L’epoca del trash in politica.

 

Dall’inizio dell’anno l’evento politico più importante che ha diviso media, politici, opposizione e governo, è un pistolino che ha sparato, inteso sia come arma che come persona. Se n’è parlato per giorni. L’episodio in sé non meriterebbe commento se non si inserisse in una lunga scia di dibattiti, talk show, conferenze stampa, interventi parlamentari e dichiarazioni su risvolti banali, episodi trascurabili, pettegolezzi, parole rubate o commenti filtrati nei social, piccole stupidità di piccoli esponenti politici elevati a categoria della politica, spie di una condizione generale, prove di chissà quale svolta autoritaria. Ogni caso privato, individuale e singolare, viene elevato a paradigma ed esempio rappresentativo. Disastro nazionale fu considerato per esempio la fermata straordinaria di un treno per consentire a un ministro di partecipare a una manifestazione pubblica. Minima sciocchezza a cui è stato dato Massimo Rilievo, quasi fosse il segno di un’epoca e la nascita di un regime.  Mi rifiuto di inseguire questa miserabile contabilità e di partecipare a quei dibattiti sul nulla; osservo che siamo entrati nell’età politica del trash. Il trash inteso come immondizia, avanzi indecenti della politica e della comunicazione.  Qualche anno fa serpeggiava il kitsch, il cattivo gusto, su cui scrissero mirabili pamphlet Hermann Broch e Gillo Dorfles; e di cui si occupò pure Milan Kundera. Eravamo ancora in uno stadio estetico, seppur deteriore; il trash è il passo ancora più in basso, nel volgare e nel banale. Il trash tracima e trascina verso il basso anche coloro che non ne sono veicoli. Diego Fusaro ha scritto un libro efficace intitolandolo Sinistrash (ed. Piemme), cogliendo in pieno da studioso di sinistra la deriva trascista della sinistra. Non è per cavalleria ma sento il dovere di aggiungere che il dominio del trash è in realtà trasversale: siamo nell’età politica del trash. E il tenore di quei dibattiti prima accennati ne è la spia. Non c’è solo la sinistrash o la destrash ma c’è anche il trash-show, gradino ulteriore del talk show; c’è la comunicazione trash, che copre i vuoti lasciati dalla cultura, dalle idee, dalle analisi. Ci sono gli influencer trash, anche se dettano le mode, e si potrebbe a lungo continua . Il trash è il rifiuto organico di quel che un tempo erano i temi e i valori politici. Anche del comunismo e del fascismo restano solo i cassonetti del trash o se volete le loro parodie; trash per esempio è l’Anpi senza fascismo e senza partigiani veri; è come se a destra rifondassero oggi l’opera nazionale combattenti e reduci, in assenza di guerre e milizie al fronte. Cinquant’anni fa Pasolini giudicava l’antifascismo postumo come “ingenuo o stupido, pretestuoso e in malafede; perché dà battaglia o finge di dar battaglia a un fenomeno morto e sepolto”, “un antifascismo di tutto comodo e riposo”. Per Fusaro la sinistrash ha abbandonato la sua identità sociale e socialista, la sua critica al capitalismo e la sua difesa dei deboli, dei poveri, del popolo, per diventare fucsia, arcobaleno; insegue le nuove soggettività, tra migranti, verdi, lgbt; ravana tra gli avanzi del sessantotto libertario e permissivo, su sesso, droga e narcisismo; dimentica il noi comunitario e ogni prospettiva ideale; mette il rossetto a Che Guevara, diventa il braccio politico del capitalismo e del pensiero unico. Si trincera dietro un morto sepolto, il fascismo, che eleva a nemico assoluto; segue nella sua demofobia il neoliberismo e ne diventa la guardia bianca o il maggiordomo. Analisi da condividere, soprattutto in tempo della cappa. Pochi si rendono conto della deriva a sinistra; tra questi Fusaro cita Luca Ricolfi, Federico Rampini e pochi altri, e altri rari casi cita sul versante destro. Nel passato si richiama a Pierpaolo Pasolini e a Costanzo Preve, ma anche ad Augusto del Noce e più di recente ad Alain de Benoist.   Pochi anche tra coloro che mantengono uno spirito critico su posizioni liberali; tra i rari casi è giusto citare Dino Cofrancesco che nel suo recente Per un liberalismo comunitario (ed. La Vela) critica l’individualismo liberista che giudica “l’identitarismo il peccato mortale del nostro tempo” e dissente dall’”assolutismo etico” che ispira la cancel culture nel nome del neoilluminismo, applicando l’inaccettabile “principio della retroattività in fatto di morale”. Cofrancesco oppone all’uguaglianza il pluralismo delle differenze, e avverte: il conservatorismo negato riemerge in forme barbariche. Notevole anche un’osservazione che andrebbe approfondita: “le destre hanno perso la partita in occidente, non in altre parti del mondo”.  Secondo Fusaro la sinistra è passata da Marx a Nietzsche; in realtà sembra passata, insieme con la sua epoca, all’ultimo uomo nietzscheano, abdicando verso il transumano nella prospettiva dell’intelligenza artificiale. Ma l’orizzonte, lo ripetiamo, è epocale e non solo riservato alla sinistra; anche se il woke, il politically correct e la cancel culture albergano in prevalenza a sinistra. Nelle società autoritarie, notava Spengler citato da Fusaro, “non era permesso a nessuno di pensare liberamente; ora sarebbe permesso ma nessuno ne è più capace”, pensa ciò che viene prescritto di pensare. Il trash è liberista in economia, centrista in politica e di sinistra in tema di costume e ideologia. Esecra il populismo, detesta la sovranità, rigetta ogni fedeltà identitaria, disconosce ogni tradizione e ogni legame naturale e sociale. Non riconosce più eroi, santi o grandi ma venera solo le vittime, o presunte tali, fino a fondare una religione del vittimismo universale, di genere e di categoria (vittimista a suo modo è anche la destra).  Fusaro confida in una “nuova connessione sentimentale” con le masse nazionali-popolari e non disdegna l’ipotesi di un populismo socialista. Lui è giovane e ha il diritto e il dovere di confidare nella storia ventura. Lo stadio trash, però, non è reversibile, è difficile immaginare che i rifiuti possano tornare integri e vivi; si può aspirare al più al compostaggio… Ma la storia, la vita, il mondo riservano sorprese, l’uomo a volte è imprevedibile. E talvolta nei rifiuti si ritrova pure un neonato abbandonato…

Marcello Veneziani 

 

