5N Letteratura Greca 1

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Cenni di storia sulle origini dei Greci e sull’età omerica.

Nella Grecia arcaica la cultura si organizzava in modi diversi, a seconda delle esigenze degli scrittori e delle epoche. Alcuni Autori erano tesi ad accontentare il pubblico ed il committente.

E comunque, ogni Autore, all’interno dei vari generi, apportava correzioni e contributi personali ai canoni; a volte, anche, modificando la tradizione.

La storia delle popolazioni di lingua greca e delle loro origini più antiche, appartengono alla preistoria.

Per creare una ricostruzione, sia pure vaga ed imperfetta, bisogna raffrontare le Fonti più diverse: mito; leggenda; dati archeologici e linguistici. Ciò non ostante i risultati non sono mai soddisfacenti e spesso sono addirittura contraddittori.

Un esempio di come si possa datare un evento è, per fare un caso, la guerra di Troia narrata nell’Iliade di Omero. Questa guerra avvenne realmente, ad opera di invasori provenienti dalla Grecia. Se ne può esser certi da varie fonti. Per citarne solo un paio: Erodoto, che data tale guerra al 1200 a.C., e gli scavi sulla collina di Hissarlik che lo confermano.

Sulla collina di Hissarlik, il luogo dove sorgeva Troia e dove ancor oggi se ne possono vedere le rovine, si sono succedute 9 città, dal 2400 a.C., fino ad epoca romana (I-II sec. d.C.), i cui resti sono stratificati e ogni strato corrisponde ad una città. Gli strati sono appunto 9 e sono contrassegnati da numeri romani (da I a IX).

Storia della Grecia arcaica.

Il nucleo della leggenda da cui partiamo per costruire una “storia” dell’antica Grecia, è il “ritorno degli Eraclidi”. Euristeo caccia i figli di Eracle dal loro regno paterno: l’Argolide (parte sud-est del Peloponneso. Esso si trova davanti all’Attica). Dopo la morte di Euristeo, prendono il governo dell’Argolide gli Atridi. nel contempo i filgi e i discendenti di Eracle avevano tentato più volte di riprendersi il proprio regno. Ma furono soltanto i pronipoti di Ilo (figlio di Eracle e Deianira), insieme con i Dori, che vinsero in battaglia il nipote dell’atride Agamennone, Tisamene, e conquistarono tutto il Peloponneso, eccetto l’Arcadia (vasta zona centrale del Peloponneso).

Furono fondati tre regni: Sparta; Argolide; Messenia.

Questa migrazione, tuttavia, influì su altre genti. I Tessali spinsero a sud i Beoti. I profughi di Pilo in Messenia si stanziarono in Attica. Questi ultimi, molto più tardi, fondarono le colonie nelle isole egee e sulla costa dell’asia Minore, dove migrarono anche gli Eoli della Tessaglia e i Dori del Peloponneso.

Ma i ritrovamenti archeologici ci hanno permesso di spingerci ancora più indietro nel tempo.

Città importanti, grandi e opulente, come Cnosso, Micene, Tirinto, Tebe e l’Acropoli di Atene, hanno restituito alla luce i resti di una sfarzosità che è testimone del fatto che le genti che vi abitavano, erano popoli guerrieri, dediti alla razzia ed alla conquista.

Questi popoli fiorirono massimamente nella seconda metà del II millenio a.C. Ma Nel 1400 a.C. ca., fu distrutto il palazzo di Cnosso, mentre si affermava sul continente il ricco e potente centro che fu Micene. Poi, come per magia, tutto si interruppe improvvisamente nel XIII sec. a.C. Palazzi distrutti. Popolazioni decimate. Le arti scomparse. Sappiamo che questo crollo fu una catastrofe generale, che coinvolse tutto il Bacino Orientale del Mediterraneo. Ma a cosa essa fu dovuta non si sa e si possono fare al suo riguardo, soltanto delle illazioni. Forse ci furono migrazioni di massa o invasioni. Oppure si può pensare di ascrivere il fatto a cause naturali, come ad esempio lo scoppio del vulcano dell’isola di Santorini, che fece sprofondare in mare i tre quarti dell’isola stessa e che provocò onde d’urto di tale mostruosa forza, da arrivare persino in Egitto (ciò è attestato dai documenti papiracei), immaginiamoci la forza distruttrice di tali maremoti per le zone relativamente vicine!

La civiltà Micenea.

Di questa civiltà, ci sono rimaste (provenienti da Cnosso, Pilo, Micene) molte iscrizioni fatte su tavolette di argilla cruda, la quale poi risultò ‘cotta’, proprio a causa degli incendi devastanti che distrussero i vari palazzi in cui queste si trovavano. Esclusivamente per questo motivo le tavolette si sono mantenute fino a noi.

Ma è stato solo nel 1952, che uno studioso inglese, M. Ventris, riuscì a decifrare uno dei tre tipi di scrittura che compaiono sulle tavolette: la “lineare B”. Ventris, potè dar prova, decifrando tale documento, che si trattava di una scrittura sillabica di un dialetto greco.

Le tavolette presentano una scrittura geroglifica, composta da ideogrammi, e due alfabeti fonetici.

Essi si chiamano “Lineare A” e “Lineare B”, perché le lettere sono scritte su di una linea orizzontale. Le tavolette, tuttavia, sono della stessa età dela distruzione dei palazzi, e quindi non si può capire da esse da quanto tempo i Greci occupassero l’Isola. Le tavolette inoltre riportano elenchi di nomi di persone, o inventari di prodotti, ma nulla che ci possa aiutare per una datazione.

Alcuni studiosi pensano che i Greci di Micene, non costituissero un vero e proprio stanziamento di popolazione greca, ma fossero una sorta di classe dominante di lingua greca.

Comunque il fatto importante è che prima della scoperta del Ventris, si pensava che i Micenei fossero asiatici, mentre, grazie allo studioso, si è venuti a conoscere la verità: i Micenei erano Greci.

Prima infatti, quando si credeva che i Micenei fossero di origine asiatica, non si riusciva a capire come mai la leggenda di Troia (che ha per altro fondamento storico) parlasse di una spedizione di Achei (termine collettivo usato da Omero, per designare i Greci).

