Ecco Mindy, l’uomo del futuro creato in laboratorio. L’evoluzione dell’uomo in questi anni di tecnologia sfrenata, che ormai è diventata irreversibile.

Una compagnia americana ha creato un modello in 3D per prevedere l’evoluzione dell’essere umano deformato dell’uso eccessivo di smartphone e computer

Gobbi, con un cervello da «primitivi» e gli «artigli da texting». Così saremo tra meno di mille anni, deformati dall’eccessivo uso degli smartphone e dei computer. A immaginarci nel 3000 è una ricerca commissionata dalla compagnia americana TollFreeForwarding, che ha creato Mindy, una riproduzione in 3D che può sembrare una creatura aliena, ma in realtà altro non è che l’uomo del futuro, la cui struttura ossea e muscolare è deformata dall’utilizzo di questi device e adattata al loro impiego.

Secondo la ricerca, la schiena progressivamente perderà la sua linea a “s” per consentirci una notevole elasticità nei movimenti e assumere una curvatura che spingerà la parte alta del busto, le spalle e la testa più avanti rispetto all’asse del bacino: una gobba o una curva a “c”, la si potrebbe definire, frutto della inevitabile tendenza a piegarsi verso i dispositivi di lavoro e svago.

Un’altra delle deformità immaginate più evidenti sarà quello che è stato definito l’«artiglio da texting», che descrive la posizione che assume per ore ogni giorno la nostra mano: la forma di un artiglio per sorreggere lo smartphone. Gli umani del futuro potrebbero anche avere gomiti stabilmente flessi per effetto della posa che il nostro arto assume nel sorreggere un telefono per una chiamata o per navigare sul web.

E più «primitivo» sarà anche il cervello, le cui dimensioni si ridurranno per effetto di uno stile di vita sempre più sedentario: che il suo funzionamento sia connesso all’attività fisica lo dimostrano già oggi diversi studi, come quello condotto dall’Università dell’Illinois, secondo cui i bambini di due anni che spendono meno di un’ora al giorno davanti ad apparecchiature elettroniche e fanno esercizio quotidiano mostrano capacità cognitive superiori rispetto agli altri.

Allo stesso tempo, l’uomo del futuro potrebbe ritrovarsi con una calotta cranica più spessa della nostra, come autodifesa  dalle onde elettromagnetiche provenienti dallo smartphone, che la maggior parte delle persone, non utilizzando le tanto raccomandate cuffie bluetooth, sorregge a pochi millimetri dall’orecchio e quindi dalla testa.

Anche l’occhio vorrà la sua parte: tra 800 anni, infatti, sviluppando meccanismi di difesa alla prolungata esposizione alla luce blu prodotta dai device digitali, che è nociva, come hanno provato studi recenti, per la qualità del sonno ed è frequentemente causa di disturbi come cefalee e indebolimento della vista. Così, fra qualche secolo, potremmo ritrovarci con «la palpebra interna più estesa per prevenire l’esposizione a una luce eccessiva, o la lente dell’occhio potrebbe evolversi così da bloccare la luce blu ma non altre ad alta lunghezza d’onda, come la verde, la gialla e la rossa», ha spiegato Kasun Ratnayake dell’Università dell’Illinois. Ma i «creatori» di Mindy si sono spinti oltre, dotandola di una impressionante seconda palpebra.

Se «perle modificazioni antropologiche conseguenti all’uso delle apparecchiature digitali ci vorranno secoli, le problematiche funzionali sono già da diversi anni sotto i nostri occhi» ha aggiunto Andrea Camilli, osteopata milanese iscritto al Registro degli osteopati d’Italia. «Già l’uso sempre più intensivo del pc nei luoghi di lavoro aveva determinato l’insorgere di patologie riguardanti collo, spalle e arti come la cosiddetta “triade del mouse”, ossia tendinite alla spalla, al gomito e tunnel carpale».

«Ma i soggetti trattati sono 40-50enni con diversi anni di lavoro alla scrivania – ha spiegato –, mentre oggi abbiamo pazienti in età adolescenziale, dai 14-16 anni, che già lamentano problemi di cervicale. Da questo punto di vista – ha concluso Camilli – l’utilizzo degli smartphone ha effetti persino peggiori del pc, perché induce a una postura inclinata in avanti e a una progressiva perdita di curva della parte alta della spina dorsale».

