Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

“I Giusti”, una poesia per tutti coloro che non contano nulla, ma valgono un tesoro.

 

“I giusti “(Los Justos) di Jorge Luis Borges è un vero omaggio a tutti gli anonimi del mondo, i veri “grandi” della Terra ,che meriterebbero che la vita, la più grande ingiustizia del mondo, riservasse per loro una certa riconoscenza, ma soprattutto rispetto. In questo mondo dove esiste solamente più la continua caccia al successo e alla fama, dove è quasi d’obbligo l’esibizionismo, il testo di Jorge Luis Borges appare di una contemporaneità esagerata. Sono molti che vivono il mito di “saranno famosi” e i dilettanti allo sbaraglio, affollano tutti i contenitori televisivi alla ricerca di talenti , come pure i social , nei quali il numero di personaggi disposti a tutto pur di essere considerati “Influencer” è stato fin’ora esorbitante-

     I giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un’etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina, che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

Jorge Luis Borges

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Dopo che abbiamo perso di vista le cose che veramente contano nella vita, i riflettori ci rimandano una sterile superficie di nullità.
Jorge Luis Borges rende dignità a coloro che credono e si impegnano a favore della conoscenza e delle emozioni vere, quelle che arrivano dai “sensi”, dal cuore ; esalta coloro che credono alla generosità e all’altruismo. Sono tanti coloro che tutti i giorni dedicano la loro vita al servizio degli altri e altrettanti che hanno fede nel rispetto, nell’ascolto, nella tolleranza, nell’accettazione dell’altro. Sono questi “I giusti” per Borges, coloro che a disprezzo della vita matrigna , riescono ad essere eroi agli occhi dei pochi, che vivono ancora in questa meschina realtà di ogni giorno, quasi senza speranza e un futuro credibile.

 

L’astronave…o il mondo dentro.

 

L’astronave
Tutti abbiamo un mondo dentro
e tutti sopportiamo la solitudine
dire che dentro di me
ci sono solo molle e legno
è come dire che dentro di voi
ci sono solo cuore fegato o polmoni.
Assisto non impassibile
a vite complesse o frantumate
assorbo discorsi irascibili
o promettenti ma
in questa casa insonne
io sono l’astronave.
Tra le mie strutture a piume
reggo una bambina la nascondo
la porto in alto mare
e in cielo profondo
è un’esperta di derive
di cunicoli scavati nella sostanza
della notte, la conservo tra i cuscini
come un’improvvisa sobrietà.
In questo viaggio di allontanamento
lo so lei sogna
qualcuno che oltrepassi la distanza
senza nulla da offrire
una faccia che tramonti
e si lasci guardare,
una protezione terrestre.
Di forte la bambina
ha solo le spalle
e pensieri che danno alla notte
sonagli di sapienza.
In questa marcia di avvicinamento
stupisco di una confidente intimità
senza pentimenti e saggio
la mia flessibilità
non sotto il peso di una bambina
ma di un dolore
pari a quello di un adulto
ma senza mondo.
Io sono un sofà
che conduce a una visione
aperta
su voi bestemmiatori degli oggetti
ospitando
una ferita di notte polare
in completa nudità.
Chandra Livia Candiani

 

mondo dentro

L’apparire inganna te stessa ,prima degli altri…

 

Tu non sei i tuoi anni,
nè la taglia che indossi,
non sei il tuo peso
o il colore dei tuoi capelli.
Non sei il tuo nome,
o le fossette sulle tue guance,
sei tutti i libri che hai letto,
e tutte le parole che dici
sei la tua voce assonnata al mattino
e i sorrisi che provi a nascondere,
sei la dolcezza della tua risata
e ogni lacrima versata,
sei le canzoni urlate così forte,
quando sapevi di esser tutta sola,
sei anche i posti in cui sei stata
e il solo che davvero chiami casa,
sei tutto ciò in cui credi,
e le persone a cui vuoi bene,
sei le fotografie nella tua camera
e il futuro che dipingi.
Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.

Poesia attribuita a Ernest Hemingway

 

donna arancio

La bellezza della saggezza che viene dalla semplicità…

Questo meraviglioso autoritratto, un affresco in cui la grande poetessa Anna Achmatova racconta sé stessa attraverso la frugalità del quotidiano. “Ho appreso a vivere semplice e saggia“, racchiuso  nella raccolta del 1914 “Rosario“, ci trasporta in un mondo di cose semplici, in cui l’angoscia esistenziale si trasforma in dolce malinconia grazie alla partecipazione della natura.

Ho appreso a vivere semplice e saggia
“Ho appreso a vivere semplice e saggia
a guardare il cielo, a pregare Iddio,
e a vagare a lungo innanzi sera,
per fiaccare un’inutile angoscia.

Quando nel fosso freme la lappola
e il sorbo giallo-rosso piega i grappoli,
compongo versi colmi di allegria
sulla vita caduca, caduca e bellissima.

