Il miracolo delle feste di giovani non tatuati e in giacca e cravatta..

Non si creda che tutti i ragazzi siano tatuati e trappizzati. E ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata.

Si prega di non generalizzare, di informarsi meglio, di vincere la pigrizia degli stereotipi, di non credere che tutti i giovani siano tatuati e trappizzati. In questo periodo ho conosciuto ventenni e trentenni che non c’entrano nulla con quella inguardabile immagine, con quella inascoltabile colonna sonora. Che partecipano abitualmente a feste cravatta nera, uomini in smoking e donne in lungo negli antichi palazzi delle vecchie capitali italiane, da Torino a Palermo, o a feste romane, nei circoli, senza smoking ma in giacca e cravatta anche d’estate. Incredibile, lo so, ma vero. Ci sono ragazze che di J-Ax e Fabri Fibra potrebbero essere tranquillamente figlie e tuttavia sanno ballare il valzer, indossano calze e gioielli, vantano pelle immacolata. Il mondo è bello perchè è vario e loro sono più belle perchè non standardizzate. Dio perpetui il miracolo di questi giovani differenti.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

cravatte

Al mondo tutto è possibile…

 

E l’uomo allora disse:

“La verità sul mondo, è che tutto è possibile. Se non l’aveste visto tutto fin dalla nascita e quindi non  lo aveste deprivato della sua stranezza vi sembrerebbe per quello che è, una tripletta in uno spettacolo di medicina, un sogno febbrile, una trance che si anima di chimere che non hanno né analogie né precedenti, un carnevale itinerante, un tendone migratorio la cui destinazione finale, dopo molti passi in molti campi fangosi , è indicibile e piena di pericoli oltre ogni calcolo.
L’universo non è una cosa con confini  ,e l’ordine al suo interno non è vincolato da alcuna latitudine nella sua concezione al fatto che si debba ripetere ciò che esiste là in qualsiasi altra parte. Anche in questo mondo esistono più cose fuori dalla nostra conoscenza , come l’ordine ,nella creazione che vedete  , è solo quello che avete messo lì, come una corda in un labirinto, in modo da non perdere la strada. Perché l’esistenza ha il suo ordine e la mente di nessun uomo può orientarla come vuole, poichè la mente stessa non è altro che una casualità fra tutte le altre.

Cormac McCarthy,  Meridiano di sangue, o,  Il rossore di sera nell’ovest-

 

th (1)

La sposa faidate, lui non lo sa..