Il nome “Achei” è testimoniato in testi ittiti che parlano di contatti con una popolazione nomata “Ahhiyawa “. Inoltre Ceram ci informa che nel 1232 a.C. il Faraone Merneptha di Tebe, riportò una grandissima vittoria sui così detti “popoli del mare” (erano un’amalgama di genti imbarbarite, che si era data alla pirateria e di cui facevano parte molti gruppi etnici), fra i quali figurano anche gli “Eqwesh”, gli Achei. Oppure gli Egizi chiamavano “Hyksos”(“Re di pastori”) una popolazione che invase l’Egitto fra il 1600 e il 1400 a.C. e che dominò il Paese per cento anni. Gli Hyksos, a loro volta, furono abbattuti dal faraone Amosis. Gli Hyksos sono un popolo che proviene dalle genti greche dell’Asia Minore.

È altrettanto cosa certa che dai regni micenei si facessero incursioni in Asia Minore. Per questo dunque, c’erano grandi ondate migratorie e invasioni.

I Micenei erano un popolo guerrierro, come già si è detto, ed avevano armi di bronzo. Ma essi non conoscevano la lavorazione dei metalli, né tanto meno possedevano tecniche estrattive (tecniche in uso nell’oriente mediterraneo), nè conoscevano l’uso del ferro. Essi semplicemente sapevano fare soltanto a produrre olio, lana e vasellame. Allora come potevano procurarsi le armi? Nella maniera più semplice ed immediata. Facevano incursioni e razzie in luoghi dove sapevano di trovarne.

I secoli oscuri.

Riguardo al periodo che va dall’età delle tavolette micenee (1200 a.C.), fino alla stesura dell’Iliade (800 a.C.), i così detti “secoli oscuri”, abbiamo solo qualche informazione proveniente dall’archeologia e dai documenti degli Imperi Orientali (Ittiti; Assiri; Egizi).

Sappiamo che il periodo fra i secoli 1200-1100 a.C., fu di regressione e decadenza, al punto che forse si perse anche l’uso della scrittura (proprio come nel nostro Alto Medioevo).

Dal 1000 a.C. (forse per l’avvento di una nuova popolazione) si ha invece un’enorme rifioritura.

Il mondo miceneo assomigliava molto di più alle civiltà del Mediterraneo orientale, che non alla successiva realtà greca. E Omero nell’Iliade riflette proprio il mondo miceneo.

Quando i Greci cominciano a scrivere di loro stessi, si dànno il nome di “Elleni”, mentre tutti gli altri popoli sono per loro “Βάρβαροι” (Bàrbaroi), nome onomatopeico che significa “gente che balbetta”, “che dice βαρ-βαρ (bar-bar)”.

Verso l’800 a.C. i Greci conobbero il ferro e la metallurgia che era stata sino ad allora sconosciuta.

La nascita dell’alfabeto.

Dopo la scoperta del ferro e della sua lavorazione, si ebbe un altro evento veramente fondamentale ed importantissimo. I Greci compirono un passo epocale nella loro storia ed in quella di tutto il mondo a venire (almeno quello occidentale!). Essi compirono l’adattamento dell’alfabeto fenicio, per rendere meglio i suoni della lingua greca.

La scrittura micenea era sillabica. Ad ogni segno corrispondeva una vocale pura, o una sillaba aperta (“a; o; e; w; po; pe; pa; e non p-e”). Quindi per rappresentare un gruppo di consonanti necessitava una sillaba per ognuna di loro, e le consonanti finali, ovviamente, non potevano essere riprodotte. A volte lo stesso segno indicava suoni diversi (‘ l ‘ ed ‘ r ‘, oppure ‘k, kh, g’) (ciò avveniva anche nell’alfabeto etrusco). Così ad esempio “πεπτός” “cotto” (aggettivo a tre terminazioni della I classe) era reso nella forma micenea “pe-pe-to”. Oppure “Ήλεκτρύων”(-ονος, “Elettrione, padre di Alcmena”), in miceneo diventava: “e-re-ku-tu-ro-wo”.

Il fenicio invece, ha un segno per ogni consonante, ma non indica le vocali (esso infatti è un ‘alfabeto sillabico’, come lo è anche quello ebraico ed etrusco).

Ma i Greci, uomini dalle grandi risorse, e dall’intelletto molto arguto, come hanno sempre dimostrato nel corso di tutta la storia, presero dal fenicio i segni consonantici simili ai suoni del loro alfabeto, e là dove mancavano segni corrispondenti ai propri suoni, li inventarono, magari modificando quelli fenici, già esistenti.

E comunque, riguardo l’alfabeto, l’innovazione più geniale che i Greci apportarono fu quella di dare valore di vocale a quelle lettere fenicie che non erano utilizzabili, per non avere esse suoni vocalici corrispondenti in greco. Ecco allora che ad esempio, il segno della consonante fenicia “aleph” diventa in greco “alfa”. Venne così creato un alfabeto che, anche attraverso il latino, come vedremo fra breve, starà alla base di tutti gli alfabeti europei e anche di alcuni non-europei, come il turco e l’indonesiano.

Notizie sull’alfabeto latino.

Studi della prof.ssa Cristina Tarabella

Alcuni cenni sono tratti da: “Dizionario di Antichità Classiche di Oxford”.

Si pensava che in origine l’alfabeto latino avesse 20 lettere e che derivasse direttamente da quello greco di Cuma in Campania. Ma studi moderni hanno portato alla nostra conoscenza un’altra realtà.

Il latino, l’osco e l’umbro derivano sì dal greco, ma in maniera indiretta. Mentre direttamente discendono dall’alfabeto etrusco. Si ritiene che l’alfabeto latino derivi da una forma arcaica di scrittura etrusca, che a sua volta era derivata da un tipo di alfabeto greco della Grecia continentale a settentrione di Corinto. Ecco, per quale via indiretta, l’alfabeto latino discende, in ultima analisi, da quello fenicio.

Bisogna notare alcuni punti.

1) La C ossia Γ (gamma), in latino è usata in principio per k e per g. E questo deriva da un influsso etrusco (non meno che fenicio! – si veda sopra), perché gli Etruschi (ed i Fenici)

non distinguevano fra occlusive sorde (k) e sonore (g).

Solo nel III sec. a.C. si ha l’introduzione di G, distinta da C.

2) La Z. In un primo tempo si pensò che essa rappresentasse il suono di “S sonora” e che cadesse poi in disuso a causa del rotacismo (‘ausosa’ diventa ‘aurora’), fenomeno che si ebbe a partire dal IV sec. a.C. in poi. Ma bisogna notare che la lettera Z non si trova in nessuna iscrizione di età Repubblicana. Essa venne introdotta, in seguito, per tradurre lo ξ (csi) delle parole mutuate dal greco. E siccome nella sua prima fase di esistenza, la lettera Z occupava verosimilmente il 7° posto nell’alfabeto, e questo era stato ormai assegnato alla nuova lettera G, la Z fu relegata alla fine dell’alfabeto, come ultima lettera.