Ritorno. Un gatto piumoso mi lecca
il palmo, fa le fusa più amoroso,
e un fuoco vivido divampa al lago
sulla torretta della segheria.

Solo di rado un grido di cicogna,
volata fino al tetto, squarcia il silenzio.
E se tu busserai alla mia porta,
mi sembra, non sentirò nemmeno”.

Anna Achmatova

Quando si comprende il miracolo della vita

Nella sua poesia, nella traduzione curata da Michele Colucci, Anna Achmatova ritrae sé stessa, ancora giovane e ignara delle sofferenze che sarà costretta ad attraversare. Nei versi   ci toccano delicatezza, sensibilità, malinconia ma,  più di tutto, il  senso  languido di abbandono che caratterizza l’uomo quando si rende conto di essere un piccolo ingranaggio del sistema universo. La semplicità e la saggezza di cui ci parla Anna Achmatova passano per il cielo e la preghiera, per la flora che sa di infinito in confronto alla nostra fugacità, per la tenerezza della fauna, per il fuoco che illumina e scalda… Achmatova coglie il prodigio della natura, semplice e saggia  , mentre pare che briciole di eternità  ci cadano addosso come  le gocce leggere di una pioggia di primavera .

passeggiataal tramonto

Prima di me non sono geloso…

Sempre – Pablo Neruda

Prima di me
non sono geloso.
Vieni con un uomo
alla schiena,
vieni con cento uomini nella tua chioma,
vieni con mille uomini tra il tuo petto e i tuoi piedi,
vieni come un fiume
pieno d’affogati
che trova il mare furioso,
la spuma eterna, il tempo!
Portali tutti
dove io t’attendo:
sempre saremo soli,
sempre saremo tu ed io
soli sopra la terra
per iniziare la vita!

 

jack vettriano

Elegia___Jack Vettriano
Siempre   Pablo Neruda

Antes de mí
no tengo celos.
Ven con un hombre
a la espalda,
ven con cien hombres en tu cabellera,
ven con mil hombres entre tu pecho y tus pies,
ven como un río
llena de ahogados
que encuentra el mar furioso,
la espuma eterna, el tiempo!
Tráelos todos
adonde yo te espero:
siempre estaremos solos,
siempre  estaremos tú y yo
solos sobre la tierra
para comenzar la vida.

L’amore non è già fatto. Si fa.

 

L’amore non è già fatto. Si fa.
Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, cucire.
Non è un appartamento “chiavi in mano”,
ma una casa da concepire, costruire,
conservare e spesso riparare.
Non è vetta conquistata, ma partenza dalla valle,
scalate appassionanti,
cadute dolorose nel freddo della notte
o nel calore del sole che scoppia.
Non è solido ancoraggio nel porto della felicità
ma è un levar l’ancora, è un viaggio in pieno mare,
sotto la brezza o la tempesta.
Non è un “si” trionfale,
enorme punto fermo che si segna fra le musiche,
i sorrisi e gli applausi, ma è una moltitudine di “si”
che punteggiano la vita,
fra una moltitudine di “no”
che si cancellano strada facendo.
Non è l’apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente
e lungo tragitto di fiume dai molteplici meandri,
qualche volta in secca, altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

 

Michel Quoist

love puzzle

La polvere del passato…

 

Ogni tanto colgo
attimi di gioia,
soavi come musica senza tempo,
leggeri,
come tenui fiori,
profumano ancora
d’amore e luce.
Dalle pieghe polverose del vissuto
emergono
un attimo appena,
riscaldando ancora
il mio cuore strappato,
prima di scomparire
soffocati dal dolore,
che lentamente sfuma,
anch’esso avviato
nello scorrere del tempo
che crea il passato.

 

Lucia Tiziana Mignosa

 

Dalle pieghe

 

Sei poeta e ami il tuo paesino? Sei violento.

 