Viva la sposa autarchica di Martina Franca. Una ragazza di quarant’anni si sposa in chiesa, nella bella chiesa di San Martino del bellissimo borgo pugliese, nei giorni del festival della Valle d’Itria; fa addobbare la chiesa di fiori, spende una cifra per il ricevimento nuziale, arriva in auto vestita da sposa e aspetta invano il suo sposo; ha deciso di convolare a nozze all’insaputa del suo prescelto o nonostante il suo parere contrario. Poi quando il parroco la invita a lasciare la Chiesa per evidente vizio di procedura, non può celebrare con lo sposo contumace, lei decide di sfogare nel mare di Puglia la sua solitudine di sposa faidate, autoreferenziale, solitaria. E il naufragar è salato in questo mare… Una storia surreale, per certi versi romantica, che colpisce in modo particolare me che scrissi anni fa La sposa invisibile. Stavolta invisibile è lo sposo, che esiste ma non ha mai detto di si alla sposa, si dice anzi che sia già impegnato.
La storia si può interpretare in tre modi diversi. Il primo è che l’amore di coppia è fondato su un elementare principio: la reciprocità. Mancando quella prima condizione, manca di conseguenza tutto il resto. Certo, l’amore è asimmetrico, a volte si ama senza essere (del tutto) ricambiati ma non si può prescindere dal consenso, almeno iniziale. Ci sono persone rimaste sole tutta la vita perché non sono riuscite a dimenticare o rimpiazzare il loro amore perduto. Esistono poi gli amori ideali, all’insaputa dell’amato o senza il suo consenso. Ma gli amori ideali non pretendono di convertirsi in realtà ad ogni costo. Restano nella sfera ideale, come l’amore di Dante per Beatrice e di Leopardi per Silvia, e si sublimano in ispirazione poetica. Diventano invece persecutori, paranoici e anche aggressivi quando pretendono amore anche se non sono ricambiati. I casi peggiori viaggiano tra lo stalking e la violenza, fino a uccidere la persona amata.
In questo caso pugliese l’amore autarchico non infierisce sulla persona amata; si limita alla scena virtuale, alle nozze unilaterali e incompiute.
Qui si accede a un secondo livello. Ed è quel fenomeno sociale, ormai diffuso da più di trent’anni, tra il Giappone e gli Stati Uniti, che è la sologamia. A differenza della sposa pugliese, le nozze qui non prevedono la presenza neppure virtuale – in cartonato o in ologramma – di uno sposo reale; è un consapevole matrimonio solo con se stessi. Una pratica più diffusa tra le donne, in misura minore dagli uomini; di chi sente il bisogno di celebrare il suo statuto di singolo, sposandosi con se stesso. Un amore narcisistico che nel mio libro dedicato all’Amore necessario ho catalogato attraverso la formula Io amo Io. Certo, un matrimonio così non ha bisogno di una chiesa e di un sacerdote, e nemmeno di un ricevimento, ma è in totale autarchia, è solipsismo nuziale, autosufficienza amorosa, una forma nuova di onanismo nuziale. È il sintomo più vistoso della solitudine contemporanea, la perdita dei confini tra il virtuale e il reale, l’individuo assoluto che non ha bisogno di nessuno e si marita con se stesso, in selfie, pur sapendo che la scelta non produce autogravidanza, al più ricorre a uteri in affitto e fecondazioni artificiali. Del resto, la nostra società prevede l’esistenza della famiglia mononucleare, che non allude alla mononucleosi ma vuol dire che il singolo fa famiglia da solo; da non confondere con la famiglia monoparentale, dove c’è un solo genitore ma ci sono figli, magari frutto di precedenti unioni. A me sembra assurdo e del tutto improprio definire famiglia qualcosa che ne è la negazione, perché priva di un noi. Chiamatelo come sempre è stato, celibato; la donna che non si sposa, da noi in Puglia, è chiamata vacantina, alludendo alla vacatio maritale; non si è sposata, è rimasta signorina.
A proposito, qui si accede al terzo livello, si lascia il nostro tempo e si entra invece nel nostro luogo. Il matrimonio resta nel sud, anche in tempi di single e di matrimoni di breve durata, il culmine della vita personale e sociale, il principale investimento famigliare e la principale industria, con un indotto pazzesco. Nozze che costano un occhio della testa, ricevimenti che dissanguano famiglie, feste che durano tantissimo, in proporzione più dei matrimoni che celebrano. Non a caso, in Puglia vengono a sposarsi anche pascià e sultani, perché la festa nuziale da loro dura a lungo, per giorni. Dodici ore filate tra attese, messa, lancio del riso, servizio fotografico, pranzo infinito, ballo, trenino, presepe familiare e amicale al completo; sfibrano anche i più volenterosi sposi e i più eroici invitati. E li conducono già durante il ricevimento a delineare separazioni e rotture tra i clan familiari. Il matrimonio al sud, in Puglia, è un test psico-attitudinale di convivenza nella lunga durata che comporta pazienza, resistenza, recita ad oltranza, capacità di sopportare il caldo e altre avversità: è davvero una scuola di alta formazione al sacrificio per mettere su famiglia.
In passato ho raccontato che in una interminabile festa nuziale, corse come una invocazione diffusa, il paragone tra nozze e funerali e la preferenza per questi ultimi: le celebrazioni funebri durano meno, non devi farti l’abito per la cerimonia, non devi dissanguarti coi regali e i ricevimenti; il morto non dà bomboniere e muore una volta sola, invece gli sposi a volte si risposano; ai funerali puoi partecipare anche restando in disparte, dopo la messa devi solo sobbarcati una breve passeggiata detta corteo funebre; e non c’è il disc jockey. Insomma, capite, se si arriva a rivalutare perfino i funerali, c’è qualcosa di perverso e di insopportabile in quelle cerimonie nuziali. Nozze, voce imperfetta del verbo nuocere. Si aggiunga che in Puglia il lancio del riso è considerato troppo lieve, da noi il riso va di solito con patate e cozze; ma il lancio di riso patate e cozze colpirebbe molto più pesantemente gli sposi e i loro accoliti, detti testimoni, lasciandoli felici e contusi.
Invece la sposa autarchica di Martina Franca ha sognato di sposarsi anche senza sposo e senza invitati, pur prevedendo in astratto entrambi. Si è sobbarcata gli oneri nuziali e ha risparmiato al mondo e allo sposo presunto quella terribile giornata nuziale nel caldo torrido di luglio. Dite quel che volete, ma considero questa scelta il più grande dono d’amore che la sposa ha fatto al suo sposo riluttante e ai suoi cari…

