’unico concesso per inserire i neri nei dipinti. È vero che, nel Salon di due anni prima, il ritratto di un nero aveva riscosso gran successo, ma lì si trattava di un noto deputato della Convenzione, il primo proveniente da Santo Domingo. Qui è diverso: una donna nera qualsiasi e, in più, raffigurata come fosse una signora. Inaccettabile. I più colti e tradizionalisti rimproverano alla pittrice di aver scelto un soggetto che contravviene alle più elementari regole accademiche.
“Le sujet noir et la couleur noire est un exercice rebelle a l’art de la peinture, Il soggetto nero e il colore nero è un esercizio contrario all’arte della pittura”: citano a memoria. E lei, invece, evidenza proprio il colore della pelle, giocando sul contrasto tra il nero e il bianco immacolato della veste.
E, poi, ha scelto come titolo “Portait d’une negresse, ritratto di una negra”
Anche se allora, lontano dai tempi del “politicamente corretto”, il termine “negresse, negra ” non aveva alcun senso peggiorativo, comunque ribadiva l’anonimato della modella e il connotato razziale.

Invece, per la pittrice, la giovane non era una sconosciuta , pare fosse una domestica al servizio della famiglia, portata in Francia dalla Guadalupe.
Una domestica, però, non una schiava. La schiavitù era stata abolita, appena sei anni prima, con una legge a lungo contestata dai proprietari delle piantagioni dei territori oltremare, convinti di non sopravvivere senza manodopera a costo zero. La tratta di schiavi dall’Africa era stata tacitamente mantenuta: i neri erano considerati, comunque, degli esseri inferiori. Nel dipinto, no. L’ex schiava è raffigurata con dignità, sensibilità e attenzione ai sentimenti: nel volto una malinconica rassegnazione e la vulnerabilità di chi è costretto a vivere in un mondo estraneo.
Non si pensava nemmeno che una pittrice potesse fare critica sociale. Eppure ha inserito un’ allusione alla legge contro la schiavitù nel copricapo, che ricorda, sia l’acconciatura tipica delle donne antillane che il berretto frigio dei rivoluzionari. E poi i colori, bianco, rosso e blu, sono quelli della bandiera della Francia, il paese che, almeno nominalmente, ha portato la libertà. Non basta: i visitatori appassionati di pittura non possono non cogliere un altro elemento.  Il seno nudo non ha niente di malizioso, anzi. Insieme alla posizione delle mani e allo sguardo diretto verso lo spettatore, è un riferimento preciso a un dipinto celeberrimo: la “Fornarina” di Raffaello. Una domestica, una ex schiava nera, nobilitata dal richiamo a una tradizione pittorica illustre. Ce ne sono di motivi di scandalo. E la pittrice non può ignorarli.

fornarina

Figlia di una famiglia di piccola nobiltà, ha iniziato a dipingere nello studio di una ritrattista famosa, Elisabeth Vigé-Lebrun.
Durante la Rivoluzione ha cessato ogni attività ed è sopravvissuta a stento, nascosta per sfuggire alla ghigliottina, insieme al marito aristocratico e convinto realista. Ma ora la paura è finita. È ambiziosa e, dopo che ha avuto la possibilità di frequentare l’atelier di David e di esporre al Salon, vuole ottenere la sua affermazione pubblica. Nella primavera del 1800 le vicende delle due donne si intrecciano: la modella non è più schiava e la pittrice può esercitare il suo mestiere.
C’è empatia e comprensione: entrambe si sentono, finalmente, libere. Il dipinto, malgrado qualche aspro giudizio negativo, è un trionfo poichè
il pubblico più illuminato vede un manifesto dell’ emancipazione dei neri e delle donne. Molti lo condividono. È un clima di entusiasmo, che non durerà a lungo. Due anni dopo, nel 1802, Napoleone cederà alle pressioni dei grandi proprietari di piantagioni e la schiavitù verrà ristabilita. La repressione sarà feroce. Tra le due donne, a questo punto, si aprirà un abisso.
Non sappiamo quale sarà la sorte della giovane del ritratto; probabilmente continuerà a rimanere al servizio della famiglia, come schiava e per tutta la vita. Marie-Guillemine Benoist sarà riassorbita nel conformismo dell’alta società e diventerà la ritrattista ufficiale della famiglia Bonaparte. Finirà per rinunciare alla pittura, un’attività giudicata poco consona alle cariche pubbliche sempre più importanti, assunte dal marito.
Entrambe rientreranno nei loro ruoli: il breve momento, che le ha viste unite e uguali, è finito.