Voi non potete immaginare a che punto sta arrivando il regime di sorveglianza che si sta imponendo giorno dopo giorno nella nostra vita quotidiana, a cominciare dalle pieghe più marginali dei social. Devo raccontarvi un’esperienza, personale e non solo, che ci dice dove porta la demenza dell’Idiozia Artificiale (chiamata stupidamente Intelligenza Artificiale) ibridata all’ideologia woke. Dunque, è stato ripreso sulla mia pagina Facebook e sugli altri social (Instagram, Telegram, Tweet) un mio articolo uscito mercoledì scorso su Panorama, La poesia dei paesini perduti, in cui raccontavo l’impegno del poeta Franco Arminio in difesa dei piccoli paesini in via d’estinzione. Un piccolo atto d’amore verso le minuscole comunità locali, scritto con tenerezza e nostalgia verso quel piccolo mondo antico che rischia di scomparire. Ma il blog è stato censurato su Facebook e dintorni perché, leggo testualmente: “La nostra tecnologia ha mostrato che questo post è simile ad altri che violano i nostri Standard della community in materia di contenuti forti e violenti. Non consentiamo alle persone di condividere contenuti che mostrano violenza esplicita”.
Se c’è un mio scritto dolce e disarmato, dedicato a un poeta e all’amore per il proprio paesino, senza nemici, che non polemizza con nessuno, è questo.
Dopo essermi scervellato a capire cosa il demente sotto falso nome che si fa chiamare algoritmo può aver ravvisato come violento, sono arrivato a questa conclusione. Ad un certo punto, condividendo l’appello accorato del poeta Arminio a non abbandonare i paesini d’origine ma anzi a ripopolarli, ho scritto: “Tornate al vostro paese…cominciate la migrazione al contrario”. Questa frase, estrapolata dal contesto dei piccoli paesi del sud abbandonati dai suoi abitanti, è stata letta presumibilmente come un appello, anzi un avvertimento, ai migranti a tornare a casa loro. Tesi e opinione che reputo peraltro legittima, ma che non c’entra affatto con quello che scrivevo e sostenevo.
Vedete a che punto arriva l’automatismo della tecnica, combinato con l’input ideologico e intollerante di chi ne dovrebbe controllare i contenuti?
Da che parte sta la violenza se non nella censura e nel definire violento ciò che è esattamente il contrario, un atto d’amore verso le origini di ciascuno di noi?
Peccato, peccato pasquale. Devo dirvi che avevo in mente di scrivere per stamattina un articolo pasquale di fiducia e di speranza nella resurrezione civile e spirituale, nonostante tutto. Pensavo di scrivere una riflessione sulla necessità di predisporsi in modo positivo e propositivo, di non abbandonarsi all’accidia e allo scontento generale, non sentirsi alla fine del mondo o dell’umanità; ma di preparare il terreno alla fiducia che altre pasque verranno, non sarà l’apocalisse. Una riflessione che avrebbe cercato di vedere i lati buoni nel nostro tempo, confidando nella forza della realtà, della natura, delle cose che sono, rispetto alla tentazione di consegnarsi a tutto ciò che li nega.
Ma questa inquietante intrusione, cieca e ottusa, ha avvelenato il proposito pasquale, e mi ha fatto desistere. La spirito di negazione, ancora una volta, ha prevalso, con la forza dell’anatema, sull’amore per la realtà, per la vita vera, per i sentimenti più genuini.
Non è la prima volta che succede, e mi succede. Basta una parolina, un contenuto appena non allineato al mainstream, e subito bloccano, frenano, nascondono i tuoi liberi pensieri anche se sono ponderati, rispettosi, mai offensivi verso nessuno. Da tempo ha più difficoltà la circolazione dei blog.
Aggiungo tre cose che rendono questo pur piccolo episodio ancora più amaro. La prima è che non puoi nemmeno protestare con qualcuno, non sai a chi e come rivolgerti: nel regno dei social e dei gestori tutto si svolge in modo anonimo, impersonale, automatico, non puoi ricorrere a nessuno che ti ascolti, che riconosca l’errore e il danno e che ponga rimedio e faccia pubblica ammissione di aver sbagliato. La seconda è che probabilmente, anche questa mia reazione di protesta, stavolta energica, alla stupida, vergognosa censura sarà a sua volta censurata dai tecno-aguzzini automatici che veicolano i social.
La terza, più generale, è che da tempo denunciamo sulle colonne de la Verità e non solo, la deriva della dittatura woke e le quotidiane violazioni e limitazioni alla libertà di opinione, molti condividono la nostra denuncia (anche in questo caso molti mi hanno scritto riferendomi della censura); ma non succede niente, non cambia niente, la marcia della faziosa stupidità prosegue imperterrita, dagli Usa a casa nostra. E ogni giorno si aggiunge un piccolo tassello alla grande muraglia del Divieto Ideologico Globale.
Pensate infine che con la minore diffusione dei giornali, la crisi spaventosa delle edicole, rischiamo di non avere più un’informazione controbilanciata, ovvero la possibilità di denunciare questi abusi e avvertire il pubblico di questo progressivo scivolamento nel conformismo coatto. Tendono a eclissarsi le fonti alternative d’informazione, critica e cultura; esattamente come la chiusura o la sorveglianza punitiva dei social rischia di tappare la bocca a tanta gente che si rifugia nei social per ripararsi dagli altri media, espressioni di poteri e fonti di opinioni prefabbricate. Stiamo tra l’incudine e il martello, insomma. E con questo ho chiuso. Buona colomba a tutti, se l’augurio non configura un contenuto violento nei confronti dei volatili e del gender, con eventuali allusioni erotiche di tipo sessista.

 Marcello Veneziani                                                                                                         

La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.