Marcello Veneziani.         

Quando si incomincia a intravedere il traguardo della vita…

 

Cinque sono le cose che un uomo rimpiange quando sta per morire. Non saranno i viaggi confinati nelle vetrine delle agenzie che rimpiangeremo, e neanche una macchina nuova, una donna o un uomo da sogno o uno stipendio migliore.

La prima sarà non aver vissuto secondo le nostre inclinazioni ma prigionieri delle aspettative degli altri. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili, o abbiamo creduto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda. La maschera di chi si accontenta di essere amabile. Non amato.

Il secondo rimpianto sarà aver lavorato troppo duramente, lasciandoci prendere dalla competizione, dai risultati, dalla rincorsa di qualcosa che non è mai arrivato perché non esisteva se non nella nostra testa, trascurando legami e relazioni.

Per terzo rimpiangeremo di non aver trovato il coraggio di dire la verità. Rimpiangeremo di non aver detto abbastanza ”ti amo” a chi avevamo accanto, ”sono fiero di te” ai figli, ”scusa” quando avevamo torto, o anche quando avevamo ragione. Abbiamo preferito alla verità rancori incancreniti e lunghissimi silenzi.

Poi rimpiangeremo di non aver trascorso tempo con chi amavamo. Non abbiamo badato a chi avevamo sempre lì, proprio perché era sempre lì. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L’abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche solo una telefonata e chiedere come stai.

Per ultimo rimpiangeremo di non essere stati più felici. Eppure sarebbe bastato far fiorire ciò che avevamo dentro e attorno, ma ci siamo lasciati schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, invece di amare come i poeti, invece di conoscere come gli scienziati. Invece di scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori.

Alessandro D’Avenia

 

OIG1.WtN (1)

Ma perché nelle camere d’albergo dev’essere tutto così complicato?

 

“Dalle serrature agli interruttori, dal climatizzatore alle docce: c’è sempre almeno una cosa di cui non capisco il funzionamento”, scrive Marisa Fumagalli in “Te lo do io il design. Storie di evitabile follia“. Scoprire che il male è comune è un mezzo gaudio

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

camere

 

La rabbia___Poesia di Pier Paolo Pasolini-

 

Esiste l’odio ,esiste la rabbia; sono emozioni , sentire violenti che entrano in noi e ci trasportano quasi in un altro luogo dove ,a volte,si possono vivere impulsi e brutalità, non sempre accompagnati  dal nostro raziocinio. Quando agiamo,scatenati dall’ira , spesso poi ci pentiamo.Nei lontani tempi passati, credo che gli uomini fossero meno presi da questi scatti di ira. La quotidianità sempre uguale li rendeva assuefatti alle loro condizioni di vita, meno esposti a risentimenti, invidie. Ognuno accettava la sua condizione fin dalla nascita, pochissime le persone che vivevano molto bene, e questo era nella logica dei fatti. Oggi, esposti come siamo alla continua comunicazione, che ci arriva da ogni parte, sono poche le persone che vivono ancora nel più completo isolamento dell’analfabetismo, per cui siamo tutti esposti quotidianamente alle ingiustizie del mondo evidenziate dalla politica,dalla cronaca che ogni giorno si intrufolano nelle nostre vite. Pensiamo al recente attentato a Donald Trump, a quanto la violenza sia ormai normalizzata nel nostro mondo. Pensiamo al gossip, che ci mostra ogni giorno la dolce vita di chi nuota nella ricchezza, incurante delle miserie altrui. Non mi ha stupito imbattermi oggi in una poesia sulla rabbia, scritta da uno dei più considerati intellettuali , scrittori, poeti e uomini di cinema del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini.