2 giugno, perché uniti, perché divisi…

Nel giorno del suo compleanno repubblicano, una nazione civile e democratica, dove libertà fa rima con dignità, dovrebbe avere in mente soprattutto una cosa: l’amor patrio è il primo valore condiviso di una comunità nazionale e come tale va preservato e alimentato. Ma è anche il luogo in cui, legittimamente, si distinguono e si divaricano le culture della cittadinanza. Cosa voglio dire? Il 2 giugno è la piazza in cui si incontrano, si salutano e si differenziano, in modo civile, gli italiani. Quali sono i valori comuni che si celebrano nell’amor patrio? Il rispetto del popolo sovrano, della sua storia e delle sue istituzioni, delle sue leggi e della dignità individuale e collettiva; il rispetto della libertà e della democrazia, delle sue regole e dei suoi verdetti; il rispetto dell’Italia, della sua integrità territoriale, del suo paesaggio e del suo linguaggio, delle sue città e delle sue culture, nel quadro di una scelta di civiltà europea e di pace internazionale. E dunque la difesa della patria in caso di pericolo. E’ inutile aggiungere cosa ci unisce in negativo: il rifiuto della violenza, dei totalitarismi e dei regimi oligarchici, ecc. Di tutto questo il presidente della Repubblica dovrebbe essere il supremo garante, ma non il solo: le forze armate e le forze dell’ordine, la magistratura, la cultura e tutti i rappresentanti dello Stato devono farsene garanti. Però non siamo ipocriti: sappiamo che accanto a valori condivisi e a regole comuni e comunemente accettate, ci sono anche motivi di contrasto. Se fingiamo che intorno al 2 giugno e all’amor patrio non ci siano motivi di divergenza, facciamo abortire la festa; ne diamo una versione falsa, puramente cerimoniosa, che nasconde il germe della doppia verità, del finto ossequio. E allora un paese civile, una democrazia sana, non scaccia le divergenze ma cerca di immetterle nel libero gioco della politica e delle culture plurali. E allora dopo aver indicato i punti che ci dovrebbero unire, da destra a sinistra, passando per il centro e per le periferie, provo a dire onestamente cosa ci divide il 2 giugno. Non prendetelo come un esercizio diabolico, di chi vuol seminare zizzania e secessione il giorno delle nozze, ma come una precisa e leale dichiarazione di intenti e di dissonanze. Dunque provo a puntualizzare le differenze.
1) Le culture di centro-sinistra ritengono che l’amor patrio sia fondato sul patto costituzionale, mentre le culture di centro-destra ritengono che prima della costituzione formale, sancita da una carta, vi sia una costituzione reale o materiale che nasce e si forma nel corso della storia e della vita di una comunità. Patriottismo della costituzione da una parte, patriottismo della tradizione dall’altra. Certo, i primi non possono negare importanza alla tradizione di un popolo, così come i secondi devono rispettare le regole sancite dalla Costituzione. Ma i primi affidano il patto tra i cittadini a quella carta, mentre i secondi la affidano alla storia e alla realtà di una nazione. Magari passando per le patrie locali.
2) Di conseguenza, l’amor patrio dei primi si identifica con la nascita dell’Italia repubblicana e antifascista e si situa storicamente in quel quinquennio che va dalla caduta del regime fascista alla promulgazione della costituzione, passando per la guerra di liberazione, il referendum e il ritorno della democrazia. Per i secondi, invece, l’amor patrio è una consonanza antica, coincide con l’essere italiani, indipendentemente dai regimi e dalle costituzioni; e dunque nell’amor patrio rientra la storia dell’Italia, il sentire comune, civile e religioso, la vita di un popolo e di uno Stato unitario. L’amor patrio dei primi quasi coincide con l’antifascismo; per i secondi, invece, è amore delle radici e del loro sviluppo.
3) Sul piano sociale, l’amor patrio dei primi è legato essenzialmente alla cittadinanza e alle sue regole, mentre nei secondi è legato all’appartenenza e all’identità. Per i primi è un caso privo di significato che si nasca in un luogo anziché in un altro, quel che conta è decidere di vivere in quel luogo, accettando alcune regole. Per i secondi invece il legame con un luogo, con un’origine, non è casuale e insignificante, ma è un segno del destino, di conseguenza è importante nascere in un luogo, in una famiglia, nel solco di una patria anziché un’altra. Non è un discorso di astratti principi ma di concrete conseguenze: i primi ritengono che tra un connazionale ed uno straniero non ci siamo differenze, e che la solidarietà debba essere universale. I secondi, invece, ritengono che la solidarietà per essere concreta e incisiva, debba partire dal più vicino e poi allargarsi al più lontano; di conseguenza, l’amor patrio si manifesta a partire da tuo padre e tua madre, da tuo fratello e poi dal tuo vicino, dal tuo collega, dal tuo concittadino e poi dal tuo connazionale, via via allargandosi.
4) L’amor patrio nelle culture progressiste è una variabile secondaria e subordinata del cosmopolitismo e dell’internazionalismo, dell’amore universale. Quel che conta è essere cittadini del mondo; essere cittadini italiani è solo una caso specifico, una modalità relativa e fortuita. Viceversa, per le culture della tradizione si è cittadini del mondo solo in quanto si è cittadini della propria patria, e dunque l’amor patrio è il fondamento vitale e concreto su cui basare il legame con il mondo. Non siamo apolidi e apatridi abitanti del pianeta, indifferenti al luogo che ci vide nascere e crescere; ma portiamo nella nostra anima e nella nostra vita, il segno di quel legame, di quella provenienza, di quella casa e di quelle comunità.
Ora, non credo che le due diverse culture debbano considerarsi l’un contro l’altra armate, non credo che l’una debba disprezzare l’altra evocando fantasmi del passato e figure del Male. Ma non credo nemmeno che possano combaciare e fondersi. La politica è proprio questo, la passione comunitaria verso ciò che unisce e verso ciò che differenzia; la politica è la corda tesa tra il conflitto e il consenso, la possibilità di divergere senza farsi la guerra, o di raggiungere equilibri e coesistenze senza sognare pacificazioni definitive e unanimità impossibili. Per questo è giusto festeggiare insieme il 2 giugno, sentirsi insieme italiani e uniti, ma nella diversità che sono poi le basi della democrazia.