Sulla Scala piovono bombe di idiozia…

Ma è possibile che nel dicembre del 2023, in un mondo così radicalmente cambiato, stravolto e smemorato, che non ricorda nemmeno quel che è successo pochi giorni fa, totalmente immerso in temi, problemi e scenari che non hanno precedenti, la piccola, spocchiosa setta degli intellettuali engagé non abbia nulla di meglio da fare che riproporre la questione del fascismo e dell’antifascismo? Prendete un caso esemplare, di uno che campa ormai da alcuni anni all’ombra del Ducione, Antonio Scurati – d’ora in avanti denominato S. – che si è buttato a corpo morto e mente delirante sulla carcassa del fascismo. Ha scritto l’altro giorno per la Repubblica un articolo sul fatto del giorno, ambientandolo in piena seconda guerra mondiale. Soffrendo di allucinazioni anche auditive, il suddetto si è chiesto se l’altra sera alla Scala di Milano, il presidente del Senato Ignazio La Russa (mai citato per nome e cognome, per non sporcarsi) “ha sentito il fragore delle bombe” lanciate dagli inglesi la notte del 15 agosto del ’43 e arrivate sul teatro, secondo lo S., addirittura la sera del 7 dicembre del 2023. Non ci è parso di vedere l’Innominato in agitazione per il bombardamento in corso, come d’altronde il pubblico restante e i suoi compagni di palco. Magari annoiati, pensierosi, ma non atterriti. Visto che ci siamo, noi invece abbiamo sentito udire dal loggione: “A morte Francesco Giuseppe!” Delirio per delirio…

S. si rifaceva all’inverosimile, surrettizia polemica sollevata dal grottesco sindaco di Milano, che chiameremo Scala senza c, per mantenere lo stile anonimo di S., sul palco reale e sulla presenza del presidente Innominato nel palco reale insieme con Liliana Segre (che citiamo per intero per non incorrere in accuse di antisemitismo). Come di fatto poi è avvenuto, senza carnefici o vittime, né risse o insulti. Anche perché la Segre e La Russa si conoscono e s’incontrano da tanto tempo, siedono nello stesso Palazzo. Gazzarre inverosimili, da teatrino dell’antifascismo più che da teatro della Scala, che possono infiammare solo la mente bacata di qualche maniaco depressivo. Gazzarre fuori luogo, fuori tempo, fuor di senno.  Peraltro in quel palco sono entrati senza obiezione alcuna, personaggi che hanno esaltato l’Unione Sovietica e i carri armati su Budapest e su Praga, per dirne solo uno, più recente. Per non dire di gente che si è sporcata le mani di sangue. E noi stiamo ancora facendo una questione del genere sull’innominabile presidente del senato, incuranti del voto democratico del popolo sovrano, della sua presenza trentennale nel parlamento italiano, dei ruoli già coperti di ministro della difesa, presidente di gruppo e ora di seconda carica dello stato, dopo regolari elezioni. Ma non solo: la questione antifascista viene sollevata proprio nel momento in cui tutti, dico tutti, se hanno un’obiezione da muovere a Giorgia Meloni e al suo governo è quella opposta di essere “camaleonte” e di aver frettolosamente messo a tacere ogni richiamo pur vago, non solo al nostalgismo e, per sposare toto corde l’atlantismo e l’europeismo, la linea Draghi e Zelenski, e abbracciare, come facevano in verità già ai tempi del Msi e di An, la causa d’Israele.  Di che cosa parliamo, tirando ancora fuori la vecchia storia del fascismo? Che attinenza ha con la vita, la realtà, il pensiero di oggi? Perché volete forzare l’ultranovantenne Segre a schierarsi contro un personaggio che ha il torto di provenire dalle fila di un partito in cui militava pure suo marito, candidandosi per giunta insieme all’Innominato? Ma soprattutto perché pensate che quel tema abbia qualche incidenza sul presente? Ma in che razza di mondo vivete, di cosa vi nutrite, cosa vi bevete e vi fumate, prima di sentire il rumore degli aerei su Milano a fine 2023, e magari l’odore di sangue di Piazzale Loreto ancora addosso? Ma avete una percezione vaga della realtà in cui viviamo, vi rendete conto che quella nefasta archeologia del demonio ha portato alla disfatta gli antagonisti della destra perché totalmente fuori contesto, suscitando ormai fastidio e sarcasmo nella gente comune? Se volete porvi problemi di ordine storico fatevi piuttosto la domanda opposta: come mai la gente non ha più memoria storica, come è possibile vivere cancellando la storia da cui proveniamo, non solo e non tanto quella di 80 anni fa, di cui i media parlano ogni santo giorno, ma quella più antica e quella più recente, quella plurisecolare e quella che ha formato il nostro essere italiani, europei, cristiani, cattolici, la nostra lingua, il nostro patrimonio d’arte e di opere, le nostre città e i nostri luoghi vitali?  Interrogatevi sulla scomparsa di ogni riferimento storico al presente, sempre più spaesato e disancorato, una cancellazione dovuta a svariate ragioni, inclusa anche una che vi ostinate a non capire: finché per voi la memoria storica è solo la memoria catastrofica del fascismo e dell’antifascismo, finché la storia è solo il sibilo di aerei che bombardano la Scala, la gente vorrà cancellarla, rimuoverla, dimenticarla. Anche perché è nauseata dall’overdose di somministrazione coatta che a partire dalla Rai, inclusa la Rai dell’era Meloni, viene inculcata alla gente notte e giorno.  Capisco che S. lo faccia per ragioni personali e commerciali, perché vuole passare per il biografo di M. (anche lui impronunciabile): un tempo avevamo come biografo uno storico come Renzo De Felice, ora dobbiamo sorbirci un esorcista allucinato come lui. Che conclude il suo pistolotto cacciando eroicamente i fascisti dalla Scala: “mai saranno di casa in questo tempio laico della cultura”. Eroico! S. svegliati, ti sei addormentato durante lo spettacolo nel ‘43, e hai dormito per ottant’anni. Ti sei perso il mondo, la vita, i tanti criminali e malfattori che sono entrati nella Scala, insieme a tanta brava gente. Ma del suo caso personale alla fine poco importa. Quel che sconforta è che il cosiddetto Partito della Cultura non riesce ancora ad andare oltre l’indignata invettiva contro un cadavere di cui non ci sono più neanche le ossa, tanto tempo è passato. Per restare in teatro, diremo come Ferrucci a Maramaldo: Vile, tu uccidi un uomo morto.