3) Il suono più vicino ad F latina era il digamma sordo in greco ƒh, che si trova nei dialetti. la pronunzia del digamma sordo è simile al “wh” scozzese. Quindi F latino è uguale a ų in greco. Per questo motivo si rese necessario esprimere in latino ų greco con v / e υ greco con y (che è un’altra forma di v).

La Y (altra forma di v) fu aggiunta nel tardo periodo Repubblicano, per indicare v che si indicava con ϋ.

La lettera i serviva da consonante (įam) e da vocale (pius).

L’uso di u e di i per le vocali e di v e j per le consonanti è di epoca medievalee non del periodo latino.

Mondo Miceneo e disgregazione.

Agli albòri della sua storia, il mondo miceneo era molto unito politicamente, ma con il passare del tempo sorsero numerose entità sociali, ognuna delle quali indipendente: con la propria storia e soprattutto con il proprio dialetto.

È ancora l’economia agricola la base strutturale di questi stati. Il commercio, inizialmente è nelle mani degli stranieri (in Omero vediamo che lo detengono i Fenici), ma poi le città iniziarono ad esportare i propri manufatti. Però è solo dal V sec. a.C. che si potrà parlare, per Atene, di stato mercantile.

I sovrani micenei sono ormai spariti, e ciò non ostante, della monarchia rimangono tracce sino in epoca storica. In Atene, uno degli arconti ha il nome di βασιλεύς. A Sparta ci sono 2 re coadiuvati dal Consiglio degli Anziani.

La costituzione della πόλις è di tipo aristocratico. Le famiglie nobili detengono il potere.

I nobili possiedono le terre, quasi tutte, quindi il cittadino libero, non ha altra scelta che mettersi al servizio, quasi come uno schiavo, di questi grandi latifondisti.

La popolazione cresce ed il lavoro diminuisce. Potere e territorio lavorativo sono accentrati nelle mani di pochi. Per questo si giunge ad una vera e propria ‘ crisi agraria ‘, che vede i greci allontanarsi dal loro Paese e andare a colonizzare le coste del Mediterraneo, per trovare nuove fonti di sostentamento.

Dal 750 a.C. ci furono colonie greche anche in Occidente, le quali servivano di appoggio per l’esportazione che avveniva dalle grandi città della Grecia.

La Sicilia fu la prima terra dell’Occidente ad essere colonizzata dai Greci. Ad Ischia è stata trovata una coppa con una fra le più antiche trascrizioni metriche (1 trimetro giambico + 2 esametri); essa risale all’ VIII sec. a.C.

Fra le colonie e la patria non c’era dipendenza. Le uniche cose che rimasero in comune furono la lingua ed i culti.

Dialetti greci.

I Greci stessi avevano diviso i propri dialetti in tre gruppi.

Ionico (con la variante dell’attico).

Eolico (dialetti di Lesbo, Tessaglia, Beozia).

Dorico suddiviso dai moderni in:

1) dialetti della Grecia nord-occidentale e

2) dorico vero e proprio, parlato nel Peloponneso.

Già Esiodo conosceva questa divisione.

La divisione era descritta attraverso la leggenda di Doro, Eolo e Ione: i tre figli di Helle; gli Elleni, appunto.

I Moderni hanno aggiunto un quarto gruppo linguistico, che è quello dei dialetti arcadico-ciprioti.

Dopo la scoperta del miceneo inteso come lingua greca, oggi si pensa che originariamente ci fossero due grandi unità linguistiche.

La lingua meridionale/orientale (miceneo, arcadico-cipriota, ionico-attico) e

la lingua settentrionale (eolico di Lesbo, Beozia e Tessaglia; dorico).

Ionico e dorico sono lingue “più giovani”.

In ionico scrissero i primi poeti dell’Asia Minore (Erodoto, Ippocrate e le Scuole di Medicina. Anche la lingua omerica è prevalentemente ionica).

L’attico è la lingua letteraria dei Drammi e delle Commedie, degli storici, degli oratori e dei filosofi Ateniesi.

L’attico è anche la lingua-base della “κοινή διάλεκτος” “la lingua comune”, imposta nei secoli IV-III a.C. da Alessandro il Grande in tutto il suo Impero, il quale si estendeva dall’Egitto, sino ai Regni di Poro, nel Panjab.

La lingua eolica era parlata da Saffo e Alceo.

Omero e la questione omerica.

Questo nome pieno di magia e suggestione, che tutti conoscono, al di là del fatto di sapere, o meno chi sia stato (e se sia esistito!) ‘veramente’.

Tanti hanno parlato di questo personaggio. Anzi, se ne parla quasi dai tempi stessi in cui visse: cioè dalle parti dell’ VIII sec. a.C.!

Già i Greci non possedevano notizie certe, né documentate riguardanti la vita di Omero.

Alcuni lo credevano contemporaneo alla guerra di Troia (1200 a.C.), o di poco posteriore ad essa (Plutarco).

Altri lo ponevano contemporaneo alla migrazione ionica (Filostrato);

altri ancora (Erodoto) pensavano che fosse vissuto nella metà del IX sec. a.C.;

altri lo ponevano 500 anni più tardi della guerra di Troia , cioè nell VIII sec. a.C.(Teopompo).

Queste enormi divergenze negli Antichi, ci fanno capire che già essi non ne sapevano, di Omero, più di noi.

Luoghi della nascita di Omero.

Anche il luogo della sua nascita era già controverso nell’antichità.

Chio era considerata la sua patria da Semonide di Amorgo, ma Smirne era indicata da Pindaro.

Poiché nella lingua omerica prevalgono elementi ionici, si è ovviamente portati a credere, che la sua patria d’origine sia la Ionia, giacchè Omero stesso sembra alquanto ignorante dei Dori del Peloponneso, la qual cosa sta ad indicare che conosceva poco quei luoghi. per quanto riguarda la sua morte, invece, sembra che Omero sia morto nella piccolissima isola di Io, nelle Cicladi, dove esisteva proprio una sua tomba.

La questione del nome.

Il nome ΄όμηρος significa ‘ostaggio’, ma anche ‘cieco’. E poiché la informazione più probabile è che Omero fosse di Chio, e ciò si può mettere in rapporto con l’esistenza a Chio degli Omeridi, che formavano una corporazione di rapsodi professionisti, i quali asserivano oltretutto di discendere dal poeta stesso, si può, a buon diritto, pensare che il nome ‘Omero’ significhi proprio ‘cieco’, giacchè, di solito, i rapsodi erano ciechi.

La sua cecità.