Marcello Veneziani   

Quando il Papa usa il dialetto è realista…

 

Bergoglio che dimentica l’italiano ricorda Belli, il primo a scrivere “froscio” con l’accezione nostra. Il vernacolo non consente mistificazioni.
Non era merito di Papa Bergoglio, era merito del dialetto. Le pronte scuse della Sala stampa vaticana, espresse nella solita lingua finta degli uffici stampa, ne sono la conferma. Quando il Papa gesuita usa l’italiano è ideologico dunque omosessualista come tutti i mondani, e inevitabilmente si piega a pronunciare la parola americana di tre lettere, riverenza lessicale a Sodoma. Invece quando usa il dialetto è realista perché non può non esserlo: il vernacolo non contempla astrazioni, non consente mistificazioni. In dialetto puoi tradurre il Vangelo, non puoi tradurre Foucault né Judith Butler. Quando Bergoglio dimentica l’italiano ricorda Belli, il primo a scrivere “froscio” con l’accezione nostra (lo fece nel fantastico sonetto “La pissciata pericolosa” riferendosi, guarda caso, a una guardia svizzera). Quando Bergoglio dimentica l’italiano ricorda la dottrina della Chiesa. Usi di

Camillo  Langone___IL FOGLIO                                                                                               

papa

Cosa significa educare secondo Paolo Crepet.