     Marcello Veneziani         

Identità, tradizione e negazione (spunti della relazione tenuta a Radici, festival dell’identità, da Marcello Veneziani)

 

L’identità è un bisogno radicale dell’animo umano. Un bisogno naturale e culturale, personale e comunitario, su cui si fonda il riconoscimento di sé e il rispetto dell’altro; vale anche l’inverso. Non c’è dialogo che non avvenga tra identità differenti; chi pretende di dialogare mettendo da parte se non addirittura cancellando le identità, rende inutile e impossibile il dialogo; non può esistere infatti un dialogo tra nientità neutre, intercambiabili.
L’epoca che stiamo vivendo è invece protesa a deprimere e vanificare le identità, a considerarle d’ostacolo alla pace e all’inclusione, residui tossici e contundenti di una chiusura al mondo. È un bombardamento dell’identità così vasto, costante e capillare; dall’alto, dall’interno e dal basso. Una cappa di obblighi, emergenze e disposizioni calata dall’alto, un’infiltrazione continua di modelli d’influenza ostili attraverso i media e le istituzioni, e un’affluenza massiccia di flussi migratori che producono alienazione, tensioni e disagio.
Il triplice attacco all’identità produce reazioni ostili di tre tipi principali: un rifugio introverso nel proprio habitat, un atteggiamento di rabbia e scontentezza verso l’esterno, una richiesta di protezione securitaria e insieme di rappresentazione identitaria. E’ quel che sta accadendo nel mondo, in Occidente, in Italia. Larga parte dei conflitti e del malessere che attraversano le società deriva dall’identità in pericolo, il mancato riconoscimento e rispetto di ciò che siamo, la desertificazione delle differenze, la vertigine del mondo globale e spaesato.
L’identità, tuttavia, non è inerte, solida come un macigno e inamovibile. L’identità entra nella storia, ed è comunque un essere nel divenire; il fluire dell’identità si chiama tradizione, che è un trasmettere in cui persistenza e duttilità cercano un punto di equilibrio. L’identità non presuppone un mondo immobile ma una società che sa mutare, ricordare, far tesoro dell’esperienza e del patrimonio ereditato ma anche affrontare le sfide del futuro. La tradizione non è immobilità o culto del passato ma continuità, procedere e tornare; e, mutatis mutandis, salvare quel che non merita di perire. Gioia delle cose durevoli.
L’avversario dell’identità e della tradizione non è dunque il progresso e l’avvenire, ma l’ideologia woke contro la realtà, la storia e la natura; e dai suoi derivati, a partire dalla cosiddetta cancel culture. E’ in corso un’aggressione capillare e pervasiva di tutto ciò che costituisce l’habitat naturale e culturale, biologico e storico della nostra civiltà; il senso religioso, i legami comunitari, le appartenenze affettive, il sentire comune dei popoli.
Chi colse per primo, agli albori della nostra modernità, la negazione del reale e dello spirituale, mediante un attacco al sentire comune, alla famiglia, al senso religioso e al legame territoriale, fu Giambattista Vico, a cui ho dedicato di recente la prima biografia . Vico oppose al dominante razionalismo ateo, e poi illuminista, del suo tempo e alla “boria dei dotti”, il richiamo alla civiltà e a ciò che la connota: la memoria storica e il ricordo delle origini, la tradizione, il linguaggio, la poesia ma anche la famiglia, il sacro, l’amor patrio. In quella visione che connetteva anziché separare o porre in antitesi mito e scienza, storia e pensiero, filosofia e religione, fisica e metafisica, Vico difendeva l’identità come principio di realtà.
Prefigurava tre secoli fa, quel che poi darebbe avvenuto, fino al rovesciamento della realtà, in base al quale, si denuncia la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia per non vedere la patriofobia, la teofobia e la famigliofobia, e più in generale l’odio e la vergogna per la propria civiltà e la sua storia, la sua vita, la sua natura e cultura. E’ una cancellazione sistematica e aggressiva di tutti i vasi sanguigni entro cui scorre la vita di un uomo; dalla famiglia alla natività e al ruolo genitoriale, dalla comunità cittadina alla comunità nazionale, dal lessico corrente ai simboli alle tradizioni in cui è nato e cresciuto agli stili di vita. In questo contesto degradato provate a immaginare dove possa finire la sua identità, l’identità di popolo e di sé persona. Ma poi quando allinei tutti questi fattori, quando metti insieme una demolizione dopo l’altra, ti accorgi che alla fine di te non resta niente, se non il dispositivo che ti fa dir di si, come una foca ammaestrata, per accedere al secondo gradino e poi al terzo, al quarto… O che ti punisce, ti priva di riconoscimento, se scegli una strada diversa. Resti spaesato, esacerbato, ma soprattutto disconnesso, perdi i contatti con le tue origini, la tua vita, il tuo mondo, vivi solo l’ebbrezza del transito. Perdi la libertà di essere te stesso nel miraggio di diventare tutto e il suo contrario, in una fluidità incessante; perdi la relazione col tuo ambiente, la dignità di quel che sei e le tue sicurezze. Perché l’identità non è un sorta di icona che riposa negli iperurani ma è la tua vita col calore di un’anima e dei suoi affetti, il fervore di un’intelligenza collegata alla realtà, la carne dei tuoi amori, il sangue della tua memoria e la rètina delle immagini che vi sono impresse e documentano la tua storia. Dell’identità ti accorgi solo quando è in pericolo, altrimenti ci vivi dentro senza accorgertene. Quando perdi l’identità perdi la familiarità con te stesso e la tua storia; e la familiarità col mondo e con la storia, sul piano dell’identità comunitaria. Diventi mutante in orbita e straniero in casa tua. L’identità è semplicemente quel che siamo, la nostra realtà di uomini, anima, mente e corpo. Anche senza esserne pienamente consapevoli, i popoli chiedono di tutelare la propria identità: e sul piano pratico prima che culturale, passando naturalmente per gli interessi e i bisogni. Con l’identità insorge un’energia negata che scompagina le carte, i teoremi e gli assetti e riapre la storia all’imprevedibile avvenire.

L’Occidente è il peggior nemico di se stesso…

I massacri di Hamas in Israele e l’invasione dell’Ucraina sono stati letti come un attacco all’occidente che impone agli occidentali di schierarsi. Si tratta in realtà di due casi diversi: se l’attacco di Hamas ha una valenza ostile anche nei confronti dell’Occidente, l’invasione russa dell’Ucraina non era rivolta contro l’Europa ma mirava al più a ripristinare l’area d’influenza russa, come ai tempi degli Zar e dell’Urss ed evitare basi Nato ai confini russi.
Ma in entrambi i casi sale l’appello a difendere l’Occidente e a schierarsi di conseguenza.
È inutile negarlo ma nel mondo “conservatore” riaffiora un bivio ineludibile tra chi si schiera sempre e comunque dalla parte dell’Occidente, in primis degli Usa, e chi non si riconosce in un Occidente che rinnega le sue identità e le sue stesse matrici; la sua storia, il suo pensiero, la sua tradizione, la sua fede, le sue comunità naturali e corre verso una deriva postumana e nichilista. Si gira intorno a questa divaricazione ma non possiamo eluderla. È facile schierarsi con l’Occidente e con tutto ciò che esso esprime, se si riconosce senza indugi il suo modello economico e sociale come il non plus ultra; i suoi interessi, il suoi fluidi stili di vita e la sua prevalente ideologia, come la rappresentazione del bene, della libertà, della democrazia, dei diritti, del progresso e del benessere. E viceversa, è facile schierarsi contro l’Occidente se si è nemici del modello capitalista, del consumismo sfrenato, del colonialismo passato oppure se si vive con vergogna e senso di colpa l’eredità storica, civile e religiosa dell’Occidente e del suo “imperialismo”.
Ma diventa più difficile schierarsi di qua o di là se da un verso si ama la civiltà da cui proveniamo e dall’altro si detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento; e il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, l’assenza di valori salvo i codici ideologici woke, black o politicamente corretti. Se sei sempre e comunque dalla parte dell’Occidente, ti appiattisci nella difesa di questo Occidente che rinnega la sua civiltà, le sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane. Alla fine difendi solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia. Se viceversa ti opponi all’Occidente, rischi di lavorare per i carnefici o per i nemici, dal fanatismo islamico alla dittatura cinese e di sostenere regimi e paesi che negano la libertà, i diritti e la democrazia. Non ci piace questo Occidente, e la supremazia americana, ma potremmo mai schierarci con i paesi del Brics e i loro nuovi alleati, ben sapendo stiamo comunque nel campo avverso? Ci si può schierare dalla parte di Putin, degli ayatollah o di Xi jinping perché si detesta questo Occidente? Bisogna andare oltre gli apocalittici e gli integrati.
Sul piano culturale o dei principi, si può trovare un punto di coerenza, abbracciando la civiltà e criticando alcuni aspetti della civilizzazione, amando e sostenendo la nostra identità nazionale, europea e mediterranea, civile e religiosa, e rigettando il modello globale uniforme e alienante promosso dal tecnocapitalismo. Attivando la capacità di distinguere sul piano internazionale (es. l’India è un interlocutore preferibile rispetto alla Cina).
Ma quando la storia ti costringe a scegliere di qua o di là del campo, e in tempi rapidi e cruenti; quando c’è una guerra in corso, o uno sterminio, che fai, resti nel mezzo, ti chiudi nella torre, scegli l’uno o l’altro sapendo comunque di tradire una parte essenziale del tuo essere europeo? C’è chi risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale. Ma per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, non c’è una soluzione così semplice e unilaterale. Non resta che attenersi al senso della realtà, al primato del bene o dove non è possibile, alla preferenza del male minore, alla distinzione dei piani, dei tempi e delle priorità, all’equilibrio, nella considerazione dei diversi punti di interesse e di osservazione. Per fare un esempio a caldo sul presente, sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati.
Enormi questioni premono sullo sfondo e richiamano il tema della cristianità al tramonto, la questione della tecnica che tutto pervade, l’accettazione o meno del capitalismo come orizzonte insuperabile, correggibile o superabile. E poi il rapporto tra Europa e Stati Uniti, e tra l’Europa e il resto del mondo. L’Occidente non è un blocco compatto, dire occidente significa designare almeno tre mondi irriducibili tra loro, anzi spesso divergenti: gli Stati Uniti, l’America latina e l’Europa. Una ragione in più per accantonare l’idea di Occidente come un corpo unico e parlare da un verso di Europa o di arcipelago delle patrie, e dall’altro di Multiverso, cioè di un mondo plurale con più aree di coesione.
Proprio il realismo dovrebbe imporci di partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo intero né il paradigma dell’universo ma è ormai una realtà minoritaria, destinata ad essere sempre meno centrale, se non soccombente, in molte sfide e tanti ambiti. Un Occidente che per giunta si vergogna di sé stesso, della sua identità, della sua storia e della sua cultura, tradizione e religione. All’interno dell’Occidente le priorità e gli interessi europei non coincidono con quelli atlantici. La conseguenza è accettare l’idea di un mondo multipolare, considerare l’Europa una di queste aree e superare la pretesa che gli Usa possano continuare ad essere gli arbitri supremi del pianeta. Quanto questa posizione si allontani o si incontri con si tratta di destra o di sinistra. Si tratta di difendere la realtà, il buon senso, l’eququella del presente governo ci interessa poco: qui non ilibrio, cercare pezzi di verità nel poligono della vita, difendere la civiltà e l’umanità, a partire da chi ti è più vicino.

Marcello  Veneziani     

Quanto durerà la tregua tra governo ed establishment?

Cos’è lo spread? No, non è il differenziale di rendimento ecc. Spread vuol dire in sigla Scusa Per Rovesciare Esecutivi Antipatici Destrorsi. Lo spread è un fantasma che si manifesta solo in presenza di governi eletti dal popolo ma disprezzati dalla Cappa. E poi sparisce. Un tempo investì Berlusconi, e lo mandò fuori strada, propiziando l’avvento dei tecnici col protettorato della sinistra; ora accenna a investire la Meloni e il suo governo ma chi lo dice è complottista e si inventa nemici a scopo preventivo. Il razzismo dello spread si chiama rating, e il tribunale della razza che decreta l’espulsione per indegnità sono le agenzie apposite chiamate a valutare la purezza del sangue, che nell’era mercantile coincide coi flussi finanziari. Nell’era finanziaria il colpo di stato coincide col colpo di spread. Il motivo è sempre lo stesso ma pesa solo su alcuni governi: il debito sovrano.
La variante principale allo spread è giudiziaria: quando non puoi inguaiarli con l’economia, li incrimini sul piano giudiziario. C’è un’internazionale giudiziaria che colpisce puntualmente su basi pregiudiziali e ideologiche, chi nel proprio Paese non sia allineato alla cordata radical-liberal-progressista. Non c’è governo Antipatico Destrorso che non sia passato da queste forche caudine, dall’una o dall’altra, meglio se da ambedue. Lo stiamo vedendo da noi, e non solo, sulla questione migranti.
Ora, si possono arguire due teorie opposte: in ogni parte del mondo, dagli Usa al Brasile, dall’Europa all’Oriente, la destra è sempre guidata da incapaci, criminali o demagoghi; oppure a giudicarli in questo modo sono alcune sette finanziarie, giudiziarie, mediatiche che non accettano i loro governi anche se votati in libere e democratiche elezioni dalla maggioranza del popolo sovrano. Se è valida la prima ipotesi, si può dedurre una teoria razzista che decreta l’inferiorità etnica della destra, ovunque guidata da gente inferiore per moralità, intelligenza, senso della legalità. Se è valida invece la seconda ipotesi, si può dedurre che c’è una pregiudiziale ideologica che diventa antropologica contro di loro, e si scatena ogni volta che vanno al governo. A voi la scelta.
Naturalmente essere nel mirino finanziario-giudiziario non può fungere da alibi per i propri errori e le proprie incapacità. E restarne vittime non è necessariamente una decorazione al merito, ma può esserci anche demerito.
Però resta l’anomalia di questa legge politico-giudiziaria-finanziaria che perverte le democrazie e sovverte governi ed esiti elettorali. Vari sono gli esempi di questa clamorosa divergenza tra i due piani. È il caso di Donald Trump, incriminato come se fosse il più Grande Delinquente d’America, e allo stesso tempo il più gradito dal popolo sovrano alla guida degli Stati Uniti. Come spiegare questa divergenza? Anche qui due tesi opposte: 1) il popolo preferisce i peggiori, chi promette soluzioni semplificate; dunque va guidato e corretto, la democrazia così com’è non funziona, va messa sotto tutela. 2) le oligarchie mediatico-politico-giudiziarie, e vasti settori della finanza hanno interessi divergenti anzi opposti rispetto a quelli popolari e vogliono imporre la loro volontà, servendosi anche di alibi ideologico-umanitari.
Il meccanismo avviene più o meno così in tutto il mondo. Nei rari casi in cui si verifica un cortocircuito in campo avverso, la riabilitazione avviene senza colpo ferire: prendete il caso del pregiudicato Lula in Brasile. Per lui dopo le gravi condanne, c’è stata assoluzione senza ombre; ha piena legittimità a governare, le accuse e condanne passate vengono smacchiate in modo indelebile.
Ma la questione assume anche altri risvolti. Per esempio nel nostro Paese Giorgio Napolitano è stato celebrato in modo unanime dalle Istituzioni, i media, papi e politici, come uno statista d’eccezione e un Grande Padre della patria (non sovietica o ungherese ma proprio italiana). Sui social, invece, lo stesso Napolitano è stato vituperato e criticato in modo radicale, offensivo. Funerali di Stato, non di popolo; tanti vip, poca gente; beatificato dal mondo di sopra, condannato dal mondo di sotto. Anche qui una clamorosa divaricazione tra i due piani. Da una parte la Cappa (in questo caso si è aggiunto anche il governo Meloni), dall’altra il popolo. Gli scontenti. Buon senso vorrebbe che si cercasse perlomeno una via di equilibrio tra gli opposti, senza panegirici né contumelie, con realismo e senso storico.
Il meccanismo è sempre lo stesso. Rivince in Slovacchia Robert Fico (non è parente dell’omonimo neo-melodico grillino napoletano), e viene massacrato dai media perché non è allineato alla Cappa euro-atlantica; però, piccolo particolare trascurabile, la gente lo preferisce ai suoi avversari, lo vota. Si voterà in Polonia e poi in Ungheria? E tu vedi già schierati i media sinistri (per es. il tg3) con i loro peana trionfali per le opposizioni di sinistra che dai loro reportage, sembrano lì finalmente a un passo dalla vittoria, pronte a liberare il paese dall’oppressione e dalla depressione. Poi leggi le intenzioni di voto del popolo sovrano polacco o ungherese, e noti che è l’opposto, stravincono i governi di destra; evidentemente non si sentono né oppressi né depressi da Morawiecki, Duda e Orban. Un divorzio totale, vistoso, tra la rappresentazione e la realtà, e sempre nello stesso senso: la rappresentazione va a sinistra e paraggi, la rappresentanza del reale va a destra e dintorni…
C’è chi fa notare che la Rai e in buona parte Mediaset sono oggi filo-governativi. Dunque non c’è questa egemonia radical nell’informazione. È vero nei tg, nelle nomine e negli spazi politici lottizzati. Ma l’orientamento, le inchieste, la fattura e l’ispirazione di fondo sono in realtà allineati al mainstream e ai suoi santuari. E tali restano oltre l’ossequio ai governanti di turno.
Quanto potrà durare questa biforcazione così drastica? Si arriverà a una resa dei conti, con l’eliminazione o la sconfitta di uno dei due antagonisti, o si arriverà infine a un compromesso, a una tregua?
Nel mezzo veleggia la barchetta Italia, e ancora non sappiamo se si andrà allo showdown o se è rinviato a una prossima occasione per avverse condizioni atmosferiche. In ogni caso è solo questione di tempo…

Marcello Veneziani 

L’Italia di Vannacci e quella della Murgia…

L’estate che finisce lascia in eredità due foto di gruppo contrastanti, anzi contrapposte: il selfie assai affollato di gente comune intorno al generale della Folgore Roberto Vannacci e al suo libro, il mondo al contrario; e il selfie di una famiglia allargata che potrebbe essere anche un collettivo, un club, un gruppo di pressione, raccolta intorno alla figura di Michela Murgia, scomparsa poche settimane fa. Sono due mondi agli antipodi, che in Italia hanno assunto i volti del generale e della scrittrice, ma che si contrappongono in quasi tutto l’occidente, e non solo.
I primi sono considerati conservatori, e comunque si reputano realisti, difensori della normalità, della natura e di come è sempre stato, e si reputano vittime di ostracismo, pubblico disprezzo e supremazia ideologica a loro avversa. I secondi sono considerati progressisti, e comunque si reputano fautori della liberazione, dell’emancipazione e della lotta contro l’eterno fascismo e il tornante spirito reazionario. Si considerano a vicenda bacchettoni: perché ormai è acclarato che oltre il bigottismo tradizionalista c’è pure un bigottismo progressista, come scriveva già trent’anni fa Robert Hughes ne La cultura del piagnisteo.
Le due Italie hanno scelto come terreno di competizione le classifiche librarie, un territorio che dovrebbe essere più agevole per la scrittrice e per la sinistra; e dove invece il libro del militare, del paracadutista Vannacci ha doppiato quello della Murgia, nonostante sia considerato quasi ai limiti della legalità, e fuori da ogni credito intellettuale. In realtà, il mondo a contrario lo hanno comprato anche tanti che non sono lettori abituali, trattandosi di un libro-manifesto, di appartenenza e di denuncia, già nel titolo. Nelle due figure del generale e della scrittrice-queer si sono contrapposti due mondi reali e ideali: uno, forse maggioritario, vasto e popolare, si è riconosciuto nel realismo del generale, nel desiderio di chiamare le cose col loro vero nome, di sfuggire alla retorica dei diritti gender, all’ipocrisia del linguaggio e dei divieti politically correct e all’egemonia dell’ideologia, richiamandosi alla normalità, al senso comune, alla natura e alla vita come è sempre stata. L’altro, espressione invece di una minoranza che però conta e pesa assai più della “trascurabile maggioranza degli italiani” (Flaiano), schierata a difesa di lgbtq+, del femminismo radicale, dei migranti clandestini, dell’antifascismo permanente e militante.
Sono due Italie che si detestano, si delegittimano e contrappongono nuovi pregiudizi a pregiudizi antichi. I pregiudizi, ricordiamolo, sono giudizi a priori, non filtrati dal senso critico ma accolti come postulati, precetti, canoni di vita e rappresentazioni della realtà tramite moduli prefissati.
Sono le due Italie del nostro presente, anche se non coprono l’intero arco della popolazione: nel mezzo c’è un’area abbastanza vasta, disorientata e refrattaria ad assumere posizioni nette e radicali. Riaffiora l’eterno dualismo nazionale, che appare da secoli, e poi a volte scompare, va sotto traccia, per lasciare spazio ai compromessi moderati e alle pragmatiche, opportunistiche convergenze al centro. Ma è sempre in agguato e polarizza gli italiani.
Vi sono tuttavia alcuni paradossi che vanno sottolineati. Primo paradosso: le idee espresse dal generale Vannacci sono le stesse che hanno portato molti italiani a votare per la Meloni e per il centro-destra; ma il generale è stato subito sconfessato, attaccato e infine rimosso dal governo di centro-destra, in particolare dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Una scelta che ha ferito molti elettori della Meloni e ne ha spiazzati altri.
Secondo paradosso: benché minoritaria e benché si presenti con i toni e i tratti di una cultura ribelle, antagonista e denunci le discriminazioni subite da alcune minoranze, l’opinione radicale di Michela Murgia coincide col mainstream, è sovrarappresentata e sovratutelata dai media, dalla cultura e dalle istituzioni. I suoi temi sono dominanti, se non obbligati; ogni opinione difforme viene stigmatizzata, denunciata, penalizzata. Come dimostra la stessa vicenda del gen.Vannacci. Nessuno invece viene vituperato se condivide le opinioni della Murgia.
Terzo paradosso: il gen. Vannacci è uomo d’azione, con una carriera di riguardo alle spalle; Michela Murgia era invece un’intellettuale, una scrittrice, anche di culto, ma alla fine si rovesciano i ruoli: il primo manifesta le sue idee solo tramite i libri e le opinioni personali; mentre la seconda, benché intellettuale, può inserirsi nell’alveo di movimenti, mobilitazioni e associazioni di vario tipo.
La politica insegue con un certo affanno le due platee, con molta prudenza e tanti distinguo, a volte tirandosi indietro, anche perché teme di compromettere la propria agibilità politica e la possibilità di allargare i consensi anche a chi non sposa le posizioni “radicali” di Vannacci o di Murgia. Elly Schlein sembra abbastanza vicina alle posizioni murgiane, ma il suo partito, il Pd, è profondamente diviso e complessivamente prudente verso quelle posizioni. Fratelli d’Italia è stato invece decisamente sulle posizioni di Vannacci ma da quando è al governo rallenta, ammorbidisce, assopisce. E ai suoi margini, la Lega di Salvini cerca di riprendere consensi e agibilità politica strizzando l’occhio al generale.
Intanto l’Italia è chiamata alle armi: stai col generale o con la queer? Spaccaitalia.

Marcello Veneziani, Panorama

Vogliono sostituire la famiglia naturale col modello queer…

 

 

 

 

 

 

 

 

La famiglia scelta. È l’espressione chiave per adottare una nuova, radicale sostituzione. Basta con la famiglia “costretta”, ossia la famiglia naturale, con i suoi legami di sangue e i suoi vincoli determinati dall’essere padri, madri, figli, fratelli “biologici”. Invece la famiglia scelta è per definizione una famiglia volontaria, adottiva, collettiva, libertaria ed egualitaria in cui vivono sotto lo stesso tetto persone varie, e animali annessi, indipendentemente dal genere e l’orientamento sessuale. In una parola, la famiglia queer.

Il mito di fondazione della famiglia queer è associato a Michela Murgia, la scrittrice che prima di morire decise di rendere pubblica e solenne la sua famiglia scelta, ibrida e allargata. Come tutti i miti di fondazione, la morte della fondatrice ha dato “sacralità” simbolica a questa visione pur dissacratoria della famiglia naturale e tradizionale. Al di là della vicenda terrena della scrittrice sarda, alcuni giornali, circoli intellettuali, cenacoli si stanno impegnando a trasformare quell’esempio di famiglia queer in modello di riferimento alternativo rispetto alla famiglia coatta traducendola in battaglia politica e civile per rivendicare la libertà d’amare e di scegliere (Elly Schlein sarà con loro).
Cos’è una famiglia queer? “Una famiglia ibrida fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà” spiegava la Murgia. E i suoi discepoli, da Michela Andreozzi a Marcello Fois, spiegano che la famiglia scelta è struttura variabile oltre che volontaria, e comprende animali, svariate sorelle, papà e mamma elettivi (si scelgono i padri e le madri con votazioni, si procede per acclamazione, si va a rotazione?). E ciascuno specifica come si faceva da bambini quale ruolo assume nel gioco di ruolo che sostituisce la famiglia naturale. Io faccio il papà, io la figlia…Ribadendo che il sangue non c’entra nulla, e la famiglia tradizionale non ha mai funzionato bene, ma ora non funziona più.
Sarebbe facile giocare sull’ironia, ma prendiamo sul serio quel che viene detto e rispettiamo le scelte altrui, fino a quando non pretendono di essere alternative e sostitutive rispetto a quelle che costituiscono la realtà naturale e l’esperienza di vita su cui si fondano la società tramite le famiglie e la loro riproduzione. Dunque, cos’è quella società allargata di conviventi con libera e mutante sessualità? E’ una libera e provvisoria associazione, ma non chiamiamola famiglia. Qual è il legame che insorge tra loro? E’ l’amicizia, non si può paragonare all’amore famigliare. Arrivo a dire che se l’alternativa è l’isolamento, il solipsismo, ovvero la solitudine non come scelta ma come perdita del mondo e depressione, ben vengano questi club allargati, affettivi prima che sessuali, piuttosto che definirle con linguaggio camorristico “nuove famiglie organizzate”.
I problemi sorgono quando queste reti amicali si configurano come la famiglia del futuro, con la pretesa di sostituire i legami famigliari. E quando si pretende di cancellare, degradare, svalutare tutto quel che proviene dalla natura, dal sangue, dall’ereditarietà, dai legami del destino, rispetto a quelli fondati sulla volontà. Che è soggettiva e quindi conflittuale rispetto ad altre volontà soggettive; che è mutevole e quindi non può garantire costanza e sicurezza degli affetti come invece quelli tra genitori e figli, o tra fratelli. Che non è riproduttiva, perché le associazioni di tipo omosessuale non possono riprodursi se non usando terzi (uteri in affitto, fecondazioni artificiali, compravendita di corpi, semi, ovaie, neonati, ecc.).
Torno a dire che nessuno vuol negare la libertà di quelle scelte, ma non sono sostitutive rispetto alle vecchie, scassate, controverse, contestate famiglie naturali. E le fratellanze senza padri e madri, di solito degenerano in fratricidi; se non ti riconosci nella comune origine, se non ti riconosci in un padre e una madre comuni, alla fine, passato il periodo dell’abbraccio generale, insorgono le divergenze, le priorità, le egemonie. Ogni volontà, alla fine, è volontà di potenza, di dominio. Se non personale, ideologica, di un modello, di una struttura, di un collettivo.
La famiglia, si sa, sta male già per conto suo; l’atomismo e l’egocentrismo, il narcisismo e la fluidità, i desideri infiniti e le pretese la mettono a dura prova. Spesso i matrimoni saltano, e il vero rapporto indissolubile, alla fine, è di tipo verticale: è quello tra genitori e figli, che non si può disdire o revocare, come invece può accadere nel rapporto di coppia. Non idealizziamo la famiglia “tradizionale”, cogliamone tutti i limiti, i difetti, le contraddizioni con una società troppo aperta e troppo individualista per poter reggere l’urto a livello famigliare. Però, provate a pensare “senza”, provate cioè a liquidarla, a ritenervi solo figli del vostro tempo e delle vostre scelte, anziché figli della storia e della famiglia. Provate a perdere quell’asse di riferimento, necessario anche quando lo confutate; provate a negare quell’alveo d’origine, quel luogo d’infanzia e di formazione, quel rifugio, quel bisogno originario, primario, di sicurezza; dove i legami sono autentici proprio perché biologici, naturali, precedenti la nostra stessa volontà; veri e istintivi. Perché noi non nasciamo come una tabula rasa su cui decidiamo tutto; noi nasciamo eredi biologici, con legami naturali affettivi (gli stessi che vi commuovono quando parlate dei cuccioli di Amarena, l’orsa abbattuta in Abruzzo). Quel che precede la nostra libertà e la nostra volontà si chiama natura, identità, origine, destino. Perché dovremmo disprezzare, rigettare, spezzare tutto questo? Non siamo autocreati e tutto ciò che costruiamo non lo costruiamo dal nulla ma sempre da realtà preesistenti. Create pure le vostre case arcobaleno e le vostre reti amicali; ma sappiate che non sostituiscono la famiglia da cui provenite e quella costruita accoppiando e procreando. Sono due piani diversi. E bisogna saper distinguere, e rispettare, la sfera dei legami naturali da quelli elettivi. Noi siamo quel che siamo e diventiamo quel che siamo; non nasciamo dalla nostra volontà e dai nostri desideri. Siamo creature, possiamo essere creativi, ma non siamo creatori.