La tradizione vuole che Omero fosse cieco. Ma sta di fatto che tutti gli aedi erano ciechi, quindi ciò è alquanto verosimile anche per Omero e l’ ‘ Hymnus Homericus ad Apollinem ‘ parla di un poeta cieco di Chio, forse con riferimento a lui.

Il fatto che il poeta non parli di sé nell’opera sua può indicare che egli fosse di posizione sociale inferiore a quella dei suoi protettori.

Ma tutto ciò è solo un’ illazione.

Datazione attraverso le opere.

Datazione delle opere stesse: Iliade e Odissea.

Furono i filologi alessandrini, a partire dal III sec a.C. che divisero Iliade e Odissea, ciascuna in 24 libri, e dettero inizio a quella che prenderà il nome di ‘questione omerica’. Essi iniziarono a porsi domande riguardo la datazione delle opere e riguardo a problemi di lingua ad esse inerenti. Costoro avevano il nome di ‘Chorizontes’ (‘separatori’ > χωρίζω ‘separo’).

I ‘Chorizontes’ alessandrini, come trovarono le opere di Iliade e Odissea?

Esse erano scritte su un supporto scrittorio di pergamena, lungo e arrotolato: il ‘biblìon’. All’interno di esso, la scrittura dell’Opera era assai diversa da come la troviamo adesso nei testi. Vi era infatti ‘Scriptio Continua’, che significa una interminabile fila di parole tutte attaccate fra loro senza accenti, né spiriti. La ‘Scriptio Continua’ era il modo usuale di scrivere nell’antichità, almeno fino al I a.C – I d.C. sec. In questo modo, infatti, si risparmiava spazio, tempo ed inchiostro, tutte cose molto preziose. Il rotolo di pergamena, il ‘biblìon’, veniva poi messo in un astuccio, sempre di forma cilindrica, e per riconoscere l’Opera che esso conteneva, vi veniva attaccato un pezzo di pergamena, all’esterno, (il ‘sìttubos’, o ‘sìllubos’), che ne indicava il nome.

Ovviamente, per leggere l’opera, bisognava srotolare il ‘biblìon’ e ciò, ripetuto spesso, portava all’usura di esso. Fu però, adeguato un sistema che si usava con un altro supporto scrittorio,

la tavoletta cerata (‘deltòi’). I ‘deltòi’ avevano la possibilità di essere messi uno sopra l’altro e riuniti insieme a formare un ‘codex’. Questo sistema, molto più semplice per la consultazione, fu adottato in un primo tempo dalle comunità proto-cristiane, che scrivevano le loro preghiere su fogli di papiro, e li legavano insieme in modo da poter essere ‘sfogliati’, nella forma del ‘codex’, simile appunto ad un nostro libro. Quando questo sistema si diffuse, per la sua praticità, cambiò anche il supporto scrittorio, e al posto del papiro si usò la pergamena, molto più resistente e meno deteriorabile.

Il ‘codex’ di papiro però, non ebbe molto riscontro, perché esso, come supporto scrittorio, era veramente, molto meno maneggevole, rispetto alla più duratura pergamena. Ma il ‘codex’ nacque prima di tutto in papiro, perché era il materiale più a buon mercato che i poverissimi cristiani si potessero permettere. La pergamena infatti era molto costosa, e se la permettevano, all’inizio, solo i ricchi.

Quando poi la cultura e la lettura divvennero fatti di costume e quindi si diffusero per un vasto pubblico, si ebbe una produzione di pergamena su larga scala, ed essa venne a costare meno. Ma il papiro, come supporto scrittorio, non fu abbandonato, se non in tarda età, oltre il V sec. d.C. Semplicemente convivevano entrambi i supporti scrittori, ma ora in forma di ‘codex’ e non più in forma di ‘biblìon’.

I due poemi: Iliade e Odissea.

La critica moderna è ormai orientata verso un’ univoca interpretazione.

I due poemi sono stati scritti da poeti diversi, anche se, si riconosce per ciascuna delle due opere, la unitarietà; scritte ognuna da un’unica mano, sì, ma non dello stesso autore!.

Dopo gli importanti studi di W. Schadewaldt (1938) si è giunti alla conclusione che i due poemi sono stati scritti da due autori che hanno imposto unità di struttura poetica e scrittoria al materiale che trovavano nelle fonti dell’epica popolare cantata (e non scritta), tramandata secondo i metodi tradizionali dei cantori ( o aedi).

È ormai concordemente accreditato anche il fatto che fra Iliade e Odissea ci siano 4 secoli di mezzo (cioè, che l’Odissea sia più giovane di 4 secoli, rispetto all’Iliade).

Ciò è stato possibile costatarlo grazie alle nuove metodologie di indagine, che si avvalgono di sistemi comparati e di simulazioni fatte al computer.

Si è potuto dunque mettere a confronto in maniera sistematica le due opere, per quanto riguarda lo stile, l’uso della metrica e delle formule fisse, il tipo di lingua e l’uso del ‘modulo’. In questo modo si è giunti ad asserire che fra le due opere ci sono ben 4 secoli di differenza. Fermo restando, che entrambe rimangono pur sempre due opere unitarie, scritte ognuna da una sola mano.

Di qui innanzi, quindi, quando parleremo di Omero, gli affideremo la paternità solo di un’opera: l’Iliade.

Omero e la tradizione epica.

Ilio: una città a cavallo del mondo.

Omero deve molto alla tradizione epica. Infatti prima di lui e della sua opera, l’Iliade, i miti che egli narra in essa, erano già noti. E del resto, sarebbe un po’ troppo fantasioso pensare, che una persona, di punto in bianco, si sia inventata tutta la storia narrata nell’Iliade!

Si deve anche considerare, che la scrittura dell’Iliade e quindi l’esistenza di Omero (o comunque di un autore unico che scrive l’opera), risalgono al IX sec. a.C., ma i fatti narrati risalgono almeno a 300 anni prima, il 1200 a.C. Questo fatto è ormai concordemente accolto dagli studiosi, che si sono basati sui vari lavori di scavo e di archeologia, avvenuti nel corso dei secoli nelle rovine di Ilio, i quali scavi hanno evidenziato svariati ‘strati’ di sedimenti, appartenenti a periodi diversi, e dai riscontri eseguiti, incrociati fra archeologia, epigrafia, Iliade stessa, si è giunti a determinare che la guerra narrata nell’Iliade, prima di tutto, è realmente avvenuta, e in secondo luogo risale più o meno all’anno 1200 a.C. Gli altri strati appartengono ad altri momenti di distruzione della città.

