Ho trovato l’amicizia tra i filosofi…

Ma erano i filosofi che soddisfacevano quel bisogno che si celava da qualche parte nella mia testa confusa: immergendomi nei loro eccessi e nel loro farraginoso vocabolario, spesso mi incantavano, saltavano fuori con affermazioni azzardate infiammate che mi sembravano verità assoluta o maledettamente vicine alla verità assoluta, e questo tipo di sicurezza era quello che cercavo per la vita di ogni giorno, che assomigliava molto di più a un pezzo di cartone. Quei tizi erano dei grandi, mi hanno fatto sopportare giorni come rasoi e notti piene di ratti; mentre le donne tiravano sul prezzo come banditrici venute dall’inferno. I miei fratelli, i filosofi, loro mi parlavano come nessun altro per strada o in giro aveva fatto mai; riempivano un vuoto immenso. Che bravi ragazzi, oh, davvero dei bravi ragazzi!

Charles Bukowski

 

Quanto pesa il cuore…

Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani. Duecentoventi grammi. Trecento. Trecentodieci. Ho imparato a pesare il cuore della gente con le mani, e raramente sbaglio. Le metto a cuppetiello, come con la frittura di paranza. Ci faccio una conca, una bacinella, un secchiello per bambini. Al posto delle mani ho due piatti di bilancia, una stadera da fruttaiuolo che non mente. Sottraggo la tara al peso lordo e misuro le persone al netto di chi sono.

Ho sentito, con le mani, cuori pesanti di piombo di malinconie. Altri, invece, erano leggeri, erano piume d’uccello, erano soffioni. Mi sono piaciuti tutti e due, e mi sono sentita un po’ piombo e un po’ soffione pure io, mentre mi pesavo il cuore con le mani a cuppetiello, dosando l’amarezza di certe assenze e, di altre assenze, la liberazione.

Il cuore è un muscolo che risponde alla legge di compensazione, ai vasi comunicanti, a sacco vuoto e sacco pieno. I cuori più grevi sono quelli stipati di rimpianti, come gli scaffali delle dispense alimentari. Li riconosco al tocco, mi basta poco, nun ce vo’ niente. Hanno dentro una tristezza diversa dalla tristezza dei rimorsi, che è più rabbiosa, incattivita ma vibrante. Il cordoglio dei rimpianti, invece, delle cose che non abbiamo osato per paura, delle persone che abbiamo perduto per inazione, per pavidità o inettitudine, è un sentimento apatico, depresso, insonnolito. Come quando non hai voglia di far nulla e ti accomodi sul letto pigramente, aspettando che il tempo passi, che qualcosa accada e ti travolga. La tristezza dei rimpianti è una tristezza che si è arresa e non reagisce. È un morto che cammina.

I cuori più leggeri, invece, i cuori-soffione, i cuori-piume d’uccello, li peso con una mano sola e tanto basta. Sono spumosi, sembrano friabili, mi ricordano la schiuma di sapone che si infrange quando l’hai montata a neve nella vasca; ci hai fatto dentro l’amore che profuma di nudo, l’amore che inarca i reni, quello che urla il piacere a bocca piena e ventre teso, quello che non si aspetta niente e sente tutto, sente il doppio. L’amore che ti fa femmina, l’amore che ti fa uomo.
I cuori più belli sono un poco e un poco. Un poco pesanti e un poco leggeri. Un poco zavorra e un poco spuma. Hanno dentro il peso e la leggerezza, l’arrivo e la partenza, lo scatto di chi fugge e l’immanenza di chi resta. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo, non per quella storia dei grigi, della diplomazia di chi non si schiera, di chi non parteggia. No. Al gioco di sacco vuoto e sacco pieno loro sono sacco mezzo perché la vita li ha spaccati in due, li ha divisi. Ci ha messo sotto la leggerezza dei soffioni, delle piume d’uccello e della spuma, e sopra la pesantezza del piombo delle malinconie. La prima regge la seconda e non le permette di cadere; la seconda resta in equilibrio sulla prima e non la schiaccia. È una legge fisica sbilenca, sovversiva; è una logica oltreumana ca sùlo ’o core pò capì.

Centocinquanta grammi, grazie. A me ne bastano duecento, prego. Io abbondo, ne voglio trecento. Metto il cuore della gente nel cuppetiello delle mani e faccio su e giù. Molleggio a mezz’aria e poi sputo la sentenza: cuore soffione, cuore piombo, cuore sacco mezzo.

Non lo dico e non lo lascio intendere ma, da lì in avanti, io ti ho pesato.

(Antonia Storace, dal libro Frumento e papaveri)

peso del cuore

La tecnologia che mi piace…

Avanti a tutta tecnologia, avanti a tutto digitale, avanti a realtà virtuale, avanti di corsa, sempre più di corsa, il tempo è denaro, ,sempre più denaro è il fine di tutto questo percorso, che coinvolge ormai la vita di tutti noi. Per chi è nato in questa epoca credo che difficilmente qualche scoperta farà rimanere a bocca aperta  qualcuno, a meno che  la scoperta fosse quella dell’immortalità. Per chi, come me, ascoltava da bambina la radio a galena, passato ormai il periodo dello stupore , è subentrato quel sentimento che si chiama noia. Strano, vi chiederete, perchè noia in questo mondo cosi rapido, così continuamente nuovo? Si, noia, perchè per ottenere tutto questo basta la connessione, ossia una sedia , una postazione PC, un collegamento Internet, il più veloce possibile, aggiungiamo uno smart  Phone ed il gioco è pronto. Qualche clic sui tasti del computer oppure leggeri sfioramenti allo schermo del PC o del telefono per trovarmi immersa dove voglio, nel commercio mondiale, nella politica, in una guerra oppure in un disastro naturale dovunque nel mondo, senza muovermi dal mio tavolo… che noia  vivere la vita così rapidamente , immersi dovunque si voglia essere, costantemente ,giorno dopo giorno, settimane, mesi, anni… respirando aria climatizzata tutto l’anno, quando il mondo lento di un tempo ci regalava sole, pioggia, freddo ed afa, fatica ,ma soprattutto la voglia di andare, di programmare, di elaborare pensieri. Anche i pensieri si elaborano con la tecnologia, a noi basta imparare l’uso della strumentazione- E i bambini non giocano più nei cortili, per le strade, giocano sul divano  con play-station,  sempre più  sofisticate ,collegati; i ragazzini si scrivono parole d’amore su What’s app, fanno l’amore su Skype e quando si incontrano per fare coppia, pensano già a come sarà quando sarà finita.
Ebbene il mondo virtuale non mi attira più di tanto, mi piace come gioco, un simpatico passatempo per tenere la mente allenata, per continuare a ricordare, per imparare quello che , alla mia età, in altri tempi mi sarebbe stato impossibile e poi osservare quante cose meravigliose la tecnologia digitale permette di fare nel mondo dell’arte. Oggi non c’è museo o mostra d’arte che non offra confronti interattivi tra le opere esposte. Possiamo così osservare molte cose curiose e questo mi piace, mi piace tanto.
Al Getty  Museum è esposta questa opera di Dou, periodo tra il 1655_ 1659, che rappresenta “Studioso di archeologia , con candela”.
Ebbene, guardate quanta carica di vita la tecnica gif riesce a dare a questa bellissima riproduzione fotografica.