L’autore, che unisce il piano ideologico a una dimensione più intima e autobiografica, cerca in se stesso le emozioni ,mettendone in luce le contraddizioni, che sono anche le nostre, e descrive l’emozione della rabbia, avvertita come un piccolo demone che avvelena l’anima.
Quando si è arrabbiati non si riesce a focalizzare altro: una delle emozioni più fisiche e potenti, che si irradia dalle viscere e ci fa diventare altro da noi, se non siamo in grado di governarla. Trasformiamo allora la rabbia in una fisicità prorompente: l’accecamento, l’incendio, la pancia… In una parola, un impulso ingovernabile,che ha bisogno di trasformarsi in azione, di scatenarsi al di fuori di noi per liberarci. Può una tale emozione diventare poesia? Si, ed anche  una poesia bella, intrigante, vera.. Infatti in questi versi Pasolini la fa vivere nel giardino “speciale” di sua madre, come un demonio che lo distrugge.

La rabbia –
Vado sulla porta del giardino, un piccolo
infossato cunicolo di pietra al piano
terra, contro il suburbano
orto, rimasto li dai giorni di Mameli,
coi suoi pini, le sue rose, i suoi radicchi.

Intorno, dietro questo paradiso di paesana
tranquillità, compaiono,
le facciate gialle dei grattacieli
fascisti, degli ultimi cantieri:
e sotto, oltre spessi lastroni di vetro,
c’è una rimessa, sepolcrale. Sonnecchia,
al bel sole, un po’ freddo, il grande orto
con la casetta in mezzo ottocentesca,
candida, dove Mameli è morto,
e un merlo cantando, trama la sua tresca.

Questo mio povero giardino, tutto
di pietra… Ma ho comprato un oleandro
nuovo orgoglio di mia madre
e vasi di ogni specie di fiori,
e anche un fraticello di legno, un putto
obbediente e roseo, un po’ malandro,
trovato a Porta Portese, andando
a cercare mobili per la nuova casa. Colori,
pochi, la stagione è così acerba: ori
leggeri di luce, e verdi, tutti i verdi…

Solo un po’ di rosso, torvo e splendido,
seminascosto, amaro, senza gioia:
una rosa. Pende umile
sul ramo adolescente, come a una feritoia,
timido avanzo d’un paradiso in frantumi…
Da vicino, è ancora più dimessa, pare
una povera cosa indifesa e nuda,
una pura attitudine
della natura, che si trova all’aria, al sole,
viva, ma di una vita che la illude,
e la umilia, che la fa quasi vergognare
d’essere così rude
nella sua estrema tenerezza di fiore.
Mi avvicino più ancora, mi sento l’odore…

Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:
niente può esprimere una esistenza intera!
Rinuncio a ogni atto… So soltanto
che in questa rosa resto a respirare,
in un solo misero istante,
l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…
Perché non reagisco, perché non tremo
di gioia, o godo di qualche pura angoscia?
Perché non so riconoscere
questo antico nodo della mia esistenza?
Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone
della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco;
sentimento che m’intossica
esaurimento, dicono, febbrile impazienza
dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza.

Il dolore che da me a poco a poco mi aliena,
se io mi arrabbio appena,
si stacca da me, vortica per conto suo,
mi pulsa disordinato alle tempie,
mi riempie il cuore di pus,
non sono più padrone del mio tempo…
Niente avrebbe potuto, una volta, vincermi.
Ero chiuso nella mia vita come nel ventre
materno, in quest’ ardente
odore di umile rosa bagnata.

Ma lottavo per uscirne, là nella provincia
campestre, ventenne poeta, sempre, sempre
a soffrire disperatamente,
disperatamente a gioire… La lotta è terminata
con la vittoria. La mia esistenza privata
non è più racchiusa tra i petali d’una rosa,
una casa, una madre, una passione affannosa.
È pubblica. Ma anche il mondo che m’era ignoto
mi si è accostato, familiare,
si è fatto conoscere, e, a poco a poco,
mi si è imposto, necessario, brutale.
Non posso ora fingere di non saperlo:
o di non sapere come esso mi vuole.