Ilio, era una città iportantissima. Sorgeva nella Troade, una penisola dell’ alta Asia Minore. La sua posizione le permetteva di controllare tutti i commerci che passavano da est ad ovest e viceversa, attraverso il Ponto Eusino. Questa città aveva una posizione strategica unica, perché era in grado di permettere, o meno, con l’imposizione di dazii e tasse, tutto il movimento commerciale che andava dall’Oriente (i ricchi Regni dei persiani), ad Occidente (il mondo greco comunemente detto).

È ovvio che fosse spesso teatro di guerre di conquista, da parte di questo o quell’altro popolo!, chi aveva il controllo di Ilio e della Troade, aveva il controllo del mondo intero, perché controllava i commerci. Quindi, non una volta sola Ilio fu rasa al suolo, ma svariate volte, nel corso della sua storia.

La storia della guerra narrata nell’Iliade, come si è detto, risale almeno al 1200 a.C.

Dunque, se Omero ha scritto l’Iliade nell’ 800 a.C., e la guerra di cui parla era avvenuta nel 1200 a.C., ciò significa che doveva esistere un ciclo epico preesistente l’Iliade, che veniva narrato nei modi usuali: cantato a memoria dagli aedi presso le corti.

Questo fatto ci porta a considerare un’ altra importante questione.

Poiché, per mandare a memoria migliaia di versi, c’era necessariamente bisogno di un riferimento ‘tecnico-psicologico’; ciò si effettuava attraverso vari sistemi:

1) la metrica,

2) il sistema epitetico fisso,

3) il ‘modulo’.

Per aiutarsi a ricordare, l’aedo si avvaleva di questi mezzi. Il ritmo, dato dal verso esametrico, gli ricordava le cose come in una ‘filastrocca in rima’.

Il sistema epitetico fisso, gli dava l’opportunità di sapere che sempre in quel dato luogo del verso, si trovava un determinato epiteto, per un determinato personaggio, anche declinato.

E poi c’era il ‘modulo’. Esso era una frase sempre uguale in riferimento a uguali situazioni.

Abbiamo il ‘modulo di inizio discorso’:

E così qualcuno dei Troiani alteri dirà…” (Il. IV, 176)

il ‘modulo dell’esultare’:

“Così lui si vanterà…” (Il. VIII, 149 – Diomede)

il ‘modulo del dolore’:

“Allora a me si apra l’ampia terra…” (Il. IV, 82b)

Tutto questo sistema ‘per ricordare’ tipico dell’esposizione orale, lo ritroviamo immutato nell’Iliade scritta, la quale è pure in esametri, a maggior testimonianza del fatto che la metrica esisteva prima che si imponesse il supporto scrittorio.

Anche per questo sarebbe veramente assurdo credere che un giorno, ex abrupto, un signore di nome Omero (forse!), si sia svegliato e abbia detto: “Ah, oggi è proprio una bella giornata! Mi è venuta la voglia di inventare un sacco di cose: l’Iliade, l’esametro, il sistema epitetico fisso, e poi, già che ci sono, anche la scrittura; e scusate se è poco!”

No, le cose non stanno affatto così, ma molto diversamente.

Esisteva già tutto prima di Omero, compresa la scrittura. Solo che a nessuno era venuta in mente la stupenda idea, che invece pensò Omero: usare la scrittura, per comporre in un tutt’uno unitario una serie di miti e poemi epici, che fino ad allora venivano solamente cantati dagli aedi, e ognuno cantava quello che gli pareva e come gli pareva.

Quindi si deve al genio del signor Omero, l’aver raggruppato tante parti del mito ed averle composte in un’opera unitaria meravigliosa, affidandola alla sorte di un supporto scrittorio, affinchè essa potesse raggiungere la posterità in modo più sicuro, di quello offertole dalla tradizione verbale.

E tuttavia ciò non esclude che parti dell’Opera siano state rimaneggiate in seguito, nel corso delle varie copiature da parte degli scribi e degli ‘amanuensi’.

Infatti, ad esempio, il X Libro dell’Iliade è, ormai per ‘consensus universorum’, sicuramente ‘spurio’.

Il Poema dell’Iliade, per la sua struttura e forma, è da considerarsi ‘testo letterario’: il 1°che sia giunto fino a noi.

Questione dei tempi narrati all’interno dell’Iliade.

Il tempo narrato in Iliade ha ritmi diversi, a seconda delle diverse parti del Poema.

In Iliade si raccontano gli ultimi 58 giorni di una guerra durata 10 anni.

I ritmi sono diversi nella parte iniziale, in quella centrale e in quella finale. Più rapidi all’inizio e alla fine, molto più lenti nella parte centrale. Ci sono più giorni narrati in Iliade I e Iliade XXIV, che non nei libri centrali.

In Il. I troviamo narrate le vicende di 22 giorni.

In Il. XXIV, ci sono narrate le vicende di 21 giorni.

Ma il 27° giorno (morte di PATROCLO) occupa ben 6 libri (XI – XVIII); se declemassimo, leggendoli, i 6 libri che narrano il 27° giorno, il tempo necessario per farlo, corrisponderebbe quasi al tempo reale! Questo è il giorno più lungo.

Oltre a questo, bisogna far presente, a chi si approccia allo studio di questa Opera, che c’è un senso nella sua costruzione. Troviamo infatti dei nessi precisi, voluti e cercati, fra i Libri I e XXIV. Troviamo addirittura delle ripetizioni di singoli versi.

Corrispondenze e costruzione ad ‘anello’.

Certamente, se Omero ha fatto una raccolta di materiale a lui preesistente e lo ha organizzato in un’opera unitaria, quindi senza inventare nulla, bisogna nondimeno accreditargli il merito di aver apportato all’opera elementi del tutto personali e senza precedenti.

Omero ha costruito tutta l’opera su un singolo fatto, in realtà: l’ira di Achille. Ed è intorno a questo singolo elemento che prende corpo tutta la narrazione e grazie ad esso si sviluppa.

Inoltre, Omero, introduce altre novità personalissime, una delle quali è la ‘costruzione ad anello’.

Ciò consiste nel fatto che tutto comincia nel I Libro con un’azione ad esito negativo, e l’opera finisce nel XXIV Libro con un’azione del tutto analoga, ma con esito positivo. E mentre la prima aveva dato l’avvio all’ ‘ira di Achille’, l’ultima vede l’ira dell’eroe ormai del tutto compiuta e finita. Ma vediamo le cose più nel dettaglio.

