La prova dell’Ascolto …

C’è un test dell’ascolto che non sbaglia mai ed è alla portata di chiunque: non c’è bisogno di essere psicologi iscritti all’albo.

State parlando con un conoscente, o un amico. Magari lui vi sta pure guardando in faccia (gli occhi sono un linguaggio spesso trascurato) e vi manifesta in qualche modo disponibilità e interesse.
Voi avete iniziato da poco a raccontare qualcosa.
Poi, ad un certo punto, venite interrotti. E dovete subire un’interferenza.

Capita.

Ad esempio al ristorante. Il cameriere sta per avvicinarsi al tavolo. Poi si accorge che siete affaccendati in una conversazione e si ritira, attendendo con discrezione, in disparte, per non disturbarvi. Voi vi accorgete della sua presenza e gli fate cenno che siete pronti per le ordinazioni. Il cameriere, con cortesia e professionalità, fa capire che non c’è fretta: ritorna. Ma voi e il vostro commensale gli dite che avete già sfogliato il menu e avete deciso. Primo, secondo, acqua. Invece per vino o birra vi fate esporre l’offerta da lui: che vi consigli, soprattutto per il vino. Quindi scegliete.

Il tutto è durato pochissimi minuti. Il cameriere ringrazia, fa un cenno di inchino (non è un giapponese: è solo, come già detto, un professionista che conosce il mestiere), sorride e se ne va.

A questo punto voi ripensate al racconto e a quello che ancora avreste da dire per completarlo. Ma restate in silenzio. Arrivate pure a guardare in faccia il vostro interlocutore. Il quale è più zitto di voi. E’ distratto. Pensa ai fatti suoi. Oppure, butta lì un suo inizio di discorso che non c’entra nulla con il vostro che avete dovuto interrompere. E il vostro racconto rimasto in sospeso? Nulla. Evaporato.

Ecco fatto. Avete il test perfetto: quello che dicevate evidentemente non interessava. La disponibilità manifestata, con con tanto di occhioni e sorrisi accoglienti (immaginiamo la situazione migliore: perché c’è pure chi fa capire da subito che la sua attenzione all’ascolto è del tutto formale, posticcia, acquisita solo durante l’ennesimo corso di formazione), era finta, distratta, artificiosa. Al vostro conoscente, o amico, di quello che stavate dicendo, non gliene poteva interessare di meno. Altrimenti, è ovvio, non solo per educazione, vi avrebbe chiesto: “Scusa, dicevi?”. Per ricordarvi o stimolarvi a riprendere.

Naturalmente, visto che stiamo immaginando un caso reale, aggiungiamoci un dettaglio, spesso presente e grosso come un macigno. Il conoscente, o amico, è uno dei principali assertori/propugnatori della teoria dell’ascolto. Magari è un laudatore dei costumi antichi, quando “sì che c’erano tempo e disponibilità ad ascoltare”. “Sì, perché, caro dottore: oggi ognuno per sé e un Io solo per tutti. Troppa fretta, troppa indifferenza, tanti contatti e pochi rapporti. Caro mio, viviamo tempi brutti: altro che ascoltarci. Degli altri, in fondo, chissenefrega?”

Oppure no: lui li odia i tempi antichi ed è convinto che solo oggi si fanno le ottime cose che ieri non si facevano. O non si facevano a sufficienza. Come ascoltare, per esempio.

Massimo Ferrario, La prova dell’ascolto,

 

ascolto-empatico

Le tre madri, un racconto sull’ esistenza…

 

In un tempo al di là della nostra immaginazione, tre madri vivevano ai piedi di Yggdrasil, il grande albero della vita, nel regno degli Asi, presso la sorgente del fato. Era loro compito nutrire il grande albero con le acque pure della sorgente sacra, preservarne la vita con la sua argilla bianca e cospargere l’erba di rugiada attingendo sempre dalla fonte. I nomi delle tre madri erano Urðr, Verðandi e Skuld, ed erano loro a tessere i destini di tutti.

Per le tre madri, tutti andavano trattati allo stesso modo perché nessuno – nemmeno Odino, il padre di tutti gli dei e gli uomini – aveva dominio su di loro. Ognuno era, invece, soggetto al proprio destino. Le madri, o le Norne, com’erano altrimenti conosciute, erano forse sorelle, o forse no, ma l’una non poteva esistere senza le altre. Era compito delle madri assistere alla nascita di ogni neonato e tessere la storia della sua vita. Non era un’incombenza che prendevano alla leggera e, per ogni anima che veniva al mondo, le madri mettevano cura e considerazione nel creare il percorso della sua esistenza.
Urðr era nota come il Passato o il Destino. Aveva lunghi capelli fluenti che cambiavano colore con le stagioni, passando dall’oro al castano: d’inverno assumevano il marrone scuro dell’acqua delle paludi, mentre d’estate diventavano come un campo d’orzo. Anche la sua pelle cambiava col trascorrere delle stagioni, così come gli occhi: miele e nocciola d’estate, panna e brace ardente d’inverno. Urðr traboccava di luce e risate, e raccontava tante storie diverse sulla vita di una persona mentre ne segnava il percorso cantando. Ogni nota che emetteva si trasformava in un filo, ogni colore illuminava un sentiero per l’anima.
Verðandi era conosciuta come il Presente o il Divenire. Aveva riccioli di mille sfumature di rosso. Pur essendo la più minuta delle tre – pulita e ordinata come uno degli elfi-nani – era quella con più poteri. Era lei a tessere il segreto della gioia nella vita di un’anima. Tuttavia, la sua essenza era il filo più difficile da trovare. Non cantava e non parlava, infatti, ma piuttosto insufflava la vita nel cuore, come un dolce respiro; era come il suono del mare a riva in un tranquillo giorno d’estate, o il lieve ondeggiare del vento tra i rami.
Skuld era conosciuta come il Futuro o la Necessità. I suoi capelli, del nero più nero mai visto, erano striati da un lampo di bianco candido. Lei era la più petulante delle tre. A volte non voleva affatto essere madre e si ribellava alle sorelle. “Che senso ha tessere i destini di ogni anima appena nata quando il nostro futuro è sempre incerto?” si lamentava, agitando un rotolo di pergamena ancora tutto da scrivere. Altre volte, invece, dopo che le altre due madri l’avevano calmata con frutta e vino, Skuld prendeva la pergamena e cominciava a scrivere, scrivere, scrivere. Non raccontava mai a voce le storie sul destino dell’anima appena nata, ma ne dispiegava la vita con l’inchiostro.
Nessuno di noi può evitare le tre madri nel momento in cui nasce alla vita. E non importa se siamo dei, dee, umani, elfi, nani, troll o giganti del gelo. Per le tre madri, siamo tutti uguali. Alcuni di noi avranno destini d’oro, altri faticheranno per uscire dall’ombra, ma tutti veniamo generati, che ci piaccia o no, dal sangue e dal cuore.
Per le tre madri, il dovere più importante era quello di proteggere le donne durante il parto. Traevano elementi curativi dal grande albero della vita e strappavano frutti dai suoi rami per poi bruciarli sul fuoco acceso alle sue radici. Quindi davano questi frutti arsi alle donne in travaglio affinché ciò che avevano dentro potesse uscire.
Le tre madri tessevano in ogni singola anima appena nata il cielo e la terra: Urðr coi fili viola della fede, Verðandi coi fili verdi dell’amore, e Skuld coi fili arancioni della speranza.
Questo era il dono che offrivano a tutti coloro che aprivano il proprio cuore per ricevere la loro saggezza: il fatto che, pur avendo ognuno il proprio destino, possiamo tirare i fili che desideriamo.
Ma il più grande dei doni era la gemma che Verðandi incastonava nel terzo occhio nascosto di tutti coloro che hanno mai respirato su questa terra. La possiede anche Odino dall’unico occhio.
È lì, proprio al centro della fronte.
Chiudete gli occhi e cercatela. Non vedete come brilla? È la pietra più pura e preziosa di tutte, inserita nella trama della vostra vita dalle tre madri.
È la vostra verità.
Anya Bergman

tre madri

Nature style…

C’è qualcuno, un creativo, uno stylist che abbia idee migliori della natura per vestire le sue creature ? Penso proprio di no, anzi, sono convinta che ogni forzatura dell’uomo sulla natura stessa non sia altro che un disastro. Se ci guardiamo intorno, e pensiamo a quanto la terra abbia fatto da sola,  migliorando certe condizioni ,solo coll’intuito e il buon senso  dell’uomo, rimamendo lì, a disposizione dell’umanità per milioni di anni, intatta, e guardiamo attentamente a quanto danno  sia stato prodotto da quello che chiamiamo progresso, negli ultimi due secoli, mi viene da chiedermi a cosa siano servite tante scoperte , nate dall’intelligenza di tante menti illuminate.  Purtroppo l’uomo, nella sua infinita presunzione, porterà  soltanto a quella catastrofe, o Apocalisse, come ci viene descritta nelle Sacre  Scritture.

Mai la messa con le chitarre e coi bonghi…

 

Meglio quella in rito ambrosiano, con devozione vibrante e preghiere in latino, canti in latino e brevi omelie in italiano

tetto chiesa

Ma vacci tu, Diotallevi, alla messa coi bonghi. Il sociologo Luca Diotallevi, Dio lo illumini, è convinto che la crisi del cattolicesimo si risolverebbe se tutti i cattolici confluissero nelle parrocchie. Basta distinguo! Basta movimenti! Basta messe in latino! Tutti dal parroco amico di Zuppi! Bene, domenica scorsa sono stato alla messa in rito ambrosiano antico a Santa Maria della Consolazione, Milano. Arrivato in anticipo immaginavo di trovare una chiesa semideserta e invece, pur non piccola, era strapiena. Nessuna possibilità di sedersi se non per terra. Una messa incredibilmente giovane, tanti ragazzi, tantissime ragazze (sedute per l’appunto anche per terra), parecchie donne velate. Devozione vibrante. Preghiere in latino, canti in latino, in italiano solo la breve omelia. Frequenti inginocchiamenti, sforzo minimo per chi dispone di inginocchiatoio, medio per chi disponendo di sedia deve inginocchiarsi sul pavimento ma può appoggiarsi allo schienale davanti, notevole per chi come me pone le rotule sulla pietra senza attenuante alcuna. Organo a canne. Comunione alla balaustra (sulla lingua). Chi frequenta una messa così (la consiglio per domani) mai frequenterebbe quel pezzo di modernariato anni 60-70 che è la messa cattoprotestante, stile Cei, con le chitarre e i bonghi. Mai.

 

Camillo Langone

da IL FOGLIO                                                                                         

Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

Gli scrittori odierni che da bambini si permettevano di rifiutare le verdure..

Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno. Altro che quelli di oggi.

susanna

“Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte” ha decretato Gómez Dávila, e dunque “Vestivamo alla marinara” di Susanna Agnelli è letteratura. L’ho letto nell’altro secolo, l’ho riletto ora con nuovo piacere e nuovo profitto. Il misconoscimento letterario di Susanna Agnelli è una forma di classismo al contrario. Oltre che il modo per perdersi un grande esempio di stoicismo moderno (stoicismo di lusso ma pur sempre stoicismo). Infermiera ovviamente volontaria abbracciava le tubercolotiche morenti che le colleghe schifavano, guidava ambulanze sotto i bombardamenti, attraversava il Mediterraneo su navi ospedale spesso silurate dagli angloamericani (in barba alla Convenzione di Ginevra), sfidava le pallottole dei cecchini fascisti, a Firenze, per recuperare il corpo di una donna colpita malgrado l’evidente gravidanza… Senza mai una lamentela, puro dovere e puro stile fin nella scrittura asciutta, perfetta, senza un grammo di grasso e di compiacimento. Anche un grande esempio di educazione (a Torino, da piccola): “Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto se lo ritrovava davanti al pasto seguente”. Dopo Susanna Agnelli come faccio a leggere gli scrittori odierni, senza vita e senza stile, che da bambini, è chiaro, si permettevano di rifiutare le verdure?

Camillo Langone  __da il FOGLIO             

E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro?

                                           Arbeitsapokalypse

 E se un giorno ci svegliassimo mutati nel prodotto del nostro lavoro? «Arbeitsapokalypse» è il racconto di Michele Ghiotti

Illustrazione di Elena Beatrice

Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da sé medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in mille negozi e fatiche.

(Giacomo Leopardi, Storia del genere umano)

Il 14 marzo 2067, bicentenario del Capitale, tutti gli uomini e le donne della Terra si risvegliarono nei loro letti (ma anche su amache, tatami e pavimenti) con un corpo nuovo. Una stupefacente metamorfosi li aveva trasformati nello strumento o nel prodotto del proprio lavoro, secondo quella che divenne nota come la Legge di Luciani. Così – basti un esempio per settore economico – i contadini divennero pomodori, avocado e banane. I meccanici marmitte fumanti, pistoni e ammortizzatori.[1] I banchieri gruzzoli di banconote, pacchetti di azioni e bitcoin. I web manager algoritmi ipercinetici.[2] Il futurologo fisheriano Alan Luciani l’aveva previsto ben quarantanove anni prima nel suo libro Arbeitsapokalypse e al Graham Norton Show, ma nessuno, e si può ben capire, gli aveva creduto. Nonostante avesse propugnato la sua teoria con un’eloquenza e una convinzione commoventi, era stato deriso sia dal conduttore sia dai tabloid.[3] Tutti i Paesi precipitarono nell’anarchia perché i governanti, senza distinzione di forme di Stato, si risvegliarono con scarpe oblunghe, facce dipinte e nasi da clown. Tutti i sistemi economici perirono. Il primo a morire fu il capitalismo, dato che l’intera massa di trader e commercianti si era transustanziata in merce, la quale, senza più venditori, rimase ad ammuffire nei magazzini. Nemmeno i Paesi statalisti sopravvissero, con l’aggravante che i prodotti in cui mutarono gli esercenti erano di minore qualità. Daremo ora conto delle trasformazioni più curiose da un punto di vista storico-sociologico. Gli intellettuali – rinomati accademici o incompresi geni di provincia – si disincarnarono in fluttuanti idee, ora dense come cumulonembi ora vane come aria rarefatta: alcune migrarono verso le loro sedi iperuraniche, altre svanirono nell’atmosfera come spruzzi di deodorante, altre ancora ristagnarono come cappe di smog sulle città. Gli scrittori, ovviamente, si tramutarono in libri: ognuno nell’ultimo che stava scrivendo, pronto per la stampa o illeggibile che fosse. Si può immaginare che in genere ne furono contenti, dato che una delle loro maggiori aspirazioni era quella di essere identificati con la propria opera.[4] Caso particolare fu quello dei poeti, quelli veri, che si trasformarono in silenzi sacri e spaventosi, in cui era custodito l’enigma del mondo, e probabilmente, il senso ultimo di quanto era accaduto.[5]Gli insegnanti ebbero sorti diverse a seconda del loro temperamento. I gelidi esecutori divennero noiosi manuali scolastici e pedanti regolamenti finiti nel dimenticatoio. I buonisti palline di carta masticata, bigliettini e bottiglie flippate sui banchi. Gli appassionati, invece, fuochi, ora fatui, ora veri e propri roghi, quegli stessi fuochi che avevano cercato di accendere nelle testoline (e, nel migliore dei casi, nei cuoricini) dei loro alunni. Bruciarono fino a consumarsi e tutto finì lì.

I religiosi scomparvero da un giorno all’altro. Tutti, senza eccezione: papi, vescovi, preti, rabbini e imam (svanirono in un lampo di luce accecante); monaci buddisti, taoisti e shintoisti, dalai lama e bramini (si dissolsero in un sonoro gong); santoni, sacerdoti neopagani e streghe wicca (si dileguarono in un refolo di vento).[6] Chi furono quindi i sopravvissuti? Per uno strano capriccio del destino, gli unici che, sfuggendo alla Legge di Luciani (senza che questi l’avesse previsto), si risvegliarono tali e quali a come si erano addormentati furono i disoccupati, i pensionati e, soprattutto, coloro che avevano fatto del proprio corpo uno strumento di lavoro. Schiavi, braccianti, muratori, operai, guardie del corpo, vigili del fuoco, poliziotti (tranne quelli cattivi, ridotti a bossoli e macchie di sangue sull’asfalto), atleti, massoterapisti, ballerine, performer, prostitute, assistenti sessuali e sex worker[7]. Furono loro, sopravvissuti a un novello diluvio, a ripopolare il mondo.

Ne sarebbe stato felice Marcuse.[8] E, probabilmente, anche Alan Luciani.

—–

[1] Per quanto riguarda il settore secondario merita una menzione il bizzarro caso dell’industria del bedding. Nel mattino del 14 marzo comparvero sui letti vuoti altri letti, supini, proni o adagiati sui lati, a seconda di come si erano addormentati i malcapitati.

[2] Ci riferiamo qui al quaternario.

[3] Il futurologo si era infine suicidato, dandosi stoicamente la morte tramite il suo strumento di lavoro, una proletaria Bic cristal blu, che si era infilato su per il naso fino a metà, prima di sbattere con forza la testa sulla sua scrivania, una proletaria Linnmon / Adils Ikea, conficcandosi la penna nella scissura interemisferica e perdendo i sensi per poi morire dissanguato.

[4] La prima era ovviamente quella di essere amati e celebrati dall’intera umanità, cosa impossibile di per sé, figuriamoci in uno scenario del genere.

[5] Non possiamo qui fare riferimento, per questioni di spazio, a tutte le categorie di artisti. Basti sapere che accadde più o meno a tutti la stessa cosa: a) i musicisti si trasformarono in strumenti musicali e canzoni; b) i pittori e gli scultori in dipinti e statue; c) gli attori, gli sceneggiatori e i registi in film; d) i disegnatori e gli animatori in fumetti, cartoon e anime; e) gli artisti concettuali, ovviamente, in riviste di enigmistica.

[6] C’è chi disse che quell’improvviso eclissarsi dimostrava senza dubbio alcuno la non esistenza di favole metafisiche. Secondo altri, invece, era indizio sicuro dell’ascesa a una realtà superiore o addirittura di una vera e propria deificazione.

[7] Non le pornostar né i content creator di Only Fans, che si tramutarono in video hot presto dispersi nella rete. Cfr. nota 5 punto c.

[8] Vd. H. Marcuse, Eros e civilità, Einaudi, 1964 (ed. originale 1955).

Michele Ghiotti

Il mitico Giuha, eroe di antiche fiabe mediorientali..

Nei paesi arabi il personaggio di Giuha ha un’origine antichissima (IX secolo circa) ed è tuttora molto in voga sia negli ambienti popolari sia in quelli intellettuali, essendo un’inesauribile fonte di saggezza e di divertimento. Giuha vive in un imprecisato paese dell’oriente arabo, all’epoca del grande califfo Harùn Al-Rashid .Tutte le storie si svolgono in luoghi e scene tipici della vita quotidiana, l’hammam , il suq , il ristorante, la moschea, il tribunale, il palazzo del principe o del sultano. Attorno a Giuha ruotano varie figure che animano le sue storie, e che gli consentono di mettere in moto la sua astuzia e la fantasia. La favola di seguito è tradotta letteralmente, pertanto il testo arabo permette a chi conosce la lingua di gustare il testo in tutte le sfumature.
جُحا والجَدْيُ الثَّمينُ
Giuha ed il capretto costoso

Giuha aveva una vicina di casa anziana che possedeva un capretto denutrito, deperito e deturpato. Un giorno lo voleva vendere a Giuha, ma lui aveva rifiutato di comprarlo.

كانتْ لِجُحا جارَةٌ عَجوزٌ الَّتي تَمْتَلِكُ جَدْيًا أَعْجَفَ مَهْزولاً مُشَوَّهًا. أَرادَتْ ذاتَ يَوْمٍ أَنْ تَبيعَهُ إِلى جُحا، ولَكِنَّ جُحا رَفَضَ شِراءَهُ.

La vecchia tornò a proporre il capretto a Giuha e ripeté questa proposta numerose volte, poiché aveva un enorme bisogno di denaro.

أَعادَتِ العَجوزُ عَرْضَ الجَدْيِ على جُحا، وكَرَّرَتْ هَذا العَرْضَ عِدَّةَ مَرَّاتٍ، لِحاجَتِها الشَّديدَةِ إِلى المالِ.

Giuha aveva pietà di lei, se ne andò meditando un modo per vendere il capretto ad un prezzo tale da soddisfare la sua necessità.

فَأَشْفَقَ عَلَيْها جُحا، وراحَ يُفَكِّرُ لَها في طَريقَةٍ لِبَيْعِ الجَدْيِ بِثَمَنٍ يَسُدُّ حاجَتَها.

giuha_capretto_1

Il giorno seguente, Giuha tornò dalla vecchia e disse: “Domani vai al mercato e porta con te il capretto per venderlo”.

في اليَوْمِ التَّالي، جاءَ جُحا إِلى العَجوزِ وقالَ: “غَدًا اذْهَبي إَلى السُّوقِ، واِحْمِلي مَعَكِ الجَدْيَ لِبَيْعِهِ”.

La vecchia gli disse: “Hai un compratore per lui?”

قالَتْ لَهُ العَجوزُ: “وهَلْ لَدَيْكَ مُشْتَرٌ لَهُ؟”

Giuha disse: “Io sarò presente al mercato, contratterò con te il suo acquisto, ma non accettare un prezzo inferiore a cento dinari, e . . . attenta a non esitare finché sarà terminata la sua vendita”.

قالَ جُحا: “أَنا سَوْفَ أَحْضُرُ في السُّوقِ، أُساوِمُكِ على شِرائِهِ، فَلا تَقْبَلي فيهِ ثَمَنًا أَقَلَّ مِنْ مِائَةِ دينارٍ و . . . إيَّاكِ أَنْ لا تَتَرَدَّدي حتَّى يَتِمَّ بَيْعُهُ”.

La vecchia si meravigliò delle sue parole, e prese l’iniziativa dicendo: “Oh Giuha, cento dinari? Che una somma enorme! Le mie mani non hanno ricevuto niente per anni e anni, ma dimmi, perché lo vuoi comprare per cento dinari al mercato quando posso vendertelo qui per molto meno di quel prezzo?”

تَعَجَّبَتِ العَجوزُ مِنْ قَوْلِهِ، وبادَرَتْهُ قائِلَةً: “مِائَةُ دينارٍ يا جُحا؟ يا لَهُ مِنْ مِبْلَغٍ ضَخْمٍ! لَمْ تَحْصُلْ عَلَيْهِ يَدي مُنْدُ سَنَواتٍ وسَنَواتٍ، و لَكِنْ قُلْ لي: لِماذا تُريدُ أنْ تَشْتَرِيهِ بِمِائَةِ دينارٍ في السُّوقِ و أَنْ أَبِيعَهُ لَكَ هُنا بِأَقَلَّ مِنْ ذَلِكَ الثَمَنِ بِكَثيرٍ؟”

Giuha disse: “Fai ciò che ti ho chiesto, e non esitare finché ti sarà possibile vendere il capretto”. La vecchia disse gioiosa ed allegra: “Il nostro appuntamento è domani al mercato, Giuha”.

قالَ جُحا: “افْعَلِي ما طَلَبْتُهُ مِنْكَ، ولا تَتَرَدَّدي َحَتَّى يُمْكِنَكِ أَنْ تَبيعِي الجَدْيَ”. قالَتِ العَجوزُ في سُرورٍ و رِضًا: “مَوْعِدُنا غَدًا بِالسُّوقِ يا جُحا”.

Il giorno seguente la vecchia andò al mercato, portò il capretto con sé ed eseguì ciò che aveva concordato con Giuha, propose il capretto in vendita, ma nessuno si avvicinò a comprarlo.

في اليَوْمِ التَّالي ذَهَبَتِ العَجوزُ إِلى السُّوقِ، حَمَلَتْ مَعَها الجَدْيَ و نَفَّذَتْ ما اتَّفَقَتْ عَلَيْهِ مَعَ جُحا، عَرَضَتِ الجَدْيَ لِلْبَيعِ، فَلَمْ يُقْبِلُ على شِرائِهِ أَحَدٌ.

Dopo un po’ si presentò Giuha, la vecchia lo vide arrivare da lontano ed aveva con sé un bastone per misurare.

بَعْدَ قَليلٍ حَضَرَ جُحا، َرَأَتْهُ العَجوزُ قادِمًا مِنْ بَعِيدٍ، و مَعَهُ عصا لِلْقِياسِ.

Giuha girava tra i venditori con il bastone per misurare, poi si avvicinò alla vecchia come se non la conoscesse e le chiese: “E’ in vendita questo capretto?” “Sì signore” disse la vecchia.

كانَ جُحا يَطوفُ بَيْنَ البَائِعِينَ وَمَعَهُ عصا يَقيسُ بِها، ثُمَّ أَقْبَلَ عَلى العَجوزِ كأَنََهُ لا يَعْرِفُها و سأَلَها: “أ هَذا الجَدْيُ لِلْبَيْعِ؟” قالَتِ العَجوزُ:” نَعَمْ يا سَيِّدي”.

Giuha prese a misurare la lunghezza del capretto, la sua larghezza e l’altezza numerose volte fino ad attirare gli sguardi della gente.

أخذ جُحا يَقيسُ طولَ الجَدْيِ، وعَرْضَهُ، وارْتِفاعَهُ مَرَّاتٍ عديدةٍ حَتَّى يَلْفِتَ أَنْظارَ النَّاسِ.

La gente si meravigliò e si raggruppò intorno a Giuha ed al capretto. Poi Giuha cominciò a contrattare con la vecchia il prezzo del capretto, cominciando da un dinaro, mentre la vecchia gli chiedeva di aumentare il prezzo. Allora lui cominciò ad aumentare il prezzo.

giuha_capretto_2

اسْتَغْرَبَ النَّاسُ وَ تَجَمَّعوا حَوْلَ جُحا والجَدْيِ. ثُمَّ بَدَأَ جُحا يُساوِمُ العَجوزَ في ثَمَنِ الجَدْيِ، بَدْءًا مِنْ دينارٍ، بَيْنَما كانَتِ العَجوزُ تَطْلُبُ مِنْهُ أَنْ يَزيدَ في الثَّمّنِ. فَأَخَذَ جُحا يَزيدُ في ثَمَنِهِ.

A questo punto la gente partecipava con Giuha ad alzare il prezzo del capretto finché il suo prezzo arrivò a trenta dinari. La vecchia disse: “Non lo venderò poiché vale molto più di quello”.

عِنْدَئِذٍ شارَكَ النَّاسُ جُحا في رَفْعِ ثَمَنِ الجَدْيِ حَتَّى وَصَلَ ثَمَنُهُ إِلى ثَلاثينَ دينارًا. َقالَتِ العَجوزُ: “لَنْ أَبيعَهُ فَهُوَ يُساوِى أَكْثَرُ مِنْ ذَلِكَ بِكَثيرٍ”.

Giuha prese ad alzare il prezzo, la gente pure, fino a che Giuha giunse a novanta dinari, ma la vecchia disse: “Non lo venderò per meno di cento dinari”.

راحَ جُحا يَزيدُ في الثَّمَنِ، والنَّاسُ كَذَلِكَ، حَتَّى وَصَلَ جُحا إِلى تِسْعينَ دينارًا، وَلَكِنَّ العَجوزَ قالَتْ: “لَنْ أَبيعَهُ بِأَقَلَّ مِنْ مِائَةِ دينار”ٍ.

Qui Giuha manifestò il suo dispiacere e disse: “Magari avessi questa somma, se l’avessi lo comprerei immediatamente e senza esitazione”. Poi la lasciò mostrandosi dispiaciuto e camminò per il mercato.

هُنا أَبْدى جُحا أَسَفَهُ وقالَ: “لَيْتَ مَعَي هَذا المَبْلَغَ، و لَوْ كانَ مَعَي لاشْتَرَيْتُهُ فَوْرًا ودونَ تَرَدُّدٍ”. ثُمَّ تَركَها مُظْهِرًا أَسَفَهُ و مَشى في السُّوقِ.

Uno dei mercanti vide ed ascoltò ciò che era successo, e pensò che nel capretto ci fosse un gran segreto e lo comprò per cento dinari.

رأَى أَحَدُ التُّجَّارِ و سَمِعَ ما حَدَثَ، فحَسَبَ أَنَّ في الجَدْيِ سِرًّا عَظيمًا، فاشْتَرَاهُ بِمِائَةِ دينارٍ.

Il commerciante si precipitò dietro a Giuha, lo fermò e gli disse: “Ti prego di farmi sapere il segreto del tuo interesse a comprare questo capretto e l’utilità che speravi avere dal suo acquisto”.

أَسْرَعَ التَّاجِرُ خَلْفَ جُحا، اِسْتَوْقَفَهُ وقالَ لَهُ: “أَرْجوكَ أَنْ تُعَرِّفَني سِرَّ إِقْبالِكَ على شِراءِ هذا الجَدْيِ و اَلْفائِدَةَ الَّتي كُنْتَ تَرْجوها مِنْ شِرائِهِ”.

Giuha afferrò il capretto e cominciò a misurare la lunghezza e la larghezza, poi disse: “Se fosse stato più lungo di due pollici e più largo di uno, la sua pelle sarebbe servita per un tamburo per la festa di matrimonio di mia figlia”.

أَمْسَكَ جُحا الجَدْيَ وأَخَذَ يَقيسُهُ طولاً وعَرْضًا، ثُمَّ قالَ: “لَوْ كانَ طولُهُ يَزيدُ إِصْبَعَيْنِ وعَرْضُهُ يَزيدُ إَصْبَعًا، لَصَلَحَ جِلْدُهُ أَنْ يَكونَ طَبْلَةً لِحَفْلِ عُرْسِ ابْنَتِي”.

Poi salutò l’uomo sorridendo e si allontanò.

giuha_capretto_3