Marcello Veneziani   

Arrestate il pino. E’ apologia del fascismo.

Avete presente la nostra epoca imbevuta di ecologia, feticismo green dappertutto, perfino nella pubblicità, fanatismo ambientalista che paralizza ogni impresa? Beh, con il pino non vale. Il pino va sterminato, sradicato, cacciato dalle città; anche se sono belli, fanno parte ormai del paesaggio e svolgono utili funzioni contro l’inquinamento, il malefico CO2. La guerra contro il pino è la spia di una sensibilità, di un modo di (non) vedere e di una netta divaricazione tra l’ideologia green e la pratica nella realtà. Il pino è la metafora di un odio per l’esistente o per ciò che viene dal passato, nel nome di un Verde perfetto e utopico che verrà.
La battaglia contro il pino si combatte in molti luoghi d’Italia, a partire dalla Capitale, dove i pini erano veramente tanti e godevano di grande fama storica, pittorica e civile. Partiamo da un dato: nel 2016 erano censiti in Roma 120mila pini; ora, sette anni dopo, sono meno della metà, 55mila. Cos’è successo, è passata la Xilella Raggi, la sindaca Virginia? Ma no, la grillina avrà le sue colpe, però la guerra al pino è più vasta e diffusa. Curioso il caso del sindaco in carica, Roberto Gualtieri, che come Berlusconi, aveva promesso nella città un milione di nuovi posti per gli alberi, e invece ne ha piantati poche migliaia e i pini neopiantati, a fronte dell’ecatombe di questi anni, sono in gran parte moribondi. Questi dati mi sono stati forniti da una convinta pasionaria del pino, Jacopa Stinchelli, che si definisce “ministro della difesa dei pini” a cui si sta dedicando con abnegazione. Jacopa non è sostenuta dai movimenti green e dalla galassia ecologista che di solito insorge appena torci una foglia o un ramo di una pianta, ma della sua battaglia e della morìa dei pini in Roma se n’è occupato anche il New York Times il 13 agosto scorso.
Il problema è che il pino è in Italia un albero identitario, anzi è l’albero dell’italianità. Si diffuse con l’unità d’Italia, garibaldina e sabauda. La Regina Margherita fu madrina di pinete. Alla fine dell’ottocento fu lanciata nelle scuole la festa dell’albero, che era ancora viva quando andavo io alle scuole elementari e fu il primo assaggio di sensibilità verde per chi viveva in piena ebbrezza di industrializzazione, cemento e modernità. Si piantava un pino e si celebrava l’utilità, la bellezza e il ristoro che gli alberi davano agli uomini, alle città e alle località. La pigna fu eletta a simbolo dell’unità d’Italia, antico retaggio romano ed etrusco, che la consideravano sacra; il pino diventò il testimonial dei paesaggi nei pittori ottocenteschi che venivano in Italia (uno tra tanti, William Turner). Il pino fu reso famoso dai poeti, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio con la sua pioggia nel pineto, che celebrava la Versilia ma anche la sua Pescara. Il pino fu amato dai musicisti, come Ottorino Respighi, che gli dedicò un poema sinfonico. Fa capolino nella musica leggera con i pini di Roma cantati da Antonello Venditti, mentre Brian May dei Queen dice che i pini di Roma lo affascinano in modo speciale. Anche nel cinema italiano fanno da sfondo a molti capolavori del passato e anche recenti. Le pinete diventarono sontuose cornici di litorali e accompagnarono amene località non solo marine.
Ma il pino l’ha combinata grossa, diventò pure il simbolo dell’Italia fascista, che potenziò la festa dell’albero, piantò pini dappertutto, da Ostia alla Maremma bonificata e in mille altri luoghi d’Italia. L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive, erano contornate da pini. Piantavano pini nel risanamento dalle paludi e dalla malaria.
A Roma c’era un missionario dei pini, dall’Italia prefascista all’Italia fascista e poi alla repubblica: si chiamava Raffaele de Vico, era architetto, paesaggista e urbanista e propagò i pini in Roma, da Villa Glori al Parco della Rimembranza, dove i pini simboleggiavano le anime dei caduti. Insomma, il pino è un albero “patriottico”, la cui presenza suona come amor patrio e per taluni come apologia di fascismo. Dunque, va abbattuto o lasciato morire. Il Pino è fascista, e pure neofascista: vi dice nulla Pino Rauti, Pino Romualdi, Pino Tatarella (detto Pinuccio perché postfascista)?
Paradossi ideologici a parte, conosciamo i più ragionevoli motivi addotti per estirparli: sono pericolosi, soprattutto con il maltempo, le loro pigne sono contundenti, come i loro rami, le loro radici sono invasive, dissestano le strade. E poi sono cagionevoli, si ammalano, la loro manutenzione è faticosa, non sono autoctoni (anche in questo caso salta la retorica dell’accoglienza e si diventa improvvisamente identitari, in difesa delle specie vegetali autoctone, le pure “razze” nostrane rispetto agli alberi stranieri). Conosco la guerra del pino per esperienza personale, perché avendo quattro pini maestosi ai fianchi della casa, subisco una diffusa campagna pinofoba, con pressanti richieste di tagliarli, sfoltirli, abbatterli. Certo, i pini danno problemi, le radici, gli aghi, le pigne; ma danno senso e identità a un luogo, danno ombra e luce, aria e bellezza. E poi esistono rimedi efficaci contro i suoi malanni, assicura Jacopa, ci sono le cosiddette endoterapie, si possono contenere e incanalare le radici, lo dicono i pochi esperti e amanti del pinus pinea o dei pini domestici.
I pinicidi confidano in un famigerato parassita alieno, la cocciniglia toumeyella parvicornis, che fornisce un formidabile pretesto per la ” soluzione finale” dei pini. Il parassita s’insinuò prima nelle pinete di Napoli, dove i pini torreggiano nelle vedute più famose di Posillipo, del golfo e del Vesuvio. A differenza di altri allarmi ambientali, col pino si preferisce collaborare col parassita, tifare per lui, o precederlo negli abbattimenti, piuttosto che difendere la pianta. Prevale, come dice Jacopa, “l’invidia del pino”, variante arborea del famoso complesso freudiano. L’odio verso i pini, naturalmente con forti alibi sanitari, rivela l’ipocrisia dell’amore per la natura e il disprezzo per tutto quanto evochi una storia e un’identità. In pino veritas.