In Il. I troviamo il riscatto di Crise, offerto ad Agamennone, affinchè gli restituisca la figlia Criseide presa come sua schiava e concubina. Ma in questo ambito il riscatto è rifiutato. Tale comportamento, per motivi che poi vedremo, dà inizio a quelle circostanze che vedranno come risultato la nascita dell’ira di Achille, la quale farà da perno portante per tutta l’opera.

In Il. XXIV ci imbattiamo in un’analoga situazione: Priamo che va a chiedere ad Achille il riscatto del corpo di Ettore. In questo ambito il riscatto è accettato e tale accettazione comporta anche la cessazione dell’ira di Achille.

Breve riassunto.

Libro I) Agamennone ha preso schiava Criseide, figlia di Crise sacerdote di Apollo. Crise chiede ad Agamennone in riscatto la figlia, ma Agamennone rifiuta il riscatto. Crise prega Apollo che lo vendichi ed il dio manda una grande pestilenza nel campo dei Greci. Achille, ispirato da Era, indice un’assemblea, dove interroga l’indovino Calcante, il quale rivela che Apollo è adirato con i Greci a causa del comportamento che Agamennone ha tenuto con Crise. Calcante afferma che, per debellare la pestilenza, Agamennone deve rendere Criseide al padre. Agamennone si arrabbia moltissimo e dice ad Achille che in cambio vuole una concubina di quest’ultimo, e precisamente Briseide: la favorita di Achille.

Achille è costretto a cedere per volere dei Numi, ma scoppia la sua ira e giura di non combattere più al fianco dei Greci. Achille adesso prega sua madre Theti affinchè interceda per lui presso Zeus, in modo che faccia perdere ai Greci molte battaglie. Ciò avviene. Siamo al Libro IX, quando si ha nuovamente un’assemblea dei Greci disperati, i quali si trovano tutti concordemente contro Agamennone, il quale non trova di meglio da dire, che proporre di tornarsene tutti in patria. Ma gli altri gli intimano di rendere Briseide ad Achille per placare la sua ira e farlo tornare finalmente a combattere contro i Troiani insieme a loro. Agamennone è costretto dall’Assemblea, ad accettare. Avviene un grande banchetto per festeggiare il ritorno di Achille (tale banchetto ha un esatto parallelo con il banchetto di Il. XXIV). Arriviamo al Libro XVI quando Achille permette a Patroclo di vestire le sue armi e guidare in campo i Mirmidoni. Siamo nel 27° giorno.

Patroclo viene ucciso da Ettore.

Achille si riconcilia con Agamennone e giura vendetta: Libro XIX. Theti consegna le nuove armi al figlio, quasi a consolazione della perdita di Patroclo.

Libro XXII e 28° giorno: Achille uccide Ettore.

Libro XXIV Priamo, padre di Ettore, va da Achille, sotto mentite spoglie (facendosi riconoscere soltanto da Achille, quando è giunto nella tenda di costui) a chiedere, previo pagamento di un riscatto, il corpo del figlio. Achille accetta il riscatto e finisce la sua ira.

L’Opera finisce con la celebrazione dei funerali di Ettore.

Altre novità nella costruzione dell’opera immesse da Omero.

Un altro senso di ‘costruzione’ voluta da Omero, è dato dal rapportarsi di vicende anteriori e successive. Comunque non si parla mai della caduta di Troia, né dell’inizio della guerra, ma si parla soltanto di una parte di essa: gli ultimi 58 giorni del 10° anno, prima della caduta della città.

Inoltre la singola vicenda dell’ira di Achille viene isolata e vi si associa la morte di Ettore, senza dare una narrazione continua della guerra.

Poemi del Ciclo Troiano. Essi riguardano altre fasi della guerra di Troia e sono coevi o anteriori all’Iliade stessa.

1) Kùpria: 11 libri; autore: Stasino (forse) VIII sec. a.C. (Antefatti della guerra di Troia).

2)Aithiòpis: 5 libri; autore: Arctino di Mileto VIII sec. a.C.

3)‘Ilias Mikrà: 4 libri; autore: Lesche di Mitilene VII sec. a.C.

4)Ilìou pèrsis: 2libri; autore: Arctino di Mileto VIII sec. a.C.

Kùpria; narrazione. “Arriva dall’Etiopia il re Memnone, il quale uccide Antiloco, e a sua volta viene ucciso da Achille.”

Ilìou pèrsis; narrazione. “Distruzione di Ilio. Vi si sovrappone anche ‘Ilias Mikrà, la quale, in una sua parte, narrava la distruzione di Troia.”

L’Iliade presuppone alcune vicende mitiche narrate nel Ciclo, come ad esempio il giudizio di Paride, che è narrato in Kùpria; oppure la morte di Achille, che è descritta in Aithìopis.

Queste cose Omero non le narra, ma vi si riferisce con una tacnica molto vicina al ‘flash back’.

Oppure usa altri sistemi, per informarci di cose che avverranno in seguito, ma che non trovano posto nella narrazione dell’Iliade. Omero sa, avendolo appreso dalla conoscenza delle opere del Ciclo, che Achille morirà quasi subito dopo Ettore, ucciso in campo da Paride, il quale viene aiutato dal suo dio protettore, Apollo. Allora, per far capire al lettore che Achille non sopravviverà a lungo dopo la morte di Ettore, Omero ha inventato esclusivamente per lui un epiteto, usato per altro solo due volte nell’Opera, e sempre e solo riferito a questo eroe, molto particolare, che racchiude nel suo significato la consapevolezza della imminente morte: Achille è “minunthàdios” “di breve durata”. Non può descriverne la morte, ma la fa profetizzare da Theti al figlio stesso in Il. XVIII, 95, 96. Poi la fa profetizzare anche da Ettore, quando si trova in punto di morte Il. XXII, 355, 356 , il quale dice ad achille che sarà ucciso ad opera di Paride e di Apollo. Solo per lui Omero conia un epiteto tanto particolare. Perché, ovviamente, essendo verosimilmente greco, Omero dà maggiore importanza alla cura degli eroi suoi connazionali, ecco, anche perché, l’Opera si potrebbe a buon diritto re-intitolare “L’Ira di Achille”, perché tutta l’attenzione è incentrata su questo fatto e Achille era un Greco.

Altre innovazioni di Omero. L’Iliade è un poema che appartiene ad una cultura primitiva per noi, eppure Omero, volta per volta, innova la tradizione. Per esempio, Omero presuppone le rappresentazioni sui vasi del Diplon (cimitero di Atene, VIII sec. a.C.), dove ci sono donne stilizzate tutte uguali, con le mani alzate, che piangono il morto. Questo ‘modulo’ lo ritroviamo quando Andromaca, insieme alle ancelle, piange Ettore (ancora vivo) che si appresta ad affrontare Achille in battaglia. Qui vediamo il dato primitivo del pianto, ma Omero inserisce l’evidenziazione del personaggio ‘Andromaca’.