Lo scienziato che scoprì la coscienza e la natura spirituale dell’universo

 

 Irriducibile è un saggio che Federico Faggin  pubblica da Mondadori e che  qui ci viene raccontato da Marcello Veneziani, dopo l’attenta analisi, che solo un bravo scrittore come lui sa fare. L’indagine dell’autore sulla spiritualità dell’universo è uno studio metafisico oltre le realtà alle quali è abituato un’inventore di innovazioni, che ci hanno cambiato la vita ,e che tuttavia tende a mostrarci qualcosa di  forse troppo semplice,che tuttavia  superava  ogni immaginazione fino a quando la scienza ha detto la sua.
  
 Questa è la storia del principale inventore italiano vivente, padre del microprocessore, del touch screen, dei telefoni precursori dello smartphone e della tecnologia digitale, che a un certo punto ebbe una crisi spirituale, ripudiò il materialismo e lo scientismo e scoprì che l’uomo è irriducibile a una macchina o un computer, irriproducibile e insostituibile da un robot, un algoritmo o dall’intelligenza artificiale. E la coscienza esiste davvero, come il libero arbitrio e la nostra identità spirituale, mentre il materialismo ci conduce in un vicolo cieco. Sto parlando di Federico Faggin, vicentino, 81enne, che vive in America dal 1968. Suo padre Giuseppe era un grande studioso di filosofia e di Plotino, di cui curò le Enneadi; Federico invece preferì studiare da perito tecnico, con grande delusione del padre. Appena diplomato entrò nella Olivetti, si laureò in fisica, partì per gli Usa e da lì iniziò la sua attività d’inventore e imprenditore. Grandi scoperte, grandi successi, a partire dal primo microprocessore al mondo; ma era inquieto e scontento, in crisi. Fino a che nel Natale del 1990 al lago di Tahoe, Faggin in una notte avvertì, lui dice, “una fortissima energia irradiarsi dal suo petto” e da allora intraprese un cammino spirituale di conoscenza e di autoconoscenza, intrecciandolo con la ricerca scientifica. Il suo sogno era dimostrare che il mondo non è frutto del caos, del caso, degli atomi e di un “orologiaio cieco” ma di “enti coscienti che esistono da sempre”. Il risultato che ne derivò dopo lunghi anni di studi fu la scoperta della coscienza e del suo regno, tra creatività, libero arbitrio, emozione e consapevolezza di sé. A questo suo itinerario di scienza e di pensiero, Faggin ha dedicato ora un libro, Irriducibile (edito da Mondadori). Da studioso di pensiero e cercatore spirituale ho trovato questo libro entusiasmante; riconcilia con la vita, con la morte, col mondo e con la scienza. Provo a dire in sintesi e da profano i risultati della sua ricerca.

Faggin mostra “la natura spirituale dell’universo”; la materia è fatta di energia vibratoria, una cellula è ben più di un miscuglio di atomi e molecole. Il materialismo riteneva che tutto ciò che esiste sia prodotto dall’interazione di atomi e molecole, vecchia concezione della fisica superata ormai dalla fisica quantistica. Per il biologo secentesco Francesco Redi “Omne vivum ex vivo” e come un vivo nasce solo da un vivo (non può nascere da una macchina) così la coscienza non può sorgere da organismi che ne sono privi. Evoluzionismo impossibile.

Faggin smonta il riduzionismo, il determinismo e il meccanicismo. Non è la matematica a creare il mondo; dentro di noi, oltre i modelli computazionali e meccanici ci sono le emozioni, il pensiero creativo, il coraggio, l’empatia, la libertà e l’esperienza. Il computer non ha comprensione delle situazioni, come la scelta etica non può derivare dall’algoritmo; il pc è una creazione umana, le sue idee sono quelle di chi lo ha programmato, è solo un amplificatore delle nostre capacità mentali ma soltanto di quelle meccaniche. Nessun Pc partorirà un Pc.