Che specie di amore
conti in questo rapporto, che intese infami.
Non brucia una fiamma in questo inferno
di aridità, e questo arido furore
che impedisce al mio cuore
di reagire a un profumo, è un rottame
della passione… A quasi quarant’anni,
io mi trovo alla rabbia, come un giovane
che di sé non sa altro che è nuovo,
e si accanisce contro il vecchio mondo.
E, come un giovane, senza pietà
o pudore, io non nascondo
questo mio stato: non avrò pace, mai.

Pier Paolo Pasolini

 

la rabbia

Le persone scelgono sempre di più il silenzio…

Nell’ultimo anno la nuova frontiera è quella del silent reading party, il fenomeno che arriva dagli Stati Uniti per contrastare l’abuso degli smartphone nelle situazioni ricreative
Sarà il caos sempre più ingombrante delle città o forse la voglia di riscoprire un passato senza teconologia ad aver creato un nuovo trend abbracciato da sempre più persone: il “silent party”. In realtà, il protagonista di questa nuova moda non è tanto il “party” quanto più il silenzio, declinato in varie forme ed eventi. Già in passato, infatti, si erano diffuse le discoteche silenziose: cuffie alle orecchie, ritmo scatenato ma da fuori tutto tace.

L’idea è quella di condividere il silenzio insieme ad altre persone. Ecco allora piazze e grandi spazi, anche parchi, che diventano location ideali per vivere insieme un momento di tranquillità. Come ricorda il Corriere della Sera, sono diverse le attività che hanno come denominatore comune il silenzio. Dalle camminate e corse di gruppo, ai silent fitness e i silent cinema all’aperto. All’aperto o al chiuso, l’imperativo è semplice: niente telefoni. L’ambiente che circonda il lettore è calmo, accogliente, soft: candele, luci soffuse, in alcuni casi una leggera musica rilassante, per accompagnare chi legge in una dimensione lontana dalla città, non più in solitudine o in un bar affollato, ma insieme ad altre persone che vogliono condividere le stesse sensazioni.
A trainare la voglia di isolarsi dal rumore di fondo delle grandi città è forse il bisogno di riconnettersi alla natura, una sorta di new age del nuovo millennio che richiede l’abbandono, almeno momentaneo, di quegli strumenti teconologici così presenti nella nostra vita, per dedicarsi finalmente a qualcosa che non sia uno schermo, magari immersi in mezzo al verde della natura. In alcuni eventi, infatti, a essere protagonista non è il silenzio, ma il rumore. Il rumore lieve delle foglie, del vento, di un ruscello. Il canto di un uccello o il chiacchiericcio dei grilli, tutti suoni impossibili da ascoltare nella quotidianità della città. La cosa veramente importante è appartarsi in compagnia, per chi ha voglia di ritrovare se stesso  senza perdersi forse in una solitudine che non si ama per carattere, ma di cui  si sente impellente bisogno.

party di lettura

Morgan sia messo in condizione di non nuocere, ma non impeditegli di lavorare ….

 

Nessuno che riesca a distinguere il peccato dal peccatore. Far perdere al musicista contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. Il duro mestiere del genio. Ieri Busi e Bene, oggi Morgan e Sgarbi.
Sono tutti pagani (Calcutta con quel nome magari sarà induista) e quindi non riescono a distinguere il peccato dal peccatore. Preziosissimo insegnamento di Santa Madre Chiesa. Pio XII disse che “bisogna essere risoluti contro l’errore e pieni di riguardo verso gli erranti”. Che Morgan sia un errante non ho difficoltà a crederlo, per un articolo di blanda critica mi scrisse messaggi vaneggianti per ore (quanto tempo da perdere ha quest’uomo?). Se il musicista è davvero pericoloso sia messo in condizione di non nuocere: arresti domiciliari, braccialetto elettronico, non so. Ma non gli si impedisca di lavorare. Fargli perdere contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. E sono tutti senza peccato? Urge inoltre distinguere l’arte dall’artista. Qui oltre che cristiano sono proustiano: Marcel invitava a separare l’opera dalla biografia, altrimenti si riduce tutto a pettegolezzo (o linciaggio). Sid Vicious ha forse accoltellato la fidanzata ma che spettacolo la sua “My way”. Gesualdo da Venosa ha ammazzato la moglie fedifraga e il di lei amante eppure nessuno si presenta alla Decca col presuntuosissimo, prepotentissimo “O lui o io”. Battiato lo spiegò alla perfezione: “Musicista assassino della sposa / cosa importa? / scocca la sua nota / dolce come rosa”.