“ Educare vuol dire togliere”
Quando un genitore dice: “io non ho mai fatto mancare niente a mio figlio” esprime la sua totale idiozia.
Perché il compito di un genitore è di far mancare qualcosa, perché ,se non ti manca niente, a che ti deve servire la curiosità, a che ti serve l’ingegno, a che ti serve il talento, a che ti serve tutto quello che abbiamo in questa scatola magica, non ti serve a niente no? Se sei stato servito e riverito come un piccolo lord rimbecillito su un divano, ti hanno svegliato alle 7 meno un quarto la mattina, ti hanno portato a scuola, ti hanno riportato a casa, ti hanno fatto vedere immancabilmente Maria De Filippi perché non è possibile perdersi una puntata di Uomini e Donne, perché sapete che è un’accusa pedagogicamente brillantissima.
Ma una cosa di buon senso, il coraggio di dire di no? Vedete io me lo ricordo, tanti anni dopo, l’1 in matematica e non mi ricordo le centinaia di volte che mi hanno dato 6, perché il 6 non dice niente, è scialbo, è mediocre. Me lo disse mio padre quando tornai a casa. “Papà ho preso 1 in matematica”.
Pensai che avrebbe scatenato gli inferi, non sapevo cosa sarebbe successo a casa mia. Lui invece mi disse: “fantastico, 4 lo prendono in tanti, invece 1 non l’avevo mai sentito. E quindi hai un talento figliolo”. E poi passava dall’ironia ad essere serio: “Cerca di recuperare entro giugno se no sarà una gran brutta estate”. Fine. Non ne abbiamo più parlato. Perché lui credeva in me. E quando credi in un ragazzo non lo devi aiutare, se è bravo ce la fa. Perché lo dobbiamo aiutare? Io aiuto una signora di 94 anni ad attraversare la strada, ci mancherebbe altro. Perché devo aiutare uno di 18? Al massimo gli posso dire: “Sei connesso? Ecco, questa è la strada , tanti auguri per la tua vita”. Si raccomandano le persone in difficoltà, non un figlio. Perché devi raccomandare un figlio? Perché non ce la fa? Che messaggio diamo? Siccome tu non ce la fai, ci pensa papà. Tante volte ho sentito dire da un genitore: io devo sistemare mio figlio. “Sistemare”. Come un vaso cinese. Dove lo sistemi? Dentro la vetrinetta, sopra l’armadio? Hai messo al mondo un oggetto o hai messo al mondo un’anima? Se hai messo al mondo un’anima non la devi sistemare, l’anima va dove sa andare.
Educare non ha nulla a che fare con la democrazia, dobbiamo comandare noi perché loro sono più piccoli. In uno stagno gli anatroccoli stanno dietro all’anatra. Avete mai visto un’anatra con tutti gli anatroccoli davanti? È impossibile, è contro natura. Perché le anatre sono intelligenti, noi meno.
Un genitore è un istruttore di volo, deve insegnarti a volare. Non è uno che spera che devi restare a casa fino a sessant’anni, così diventi una specie di badante gratis. Questo è egoismo, non c’entra niente con l’amore. L’amore è vederli volare.

Paolo Crepet

educare

Gli italiani e Dante Alighieri, un rapporto troppo limitato.

I connazionali del Sommo non riescon a capire quanto la Divina Commedia sia contraria a Bruxelles e Washington, all’immigrazione e alla miseriscordia bergogliana.

dante

Dante, Padre Dante, ci volevano i maomettani per prenderti nuovamente sul serio. Per i postcristiani italiani il tuo poema è solo antiquariato letterario, pagina ammuffita, canto scaduto (il ministro Sangiuliano cercò di attualizzarti ricordando, peraltro sulla scia di Umberto Eco, la tua natura di intellettuale di destra: risero tutti, gli stolti). I tuoi connazionali sul serio non riescono più a prenderti e così non riescono a capire quanto la Divina Commedia sia contraria a Bruxelles e Washington (“Ahi serva Italia”), all’immigrazione (“diverse lingue, orribili favelle”), alla misericordia bergogliana (“Dio vuol che ‘l debito si paghi”). E naturalmente a Maometto, “seminator di scandalo e di scisma”. Invece ti hanno capito benissimo i genitori musulmani che hanno chiesto e ottenuto, per i loro figli frequentanti una scuola veneta, l’esenzione dallo studio dei tuoi versi. Sono buoni esegeti: davvero la Divina Commedia è incompatibile con l’islam. Dante, Padre Dante, prego che gli italiani imparino da loro la seguente lezione: i capolavori non sono vecchi documenti, sono costanti insegnamenti.

 Camillo Langone___IL FOGLIO                                                                           

Una riflessione particolare…da Federico Fellini.

Non ho molto da dire.

Credo di aver imparato molto poco in tutti questi anni: ho imparato che ci sono molte cose sconsiderate che puoi fare. E tra quei milioni una che è ancora più sconsiderata delle altre. E di solito fai quella.

Ho imparato che il blu e il nero insieme sono un cazzotto in un occhio.

Ho imparato che certi odori si fissano nella memoria, e quando li risenti è come se tutti quegli anni non fossero mai passati.

Ho imparato che il sabato è meglio della domenica.

Ho capito che chiunque ha qualcosa da raccontare, ma ho capito anche che l’odio per certe persone ti aiuta a vivere meglio.

Ho imparato che certe mattine saresti disposto a dare via un braccio pur di dormire alti cinque minuti.

Ho constatato che alcune città sono capaci di farti scordare anche come ti chiami.