Chi induce a negare la natura spirituale, il libero arbitrio e le identità compie “un crimine contro l’umanità” che “porta all’eliminazione dei valori umani”. Vivere è conoscere, dice Faggin: la coscienza, attraverso l’esperienza fatta di qualia, che sono poi le sensazioni e i sentimenti, comprende il mondo. La nostra intelligenza non calcola ed elabora dati ma è “intuizione, immaginazione, creatività, ingegno e inventiva; e lungimiranza, visione, saggezza. Empatia, compassione etica e amore”. La miglior definizione del tutto è che siamo “cuori intelligenti” (Alain Fienkelkraut). Noi non siamo solo il nostro corpo mortale: quando si separa da noi la nostra essenza, o seity, torna all’Uno; il giorno della morte diventa, come diceva Seneca, il giorno della nascita all’eternità (dies natalis).

Facciamo parte di un’unica sostanza universale, dice Faggin con Giordano Bruno, e col poeta iraniano Rumi: “Non sei una goccia nell’oceano, sei l’intero oceano in una goccia”. Dentro di noi e in ogni cellula c’è l’universo intero. Una visione antica confermata dalla ricerca recente. Nella nostra esistenza, sostiene il neurofisiologo John C. Eccles, c’è un mistero inspiegabile in termini materialistici, il nostro senso di libertà non è illusorio, il cosmo non gira senza senso ma fa supporre un grande disegno. Occorrono, dice il matematico Roger Penrose, “idee nuove e potenti, che ci conducano in direzioni significativamente diverse da quelle attualmente seguite”. Una vera rivoluzione dell’intelligenza in rapporto al mondo.

C’è un filo sommerso, biografico e filosofico, nelle pagine di Faggin: un filo che parte da quando il fisico voltò le spalle a suo padre e alla filosofia, facendosi perito tecnico. Poi le scoperte, i successi, la crisi e l’illuminazione. Tutta la ricerca che ne seguirà è, chissà se consapevolmente, sulle tracce del pensiero metafisico di Plotino, passione paterna. Compresa l’illuminazione di quella notte e il suo “fuoco interiore” che somiglia alle estasi plotiniane. Ho trovato Plotino e Platone in tante sue tesi, dal ritorno di tutto all’Uno, da cui “in realtà non si è mai mosso” alle idee generali che precedono ogni creazione, dalla visione olistica dell’universo in cui tutto è collegato a tutto, anche a distanza, all’idea che siamo esseri spirituali imprigionati temporaneamente in un corpo. Alla fine Faggin cita Plotino: ”Ricondurre il divino che è in noi al divino che è nell’universo”. Mi sono commosso pensando al sorriso postumo di suo padre, studioso di Plotino. In suo figlio tornano le intuizioni di quel pensiero visionario che ora la scienza va confermando, con la relatività generale e la meccanica quantistica. E il Fisico tornò al padre, il Metafisico.

Il Krill,piccola e immensa magia degli oceani..

Il krill,la spina dorsale dell’ecosistema marino su un polpastrello.

Il krill può essere minuscolo di statura,ma gioca un gigantesco ruolo nell’oceano. Al Cordell Bank National Marine Sanctuary, l’enorme sciame di questi piccoli crostacei si rivela una fondamentale fonte di cibo per molti animali marini. Le enormi popolazioni di Krill sono la spina dorsale di molti ecosistemi oceanici, poichè sono fonte di nutrimenti fondamentali per  una molto vasta gamma di specie come  le foche, le balene molti pesci e anche uccelli marini.

Credit: Sophie Webb

krill

Sarà il caldo di quest’anno, ma non ricordo notti piene di lucciole come queste che si vivono ora…

 

L’estate è nel pieno del suo fulgore, il che significa che siamo in piena stagione di lucciole. In tutto il mondo esistono più di 2000 specie conosciute di lucciole e la maggior parte di esse comunicano secondo schemi di luci intermittenti. Come fuochi d’artificio della natura, esse illuminano le notti con le loro bioluminescenze. I loro segnali hanno lo scopo di trovare ed attrarre i loro compagni, riconoscere altre specie di lucciole ed evitare i predatori. La luce prodotta dalle lucciole è il risultato della miscelazione di un cocktail di due elementi chimici :la luciferina e la luciferasi,  che condensano in un organo che funziona come una lanterna.