Camillo Langone__da __IL FOGLIO

 

morgan

Il cardinale, lo scienziato e l’aldilà…

 

 

Che sarà di noi? Alla fine è questa la domanda che rivolgiamo al religioso, al filosofo e allo scienziato. Ci giriamo intorno e parliamo di tante altre cose che ruotano intorno a quell’interrogativo ma quando si va a stringere è quella la domanda delle domande a cui vogliamo una risposta o anche solo un conforto quando ci sporgiamo oltre la vita.
C’è un dopo? è il titolo del libro scritto dal cardinale Camillo Ruini, alla veneranda età di 93 anni, dedicato all’Aldilà. Parallelamente leggevo un nuovo libro del fisico e inventore Federico Faggin, Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono (entrambi editi da Mondadori). Alla stretta finale, quando devono affrontare il tema cruciale, l’appuntamento con la morte, sia l’uomo di fede che l’uomo di scienza fondano la loro fiducia e la loro convinzione non sulle certezze religiose né sulle verità scientifiche, ma sui racconti di esperienze vissute al confine tra la vita e la morte.
“La verità è che non lo sappiamo” confessa il cardinal Ruini che poi si affida alle testimonianze di persone, oggetto di studi scientifici, a un passo dalla morte e poi tornate alla vita. Scrive il cardinale: “L’ammalato può udire il medico che lo dichiara morto, poi ha la sensazione di entrare in un tunnel lungo e oscuro; quindi improvvisamente si ritrova fuori dal proprio corpo, che ora può vedere dall’esterno e dall’alto, insieme ai medici e infermieri che lavorano su di esso. Scopre così di possedere un altro corpo, molto diverso da quello fisico che ha abbandonato, e dotato di facoltà nuove. Gli si fanno incontro altri defunti, in particolare parenti e amici che lo aiutano, e soprattutto gli appare un essere di luce, uno spirito d’amore che gli fa rivivere gli avvenimenti più importanti della sua esistenza. A un tratto si trova vicino a un confine che sembra essere quello tra la vita terrena e l’altra vita. Sente di dover tornare sulla terra perché non è ancora arrivato per lui il momento della morte, tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita, ma si riunisce in qualche modo al proprio corpo fisico e torna in questo mondo”. Questi racconti, dice il prelato, somigliano a quelli di grandi mistiche come Caterina da Siena o anche al mito di Er narrato da Platone, l’uomo risuscitato che aveva poi narrato il suo viaggio ultraterreno. Pure lo scrittore cattolico Antonio Socci lo raccontò in Tornati dall’aldilà (Rizzoli).
Anche lo scienziato Faggin fonda la sua convinzione di una vita invisibile oltre la morte richiamandosi alle “esperienze di premorte sperimentate da centinaia di migliaia di persone”. E accoglie come possibile benché inspiegabile la testimonianza di una donna che diceva di aver visto una persona appena deceduta in ospedale entrare dalla finestra per congedarsi da sua moglie sofferente in un lettino dello stesso ospedale nel piano inferiore. Un racconto che lascia turbati ma ancor più sorprende se a riferirlo è uno scienziato.
Faggin, fisico e inventore del microprocessore e del touchscreen, entra da scienziato in territori lontani dalla scienza e dalla fisica, riguardanti la metafisica e la filosofia dell’essere ma anche l’etica e la religione. Per Faggin la scienza si occupa del come, la spiritualità del perché; la loro correlazione è necessaria. La coscienza, per lui, viene prima del cervello e della materia, “è fondamentale e irriducibile”. Contrariamente a ogni riduzionismo evoluzionista,”dal più può derivare il meno, ma non viceversa”. Ovvero dal superiore discende l’inferiore, non il contrario; è possibile il degrado, l’involuzione, la decadenza; mentre si può pensare il progresso, l’evoluzione, lo sviluppo solo tramite l’intervento di forze superiori. Faggin respinge sia il caso che il creazionismo, e quando parla di spiritualità va oltre le religioni e abbraccia idee (come la reincarnazione e l’unità delle religioni) che vanno oltre il cristianesimo. In tema di reincarnazione Faggin si spinge a sostenere: “E’ quasi certo che ci sia la reincarnazione. C’è anche evidenza scientifica in bambini che si ricordano della vita precedente e che riportano fatti salienti di una vita che non hanno alcuna ragione di conoscere. Fatti che sono stati poi verificati”. E conclude che “la reincarnazione è sensata” perché non avrebbe senso vivere una sola vita. Tesi suggestiva, argomentazione un po’ fragile.
Lo scienziato ci fa sapere che dopo un’adolescenza di credente e osservante, secondo una rigida educazione cattolica (si faceva la comunione tutti i giorni) e una gioventù-maturità da materialista e scientista, è infine approdato, attraverso una vera e propria illuminazione, a una visione spiritualista integrale che espone con argomenti scientifici, citazioni di filosofi e passione di missionario. A volte cede a qualche venatura new age, o a quella “pappa del cuore” che copre come una glassa umanitaria il cinismo del nostro tempo. Torna più lucido quando parla con realismo dell’intelligenza artificiale, delle sue possibilità e dei suoi limiti. A differenza del robot noi abbiamo coscienza, comprensione dei fenomeni, siamo creativi; ma soprattutto la forza che ci muove è l’amore, mentre nessuna I.A. è mossa da amore, è in grado di amare né di generare amore. Faggin chiama Nousym il ponte tra scienza e spiritualità, sintesi di mente e simbolo.
Torniamo alla domanda iniziale: non troveremo mai una risposta certa e definitiva. Però sappiamo che per trovare il cammino e per dare un senso alla ricerca, dobbiamo rimettere insieme le sette vie: il mito, la religione, il pensiero, l’arte, la scienza, la storia e la biologia, senza saltarne nessuna.