Ho imparato che ci sono persone così esteticamente stupefacenti che emanano addirittura luce propria. Sembrano, non so… fosforescenti!

Ho capito che non c’è da preoccuparsi se a 40 anni non sai che fare della tua vita, se hai ancora una gran voglia di giocare. Forse sei l’unico che ha capito qualcosa.

Ho imparato che se ripeti una parola tante volte, all’improvviso perde di significato.

Ho imparato che a volte avresti talmente tanta voglia di fare l’amore con una determinata persona che glielo chiederesti in ginocchio.

Ho imparato che una sigaretta, specie se sei a terra, può addirittura salvarti la vita.

Ho scoperto che esistono persone talmente scassapalle da rappresentare un vero e proprio ornamento ai testicoli.

Ho imparato che non c’è cosa più inebriante che impuntarti sulla tua scelta. E poi sbagliare.

Ho imparato che il conforto degli amici a volte può esserecrudele.

Ho imparato che la voce di Frank Sinatra è uno dei motivi per stare al mondo. E la Heineken è l’altro.

Ho imparato che il sale si mette prima che l’acqua cominci a bollire.

Ho capito che certe regole sono fatte per andarci contro.

Mi sono accorto che non c’è cosa più divertente che dare ragione a un idiota. E dentro ridere.

Ho scoperto che con gli anni i tuoi errori e i tuoi rimpianti impari ad amarli come figli.

Ho imparato che la nostalgia ha lo stesso sapore della cioccolata bollente.

Ho imparato che i film di Ingmar Bergman non sono solo capolavori: sono lezioni di vita.

Ho capito che niente è più bello che alzarsi la notte mentre tutti gli altri dormono e girovagare in solitudine come un cane tra i rifiuti, alla ricerca di una qualsiasi sensazione appagante.

Ho imparato che se ti chiedono di fare cinque cose e all’ultimo momento ne aggiungono due, tu inevitabilmente dimentichi le prime tre.

Ho imparato che certa gente ha la testa solo per separare le orecchie.

Ho imparato che la tua camicia preferita attira il sugo in modo micidiale.

Ho imparato che non c’è cosa più bella che svegliarsi una mattina senza sapere che ore sono, senza riconoscere la stanza e soprattutto senza ricordare come ci sei arrivato.

Ma soprattutto ho imparato che i giorni veramente importanti nella vita di una persona sono cinque o sei in tutto.

Tutti gli altri fanno solo volume.

Così fra sessant’anni non ti ricorderai il giorno della tua laurea, o quello in cui hai vinto un Oscar.

Ti ricorderai quella sera in cui tu e i tuoi amici, quelli veri, avete fumato 10 sigarette a testa e ubriachi persi avete cantato per strada a squarciagola fradici di pioggia.

Quelli sono i momenti in cui la vita davvero batte più forte.

Federico Fellini

fellini_miloftg

“Le ciabatte” di Samuel Hoogstratten: un racconto immorale. Come imparare a leggere un quadro…

Ci sono quadri che  nascondono le loro storie meglio di altri.

                 Questo, per esempio:

1 samuel_van_hoogstraten_les_pantoufles

Il dipinto, ora al Louvre, è datato  alla metà del Seicento e attribuito al pittore olandese Samuel Hoogstratten (1627-1678, contemporaneo di Vermeer e specialista in effetti prospettici.

Il titolo, con cui è noto,  è “Les pantoufles, le ciabatte“.

In un nitido interno domestico- un soggetto che, all’epoca andava di gran moda- una prospettiva rigorosa di soglie e stipiti  di porte aperte,  inquadra un’infilata di stanze, divise da un corridoio. Il senso di profondità è accentuato dalle mattonelle a losanghe del pavimento e dal gioco di luce e ombra.

Tutto sembra quieto e tranquillo. In realtà,  se lo si guarda bene,  si scopre che  la calma è solo apparente.  Si avverte, da subito, con un po’ di disagio, che, nel dipinto, manca qualcosa: manca qualsiasi figura umana. Un’assenza che si nota, tanto più che  siamo abituati a vedere, nei quadri dell’epoca- in Vermeer soprattutto- ambienti abitati da giovani donne riflessive, domestiche indaffarate, o gruppi intenti alla musica o alla conversazione.  E, poi,  abbiamo  l’impressione precisa che qualcuno, da quelle stanze, ci sia appena passato. Ma chi?  Per scoprirlo non resta che varcare la cornice ed “entrare” nel quadro alla ricerca di indizi.