Il Miceneo. C’è una linea che tende ad inserire Omero nella cultura precedente a lui, che è quella Micenea. Il miceneo è la lingua decifrata nel 1952 dal Ventris. Essa è scritta su tavolette ed è una lingua greca. Le tavolette risalgono ad un’epoca di molto anteriorre ad Omero. Quelle di Creta e Cnosso sono del 1400 a.C. Quelle di Pilo e Micene sono del 1200 a.C. Mentre l’Iliade è stata scritta nel 750 a.C. decifrando le tavolette si è cercato di ‘schiacciare’ anche Omero nella cultura micenea, perché in essa vi sono dei dati comuni alla lingua omerica.

Genitivo ‘ ojo ‘ si trova anche in miceneo. Il miceneo è una lingua sillabica, vale a dire è una

contaminazione di 1 consonante + 1 vocale (es. ‘pa’, ‘po’, ‘pe’, e non ‘p-e’).

Altro caso è il ‘-φι ‘ strumentale in greco, il quale è stato trovato anche nel miceneo.

Ma nel miceneo non esistono le aspirate per cui ‘-φι’ = ‘vi’. Inoltre in Omero c’è un ulteriore sviluppo, perché ‘-φι’ è anche singolare, oltre che plurale, mentre in miceneo è solo plurale.

In Omero si trova il genitivo singolare in ‘-αο’, e lo si trova anche in miceneo.

Innovazioni di lingua e altro. la lingua dell’Iliade presuppone un sistema di formule, le quali sono ben codifificate dalla tradizione orale. Individuato ciò, possiamo vedere come e cosa innova Omero.

Da Omero possiamo ricostruire il sistema delle formule (la formula è un’espressione tipica, che tende ad occupare la stessa posizione nel verso e possiede carattere di ‘fissità’).

Metrica in Omero. Omero usa l’esametro dattilico, per scrivere la sua opera, lo stesso metro con cui cantavano a memoria gli aedi. La struttura dell’esametro è molto semplice ed orechiabile: essa consiste in un verso diviso in 6 parti (piedi, o morae), ognuna delle quali contiene una sillaba lunga e due brevi, oppure 2 sillabe lunghe. Però la lettura metrica che noi facciamo dell’esametro

( e di tutti i ‘metri’ conosciuti), pone l’accento sulla prima sillaba lunga di ciascun ‘piede’, ma tale lettura è del tutto convenzionale, perché in realtà non sappiamo assolutamente come gli Antichi leggessero la metrica. Ciò che sappiamo con sicurezza è che non mettevano accenti, perché l’accento non era intensivo (come quello della nostra lingua), ma melodico, musicale (elevazione e abbassamento della voce, come nelle lingue orientali). L’esametro aveva un momento ascendente e uno discendente, segnato dalla cesura. Il concetto di cesura è reale e non è inventato da noi; infatti tutti i versi dell’Iliade (e dell’Odissea) hanno cesura. Se questa non fosse stata sentita, non sarebbe possibile che essa rappresentasse un’ eccezione per migliaia di versi. La cesura è sempre in fine di parola e all’interno del ‘piede’.

Questi sono brevissimi cenni su Omero e sulla sua opera. Ciò non è, né vuole essere, una trattazione cattedratica, bensì un luogo da cui attingere elementi informativi sinottici ed esaustivi sui tratti essenziali del tema trattato. Ma per informazioni dettagliate, rimandiamo, e consigliamo, uno studio di testi appropriati contenenti tali argomentazioni.

(prof.ssa Cristina Tarabella)

Esiodo

Nacque vicino a Tespie, in Beozia. Egli è uno dei più antichi poeti a noi noto. È spesso contrapposto ad Omero, come secondo rappresentante della poesia epica arcaica.

Sino dal V sec. a.C. (Senofane; Erodoto) ci si domandava quale dei due poeti fosse più antico: se Omero o Esiodo. Fu Aristarco di Samotracia ( 217 – 145 a.C. ca.) che faceva parte della scuola di Aristofane di Bisanzio ad Alessandria, che impose Omero come più antico fra i due poeti e ciò fu concordemente accettato.

Oggi si ritiene che la data di Esiodo sia intorno al 750 a.C. Sulla vita ci dà notizie egli stesso.

Suo padre era un commerciante, che andava per mare, ma andandogli male gli affari si trasferì in Beozia da Cuma eolica, a fare il contadino. Qui nacque il poeta. Esiodo ci racconta che mentre faceva il capraro sul monte Elicona, durante le ore passate a sorvegliare gli armenti, un giorno le Muse gli apparvero e gli chiesero di cantare gli dèi.

La sua tomba veniva mostrata ad Orcomeno.

C’è una leggenda che vuole Esiodo in gara con Omero in un ‘certamen’, ma sembra senz’altro un’invenzione del sofista Alcidamante.

Ad Esiodo sono attribuiti i seguenti componimenti.

1) “La Teogonia”. Poema di 1022 esametri che si apre con un inno alle Muse. Esso parla dell’origine e delle genealogie degli dèi e degli accadimenti che portarono al dominio di Zeus: castrazione di Urano ad opera di Crono e sconfitta di Crono e dei Titani (gli “antichi dèi”) da parte dei “nuovi dèi Olimpii”. La vittoria di Zeus e degli Olimpii sugli “antichi dèi” riflette verosimilmente l’introduzione del culto di nuove divinità Indoeuropee, che si venivano a sovrapporre ed a sostituire a quelle “antiche”. Si pensi che inizialmente, la cosmologia degli antichi Greci era di tipo matriarcale: Era, appariva la dea più importante nel Pantheon delle divinità, ed era regina incontrastata.

Il ‘mito della successione’ trova paralleli in testi accadici ed ittiti e sembra giungere dal Vicino Oriente.

2) “Le Opere e i Giorni”. È questo un poema di 829 esametri con il quale Esiodo si rivolge al fratello Perse, uomo litigioso e moralmente non giusto. Da questa opera di Esiodo discende, grazie a Virgilio, il ‘mito dell’Arcadia’. Esiodo offre un’immagine conflittuale della società del suo tempo. Appunta l’attenzione sul grande mal contento nei confronti della gestione della giustizia corrotta. Per questo egli cerca rifugio nella religione.

Nell’Opera troviamo consigli sull’onesto lavoro e sull’onestà dell’uomo in generale.

Precetti pratici in campo agricolo; sulla navigazione; sul comportamento sociale e religioso.

La parte finale è quella relativa ai “giorni”, favorevoli o sfavorevoli, per le situazioni più svariate.

Il poema è importante per capire le condizioni sociali della Grecia arcaica, dove i contadini avevano una vita molto dura e difficile e dovevano lottare duramente per sopravvivere.

Questa, delle ‘Opere e i Giorni’, si può definire ‘Poesia Didascalica’, per i precetti che essa contiene (si confronti Virgilio: “Le Georgiche”).

3) “Lo Scudo”. Questa opera parla della lotta di Eracle e Cicno. Vi troviamo la descrizione dello scudo di Eracle, basata sulla descrizione dello scudo di Achille (Il. XVIII, 478-609).

Aristofane di Bisanzio afferma che il poemetto non è di Esiodo.

4) “Catalogo delle donne”. È la continuazione della “Teogonia”, in 5 libri e contiene genealogie eroiche.

Il Poema non è di Esiodo, perché non è anteriore al VI sec. a.C.

La Lirica

E’ piuttosto difficile spiegare con una definizione di comodo la poesia greca, fiorita nei secoli settimo e sesto a.C.; i versi dei poeti di quest’epoca nascono spontanei, con fresca vitalità, ed è arduo persino individuare il processo della loro evoluzione, oltre al percorso della loro formazione.

In questa nostra carrellata non certo accademica, ci limiteremo a tracciare brevi ritratti di alcuni dei suoi esponenti più significativi, considerato soprattutto che della loro produzione ci restano purtroppo, nella gran parte, solo frammenti.

Archiloco

In guerra la paura c’è sempre stata, e i disertori pure. Lo fu questo poeta, soldato mercenario come molti a quell’epoca, che non si è fatto tanti scrupolo di ammettere nei suoi versi di averne avuta parecchia di paura, e di aver gettato lo scudo… alle ortiche, dichiarandosi per di più ben felice di avere detto “addio alle armi” e di essersi salvato la vita. Oggi credo che sarebbero in pochi a non pensarla come lui.

” Ho gettato il mio scudo in un cespuglio; forse ho fatto male, ma mi sono salvato.

Che m’importa dello scudo?! Vada pure in malora. Me ne comprerò un altro, anche migliore. ”

E’ fatta di cruda immediatezza la sua poesia, di schietto verismo, quasi nemmeno meditata; crudi alcuni suoi versi sferzanti, come quando impreca contro l’amico che gli è stato infedele, o mette alla berlina un tronfio smargiasso o si compiace di sobillare litigi e baruffe; quando fugacemente tratteggia l’immagine di una fanciulla che si adorna di mirti e di rose, o quando con tormento esprime l’ardore della sua passione d’amore.

Dai suoi versi traspare, sulla scìa dei costumi dell’epoca, quella poco velata inclinazione omòfila ben presente in gran parte della lirica greca:

” Non amo un tronfio generale che incede con fare solenne, compiaciuto del suo aspetto e rasato di fresco.

Ne vorrei uno più modesto, magari neanche tanto bello, ma ritto sulle gambe e tutto cuore. ”

ma insorgono anche, in questo scanzonato mercenario-poeta, più eloquenti appetiti di maschio:

” Vorrei posare la mia mano su Neobule, stringerla…

piombarle addosso e farmela, ventre contro ventre, coscia su coscia. ”

Alcmane

Che cosa è la poesia “melica”? E’ quella forma d’arte che esprime parole come fossero il canto melodioso degli uccelli, l’armonia canora, la lirica. Era infatti poesia composta come un canto (melos, da cui melodia).

” Di parole e di musica fu trovatore Alcmane,

cantava polifoniche voci di pernici. ”

E Alcmane fu il primo poeta melico che si conosca; “cantò” – è il caso di dirlo – con delicata intimità e serena pacatezza, evocatrici dei silenziosi ed eloquenti messaggi della notte e dell’intimo umano.

” Oh, potessi ancora essere un uccello leggero,

che sul fiore dell’onda vola insieme agli alcioni,

con il cuore che non conosce paura. ”

Mimnermo

E’ il poeta che nei suoi versi dà voce al dolore di ogni uomo nel vedersi invecchiare: e in questo ha sempre avuto miriadi di emulatori, anche in chi poeta non è o non è stato.

Voce lirica pura, la sua, intima e calda; poesia dell’amore “fiore effimero della giovinezza”, e della vita troppo breve, che in una sconsolante vecchiaia tutto abbruttisce e che rende non più desiderabile anche una fulgida bellezza che ormai fu.

” Vorrei morire quando non mi staranno più a cuore queste cose,

l’amore segreto, i piaceri del letto,

ciò che per uomini e donne sono gli amabili fiori della giovinezza.

Quando sopraggiunge l’odiosa vecchiaia che rende brutto anche l’uomo più bello,

quando ansie penose gli tormentano il cuore, e più non piace ai ragazzi e alle donne.

Quanto dolorosa ha reso, un dio, la vecchiaia… ”

Chi, non più giovane, potrebbe dargli torto?

P i n d a r o

Spesso ci siamo chiesti che cosa sono i “voli pindarici”. E’ soprattutto per questa originale innovazione letteraria che è famoso il nostro poeta: per gli arditi passaggi, le svolte improvvise e inattese che imprimeva ai suoi versi con il “volo”, appunto, da un’idea che andava sviluppando ad un’altra completamente estranea al filo logico fino allora seguito.

E’ un po’ difficile da spiegare, ma se ne può avere un’idea (la poesia moderna può far comprendere meglio) rileggendo i Sepolcri di Foscolo: là dove il poeta celebra le tombe dei grandi in Santa Croce a Firenze, e subito dopo, da un verso all’altro, “vola” altrove evocando la battaglia fra Greci e Persiani a Maratona.

Questo è, appunto, un “volo pindarico”, il passaggio originale e ardito da un argomento all’altro, pur nel contesto di una struttura unitaria. E di questi ardimenti letterari fu il primo artefice Pindaro. Poeta quasi monotematico nella sua produzione, celebrativo di vittorie nelle competizioni ginniche tanto amate e seguite nella Grecia antica. Spesso enfatico e retorico, ma non privo di una vena travolgente, che fa dei suoi versi un vero e proprio atto d’amore per l’atleta vincitore.

” Io mi consumo come cera al calore,

quando guardo la giovinezza dei ragazzi dalle floride membra. ”

(prof. Antonio Alfieri )

5N Letteratura Greca 1ultima modifica: 2022-08-29T19:50:15+02:00da masaniello455