 Marcello Veneziani

Se gli spot superano la realtà. La parità di genere nelle nuove pubblicità dei detetersivi…

In un periodo in cui, da ogni parte, sembra sgretolarsi la certezza di diritti conquistati da parte di noi donne, finalmente una buona notizia.

Stavo guardando la televisione, ieri, e sono rimasta piacevolmente sorpresa alla vista di due spot pubblicitari. Si tratta di un famosissimo detersivo per il bucato. Ebbene, nel primo spot, una giovane donna si appresta ad uscire di sera, tutta in ghingheri. Si avvicina al marito che tiene in braccio un bambino piccolo. L’uomo dà per un attimo il bimbo in braccio alla madre dicendo “saluta la mamma” e il piccolo fa un rigurgito che compromette il vestito di lei. La donna si cambia e comunque esce. Il marito fa il bucato di corsa, asciuga a e stira il vestito. Quando, a fine serata, la donna rientra a casa, trova l’uomo appisolato sul lettone con il bambino sulla pancia e il vestito appeso e pulito.

Nel secondo spot, c’è invece un uomo anziano che prepara con cura le divise di una squadra sportiva. Anche lui lava, stira e con orgoglio ripone questi abiti negli spogliatoi. Quando finalmente entra la squadra, scopriamo che si tratta di atlete donne: tante ragazze accudite da un uomo.

Io ho trovato questi spot un passo avanti enorme. Sono lo specchio della realtà? Sicuramente no. Non credo, ad esempio, sia così diffusa una coppia paritaria come quella mostrata, ed è proprio il motivo per cui c’è bisogno di esempi come questi, che, in modo subliminale, propongono un modello nuovo. La strada è in salita, ma almeno abbiamo iniziato a camminare

Barbara Gubellini.                                                                                                             imagespapà