Subito, un dettaglio salta  agli occhi: le ciabatte, talmente evidenti da dare il titolo al quadro.

2 imagespantofole

Senza dubbio non sono lì a caso: sono  illuminate, quasi fosse un proiettore, dalla luce del sole che entra a fiotti nella stanza e  disposte proprio al centro della composizione.  In un interno, così immacolato, quelle ciabatte, un po’ consunte, abbandonate per terra, con negligenza, nel bel mezzo del corridoio, sono un elemento stonato. Ed ecco che quello che,  all’inizio, poteva parere una puro esercizio prospettico sembra, all’improvviso, animarsi.   Non ci resta che ripercorrere, di nuovo, quegli ambienti silenziosi  e osservare, uno a uno, tutti i dettagli.

3 Clef02_detail_Hoogstraten_Lespantoufles_1658

Scopriamo, allora, che la scopa non è stata ben  riposta, ma lasciata, in bella vista, appoggiato su una  parete.   Il mazzo di chiavi, ha l’aria di essere stato appena infilato nella serratura della porta e poi dimenticato.  Se entriamo nel salotto, vediamo che,  sul tavolo, c’è un  libro chiuso e una candela, posta  di traverso sul candeliere, che sembra sia stata spenta in tutta fretta. Allora qualcuno, qui, c’è stato davvero!  Ma perché tanta negligenza e tanta precipitazione?   E dove sarà la padrona di casa? Perché di una donna si tratta, a giudicare dagli oggetti tipici di occupazioni domestiche prettamente femminili.   Se  proseguiamo nell’indagine, scopriamo che proprio l’autore, Samuel Hoogstratten, un primo indizio ce lo aveva fornito, niente di meno che nel suo “Trattato  sulla pittura”, dove aveva scritto: “i quadri migliori sono quelli che hanno un significato istruttivo”.

Vorrà dire che, anche in questo dipinto, un significato c’è. Vale la pena cercarlo.  Rientriamo nel quadro e, questa volta,  lasciamo che  sia il pittore a guidarci.  In effetti, se prestiamo attenzione, vediamo che quello che attira subito lo sguardo è il quadro, appeso alla parete di fondo del salotto, che spicca, con evidenza, sul bianco del muro.  Non cerchiamo oltre: la chiave è là.

Il quadro raffigurato non è affatto di fantasia, ma  è la copia, con qualche variante, dell”Ammonizione paterna” di Gerard Ter Borch. La tela di Ter Borch, all’epoca, era notissima: ne erano state fatte numerose copie e stampe da esporre, bene in vista, nelle più dignitose case olandesi. Nel dipinto un padre, indicando con fare minaccioso un’alcova rossa, simbolo evidente di peccato, ammonisce la figlia contro il vizio e la dissolutezza, a cui può condurre l’amore carnale.   Era il soggetto giusto da porre, come monito,  sotto gli occhi delle giovani perbene. Ecco dove ci voleva portare il pittore!

4 hoogstratenlouvre3

Nessun elemento del dipinto era  casuale. Facendo parlare solo gli oggetti fuori posto, l’artista ha costruito un piccolo racconto morale –o immorale- perfettamente comprensibile dai suoi contemporanei: una donna, nella fretta di precipitarsi a un incontro galante, si scorda le chiavi sulla porta, abbandona le scopa appoggiata al muro e si toglie  le ciabatte proprio in mezzo al corridoio. Spegne anche la candela, alla cui luce stava forse leggendo.  E ora, fuori dal nostro campo visivo, in un’altra stanza, si dedica a un’illegittima attività amorosa. Presa dalla passione, ha scordato le sue più elementari incombenze: una condotta, all’epoca,  davvero riprovevole. Preferire le vane gioie d’amore alle sagge occupazioni domestiche non era degno di una donna onesta.

Quella che il pittore ha abilmente suggerito, col suo gioco di indizi,  è  una sottile lezione di comportamento, destinata a qualche casalinga inquieta, a rischio di cadere in tentazione.  Nessun mistero, dunque, tanto che, a questo punto, potremmo pure proseguire il racconto con un pizzico di pepe e di dettagli piccanti.  Meglio di no! Ora che tutto è chiarito, la cosa migliore da fare è uscire in silenzio dal quadro,  senza dimenticare di chiudere, con discrezione, la porta d’ingresso.

“Le ciabatte” di Samuel Hoogstratten: un racconto immorale  se vi interessa imparare a leggere un dipinto.