7F Ricordando Diego…

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(…) Guardavamo a distanza gli occhi di Diego, ma si leggeva lo stesso la sua promessa, l’affetto ricevuto lo avrebbe ricambiato. Lunedì 20 maggio 1985, mio padre mi mise al collo la Nikon FM e disse: “segui tuo fratello e impara presto a fotografare come lui”. Nemmeno un anno dopo quel 5 luglio che fece esplodere il mio cuore da scugnizzo mi ritrovai ad un palmo dal Dio del Calcio, cominciavo a immortalare sulla pellicola le mie emozioni. Fotografavo le mille espressioni di Diego, le sue danze con la palla sul campo di Soccavo, dove si allenava il mio Napoli, il Napoli di Maradona.

Quando finiva l’allenamento finiva anche il mio lavoro, ma se Diego restava restavo pure io, sulle gradinate c’erano persone che venivano anche da lontano per lui, adulti e bambini; Maradona guardava tutti negli occhi, continuava a dare spettacolo per loro, lo spettacolo più bello del mondo sul terreno del Paradiso.

Il 28 agosto del 1985 andai allo Stadio San Paolo per la prima volta non sugli spalti, ma sul terreno di gioco, mi tremavano le gambe mentre salivo gli stessi scalini che quel giovedì di luglio aveva salito Dieguito mentre io lo guardavo da lontano. Si disputava una partita di Coppa Italia, Napoli-Salernitana, finì 3 a 1 con doppietta di Maradona e un gol di Bruno Giordano.

Andavo spesso agli allenamenti per conto del giornale, ma anche per conto mio, le prime volte mi mettevo in un angolo con il teleobiettivo, ma con il tempo che passava mi avvicinavo sempre di più fino a stare in mezzo ai calciatori, grazie alla complicità del capo ufficio stampa della Società, Carlo Iuliano, Carletto per chi gli voleva bene, come me, mio fratello e il suo amico Mario, nostro padre.

Maradona agli allenamenti era il massimo della bellezza, forse quello era l’unico momento in cui si sentiva completamente libero, si leggeva nei suoi occhi. Gli ho visto fare cose in allenamento mai viste in una partita ufficiale, cose straordinarie, alcune volte indossava i guantoni di Claudio Garella, il portierone del primo scudetto, volava tra i pali come un angelo scugnizzo, e anche in queste circostanze c’era sempre un puttino accanto a lui, qualsiasi cosa facesse: il tamburino sardo, Gianfranco Zola.

Quando palleggiava si fermava tutto, anche gli orologi, assistevamo in silenzio come a un antico rito tribale tra D10S e il totem di cuoio, il suo rapporto intimo e magico con il sacro pallone che nemmeno la pioggia lo fermava. In mezzo al terreno del Paradiso l’angelo azzurro sguazzava nel fango, come gli scugnizzi di piazza Montecalvario, ai Quartieri Spagnoli, dove io sono nato e cresciuto.

Sono rimasti tutti, per me, ricordi indelebili. E per questo dico grazie a mio fratello Riccardo, perché mi ha insegnato a fotografare le emozioni. A mio padre Mario, perché altrimenti avrei vissuto un’altra vita. E a mia madre Francesca, perché mi ha fatto nascere con la camicia.

Sergio Siano

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Diego Armando Maradona

Lanús, 30 ottobre 1960 – Tigre, 25 novembre 2020

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Caro Diego, la verità è che non te ne sei mai andato.

Da quel pomeriggio di luglio, quando salisti questi gradini e uscisti nel sole e nell’amore di ottantamila pazzi di te, stretti da ore nel caldo solo per sorriderti. Ti guardasti attorno e lo capisti in un attimo, che questa era la tua erba e la tua luce, perché i grandi amori se sono veramente grandi si sentono sulla pelle del cuore.

La verità è che non te ne sei mai andato, perché questa è l’unica grande città che ha una maglia sola, ed è una questione di colore, perché se è vero che siamo figli della nostra montagna piena di fuoco e sempre pronta a esplodere, è anche vero che siamo immersi in un azzurro che assomiglia al paradiso: e tu diventasti subito nato qui, perché può essere un caso nascere in un posto, ma non lo è mai quando ci si guarda attorno e si dice sì, questa è proprio casa mia.

La verità è che non te ne sei mai andato, perché ti ci volle un attimo per decidere, con assoluta chiarezza, che avresti vinto per noi e che noi avremmo vinto con te. E se ci pensi adesso è strano, perché né tu né noi avevamo vinto mai: e tuttavia fu chiaro che da quel momento cambiava tutto, perché tu avevi trovato la tua aria e la giusta temperatura, e noi avevamo trovato il nostro capitano.

La verità è che non te ne sei mai andato, perché certe emozioni rimangono impresse sull’anima per il lampo intenso che le fissa, come su una pellicola, per sempre. E quell’emozione sei tu, perché sei venuto a insegnarci che non è vero che qui si può solo perdere, che siamo subalterni, che le decisioni importanti si prendono altrove e possiamo solo subirne gli effetti. Tu, piccolo e fiero, petto in fuori e mento alto, occhi allegri e felici di correre dietro a un pallone, e genio, genio, genio senza fine, contro il quale nessuno poteva fare niente, nessuno può fare niente.

La verità è che non te ne sei mai andato, e ci hai insegnato che possiamo anche salire in vetta assomigliando a noi stessi, rimanendo esattamente come siamo, senza dover imitare qualcun altro. Si può guardare tutti dall’alto essendo piccoli e bruni e fieri, senza odiare e senza abbassare la testa, rispetto per chiunque e paura di nessuno, cadendo mille volte e rialzandosi milleuna, senza timore dei calci e degli sgambetti, più forti dei mille destini scritti altrove.

La verità è che non te ne sei mai andato, e se esiste la tristezza di non poterti più vedere sorridere dalle tribune di questa che è la tua casa, resta il fatto che c’è un pezzo di te in ogni maglia azzurra, qui dentro e in ogni campetto e in ogni piazza, perché il nome di questa città resterà legato al tuo e il tuo a questa città.

La verità è che non te ne sei mai andato, quindi no, non sentiremo la tua mancanza perché sarai con noi, una perdita non è un’assenza ma un tipo diverso di presenza.

E ogni volta che un ragazzo con la maglia color del mare correrà a braccia alzate sotto la curva, noi vedremo te.

Con una lacrima dentro un sorriso.

Maurizio De Giovanni

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7F Ricordando Diego…ultima modifica: 2022-10-24T10:44:08+02:00da masaniello455