 Marcello Veneziani       

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani

“Tornate in chiesa, anche senza andare a messa. “Come ha ragione Marcello Veneziani con questo suo articolo su chi non frequenta più la Chiesa, per i motivi più diversi.

Da quanto tempo non entrate in una chiesa? Da tanto tempo, risponderà gran parte della gente. Lo chiedo in una domenica di fine luglio, una di quelle domeniche d’estate prese da tutt’altre mete e da tutt’altri intenti. Ad andare in chiesa sono ormai in pochi, a partecipare alle messe, anche solo festive, solo una sparuta minoranza. Inutile ripetere il rosario delle motivazioni: ateismo pratico, secolarizzazione galoppante, indifferenza, apatia religiosa, dubbi e poi fretta, distrazione, mondanità e apparenza. Si potrebbe continuare, ripetendo cose risapute, sfondando porte aperte e sbarrando portoni ormai serrati.
Invece, per una volta, proviamo a pensare in altro modo, a immaginare diversamente, e tradurla sul piano pratico, in modo inatteso. E se ci affacciassimo ugualmente in chiesa, pur con tutti i dubbi, la lontananza e l’estraneità, la diffidenza e l’antipatia per i preti? Dico non a messa la domenica, non dal prete, non chiedo tanto; e nemmeno per curiosità turistica ed estetica, come visitatori che vogliono vedere un’opera d’arte, un mosaico o un altare. Ma se tornassimo a uno a uno, a ripopolare le chiese desolate, per brevi ma non sporadiche pause di riflessione? Quante pause ci prendiamo durante il giorno, per il caffè al bar, per il fumo, per i social, per le telefonate; perché non prevedere una pausa senza oggetto, in un luogo che fa pensare? Non è una proposta oscena, non vuol profanare e nemmeno pretende di convertire; vuole aprire la mente, ritrovare un’atmosfera, depurare le passioni e rianimare le chiese, così desolate.
Consideriamo per una volta la chiesa non solo come la Casa del Signore, o il luogo santo e materno di cui dicono il Papa, i sacerdoti, la catechesi. Come sarebbe sacrosanto. Ma come luogo di raccoglimento, al riparo dai rumori e dai consumi, calmo e silente, in cui mettere a tacere anche lo smartphone, senza schermi, senza consumi né pubblicità. Un luogo di ristoro della mente e dell’anima, di interruzione del flusso temporale, di separazione dal profano scorrere del mondo e della gente (del resto, il sacro, come il tempio, vuol dire ciò che è separato). Un luogo per concentrarsi, per farsi domande e darsi risposte, evitando lo psicanalista o i farmaci. E per sentirsi immersi in un’atmosfera insolita, venata di mistero e di lontananza. Un luogo che ha una lunga storia, in cui smaltire i rancori, in cui ripetersi che l’odio fa male, innanzitutto a chi odia. E forzarsi alla serenità.
E’ follia immaginare che nel corso della giornata, in pieno centro, in mezzo ai negotia mundi, ci ritagliamo una breve fetta di solitudine pensante, di visione calma, di salto nel tempo, non dirò nell’eterno ma in un altro tempo, o meglio in un’altra scansione del tempo, un’altra direzione? Pensate che non faccia bene una pausa del genere? Pensate che non rischiari la mente e non aiuti a controllare le passioni, la rabbia, l’odio, l’ansia? Forse non sarà contento il parroco, e nemmeno il Papa, che si possa fare un “uso” laico, non confessionale, non devoto della Casa del Signore, senza passare dalla loro mediazione. Si, quella è la via giusta, ma a un popolo svogliato e refrattario, che gira al largo dalle chiese e guarda dalla parte opposta, sarebbe già una gran cosa suscitare un’insolita attenzione per un modo diverso di vedere, di sentire, di essere al mondo. Ma è poi molto diverso rispetto agli usi profani della Chiesa, ridotta nella migliore delle ipotesi a rifugio, mensa e accampamento per i senzatetto e nella peggiore a sala convegni, manifestazioni musicali, ostello o addirittura ristorante, una volta sconsacrata, perché ormai deserta e disertata? Se è diverso, lo è in meglio. Pensate che non sia quello un uso propriamente religioso della chiesa, aiutare gli uomini a ritrovare la propria interiorità, il rapporto profondo col mondo circostante, col prossimo, il rispetto del silenzio, della calma, della meditazione, dell’attenzione e della preghiera? Non è fede né rito, eucaristia o liturgia; semmai, agli occhi di un devoto o di un sacerdote, può essere ciò che li precede, ne predispone il terreno favorevole. Comunque meglio che il nulla. Sarebbe bello vedere le chiese rianimarsi, aprirsi ai viandanti indaffarati che cercano e magari ritrovano senso, mistero e rispetto della vita. Per ridimensionare ciò che fuori costa tanto ma vale poco, per depurarsi dai rancori e dai furori.
Certo, il credente dirà che in chiesa si va per incontrare Dio, per adorare Lui e venerare i santi, per pregare, partecipare alla messa, confessarsi e farsi la comunione, o per battezzarsi, cresimarsi, sposarsi e benedire i defunti. Ma non sarebbe improprio né banale concepire la chiesa come luogo per respirare con la mente e il cuore, per disintossicarsi dalla vita profana, per essere più veri, più aperti al senso della vita. Come luogo in cui sentire dopo tanto tempo quella carezza che un tempo chiamavamo spirituale. Siamo analfabeti spirituali, occorre una prima, elementare iniziazione…
Poi, chissà, in loco potrà sorgere il “gusto” di pregare, di accodarsi a un rito, di prendere a frequentare una parrocchia, di parlare col prete o coi devoti. Ma non sto pensando che quello debba essere l’esito inevitabile. Fa bene già solo così. Fa bene a chi entra, fa bene a chi vede entrare, fa bene a chi sta dentro, alla Chiesa stessa che torna vivente, non imbalsamata, presente e non passata, dove non si finge culto e devozione ma si è più disarmati e veri. Magari solo per passare un quarto d’ora di verità, al posto del famoso e penoso quarto d’ora di celebrità.

MV