 

 

Sulla felicità e sulla tristezza…

Caro Seneca, perché chi parla di felicità ha gli occhi tristi? Lo notavo l’altra sera a Taormina in un convivio sontuoso come le cene romane di Trimalcione. Guardavo ad uno ad uno chi decantava la felicità e vi scorgevo un malcelato fondo di tristezza dietro la buccia dell’euforia. Chi più si riempiva la bocca di felicità e si infervorava al suo nome, tradiva dai suoi occhi e talvolta dal suo tono, vecchie cicatrici di malinconia, stagionate infelicità; si avvertiva in lui la mancanza di felicità o la sua lontananza. Forse perché chi parla di felicità non la vive dentro ma la invoca da fuori e di lei risale il ricordo perduto; forse perché l’ha solo sfiorata in qualche rapito e remoto sito e ne patisce il vuoto, come se la mancanza di felicità fosse assenza di vita, di aria e di luce; o forse perché egli è d’indole così infelice da pensare di fugare il suo stato d’animo già solo invocando la felicità, sperando che il suo solo nome possa offrirne già un assaggio o suscitarne un barlume. Allora parlare di felicità diventa un rito di propiziazione. Mi sono perciò convinto che è da infelici parlare di felicità. La felicità si vive, non si descrive, finché si è dentro; se si vuole raccontarla, si è già fuori. Ti chiedo, Seneca, di illuminarmi sulla felicità al cospetto della saggezza e della follia.

Quanto infelice dev’essere un’epoca che esalta la felicità e si crogiola nel suo culto; ne scrive, ne canta, ne parla, inonda di auguri e di buoni auspici. Come se la vita possa rinunciare a tutto, alla verità e alla dignità, alla libertà e all’amore, alla conoscenza e alla pietà, nel nome divino della felicità. Sono convinti che la felicità li contenga tutti, o tutti li renda superflui, e invece la felicità è proprio la sospensione della vita; non è il risveglio ma il sogno. Dev’essere schiavo di un piacere malato e sofferente chi si affanna a fermare la felicità e a incoronarla come regina della vita sua. Magari fossero epicurei, i cercatori di felicità; sono gaudenti ma infelici, famelici di gioia ma disperati. La felicità sparisce appena è desiderata, arriva inattesa, è ospite volatile e latitante. Gioie e dolori dolgono entrambi, ma in tempi diversi; prima o poi si sconta la felicità. Gli autunni e gli inverni vengono per farci pagare le primavere e le estati.

La tristezza nasce dalla perdita, la felicità invece sorge dal perdersi. La tristezza genera tesori quando diventa arte della sconfitta, e rielaborando la perdita raggiunge radiose benché sofferte glorie. (…)

I nostri padri pensavano che la felicità fosse un bene pubblico, anche quella più intima e privata; ora siamo caduti nell’opposto e crediamo che la felicità sia solo un bene privato. In realtà la felicità non ha natura pubblica o privata; ma è un’armonia, un breve collimare tra vivere e volere. Più che intima è interiore, la felicità, più che esteriore è estroversa. Ci sono infelicità che passano dalla vita pubblica e altre dalla vita privata. La felicità non è una condizione ma una carezza, è il convergere fugace di clima, sospensione e gesti, di solitudine beata o combaciante compagnia. La felicità si fa vedere solo un attimo, e non si lascia agguantare, semmai ti agguanta; ma appena sei cosciente, svanisce. Non è un programma di vita ma un fuori programma; figuriamoci se può risiedere negli oggetti. La felicità fiorisce selvatica nel giardino della dimenticanza. Perciò penso, Seneca, che mente chi dice: sono felice. Perché la felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Chi si dice felice in quel momento in cui lo dice, non lo è, sta solo ricordando o pregustando, o peggio sta solo recitando un ruolo, simula uno stato che ha conosciuto in passato o che aspetta in futuro, professa una speranza e mima la gioia per propiziarne l’avvento. Quando sei cosciente non è presente, quando è presente non sei cosciente. La felicità ha il cuore aperto ma gli occhi chiusi. Ha il passo rapido e le mani lievi. Hai ragione tu, o Seneca, a dire che i giorni più felici della vita per primi fuggono ai miseri mortali. Perché la felicità è volatile e vola in fretta, l’umanità è terrestre e cammina lentamente.

E tuttavia, Seneca, si dice spesso che agli animi nobili si addice piuttosto la malinconia, perché il pensiero si nutre di mancanza, di tristezza e a volte si innalza e si purifica nel dolore. E’ delle nature più pensose la nostalgia del vivere e l’acuta percezione del morire, e il loro sposalizio genera il pensiero filosofico e la poesia. Ma ti chiedo, Maestro, come è possibile desiderare la felicità e riconoscere l’austera bellezza del suo contrario. È umano cercare la felicità, è nobile ospitare la malinconia. Personalmente amo più la prima e ammiro più la seconda, e in fondo non so rinunciare ad ambedue perché ambedue recano doni: i doni della felicità si gustano appena sbocciati, i doni della malinconia si gustano quando sfioriscono. Perché la malinconia è fertile ma ha la sua gravidanza e le sue doglie; la felicità si annuncia già col profumo e riempie gli occhi. La malinconia è un ponte tra passato e futuro, la felicità è la pienezza del presente.

La vita perfetta del saggio è destreggiarsi tra i frutti dolci dell’una e i frutti agri dell’altra, sapendo che sarebbe impossibile vivere solo degli uni o degli altri, o pretendere dagli uni quel che ci danno gli altri. Le nature più inclini alla malinconia sanno cogliere con più gioiosa pienezza il gusto della felicità, è come se la loro profondità ne amplifichi il sapore e l’odore. Chi conosce la tristezza sa più apprezzare la felicità. Il saggio tuttavia si imbarca sulla malinconia come sulla felicità per attraversare il fiume della vita. La saggezza è quel che resta di ambedue, una volta guadato il fiume. La vita autentica è sulla riva ulteriore, al di là della felicità e della tristezza. Non so se ha ragione chi esorta ad essere “in tristitia hilaris in hilaritate tristis”; ma so che la previsione dell’una tempera il godimento o la sofferenza dell’altra, evitando di smarrirsi nei postumi dell’allegria o della tristezza, e le rende entrambe ancelle e non signore del nostro animo.

Resta tuttavia vero, e correggimi se sbaglio, che la felicità è un lievito di follìa, mentre la tristezza si accompagna al senno. C’è qualcosa di infantile nella felicità e di senile nel senno, la perfezione sarebbe gustare l’infanzia con la saggezza di un anziano e le energie di un ragazzo; ma è impossibile. Di quella follia abbiamo tuttavia bisogno se sa esser lieve e breve; e su quel senno si fonda l’umanità, a patto che sorvegli ma non sopprima il nostro umanissimo piacere di vivere.

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MV, Vivere non basta, Lettere a Seneca sulla felicità (Mondadori, 2011)

E se il Covid non dovesse mai finire? Il dovere di immaginare un futuro oltre questo inverno infinito

 

Antonio Scurati | 27 novembre 2021

La paura che torna. Pandemia e clima; un’epoca è finita, un’altra è cominciata, serve spirito di adattamento non la rassegnazione di individui malinconici, rabbiosi e solitari

E,se non dovesse mai finire?
Abbiamo a lungo evitato di dare voce a questa nostra paura impronunciabile.
Ammoniti a non farlo da un senso di responsabilità misto a scaramantiche proibizioni, abbiamo taciuto. Forse, però, è giunto il momento di confessare: non è forse vero che, mentre entra il terzo inverno di pandemia, si fa strada in noi il pensiero di un inverno senza fine?

Lo sbarco in Europa della variante sudafricana non soltanto alimenta la paura di un inverno pandemico senza fine, forse ne giustifica anche il timore sul piano della previsione razionale. Forse, giunti a questo punto, la coraggiosa speranza in una rapida uscita dalla crisi rischia di ribaltarsi in un superstizioso scongiuro. Credo che, giunti a questo punto, sia non soltanto lecito ma perfino doveroso trovare il coraggio di pronunciare apertamente il terribile interrogativo: e se non dovesse mai finire?

È utile farlo perché è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventi cronica. È possibile che mi sbagli ma, in tutta coscienza, ritengo giusto e doveroso tenere lo sguardo fisso sull’abisso che ci si è spalancato sotto i piedi.

Lo schema culturale che ha prevalso nelle interpretazioni e commenti sulla pandemia a partire dal marzo del 2020 è stato quello dei cicli di morte e rinascita. Stiamo attraversando un momento di tenebra – ci siamo detti – ma non dobbiamo disperare perché nessuna notte è infinita. La morte vendemmia nella nostra vigna. Bisogna stringere i denti, sbarrare la porta, pregare il Dio che avevamo dimenticato: la vita tornerà. Celebreremo il suo trionfo con una festa memorabile. Se l’inverno viene, non può essere lontana primavera.

Grazie al sostegno di questo archetipo dell’umana speranza, e dell’umana saggezza, abbiamo retto al primo, spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza. L’arrivo dei vaccini sembrò annunciare la primavera.

Ora che la quarta ondata già sommerge buona parte dell’Europa, e che un volo atterrato ad Amsterdam dal Sudafrica con 61 positivi su 600 passeggeri ne annuncia una quinta, forse è prossimo il momento in cui smetteremo di contarle.

Ora che la variante Omicron provoca una crescita vertiginosa dei contagi (e minaccia di poter aggirare i vaccini esistenti), forse faremmo bene ad attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una terra che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne. Un viaggio con destinazione sconosciuta.

Farneticazioni apocalittiche? Temo di no.

Se si trova il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, si scopre che ci siamo già accostumati a un’emergenza permanente, quella ambientale. Da anni, da decenni, viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente definitiva.

Ci siamo rassegnati, non adattati, a eventi meteorologici estremi, estati invivibili, spettri d’estinzione.
Ci siamo rassegnati al cronicizzarsi delle crisi migratorie. L’umanità ha dato prova di saper reagire con una insurrezione contro questo destino ingrato? Non certo sul piano politico. Il penoso fallimento della Cop 26 di Glasgow – tanto più penoso quanto più lo si traveste da mezzo successo – sta a dimostrarlo.

E allora? Allora bisogna riconoscere i nostri fallimenti, le nostre sconfitte, la nostra impotenza.

La prima conseguenza dell’abbandono del modello dei cicli di morte e rinascita per quello della cronicità comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale a risolvere con mezzi collettivi i problemi collettivi generati dalla ipercomplessità  della vita tardo moderna.
Sia la pandemia sia il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.
La politica che si attarda nelle sue stanche consuetudini novecentesche non sembra in grado di affrontarle.

È, dunque, facile prevedere che se l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, come si sono cronicizzate quella ambientale e quella migratoria, si accentuerà la tendenza, già in atto, verso forme di potere politico sorte dalla progressiva sospensione o cancellazione delle consuetudini democratiche. Le leadership populiste e i partiti sovranisti, subita una battuta d’arresto nelle prime fasi della pandemia, quando ancora si sperava nella prossima rinascita, se anche l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, rialzeranno senz’altro la testa. Avranno gioco facile a invocare la blindatura autoimmune nei confronti di un mondo globalizzato che ci invade con le sue varianti. Lo stanno già facendo.

La seconda conseguenza è che la fiducia nelle virtù civiche (mascherine, distanziamento, riduzione domestica dei consumi energetici, apertura all’altro da noi etc.) dovrà cedere il passo alla speranza nella soluzione scientifico-tecnologica delle emergenze. Molti già ritengono che il surriscaldamento globale possa, visto il fallimento della politica, essere contrastato solo dallo sviluppo delle tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica. Quasi tutti hanno confidato e confidano nei vaccini per il contrasto alla pandemia.

Le conseguenze del cronicizzarsi delle emergenze planetarie sarebbero molto altre. Non ho né lo spazio né le capacità per immaginarle. Forse, però, sarebbe il caso che cominciassimo a farlo tutti insieme, consapevoli che un’epoca è finita, un’altra è cominciata, e che ci preparassimo ad affrontarla con spirito di adattamento a livello di specie, non con la rassegnazione di milioni, miliardi d’individui malinconici, rabbiosi e solitari.

 

curva

Sapete cos’è il “Giubidomine”? Se lo sapete, leggere questo articolo, che ho trovato oggi su Repubblica, vi divertirà: se non lo sapete rimarrete stupiti per come le cose cambino in fretta e capirete perchè certe modernità non siano facili da accettare per certi anziani.

Avete presente le soffitte delle antiche dimore? Sono labirinti di vecchie cose deposte spesso alla rinfusa: memorie del tempo che passa, relitti della moda che cambia. Nonostante tutto, hanno sempre esercitato su di me un fascino potentissimo: persino il velo di polvere che si posa sulla superficie dei mobili, dei quadri, degli specchi fioriti di macchie mi sembra che abbia un buon odore. Un odore nobile, a modo suo: quello della Storia.

Capirete dunque l’eccitazione che mi colse il giorno in cui, all’improvviso, mi fu chiesto qualcosa che altri avrebbero preso per una rogna da allontanare, e io invece giudicavo un privilegio: decidere cosa fare dei beni appartenuti alla prozia Alvisa.

La prozia Alvisa, sorella di mia nonna, era morta alla veneranda età di 110 anni; un vero record persino in una famiglia come la nostra in cui le donne, vuoi per un dono genetico vuoi per il temperamento guerresco che scorre nel sangue, arrivano facilmente a superare la soglia dei novanta.

Come ogni ragazza di buona famiglia del suo tempo, Alvisa era stata educata in vista del matrimonio, della devozione al marito e alla famiglia. All’età di cinque anni – questo era l’uso di allora – la premurosa mamma aveva iniziato a mettere da parte gli oggetti che avrebbero dovuto formare il suo corredo da sposa. Il quale giaceva ancora intatto dentro una robusta cassa di quercia nella soffitta che dovevo esplorare, non sfiorato dalle ingiurie del tempo e anche da quelle umane: Alvisa infatti, dimostrando un’indole fiera piuttosto insolita per le donne dell’epoca, aveva elegantemente trovato il modo di rimanere nubile fino alla morte. Insegnante di pianoforte, si era sempre mantenuta da sé mantenendo in tal modo anche la propria indipendenza fisica ed emotiva.

Quel corredo da sposa di una ragazza benestante degli anni Venti mi intrigava più di ogni altro oggetto presente nella soffitta; chiesi dunque a mia sorella il favore di esplorarlo con me, e di condividerlo, anche, lasciando tutto il resto in eredità alle nostre cugine.

Che emozione, aprendo quella cassa! La prima sensazione che ne ricevemmo fu olfattiva, il particolare profumo che emanava: naftalina, immancabile antidoto contro le tarme, mista però a resine naturali usate probabilmente per preservare il legno dai tarli.

Dentro, un paradiso di tessuti differenti, alcuni dei quali addirittura lavorati su antichi telai domestici che ci immaginavamo percorsi da instancabili mani femminili. Pizzi, trine, delicati ricami a intaglio provenienti da una sapienza ancestrale… Dodici di tutto, era la regola nelle famiglie abbienti. Lenzuola, tovaglie, asciugamani di lino per il bagno e di cotone robusto per gli usi di cucina, e poi gli indispensabili pannolini per i tragici giorni del mestruo, che le donne fermavano alle mutande usando grosse spille da balia. Come dovevano essere scomodi…

La cosa che più ci colpì, anzi non è esagerato dire che ci lasciò attonite, fu però un’altra. Un corredo completo, ovvero dodici capi, di una lunga camicia da notte in lino spesso, con splendide smerlature sui polsi e lungo lo scollo. Bellissimo indumento, se non fosse stato per una particolarità che ci avrebbe fatto lambiccare il cervello: al centro della parte anteriore, più o meno quella porzione di camicia che doveva correre dall’ombelico a metà coscia, si apriva una lunga asola. Sì, esatto: un’asola tale e quale quella che si usa per i bottoni, solo che in questo caso bottoni non c’erano. Passammo almeno un quarto d’ora a considerare quell’anomalia, fin quando ci apparve evidente la verità: erano camicie da notte concepite per le partorienti, munite perciò di una grande asola centrale che avrebbe facilitato le manovre dell’ostetrica nel momento di sgravarsi.

Ci sembrò un’autentica rarità, così pensammo di visitare il negozio di un antiquario delle nostre zone, ansiose non certo di vendere la cara reliquia di famiglia, ma almeno di conoscerne l’esatto valore.

Spiegammo all’antiquario la dinamica del ritrovamento e le nostre congetture al riguardo. Si fece una bella risata alla faccia del nostro candore.

“Ma quale camicia da parto!”, ci disse. “E mi fa specie che certe cose io le debba sentire proprio da due donne…”.

“Perché le sembra assurdo?”, chiese mia sorella.

L’antiquario ci gettò un’occhiata di sbieco.

“Siete giovani, e da come parlate mi rendo conto che non avete ancora figli. Il giorno in cui partorirete, vi renderete conto che nessuna ostetrica è in grado di eseguire le manovre del parto disponendo di uno spazio ridotto come quello che passa dentro l’asola di quelle camicie”.

