1O “Napoli antica” – 1

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albergo poveri

L’ALBERGO DEI POVERI

Nella prima metà del ