L’Occidente non ci salverà…

 

 

 

Ma davvero il mondo deve dire grazie all’Occidente per tutto il bene che abbiamo fatto a noi e agli altri? È quanto sostiene Federico Rampini in un libro che esprime gratitudine all’Occidente sin dal titolo (Grazie Occidente, ed. Mondadori) e rivolge in positivo quel che aveva scritto in un suo precedente saggio dedicato al suicidio dell’Occidente. Rampini è un osservatore attento e sagace, progressista ma scevro da molti pregiudizi radical. E la sua riabilitazione dell’Occidente e della sua egemonia mondiale, della colonizzazione e della globalizzazione di marca occidentale, sono una chiara, aperta polemica contro gli occidentali che si vergognano di esserlo e della storia dell’Occidente e della sua opera di civilizzazione nel mondo; un occidente che si autodenigra, si cancella e si vorrebbe correggere, intollerante con se stesso e sottomesso verso il resto del mondo. Quali sono i meriti dell’Occidente? Li tutti sappiamo tutti anche se molti dimenticano o non vogliono ricordare. Così li riassume Rampini: “il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la loro stessa esistenza a noi. La scienza occidentale, pensiamo alla nostra medicina e alla nostra agronomia, è stata copiata e applicata dal resto dell’umanità con benefici immensi. Se la longevità è aumentata, la mortalità infantile è crollata, il livello d’istruzione è cresciuto nel mondo intero, è perché l’Occidente ha esportato progresso. Dove si combatte per migliorare i diritti umani – per esempio la condizione della donna – il paradigma da emulare siamo noi. Il nostro modello industriale ha sollevato dalla miseria grandi nazioni(…). Viviamo in un’epoca in cui pronunciare queste verità è scandaloso, è proibito. Il conformismo dominante impone una versione bugiarda della storia, in cui la «razza bianca», europea o nordamericana, ha seminato solo distruzione”.
Vero, innegabilmente vero, anche se la parola Occidente qui diventa intercambiabile con modernità.
Questa era, del resto, la tesi di Oriana Fallaci, o quantomeno dell’ultima Fallaci anti-islamica; prima ancora era il credo occidentale di una certa destra atlantica, colonialista, magari un po’ wasp, che da noi leggeva Il Giornale di Indro Montanelli e prima ancora Il Borghese di Mario Tedeschi, che si riconosceva nei repubblicani americani, in James Burnham di Suicidio dell’Occidente e in Barry Goldwater.
Personalmente non condivido l’immagine dell’Occidente benefattore del mondo e causa di ogni bene del vivere moderno, che mi pare speculare a quella, altrettanto unilaterale, dell’Occidente come maledizione del mondo e causa di ogni male del vivere presente. Nella sua crescita smisurata, l’Occidente ha arrecato vantaggi e svantaggi a se stesso e al mondo intero; meglio tener fuori ogni ideologia moralista sia di tipo salvifico che malefico. La storia dell’Occidente è soprattutto la storia della volontà di potenza, l’espansione illimitata della tecnica e dell’economia, il capitalismo, la ricerca del profitto e del dominio planetario. È la vittoria del regno della quantità sul regno della qualità. Sicuramente l’occidente ha portato longevità e benessere; ciononostante dobbiamo riconoscere insoddisfazione e malessere nell’occidente e nel mondo, senso di alienazione e di sradicamento, paura del futuro e angoscia del presente, solitudine e depressione, nichilismo. Evidentemente, la crescita materiale dell’Occidente, la maggiore durata della vita e il miglioramento delle condizioni di vita non bastano all’umanità o sono stati ottenuti a un prezzo troppo alto; c’è qualcosa di immateriale ma tangibile, di spirituale e vitale, che attiene all’intelligenza e al destino, la sua mente e la sua anima, il senso della vita e i legami comunitari che è stato mortificato, e che configura la nostra epoca dello scontento. L’Occidente ha trasformato il mondo, ma nel senso della civilizzazione, della Zivilisation, direbbe Oswald Spengler, non della Kultur. Viviamo infatti la deculturazione globale.
Cosa è accaduto? Non siamo scivolati nel peggiore dei mondi possibili, ma al piano delle conquiste corrisponde purtroppo anche il piano delle perdite; dietro ogni progresso, in un campo, c’è sempre un regresso in un altro. E allora quando facciamo i bilanci dobbiamo saper ponderare i successi e i naufragi, le vittorie e le sconfitte, i lati radiosi e i lati infami della sua globalizzazione.
E dobbiamo completare la diagnosi di Rampini: è vero, l’Occidente si vergogna di se stesso, si rinnega. Ma rinnega in primo luogo la sua civiltà, la sua cultura, le sue radici storiche e religiose, le sue tradizioni, il suo mondo reale, il sentire comune dei popoli, i legami più forti che nascono dall’identità, dall’appartenenza, dagli affetti più intimi e veri. I mezzi sostituiscono i fini, sicché abbiamo potenziato i mezzi per vivere e abbiamo perduto gli scopi che rendono la vita degna di essere vissuta; abbiamo infiniti accessori ma abbiamo perduto l’essenziale, che dava senso alla vita. È un bene barattare l’essere con l’avere, il pensare col fare, il vivere col durare?
Il rimedio non è tornare indietro e rinnegare lo sviluppo, sarebbe insensato; si tratta di affrontare con intelligenza critica i due piani, farli interagire, capire che l’uomo ha bisogno di entrambi, più il senso della realtà e del limite. Cercare nuove sintesi, audaci pensieri ancora intentati.
Perciò io dico che l’Occidente non va benedetto né maledetto, va capito, studiato e scomposto nelle sue parti. Perché non è il mondo e non è più il sistema-mondo ma una porzione del mondo, neanche preponderante; non può ergersi a giudice supremo del pianeta. Quel che descrive puntualmente Rampini è accaduto fino al secolo scorso; ma ora lo scenario è più vasto e articolato, le potenze mondiali in campo economico e tecnologico sono più altrove, come altrove è il grosso della popolazione mondiale. C’è più vita fuori dall’Occidente. E va rimesso in discussione come categoria unitaria perché di occidenti ce ne sono almeno tre e non concordano, neanche sul piano geopolitico e strategico, nei loro interessi primari. Stiamo alimentando la guerra alla Russia con le nostre armi e le nostre dichiarazioni e stiamo facendo precipitare la situazione in Medio Oriente col nostro disarmo e il nostro silenzio sugli eccidi, le incursioni in territori stranieri e le stragi di civili. Stiamo rischiando di intraprendere una via senza ritorno.
Insomma, è giusto che l’Occidente non si vergogni di se stesso, e riscopra la sua civiltà nata dalla grecità, dalla romanità e dalla cristianità; ma svegli la coscienza critica di se stesso, sappia ripensarsi e riconoscere il mondo mutato che lo circonda. Questo significa andare verso la realtà del mondo i oggi, oltre l’occidentalismo globale.

Marcello  Veneziani            

Giornata mondiale dei sogni ,celebrare la forza di sognare in grande ,ossia riscoprire l’importanza dei sogni, come strumenti di crescita personale e di cambiamento per un futuro migliore…

 

Il 25 settembre si celebra la giornata mondiale dei sogni, un evento dedicato a una delle forze più potenti e affascinanti della vita umana: la capacità di sognare. Questo giorno speciale ci invita a riflettere sul valore dei sogni, non solo come fughe dalla realtà, ma come strumenti fondamentali per il cambiamento, l’autorealizzazione e la crescita personale. Quindi non solo desideri notturni.
Quando pensiamo ai sogni, spesso li associamo ai viaggi che la nostra mente compie durante il sonno. Tuttavia, i sogni più potenti sono quelli che ci spingono ad agire nella vita quotidiana. Sono quei desideri profondi che nutrono la nostra immaginazione e ci motivano a migliorare noi stessi e il mondo intorno a noi. Sognare significa credere in un futuro migliore, anche quando le circostanze attuali sembrano scoraggianti.

Nel mondo frenetico di oggi, sognare può sembrare un lusso ,sopraffatti da impegni, preoccupazioni e responsabilità che ci lasciano poco spazio per coltivare i nostri desideri più intimi. Eppure, la giornata mondiale dei sogni ci ricorda che prendersi del tempo per sognare è fondamentale. I sogni ci offrono una direzione, ci danno speranza e ci ispirano a raggiungere obiettivi che sembravano impossibili.
Sognare è umano: una forza universale che tutti, senza distinzione di età, genere o cultura. Dai bambini che immaginano mondi fantastici, agli adulti che sperano in una vita migliore per sé e per i propri cari, il sogno è una forza universale che ci accomuna. Ci permette di esplorare possibilità senza limiti, di pensare oltre i confini del quotidiano, di sfidare la realtà con la creatività.
Le grandi innovazioni del passato sono nate da sogni apparentemente irrealizzabili. Figure storiche come Martin Luther King, che nel suo celebre discorso parlò di un sogno di uguaglianza e giustizia, ci ricordano come un sogno condiviso possa cambiare il corso della storia. Anche le più piccole conquiste quotidiane, dalle relazioni personali alla carriera, nascono spesso da un sogno che qualcuno ha avuto il coraggio di seguire.

I sogni sono anche la strada che ci porta verso noi stessi e non solo ad ambire a grandi traguardi esterni. Sono un viaggio verso la scoperta di chi siamo davvero e di ciò che desideriamo profondamente. Nei sogni, possiamo esplorare i nostri bisogni emotivi, affrontare le nostre paure e sviluppare una visione più chiara del nostro futuro.

Per i bambini, sognare è parte integrante del loro sviluppo. Attraverso la fantasia, apprendono a conoscere il mondo, a risolvere problemi e a immaginare possibilità. Per gli adulti, invece, sognare può diventare un esercizio di riflessione e introspezione, un modo per mantenere viva la curiosità e la voglia di esplorare nuove strade.

La giornata mondiale dei sogni è un invito all’azione,un’occasione per fermarsi e chiedersi: quali sono i miei sogni? Li sto coltivando o li ho abbandonati lungo la strada? A volte, nella vita, perdiamo di vista i nostri desideri più autentici, schiacciati dal peso delle responsabilità quotidiane. Ma questa giornata ci incoraggia a riprendere in mano i nostri sogni, a credere nella possibilità di realizzarli e a fare passi concreti verso la loro realizzazione, che siano sogni personali, professionali o collettivi. Oggi è il giorno giusto per riscoprire l’entusiasmo e la determinazione necessari per trasformarli in realtà. Non importa quanto grande o piccolo sia il sogno.

Uno degli aspetti più belli della giornata mondiale dei sogni è la possibilità di condividerli
per il raggiungimento dei nostri obiettivi, e sognare insieme ci aiuta a costruire comunità più forti, basate su obiettivi comuni.

Che si tratti di un sogno di giustizia sociale, di una carriera soddisfacente o di una famiglia felice, i sogni sono tanto più potenti quanto più li condividiamo con chi ci sta vicino. E chissà, forse proprio grazie al confronto con gli altri, quei sogni che ci sembravano irrealizzabili troveranno una strada per diventare parte della nostra realtà.

sintesi da un’articolo di Altea Giuriato

 

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Sentirsi come l’ultimo dei Mohicani in libreria…

Cosa c’entrano i Meridiani con le librerie di oggi, con i lettori di oggi? Il lungo scaffale dei libri prenotati, dietro la cassa, mi fa temere di essere l’unico cliente interessato alle collane di classici.

Sono l’ultimo dei Mohicani? L’ultimo acquirente dei Meridiani? Vado in libreria a ritirare il Meridiano Chiaromonte e mi guardo intorno: cosa c’entrano i Meridiani con le librerie di oggi, con i lettori di oggi? Il lungo scaffale dei libri prenotati, dietro la cassa, mi fa temere di essere l’unico cliente interessato ai Meridiani Mondadori. In questa libreria, in questa città, in questa nazione, in questo pianeta. E dico Meridiani Mondadori ma potrei dire anche Millenni Einaudi, Nave Argo Adelphi, tutte le residue collane di classici. Poi certamente me la sono andata a cercare: una cosa è il Meridiano Ungaretti, altra cosa è il Meridiano di Nicola Chiaromonte, saggista troppo saggio, troppo pacato… Quante copie ne avranno vendute? In Mondadori non sono scemi, conoscevano perfettamente il potenziale di un titolo simile, zero, dunque le case editrici fanno ancora, a volte, scelte non commerciali bensì squisitamente culturali. Ci sarà un ultimo dei Mohicani anche in Mondadori. Intanto prendo il libro, 1.820 pagine, prezzo di copertina 80 euri (68 con lo sconto), e mi domando: ha senso ostinarsi a parlare una lingua morta? Non dovrei leggere anch’io “Il canto dei cuori ribelli”?

Camillo Langone

meridiani

Bambino, non puoi usare lo smartphone…

 

 

Sarebbe una grande vittoria a tutela dell’infanzia se si riuscisse davvero a vietare ai minori di 14 anni l’uso dello smartphone. E proibire fino a sedici anni di aprire un profilo sui social. La proposta, con la relativa raccolta di firme, è partita da due pedagogisti, Daniele Novara e Alberto Pellai, ed è stata subito sposata da attori, intellettuali e personaggi pubblici. Sarebbe un modo per restituire personalità in via di formazione al loro decorso reale, naturale e culturale: prima passi da bambino ad adolescente vivendo la piena e plurale esperienza della vita e poi, quando sei pronto e già navigato nella realtà, puoi usare la tecnologia e infine ti imbarchi in età più matura nel mare tempestoso dei social. Sarebbe un modo per spingerli a conoscere la vita direttamente, gradualmente e con più supporti, senza la mediazione di un solo totem in forma di telefonino; e con la vita incontrare la varietà dei saperi, le esperienze reali sul campo, i rapporti sociali con la i finale; la prossimità, i libri, le visite ai luoghi d’arte, storia e cultura; insomma per conoscere il mondo reale che ti sta intorno. E avere termini di paragone tra il reale e il virtuale, tra il prossimo e il remoto, tra la vita e i mezzi tecnologici; e per affrontare con più ricchezza di esperienze e meno dipendenze, il passaggio all’età adulta.
Certo, il divieto non passerebbe così facilmente, senza reazioni e contrasti, anzi ci sarebbe sicuramente un’insubordinazione diffusa, dagli esiti imprevedibili. C’è il pericolo di reazioni estreme dei ragazzi, come il caso della tredicenne di Perugia suicida dopo che i genitori le avevano tolto il telefonino. C’è la scusa delle madri che il telefono dà sicurezza, rende i minori rintracciabili e controllabili. Certo, senza telefonino compenserebbero con la tv o il pc usato come tablet; la dipendenza slitterebbe su altri mezzi. Certo, si può diventare phone-dipendenti anche in età adulta, e perfino in età senile, come capita a molti che non sono nativi digitali ma ci sono arrivati in tarda età e non ne possono più fare a meno. Dunque, è possibile che si tardi solo di qualche anno la patologia della dipendenza dal telefonino.
Ma quando si è piccoli, quando si ha poca vita alle spalle, la personalità è più influenzabile, più fragile e suggestionabile. E agli adulti, al di là della retorica della libertà, vietato vietare e autonomia assoluta e universale, minori inclusi, tocca invece il compito di educare, e dunque di porre limiti e anche divieti, guidare, dare indicazioni ai minori.
Perché prima dei 14-15anni, spiega il pedagogista Novara «il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi». E prosegue: «Non è un appello simbolico, né una provocazione. Ci siamo confrontati con politici e istituzioni e c’è un consenso trasversale, da sinistra a destra. I tempi sono maturi, contiamo che l’Italia sia il primo Paese a dare una svolta. Non possiamo stare a guardare un’intera generazione annegare negli smartphone. La situazione è fuori controllo». Gli esperti nel loro appello fanno notare: “La nostra non è una presa di posizione anti-tecnologica ma l’accoglimento di ciò che le neuroscienze hanno ormai dimostrato: ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale”.
Massimo Gramellini sul Corriere della sera, pur sottoscrivendo idealmente l’appello, lo reputa impraticabile e auspica, anziché il divieto, l’invito a un uso più responsabile dello smartphone: ma quando si scende al livello di esortazioni (o al più all’attivazione del “parental control”) tutto si perde nel vago delle raccomandazioni, del tipo vai piano, non bere troppo, stai lontano dalla droga. Non serve a niente se non a sollevare la coscienza delle anime belle e poi lasciare le cose come stanno. Salvo dire: Io gliel’avevo detto… E’ vero, è difficile imporre oggi un divieto, e di quel tipo, per giunta; più difficile ancora è farlo davvero osservare. Quel divieto dovrebbe rientrare in una riforma-rivoluzione nell’educazione dei bambini e degli adolescenti e nei rapporti sociali di portata ben più ampia e radicale. Ammirevole il proposito di evitare l’uso degli smartphone a scuola ma non basta per rendere veramente efficace un ripensamento radicale dalla loro dipendenza.
Un divieto di questo genere dovrebbe essere esteso al resto d’Europa e nel mondo, per essere più efficace. Non mancano però iniziative analoghe in altri paesi: per esempio è sorto un movimento fondato da due mamme inglesi, il gruppo conta oltre 100mila adesioni e si espande anche negli Stati Uniti. Oltre a nuove leggi, sostengono, è necessario l’impegno delle Big Tech; difficile però chiedere alla grande industria della telefonia mobile di autolimitare le possibilità di vendita e di profitto nel nome di una campagna etica e pedagogica. Più realistico pensare che siano gli stati, le istituzioni, i governi, ad affrontare il problema con leggi, campagne e strategie mirate.
Infine colpisce una cosa: quando si tratta di affrontare temi reali di vasta portata sociale, la politica è un passo indietro, anziché farsi promotrice viene trascinata e s’impegna solo se trova una convenienza immediata di tipo elettorale o politico; per raccogliere voti, intercettare movimenti, mettere in difficoltà il governo in carica e trattare con grandi aziende del settore.
Previsione finale: temo che non se ne farà nulla.

 Marcello   Veneziani                                                                                                                                                              

La lingua e il mio posto nel mondo…

In Alto Adige, senza il patentino di bilinguismo italiano-tedesco, sei praticamente un fantasma nel mondo del lavoro. Pubblico impiego? Scordalo. Para-pubblico? Niente da fare. Privato? Non pervenuto. Insomma, se il tedesco non è il tuo miglior amico, scordati di fare il medico, l’infermiere, l’insegnante (anche se insegni la tua lingua madre), il postino, il commesso… qualsiasi cosa. Per me, cresciuta con l’italiano, l’apprendimento del tedesco è stato inevitabile. È fattibile, certo, ma quale tedesco, esattamente? L’ho scoperto una delle prime volte che, ormai maggiorenne, mi sono avventurata in Val d’Ultimo, dove il mio ragazzo di allora prestava servizio come Carabiniere. Lui, il Maresciallo e il Brigadiere della stazione erano gli unici italiani del posto. Da innamorati sognanti, avevamo programmato una romantica escursione in malga: mano nella mano, zainetto in spalla. Boschi, prati, fiori e torrenti: uno spettacolo! Ma qualcosa andò storto. Niente cellulari, satelliti, o Google Maps: solo una cartina e il nostro – scarso – senso dell’orientamento. Dopo un lungo tratto di bosco a dir poco incantevole, ci rendemmo presto conto di esserci persi. «Torniamo indietro, forse abbiamo sbagliato al bivio di prima,» disse lui, che di nome faceva Michele. Facemmo avanti e indietro, più e più volte, finendo sempre allo stesso punto. L’ansia cominciò a prendere piede, complice l’orologio che segnava le quattro del pomeriggio e l’ombra della sera che si allungava. E il freddo. Ricordo che iniziai a sentire prima la sete, poi la fame, e infine persino il sonno. Ma soprattutto, sete. La gola arsa era una sensazione orribile. A un certo punto ci ritrovammo su un pendio dove un uomo anziano ci osservava come fossimo due alieni appena atterrati da Marte. Lo avvicinai, chiedendogli aiuto in un impeccabile Hochdeutsch scolastico. Mi rispose in una lingua mai sentita prima. «È dialetto locale,» disse Michele. «Ah sì? E tu lo capisci?» Michele scosse la testa. Senza acqua e disperati, riuscimmo a fargli capire che avevamo bisogno di un passaggio. In qualche modo si convinse che eravamo a posto e forse impietosito ci fece salire sul suo trattore e ci scaricò in paese. Alla prima fontana, mi immersi come un’assetata nel deserto. Quella sera, raccontai l’avventura ai miei genitori. «Che lingua ho imparato a scuola se non mi serviva a parlare con la gente della mia stessa terra?» chiedevo. Chi ero? Dove vivevo? Possibile che ci fosse gente che non sapeva l’italiano? E gente come me che non parlasse la lingua del posto?

Mio padre mi raccontò di Mussolini. Sapevo già che la mia provincia era speciale, ma non fino a quel punto. Decisi che era giunto il momento di capirci qualcosa di più. Per diciotto anni avevo vissuto a Bolzano, in una specie di bolla; una città dove tutti parlavano italiano. Iniziai a studiare quello che a scuola nessuno mi aveva mai spiegato bene: la guerra, il fascismo, l’italianizzazione forzata, il terrorismo degli anni Sessanta. E degli italiani immigrati da varie regioni, proprio come i miei nonni, che sono rimasti una minoranza. La lingua ufficiale è l’Hochdeutsch, ma solo una minima parte della popolazione lo parla. La maggior parte delle persone parla dialetti: diversi da una valle all’altra. Ero scioccata. Il tedesco che avevo imparato a scuola così faticosamente serviva solo per ottenere il famoso patentino, ma sul lavoro non lo avrei mai usato perché nessuno lo parlava. Il senso di smarrimento, di sentirsi apolide nella propria terra, è germogliato allora e non ha mai smesso di crescere. L’unico modo per affrontarlo, forse, è stato leggere tutto ciò che potevo sulla storia della mia terra: ma era davvero «mia»? Volevo scoprire come si erano sentiti i miei nonni prima di me: sapevano di vivere in un’enclave? Sapevano che tre quarti della popolazione altoatesina era tedesca e che solo una minima parte parlava italiano? Come si erano sentiti? E io, come mi sentivo? Leggere, capire, studiare, non bastava: dovevo raccontare.

Ancora oggi non so rispondere a queste domande con precisione. A chi dice «state bene voi lassù, in Alto Adige, con la vostra autonomia e tutta la ricchezza delle Dolomiti,» vorrei rispondere «se solo sapessi… le nostre scuole sono ancora separate per lingua.» Ma poi sorrido, ci penso e mi rendo conto che, in fondo, non è poi così male. Grazie a quella tragica giornata in montagna, mio marito ed io abbiamo fatto scelte diverse da quelle dei miei genitori e i nostri figli oggi sanno parlare Hochdeutsch, i dialetti locali a altre due lingue straniere. Ma il bisogno di raccontare dell’Alto Adige con tutta la sua storia e le sue contraddizioni non mi è ancora passato.

Katia Tenti      

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Katia Tenti è in libreria con “E ti chiameranno strega” (Neri Pozza)

E tutti vissero narcisi e scontenti…

 

Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani- il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”

“Abbiamo avuto i ribelli e i rivoluzionari, oggi, nonostante il benessere e la longevità, in Occidente abbiamo gli scontenti e il mare oscuro del rancore si allarga”. Marcello Veneziani, saggista e filosofo, fa un viaggio “nelle regioni della scontentezza”, male del nostro tempo, in piazza Grande a Modena con la sua lezione magistrale in programma al Festivalfilosofia. Il ritratto dello scontento si compone di diversi elementi e di uno strano legame con gli altri e con il potere. Non è infelicità: “la scontentezza è sempre comparativa (non è il soffrire interiore dell’infelice) e ha un’ animosità e un tratto tutto moderno tanto che nella classicità non ci sono termini precisi per definirlo. La scontentezza è tipicamente occidentale e faustiana- la descrive Veneziani- è come una sete continua, un narcisismo frustrato perchè viviamo un’epoca in cui desideri e diritti vengono identificati e il limite delle nostre possibilità quando appare ci procura uno scompenso”. Come inizia il viaggio della scontentezza nella contemporaneità? Tante le cause: “Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani– il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Veneziani ne mostra la dinamica: “Chi è scontento si apparta, rifiuta la socialità, solo in alcune occasioni si accomuna agli altri e si passa al malcontento politico. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”; importante è che resti “molecolare”, frammentato nei singoli, cosi può essere gestito al meglio e ciascuno sarà chiamato a “prendersela con se stesso se non ha realizzato nella propria vita personale ciò che gli dà scontento: risolvi nel tuo personale dice il potere. Il malcontento invece porterebbe alla piazza, il potere è diventato così il grande imprenditore dello scontento che è una fabbrica ineusaribile dei desideri e dei consumi”. Non è tutto distruttivo, tiene a puntualizzare Veneziani, “esiste uno scontento positivo che rimette in discussione aspetti, che non si accontenta”. Non c’è da restare rassegnati, ma come? “Paragonando la nostra vita a quelli di altri tempi, pensando che il mondo non finisce con noi, relativizzando il nostro tempo, accettando (che non è rassegnazione) il destino, i verdetti dopo che si è provato a cambiare”, raccomanda il filosofo. Uscirne si può: bisogna tornare all’amor fati, come lo pensava Nietzsche, contro quello che è diventato un horror fati: “Dietro allo scontento c’è il primato del non essere e allora la risposta ce la dà Dante quando scrive ‘State contenti umane genti al quia’. E’ questo ‘state contenti’ il passepartout per uscire dalla prigionia di un presente percepito vicino al punto di non ritorno che ci condanna ad essere pieni di desideri irrealizzabili e di un tempo che non c’è. E invece, nonostante l’eco-ansia, tanto propagandata, il tempo c’è, invita ad osservare Veneziani: torniamo ad amare il fato. Torniamo al destino.

(Il Mattino quotidiano)

Antonio Ligabue, l’artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo…

 

Una mostra ricorda il pittore morto nel 1965 a Gualtieri, Reggio Emilia |
Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

«Leonessa con zebra», 1959

Quando ci si avvicina a un artista come Antonio Ligabue, il rischio di essere retorici è forte: il «pittore naïf», la «visceralità della natura», «l’innocenza» e «l’ingenuità» sono stati il cardine di numerose letture critiche che, non sempre ma spesso, sconfinano nella verbosità inutile. Che l’artista nato a Zurigo nel 1899 e morto a Gualtieri (Reggio Emilia) nel 1965 sia stato un autodidatta con numerosi problemi di inclusione sociale ormai si sa. Se non bastasse, la popolarità del film di Giorgio Diritti con Elio Germano, «Volevo nascondermi», ce lo ha ricordato quattro anni fa.

Antonio Ligabue

Ma questa vita complicata, tra manicomi, ricoveri coatti, fughe improvvise, risse ed emarginazione sociale, non può bastare a spiegare la popolarità del pittore. E certamente non è la chiave di lettura di una tecnica molto raffinata: la minuzia con cui descrive la savana pur non essendoci mai stato o i dettagli quasi fotografici nella rappresentazione di una tigre meritano una riflessione più approfondita. Perché non si diventa Ligabue da un giorno all’altro, come conferma «Antonio Ligabue. La grande mostra», in programma a Palazzo Albergati di Bologna dal 21 settembre al 30 marzo dell’anno prossimo, curata da Francesco Negri e Francesca Villanti, prodotta da Arthemisia con catalogo Moebius.

Antonio Ligabue

Anche perché il suo vero cognome era Laccabue, acquisito dal patrigno, un patrigno mai amato nella prima infanzia in Svizzera. Quando, nel 1919, Toni venne espulso dal territorio elvetico e spedito a Gualtieri (Comune di nascita del padre), la prefettura di Como, nel passaggio, storpiò il cognome in «Ligabue» e l’artista lo tenne fino alla fine. Da allora la vita di Toni è stata un’altalena tra reclusioni, vita sociale difficile, attaccamento vigoroso alla pittura, disperato tentativo di tradurre in arte un universo personalissimo che l’artista si è sempre portato dentro, nutrendolo di numerose suggestioni. Per esempio, le figurine che raffiguravano animali feroci, molto diffuse a partire dal secondo dopoguerra: tigri, leoni, leopardi immersi nella natura verdissima di paesi esotici e percepiti come autentici, come dei paradisi pericolosi.

Antonio Ligabue

Ma nel Reggiano, specie nella provincia profonda e fluviale di Gualtieri, Antonio osservava un’umanità colorita e lavoratrice, fatta di riti e simboli, immagini sacre o, all’opposto, orgogliosamente laiche. Un mondo racchiuso nei romanzi e nei racconti, per esempio, dello scrittore reggiano Silvio D’Arzo, morto di leucemia nel 1952 dopo averci consegnato un piccolo capolavoro come «Casa d’altri», racconti ambientati nella provincia padana dove «appaiono strane anche le cose più ovvie». Nelle sue storie preti, suore, madri e pirati si danno il cambio in una girandola immaginifica dalla quale discenderà la poetica di Ermanno Cavazzoni, tanto per fare un nome.

Antonio Ligabue

 Una linea «folle» quella di Reggio Emilia, nella quale Ligabue si inserisce con la bellezza nuda di un artista autodidatta, analfabeta, «adottato» ora dallo scultore Renato Marino Mazzacurati — importantissimo nell’insegnargli dell’uso dei colori e della composizione scenica — ora dall’amico pittore Andrea Mozzali di Guastalla, che, in piena seconda guerra mondiale, accettò di accogliere in casa Ligabue, che era stato internato per la seconda volta presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Ma la mostra bolognese contribuisce a sfatare un altro mito: che la critica accademica non lo abbia mai preso sul serio. Dopo una iniziale emarginazione, infatti, il percorso di Ligabue cresce e si evolve in modo interessante. Scrive Villanti nel catalogo: «Scoperto negli anni Cinquanta grazie a Marino Mazzacurati e sostenuto da critici come Bartolini e Vigorelli, l’artista godette di un riconoscimento ufficiale, culminato con una personale alla Barcaccia di Roma nel 1961». Una mostra molto importante, perché — presente lo stesso pittore — è qui che nasce «il caso Ligabue», cioè l’intreccio saldo di una vicenda umana e artistica che incuriosì il mondo culturale.

Antonio Ligabue

È proprio dalla mostra romana che prenderà vita, anni dopo, lo sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita, «Ligabue», trasmesso nel 1977 da Rai 1 in tre puntate e poi acquistato dalle televisioni di tutto il mondo (nei panni dell’artista, Flavio Bucci). Poi verranno i film di Raffaele Andreassi, «Lo specchio, la tigre e la pianura», del 1960, Orso d’argento al Festival di Berlino, e altre due opere dello stesso Andreassi, «Nebbia», del 1961, e «Antonio Ligabue pittore» del 1965. E poi libri, studi, documentari. Fino alla morte dell’artista, avvenuta quasi sessant’anni fa. È proprio qui che avviene una curiosa disgiunzione: la critica accademica si fa sempre più tiepida, ma cresce in modo esponenziale la curiosità popolare nei confronti dell’artista, non solo per la sua vita ma anche per la sua arte.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

Il recente film di Giorgio Diritti non è che un esempio della popolarità del pittore: ci sono i romanzi sulla sua esistenza (da «La campana di Marbach» di Renzo Martinoni fino a «Il genio infelice», di Carlo Vulpio); ci sono i documentari, i saggi e anche il mercato oggi lo premia, perché nel giugno scorso, nell’asta indetta da Pandolfini, il suo «Lotta di galli» ha superato i 470mila euro. È solo curiosità per la biografia di un «irregolare»? No, c’è dell’altro e opere come Tigre, del 1954 o Aquila con volpe, del 1949, lo dimostrano.

Ligabue si è inserito perfettamente nell’alveo della modernità, mettendo al centro i demoni interiori: le paure, l’istinto di sopravvivenza che ci rende feroci, la lotta della specie, il bisogno ancestrale di difendersi. Ma, a differenza di artisti come Van Gogh (al quale è stato più volte assimilato) non stravolge la rappresentazione della realtà, non la riduce a simbolo, bensì la amplifica.La esaspera nei dettagli minuziosi, nei colori vividi, nelle espressioni più forti. Nel bestiario di Ligabue c’è vita vera: la ferocia della provincia, la paura dell’essere «irregolari», l’ambizione a diventare «i più bravi», il terrore di essere inadeguati e la consapevolezza di sentire le cose meglio degli altri. È anche per questo che la sua produzione privilegia scene animali e autoritratti: come a sottolineare una profonda connessione tra l’istinto primitivo delle belve e la feroce sensibilità dell’artista.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

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Il desiderio di essere migliori (degli altri)…

 

Dopo aver finito un lavoro complesso che ha dato ottimi risultati, dopo aver cucinato una serie di delizie per la cena con gli amici, ecco che al momento del trucco e parrucco davanti allo specchio tutto precipita: che capelli brutti, che faccia pesta, quante rughe, accidenti, così non si può andare avanti, ci vorrebbe un anno di lifting, e via di seguito in un crescendo di insoddisfazione che nasce dall’autocritica spietata miscelata al confronto con un’immagine ideale che forse risale a 20 anni o, peggio, per ovvi motivi non regge il paragone con la modella della porta accanto, diciassettenne filiforme alta 1,83 che si nutre di sedano.

Ma perché farsi del male? Perché non smetterla di competere con noi stessi e con il resto del mondo?

Se solo riuscissimo ad ammettere che la corsa continua a voler essere sopra la media per sentirci meritevoli di approvazione quando non addirittura d’amore, unita al bisogno di essere perfetti in tutto non dà la felicità ma, piuttosto, porta a essere scontenti e, soprattutto, a non amarci. Alcuni psicologi hanno dato un nome -self-compassion- al potere che la compassione verso noi stessi ci offre, aiutandoci a gestire le emozioni distruttive, perché è esattamente questo sentimento di benevolenza che siamo più propensi a sperimentare verso il prossimo che verso le nostre auguste persone che ci può aiutare a cambiare: se impariamo a trattarci con la stessa gentilezza, sensibilità e cura (in pratica, con la stessa compassione) con cui trattiamo chi soffre attorno a noi, abbandoneremo la maggior parte dei nostri pensieri autocritici.

Lasceremo andare quel continuo dialogo interiore che ha la forma di svalutazione costante e spietata e che ci porta a formulare nei nostri confronti (mai di qualcun altro, per carità), giudizi incontrovertibili come: «Ti sei comportata/o da idiota», oppure: «Non ce la farai mai». Sono atteggiamenti talmente comuni queste feroci autocritiche e questi comportamenti, che viene da pensare che chi li mette in atto lo faccia per assicurarsi l’accettazione altrui, un po’ come se preventivamente si dicesse: «Mi critico io prima che lo faccia tu». Un po’ come se fossimo stati programmati per non piacerci, per non essere mai abbastanza contenti, e forse è quello che impariamo in famiglia, quando madri e padri utilizzano la critica continua come mezzo per migliorare i figli, e nel cervello dei ragazzi si stampa come un tatuaggio quella modalità denigratoria che nella vita adulta diventerà l’abituale: «Potevi fare di più», «Non sei all’altezza».

Ma invece di condannarci per i nostri sbagli e fallimenti possiamo abbandonare le aspettative irreali di perfezione che ci rendono insoddisfatti, e iniziare a trattarci con la compassione di cui abbiamo bisogno, considerando che siamo esseri umani, quindi per definizione imperfetti, connessi e non isolati dagli altri: questo succede se non opponiamo più resistenza alla sofferenza e cominciamo ad elaborare le circostanze difficili che la vita ci propone con gentilezza. Molte persone pensano di non dover essere gentili con se stesse, specialmente se hanno ricevuto questo messaggio nell’infanzia, oppure se pensano che l’auto-compassione sia sinonimo di autoindulgenza. Ma la gentilezza verso sé comporta molto di più che smettere di auto-giudicarci. Implica saperci dare conforto, reagendo come faremmo con un caro amico. E se il nostro dolore è causato da un passo sbagliato che abbiamo fatto, è il momento giusto per offrirci compassione.

Quando plachiamo le nostre menti agitate con gentilezza e compassione invece di denigrarci siamo in grado di notare cos’è giusto e cos’è sbagliato, in modo da poterci orientare verso ciò che ci dà gioia, cominciando finalmente a smettere di chiederci: «Sono bravo come gli altri?». Interrompere questo ciclo è possibile. Non che sia facile, ma il modo per contrastare l’auto-criticismo è individuarlo, capirlo e sostituirlo con una risposta più gentile. Se ci soffermiamo e riconosciamo la nostra sofferenza -come faremmo ascoltando un nostro amico o una nostra amica in difficoltà- non potremmo non commuovervi davanti al nostro dolore. Spesso non siamo in grado di accettare che stiamo soffrendo perché la cultura occidentale tende a esortarci a stringere i denti, a tener duro e probabilmente ci è stato insegnato che non dobbiamo lamentarci, che dobbiamo essere forti e mostrare sofferenza è da deboli. Ma visto che la nostra cultura ci invita anche ad essere gentili con gli amici, la famiglia, i vicini di casa e non solo quando si trovano in difficoltà, perché non dovremmo comportarci con altrettanta gentilezza con noi stessi?

Quando commettiamo un errore o falliamo, perché dovremmo anche darci una mazzata in testa invece della pacca sulla spalla che avremmo tanto bisogno? Magari abbiamo sempre fatto così, e probabilmente il solo pensiero di confortarci ci sembra assurdo, ma c’è la possibilità di modificare il nostro modo di vedere le cose. Anche se quando il dolore proviene dall’auto-giudizio è difficile da riconoscere per quello che è, cioè un momento di sofferenza, se impariamo a lasciarci commuovere dai tormenti che proviamo a causa della tendenza a criticarci sempre, e a provare benevolenza e gentilezza nei nostri confronti, sperimentiamo il desiderio di guarigione. Che coincide con il momento in cui diciamo basta al dolore auto-inflitto. Quando arriviamo a riconoscere che la debolezza e l’imperfezione sono parte dell’esperienza umana, siamo connessi ai nostri compagni di viaggio nella vita, vulnerabili e imperfetti come noi. Possiamo lasciar andare il desiderio di sentirci migliori di quello che siamo e migliori degli altri.

Anna Tagliacarne

migliori

Figli e genitori…

Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.

“Me ne cado, “mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.

“Ma a salire su questa navetta,” ha detto il marito indicandola oltre il vetro, “ce la fai.”

“Mi piace tanto viaggiare”, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.

La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.

“E la crociera parte da Genova?, “ho chiesto.

“No, da Atene.”

Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via   . Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati. Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto. Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.

Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole – che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.

Rosella Postorino

 

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Ho scritto su Instagram “gelato al finocchio” e mi hanno tolto l’accesso al profilo…

Alcune foto pubblicate, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”. Chissà quali erano le parole offensive.

“Gelato al finocchio”. Finocchio non si può dire nemmeno parlando di ortaggi o almeno non posso dirlo io, attenzionato come omofobo, suppongo. Ho pubblicato su Instagram alcune foto, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”.  Prima mi è arrivato un messaggio esortante a modificare il post o a fare ricorso. Una comunicazione estremamente vaga dalla quale non si capiva se il problema fossero le parole “bruciato” e “brace” (troppo ustionanti?) o la parola “pecora” (troppo porno?) o la parola “finocchio” (troppo discriminante?). Io non ho modificato nulla (avrei dovuto scrivere “gelato al Foeniculum vulgare?”) e ho fatto ricorso: per tutta risposta mi hanno tolto l’accesso al profilo. Poi dicono la libertà di espressione. Sia lodato Elon Musk.

Camillo Langone __da___Il Foglio
finocchio