lucciole

La pianta del futuro che può crescere (quasi) ovunque…

Si chiama Schrenkiella parvula ed è una pianta che vive in condizioni estreme: la stanno studiando per capire se è possibile riprodurne le caratteristiche in altre specie. La Schrenkiella parvula vive sulle sponde del Lago Salato, in Turchia, dove il terreno ha una salinità altissima.  Le piante estremofile prosperano in condizioni di stress che ucciderebbero la maggior parte delle specie botaniche che conosciamo, come un’elevata salinità, acidità o aridità del terreno. Un gruppo di scienziati di Stanford sta studiando la Schrenkiella parvula, una pianta estremofila della stessa famiglia della senape, per scoprire come faccia a prosperare in condizioni estreme come quelle del Lago Salato in Turchia, dove la concentrazione di sale è sei volte superiore a quella dell’oceano. «La maggior parte delle piante quando si trova in condizioni di stress produce un ormone che agisce dando un segnale di stop alla crescita», spiega José Dinneny, uno degli autori. «Nel caso della S. parvula, invece, l’ormone agisce al contrario, dando il via libera alla crescita».

LA PIANTA CHE SOPRAVVIVE ALLA SICCITÀ. L’intento dei ricercatori è comprendere il meccanismo che rende la S. parvula così resistente per poterlo riprodurre in altre piante e, in futuro, coltivare specie resistenti a terreni di bassa qualità danneggiati dai cambiamenti climatici. Nelle zone dove ci si aspetta che il clima faccia aumentare l’intensità e la durata della siccità, ad esempio, sarebbe utile poter coltivare delle piante che sopravvivano con pochissima acqua. Quando le piante si trovano in condizioni estreme producono un ormone chiamato acido abscissico (ABA), che attiva a sua volta dei geni specifici che indicano alla pianta come comportarsi. Nella maggior parte delle piante, la produzione di ABA fa sì che la crescita rallenti o si blocchi; nel caso della S. parvula, succede invece il contrario.

NON SOLO CIBO. Svelare il meccanismo che determina l’alta resistenza della S. parvula non servirebbe solo per modificare piante destinate a produrre cibo, ma anche specie dai semi oleosi che possono essere utilizzate come risorse sostenibili di biocarburanti. Se riuscissimo a coltivarle in condizioni ambientali estreme, avremmo molti più terreni nei quali farle crescere: «Dove non possiamo coltivare cibo, potremmo coltivare piante bioenergetiche», sottolinea Dinneny, che spiega come in questo modo verrebbero recuperati e messi a frutto appezzamenti di terreno altrimenti abbandonati.

                                                                fonte:Focus

                                                                                                                                    lago-salato-turchia_1020x680

 

 

In Siberia la volpe è domestica- Prossimamente farà compagnia a chi lo vorrà-

Scegliendo gli esemplari più docili per poi farli accoppiare, settant’anni fa un genetista russo ottenne, in poche generazioni, una specie simile al cane. La sua incredibile storia ora in un libro.

Il nome del genetista russo Dmitrij Beljaev è rimasto a lungo escluso dalle cronache scientifiche. Eppure la sua vicenda è incredibile: inizia in Unione Sovietica quando Stalin dichiara la genetica “sovversiva” e chiunque osi occuparsene rischia la vita. Beljaev, però, era particolarmente ostinato. E, soprattutto, ossessionato da uno dei misteri dell’evoluzione: come ha fatto un predatore feroce come il lupo a trasformarsi in un animale da compagnia come il cane? Per scoprirlo, congegnò un esperimento al limite tra scienza e fantascienza: prendere un parente genetico del lupo, la volpe, e provare a riprodurre empiricamente il processo di domesticazione. In sostanza, questo scienziato visionario pensava di poter replicare in pochi decenni un fenomeno a cui erano occorsi centinaia di migliaia di anni.

La prova che non fosse pazzo si trova a Lesnoj, in Siberia, dove ancora oggi vive l’unica popolazione al mondo di volpi domestiche. Beljaev è morto nel 1985 con il rimpianto di non aver condiviso con il mondo la sua impresa: adesso ci hanno pensato Ljudmila Trut, la sua assistente, e Lee Alan Dugatkin, biologo e storico della scienza, in Come addomesticare una volpe (Adelphi), il primo libro che racconta questa storia per intero. Partendo da una premessa scientifica: tutte le specie domestiche hanno delle caratteristiche comuni, tra cui, oltre a una spiccata socialità, un cervello più piccolo e periodi riproduttivi più lunghi rispetto ai cugini selvatici, macchie sul corpo e sul muso e, in molte specie, orecchie flosce e coda arricciata. Ma in che modo la domesticazione ha indotto tutti questi cambiament