Ci sentimmo due povere sceme.

“Ma allora, scusi”, chiesi io, “a cosa diamine serve quell’asola lì? Mica per andare in bagno senza prendere freddo in inverno… l’apertura in tal caso dovrebbe trovarsi nella parte posteriore della camicia”.

La mia considerazione scatenò un’altra risata dell’antiquario.

“No, no”, rispose dopo essersi ricomposto, “Lei ha ragione almeno su un fatto: quell’asola serviva per far passare qualcosa. Qualcosa di più piccolo, tuttavia, rispetto alle mani di un’ostetrica o al corpo di un neonato”.

“E cosa?”, ebbe l’ingenuità di chiedere mia sorella.

L’antiquario arrossì. Giuro. Arrossì davvero, anche se la situazione gli sembrava estremamente spassosa.

“Dovete sapere, ragazze care, che la vostra prozia visse in un’epoca molto lontana dal nostro tempo. Non è solo una differenza data dai cellulari, da internet, dalla televisione… A livello morale, per esempio, negli anni Venti esisteva un codice rigidissimo. Oggi può sembrare grottesco, ma allora era la norma condivisa da chiunque”.

“Che norma?”, feci io.

L’antiquario si schiarì la gola. Dalla sua espressione, capimmo che intendeva prenderla molto alla larga.

“Prima del Concilio Vaticano Secondo, che avvenne nel 1968, era d’obbligo che una puerpera non uscisse di casa in quanto considerata impura per aver trasmesso al figlio neonato il peccato originale. Il peccato della carne e del sangue. E quando il bambino veniva liberato da questa macchia morale con il battesimo, anche la madre doveva mettersi in ginocchio per ricevere dal prete una speciale benedizione liberatoria, una forma di esorcismo”.

Aguzzammo le orecchie. Quella specie di lectio magistralis ci intrigava, non vedevamo l’ora che il nostro saccente antiquario arrivasse a spiegare il mistero della camicia con l’asola davanti.

“Se la morale cattolica considerava peccato mettere alla luce un figlio, ovvero dargli la vita, immaginate come poteva giudicare l’atto naturale con cui quella vita era stata concepita nove mesi prima?”.

La domanda ci lasciò di sasso. Per alcuni istanti rimanemmo attonite e in silenzio, nessuna di noi due osava dare voce al pensiero apparso nelle nostre menti come un fulmine a ciel sereno.

Mia sorella si riscosse prima di me.

“Dunque…”, esitò… “perciò quella camicia da notte serviva… Per il sesso?”.

L’antiquario ridacchiò.

“Sesso… Anche questa è una parola troppo moderna. Implica la libertà mentale di pensare che l’atto fisico tra maschio e femmina abbia un valore di per sé, una sua dignità autonoma…”.

“Insomma!”, sbottai io, “ci siamo capiti su cosa esattamente doveva passare dentro quell’asola, oppure no?”.

“Certo”, rispose lui, “ma non avete afferrato per niente il concetto di base. Non si trattava di sesso, ma di obbedienza”.

“Obbedienza?”

“Assolutamente sì. Ottemperare al sacro dovere di procreare per dare continuità al mondo e alla Chiesa. Tant’è vero che quel particolare tipo di camicia ha un nome per così dire liturgico. Si chiama giubidomine, derivato dal latino iubet Dominus, ovvero “Dio lo ordina”. Mi spiego?”.

Si era spiegato benissimo, in realtà; solo che noi stentavamo a crederci.

“Dunque le donne andavano a letto con quella camicia che le copriva dal collo ai piedi – dissi incredula – e i mariti…”.

L’antiquario fece il gesto di stringersi nelle spalle.

“Ragazze mie, quelli erano i tempi. Quella era la mentalità. Per la donna la faccenda doveva rappresentare più che altro un atto di sottomissione, un obbedire devoto ai doveri familiari, al marito, alla severa disciplina religiosa sul matrimonio. Ma per gli uomini non era poi tanto meglio, almeno psicologicamente. I preti consigliavano in confessione di toccare le proprie mogli il meno possibile, anche durante l’atto coniugale. Provare piacere era una colpa, persino nel matrimonio. Tant’è vero che prosperavano i bordelli, a quel tempo. Così gli uomini potevano togliersi liberamente certi sfizi”.

Mia sorella, attivista in una onlus per i diritti delle donne nel mondo, prese letteralmente fuoco.

“I maschi!”, tuonò. “E le donne, allora? Solo subire, solo obbedire!?”.

La cruda realtà era sotto i nostri occhi, e il sapiente antiquario non poteva proprio farci niente. Ricordavamo entrambe che quella strana parola, “giubidomine”, era usata nel dialetto delle nostre zone per indicare una gonna troppo lunga, un cappotto troppo largo, qualcosa che insomma infagotta la figura femminile in modo da nascondere le forme e annichilire il sex appeal. Un termine dispregiativo. Credevamo però che fosse solo una parola inventata… Invece no. Indicava un preciso capo di vestiario con una struttura sua. Con un’identità definita, anche se atroce. E la funzione di cimitero per qualunque afflato passionale nella coppia. Era doloroso immaginare quegli amplessi asettici consumati tra i due corpi attraverso lo schermo di lino di quella camicia… Un contatto arido e freddo. Rasposo, per giunta: le tele del tempo non erano tanto morbide al tatto.

Quanti matrimoni erano stati condannati a quella tristezza, inariditi dal senso di colpa, annegati nella fretta di fare prima che si può, per togliersi dalla coscienza l’adempimento del dovere… E le fiamme della passione? E i gesti del prendere piacere e darlo, attraverso i quali passa l’oro inestimabile della tenerezza? Tutto perduto. Tutto negato dal castigo del “giubidomine”.

Uscimmo dal negozio dell’antiquario scure in volto. Per diversi minuti nessuna di noi due parlò all’altra. Covavamo in cuore lo stesso malumore.

“Io le faccio a pezzi!”, sbraitò mia sorella.

La proposta mi ripugnava, dopotutto.

“Perché non le diamo in beneficenza?”, proposi.

Lei accettò la proposta, benché di malavoglia. L’idea di ridurre a brandelli quella specie di galera tessile, quel cimelio di una discriminazione mutilante e odiosa la seduceva molto. Accettò per farmi contenta, e anche perché in questo modo qualcun altro avrebbe tratto un beneficio da ciò che era stato fabbricato appositamente per ledere e danneggiare.

Portammo così le dodici camicie da don Tonino, il parroco attempato che si occupava di raccogliere abiti usati per la Caritas. Era un vecchietto arzillo, per i suoi ottantacinque anni, e ancora nel pieno delle facoltà mentali. Dopo averci ringraziate, osservò le camicie con istanti di perplessità. Che subito lasciarono spazio a una faccia divertita.

“Il “giubidomine”!”, esclamò ridendo. “Dove li avete trovati?”.

“Nel corredo di una nostra prozia morta a centodieci anni”, borbottò mia sorella.

“Ne avevo sentito parlare da ragazzino, e poi anche in seminario. Giuro però che è la prima volta che li vedo dal vivo!”.

Mi sorella s’indignò. In quel momento il vecchio parroco le appariva come il guardiano di quella morale cattolica schiacciante che aveva lasciato dietro di sé un’interminabile scia di lacrime e insoddisfazione.

“Lei non prova disagio nel guardare queste camicie, don Tonino? Non crede che la Chiesa dovrebbe chiedere scusa per le umiliazioni che ha inflitto alle donne durante quasi duemila anni?”.

Il prete sembrava spiazzato.

“Sì!”, rincarò lei sempre più appassionata, “la negazione del diritto al piacere fisico. L’imposizione del rapporto sessuale come un obbligo nei confronti del marito, addirittura fatto assurgere a precetto religioso!”.

“Non capisco…”, balbettò il poverello.

Mi sentii in dovere di mediare nella situazione imbarazzante che si era creata.

“Ci scusi, don Tonino. Abbiamo scoperto a cosa serviva quell’asola nelle camicie e ci siamo rimaste male, ecco tutto. Sarà d’accordo con noi che la morale cattolica dei decenni passati era troppo rigida. Diciamo pure disumana, sotto certi aspetti… Mi pare assurdo negare il diritto al piacere fisico persino nella coppia regolarmente sposata. Persino laddove il matrimonio era stato benedetto dal sacramento”.

“Sono precetti del diritto canonico”, obiettò lui con mitezza.

“D’accordo, reverendo, ma tutto questo non è accettabile. Non è giusto”.

“Certo che non è giusto”, fece il prete. “Ogni ragazza che si sposava aveva almeno una camicia di quel tipo nel suo corredo. Sapeva di dover mettere quell’indumento ogni volta che andava a letto. Era un dovere importante, perciò lo compiva. Tanti matrimoni sono stati felici anche così”.

“Felici?”, tuonò mia sorella. “Col giubidomine addosso?!”.

“Ma no”, rispose don Tonino. “Una volta entrata nel letto, se lo toglieva”.
L’autrice
Storica del Medioevo, Barbara Frale è nota nel mondo per le sue ricerche sui Templari ed è autrice di monografie e romanzi di successo, oltre che consulente storica della serie tv Rai I Medici. Masters of Florence. Dopo i bestseller I sotterranei di Notre-Dame e Cospirazione Medici – per citarne alcuni – si è dedicata a un romanzo che indaga sulla figura di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi: Leonardo da Vinci. Il mistero di un genio, edito Newton Compton, 12 euro.

 

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La famosa invasione degli orsi in Sicilia…

Dino Buzzati è stato uno scrittore versatile, capace di spaziare dalla scrittura giornalistica alle fiabe, dal fantastico-allegorico a racconti di estremo realismo. Si è inoltre distinto come illustratore e fumettista, realizzando i contributi iconografici per i suoi stessi libri, anzi, ha sempre considerato la pittura la sua vera professione e la scrittura un hobby, sebbene si più noto per i suoi racconti verbali che per quelli figurativi. Una delle opere in cui emerge al meglio questa sua doppia vocazione è La famosa invasione degli orsi in Sicilia, fiaba illustrata pubblicata nel 1945 sul Corriere dei piccoli e successivamente in volume. Si tratta di un racconto fantastico, condotto in forma di prosimetro, con sezioni di canti e dialoghi i versi che si inseriscono nella narrazione e, insieme alle immagini, ne accentuano la freschezza.
La famosa invasione degli orsi in Sicilia - immagine

 

Brevissima e scritta con la semplicità che si addice ad una narrazione per bambini, la storia è tuttavia tutt’altro che banale, ma muove da una premessa molto semplice per caricarsi sempre più di significato, invitando i lettori più e meno giovani ad una riflessione profonda.

L’invasione cui fa riferimento il titolo è quella del popolo degli orsi sudditi del re Leonzio, che, in un remoto passato in cui la Sicilia era una terra gelida e ben diversa da oggi, scatena il suo popolo giù dalle montagne per far fronte ad una carestia ma anche per cercare il figlio Tonio, rapito, cucciolo, dagli umani. Inizia così una feroce guerra fra gli orsi e l’esercito del Granduca di Sicilia, uno scontro al quale prendono parte, con ruoli e moventi diversi, i cinghiali da guerra del Sire di Molfetta, il mago De Ambrosiis, il terribile Gatto Mammone e molti altri personaggi. Fra battaglie, momenti conviviali ed eroici sacrifici, gli orsi si impadroniscono del granducato e re Leonzio cerca di stabilire una pacifica convivenza fra umani e orsi, tuttavia il mantenimento dell’ordine si rivela più difficile del previsto, perché gli orsi, prima abituati ad una vita semplice, si lasciano condizionare dal lusso, dalle mode e dai comportamenti umani e la loro natura viene progressivamente intaccata e modificata. Con la vittoria sul Granduca, insomma, i problemi di re Leonzio non sono cessati, ma, anzi, sono diventati più profondi e difficili da contrastare  .Come tutti i racconti di Buzzati, anche La famosa invasione degli orsi in Sicilia dimostra come una brevissima storia possa diventare l’occasione per interrogarci su noi stessi. La scelta degli orsi come protagonisti genera una prospettiva straniata, grazie alla quale abitudini, vizi e debolezze umani vengono proiettati fuori dall’essere umano, che, però, non può evitare di rispecchiarsi nella parabola di un popolo ingenuo e orgoglioso che, una volta raggiunto il proprio obiettivo, lascia che ciò che ha conquistato eserciti su di lui un’influenza negativa, corrompendone lo spirito. L’intreccio di questa morale con la materia fantastica fa esplodere la piacevolezza e l’ironia del racconto, infarcendolo di scene memorabili, fra suini che si gonfiano per magia e spiccano il volo, il serpente marino che minaccia orsi e umani e balletti intorno al falò con i fantasmi.
Disponibile anche nell’edizione illustrata per ragazzi, questo libriccino si presta ad essere la compagnia di lettori giovanissimi, l’ideale regalo per un compleanno o per il Natale (che è sempre il periodo d’oro delle fiabe), un’ottima lettura da condividere a scuola. Ma anche sui più grandi potrà esercitare il suo fascino, ché certi messaggi rimangono universali e un bravo narratore come Buzzati promette sempre a chi lo sceglie un intrattenimento letterario di qualità.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia libro“Scendiamo al piano. Meglio combattere con gli uomini che morire di fame quassù”, dicevano gli orsi più animosi. E al loro re, Leonzio, diciamo la verità, l’idea non dispiacque: sarebbe stata una buona occasione per cercare il suo figlioletto. I pericoli, se tutto il popolo fosse sceso in massa, sarebbero stati ben minori. Gli uomini ci avrebbero pensato su due volte prima di affrontare un esercito simile.
Ignoravano gli orsi, compreso Re Leonzio, chi fossero veramente gli uomini, quanto cattivi ed astuti, che armi possedessero, che trappole sapessero escogitare per imprigionare le bestie. Gli orsi non sapevano, gli orsi non avevano paura. E decisero di lasciare le montagne per scendere nella pianura.”

Rbl da Atenae Noctua

Giochi di bambini, Bruegel racconta la noia del quotidiano-

 

pietr Brueghel il vecchio giochi dei bambini

“Giochi di bambini” raffigura una grande piazza che accoglie gruppi di bambini, intenti a giocare. Più di ottanta giochi tipici di quel periodo sono rappresentati nel quadro. Grazie a questa sorta di fotografia siamo, dunque, in grado di capire come passavano il tempo i bambini vissuti nella seconda metà del Cinquecento. Dal dipinto, infatti, sono facilmente riconoscibili, fra gli altri, i giochi come “fare un finto matrimonio”, “mosca cieca”, “pentolaccia”, “morra”, “scarica barili”.

La scena ripresa da un punto rialzato permette di godere di una visione più dettagliata di quanto accade nella piazza. Le figure sono disposte in maniera equilibrata, si alternano bambini a personaggi singoli. I soggetti risultano ben visibili grazie al terreno che si presenta ora a macchie, ora polveroso, ora fangoso. Le figure dalle linee arrotondate si stagliano sullo sfondo grazie ai contorni netti utilizzati da Bruegel. Sulla sinistra, nella parte superiore del dipinto, l’artista offre un scorcio di natura , un punto di fuga offerto dagli alberi e dal fiume e dalla veduta delle case in lontananza.

Se al primo sguardo il quadro pare offrirci un’atmosfera di allegria e di convivialità, ad una più attenta osservazione ci si accorge che non è proprio così. I volti dei bambini, ripresi nell’atto di giocare, infatti, sono tutt’altro che felici, e mostrano invece un sentimento di monotonìa. I fanciulli appaiono annoiati, quasi come giocare fosse un affare inutile. I giochi non sono altro che una mera imitazione della vita degli adulti. A sottolineare questo, alcune messe in scena ideate dai bambini che fingono di celebrare un matrimonio o un battesimo e, ancora, le sequenze dei piccoli che indossano una maschera da adulto per spaventare i passanti.
Pieter Bruegel era solito dare questo tipo di messaggi. In tutta la sua produzione, infatti, viene ripreso l’uomo nella sua bestialità. Le quotidianità vengono percepite come inutili e svolte senza alcuna soddisfazione. Ad aggiungere un che di grottesco all’opera, senza dubbio, il fatto che i protagonisti siano dei bambini che, prima ancora di affacciarsi alla vita già la percepiscono come faticosa e noiosa-

Pieter Bruegel o Brueghel nasce a Breda intorno al 1525- 1530. Il pittore olandese è conosciuto con il soprannome di “il Vecchio” per distinguerlo dall’omonimo figlio primogenito, che intraprese la stessa carriera del padre.

Non solo pittore, ma anche disegnatore e incisore, Bruegel è considerato il più grande artista della prima metà del Cinquecento nel nord Europa. Malgrado il periodo di attività piuttosto breve, ha lasciato circa una settantina di opere che presentano episodi di vita quotidiana e paesaggi dell’epoca.

Comportamenti ecologici che fanno male all’ambiente…

Paradossi green: pratiche che molti di noi credono virtuose in realtà portano più danni che benefici. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni: un saggio aforisma che ben descrive alcuni paradossi della galassia green. L’inferno, ovviamente, è la catastrofe climatica in cui siamo entrati a passo deciso. Le buone intenzioni sono alcuni dei nostri comportamenti “ecologici”, che abbracciamo con entusiasmo ma che aiutano a scavarci la fossa.

Abitudini, eccesso di zelo, cattiva comunicazione: quali sono le convinzioni più dannose e più radicate che dobbiamo assolutamente correggere?
Molte hanno a che fare con i consumi domestici. Per esempio, fare la doccia è più eco-friendly che fare il bagno, ma attenzione alla durata. Le docce “meditative” da 10 minuti consumano circa 150 litri d’acqua, l’equivalente di un bagno caldo, a cui va aggiunta l’energia utilizzata per scaldare l’acqua. Docce brevi e un buon rompigetto ci aiuteranno ad essere più green e attenzione alla temperatura dell’acqua, che , per chi teme il freddo, va scaldata il minimo necessario. Vale lo stesso per la lavastoviglie: risparmiamo acqua solo se la avviamo a pieno carico e a programmi a bassa temperatura.
Il riciclaggio è un’altra nota dolente, specialmente quello della plastica. Vanno bene raccolta differenziata e bioplastica, tuttavia nel 2019 il nostro Paese ha riciclato appena il 45,5% degli imballaggi Si tratta di un processo inquinante nella fase del trasporto e della trasformazione. Gettare i rifiuti nel giusto raccoglitore è fondamentale, ma l’obiettivo è produrne sempre di meno.
E poi c’è l’abbigliamento. Anche in questo caso, l’obiettivo deve essere quello di acquistare meno, riadattare, comprare usato anche se il nostro brand preferito è improvvisamente diventato “eco-conscious” . È giusto che le aziende si impegnino ad essere sostenibili, ma il problema è a monte. E attenzione al greenwashing.Il bucato? Se proprio serve- Essere sostenibili non è una questione di moda e non si risolve acquistando  la cosa giusta. La sostenibilità ha a che fare con il nostro stile di vita, e ha un impatto sui nostri comportamenti. Non possiamo comprare la sostenibilità, semmai possiamo donarle il nostro tempo. E quindi: invece di buttare, riutilizziamo, riadattiamo Pensiamo alle nostre azioni quotidiane e chiediamoci: come posso produrre meno rifiuti? Come posso utilizzare meno risorse? Tutto qui.

Come fare?

La doccia è green? Sì, ma entro i 5 minuti.
La raccolta differenziata della plastica è sacrosanta, ma il vero obiettivo è produrre sempre meno rifiuti.
Non serve “acquistare” la sostenibilità: basta riciclare ciò che abbiamo e comprare meno cose.

 

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Non è colpa mia se sono bianco etero-

Siamo di fronte a una specie di corporativismo della sofferenza che non è solamente antisociale, perché rinchiude in nicchie e in definizioni quasi maniacali problemi che appartengono all’intera comunità

 lapostadiserra@repubblica.it

Caro Serra, sono marito felice di una moglie in carriera che guadagna molto più di me; figlio di una donna che delle istanze femministe ha fatto la sua bussola; amico e collega di tante di straordinaria capacità con le quali condivido orizzonti e idee; padre di due figlie alle quali non ho mai neanche dovuto spiegare perché mia cognata è innamorata di un’altra donna e vive con lei, tanto è naturale per loro. Nel mio orizzonte i problemi della disuguaglianza di genere e delle discriminazioni sessuali non esistono. Ovvio, sono e restano questioni sociali di scandalosa urgenza, che richiedono grande attenzione e cura: sarei stupido a ricavare dal mio felice microcosmo conclusioni universali. Ma la questione è un’altra: sono stanco di dovermi giustificare per appartenere alla categoria del maschio bianco eterosessuale. Non sopporto l’idea che su alcune questioni non sia ammesso il dissenso a chi non appartiene direttamente alle categorie discriminate. Non è concepibile che ogni argomento dissonante sia immediatamente squalificato come “suprematista”, “patriarcale”, “omofobo” o con analoghe etichette. Anche un recente articolo di Luca Ricolfi ha trovato il medesimo contrappunto censorio. L’argomentazione perde subito aderenza con i temi trattati e si sposta sulle caratteristiche personali di chi formula un’obiezione. Di qui, il passo verso il linciaggio è breve e spesso viene compiuto. Dolorosissimo è stato assistere alle scostumate contumelie che hanno investito Natalia Aspesi (la Aspesi!) quando si è azzardata a esprimere alcune perplessità sul modo in cui alcune battaglie femministe sono condotte. Un livore insopportabile, che mi spinge a irrigidirmi verso posizioni che nemmeno mi appartengono. Ma un mondo in cui non posso dire serenamente la mia è un mondo a cui sono estraneo e che combatto. Serra, le riconosco il merito di essersi sempre sottratto alla logica dello scontro e allo schematismo della contrapposizione amico-nemico in cui il dibattito rischia di soffocare. Mi chiedo però se rispetto a certi atteggiamenti il fair-play sia sufficiente e se non serva contrastare in modo più deciso quel furore che trasmoda in fanatismo. Anche se al servizio di una buona causa, sempre di fanatismo si tratta. E ci rende tutti peggiori.
Andrea Merlo

Caro Merlo, lei scrive che «su alcune questioni non è ammesso il dissenso di chi non appartiene alle categorie discriminate». Forse è anche peggio: non si ammette nemmeno il consenso di chi non appartiene alle categorie discriminate. Siamo di fronte a una specie di corporativismo della sofferenza che non è solamente antisociale, perché rinchiude in nicchie e in definizioni quasi maniacali problemi che appartengono all’intera comunità; è anche rovinosa, perché rende impopolare, e a volte ridicolizza, la lunga e dura lotta per i diritti, per l’inviolabilità e  l’autodeterminazione di tutte le persone umane.

È un grave errore, però, lasciarsi intimidire o suggestionare dalle tribù organizzate (spesso in lotta tra loro) che si pretendono concessionarie uniche delle battaglie di libertà. Molte, troppe persone prima di aprire bocca o di scrivere sui giornali si domandano “come reagiranno i social”. Gravissimo peccato di viltà. Questo è un momento storico nel quale l’esercizio della parola va tutelato con scrupolo, e se necessario con durezza. “Non sei tu il mio giudice” è la sola risposta che meritano le falangi di depositari della Verità. Qualcuno di loro ha piaghe da curare e sofferenze da lenire, ed è una giustificazione importante. Molti altri hanno solo spocchia intellettuale e astio personale, e in aggiunta (recente) devono valorizzare, strillando, rendite di posizione che derivano dalla loro inedita visibilità politica, non dal loro talento. Di loro non bisogna curarsi. Ci vogliono un briciolo di coraggio (ben altre prove, per difendere la libertà di parola, hanno dovuto affrontare le generazioni precedenti) e soprattutto molta serenità.

E dunque no, non ci si deve giustificare per essere maschio, bianco e eterosessuale. Non è un merito, non è una colpa, è solo una condizione umana molto diffusa. Ognuno di noi deve rispondere solo dei propri comportamenti e della propria storia personale. Il resto è da respingere al mittente, e immagino che anche Aspesi e Ricolfi lo abbiano fatto.

Sul Venerdì del 12 Novembre 2021