Il pretesto della pelliccia
Beljaev era convinto che fosse sufficiente selezionare un solo tratto – la docilità – per provocare una reazione a catena nella biologia delle specie. L’esperimento segreto ebbe inizio in un allevamento di volpi da pelliccia in Estonia, lontano delle autorità centrali sovietiche. Ai collaboratori, Beljaev diede poche istruzioni: a ogni ciclo riproduttivo avrebbero dovuto scegliere le volpi meno aggressive e farle accoppiare tra loro. In caso di domande, dovevano dire che l’esperimento serviva a migliorare la qualità delle pellicce. Dopo otto stagioni riproduttive, una dozzina di volpi scelte fra le più mansuete furono inviate a Lesnoj, in Siberia, per avviare un nuovo allevamento: le volpi erano appena più tranquille delle progenitrici della prima generazione. Per sovrintendere all’esperimento, Beljaev scelse una giovane etologa appena laureata all’Università di Mosca, Ljudmila Trut. “Ljudmila non aveva alcuna esperienza di volpi” racconta Lee Alan Dugatkin, “e quando si trovò davanti a quei “draghi sputafuoco”, come li chiamava lei, che ringhiavano e le si lanciavano contro, dubitò fortemente che si potessero addomesticare”.
Era il 1959. Eppure, una mattina del 1963, Trut si stava avvicinando a una delle cucciolate quando vide che uno dei volpacchiotti stava agitando energicamente la coda. Le volpi avevano iniziato a scodinzolare: un comportamento mai osservato in un animale diverso dal cane. Alla settima generazione, molte leccavano le mani degli sperimentatori e li salutavano con lo struggimento tipico dei cani, fatto di sguardi e guaiti. Alla decima, in alcuni individui comparvero le orecchie flosce e la stella bianca sulla fronte, tipica di cani, cavalli e mucche. Nel 1974, Ljudmila decise di trasferirsi in una casetta ai margini dell’allevamento per scoprire se uno degli esemplari più affettuosi, Pušinka, era pronta al grande salto: vivere in casa con degli esseri umani. “A eccezione di cani e gatti” dice Dugatkin, “le specie addomesticate non stabiliscono legami stretti con l’uomo. Quello tra uomo e cane è di gran lunga il legame più intenso. Ma perché è così diverso dagli altri? Forse perché si è creato in tempi molto lunghi? O, al contrario, non potrebbe essere emerso rapidamente, come tanti cambiamenti che Ljudmila e Beljaev avevano già osservato nelle volpi?”. Nel giro di qualche mese, il comportamento di Pušinka divenne quello di un cane. Un esempio? Una sera di luglio, mentre Ljudmila sedeva su una panchina davanti casa, si udirono dei passi; un attimo dopo sentì qualcosa che la lasciò senza fiato: Pušinka stava abbaiando. In più, rispetto alle volpi selvatiche, quelle di Lesnoj hanno bassissimi livelli di cortisolo, un ormone che regola l’aggressività e interviene sullo sviluppo di vari tratti fisici, come le orecchie pendule.

Atteggiamenti infantili
“L’ipotesi di Beljaev è che la domesticazione sia stata una “selezione per docilità”, con risultati simili agli effetti della selezione artificiale operata con le volpi: individui con livelli di cortisolo più bassi, e atteggiamenti più spensierati e meno aggressivi”. In una parola, infantili. Persino la capacità tipica dei cani di leggere le intenzioni umane, riscontrata anche in queste volpi, potrebbe dipendere da un tratto infantile: la grande attenzione che i cuccioli prestano alla madre.

Il mondo ha scoperto l’allevamento di Beljaev nel 1999, quando Ljudmila, senza più fondi per mandarlo avanti, pubblicò un appello su American Scientist, una delle riviste scientifiche più importanti degli Stati Uniti. A quel punto cominciarono ad arrivare donazioni da ogni parte del mondo. Ma anche scienziati. E le volpi di Beljaev sono state riconosciute dalla comunità scientifica internazionale come la prima e unica specie di volpe domestica.

Sul Venerdì del 13 maggio 2022_Giulia  Villoresi

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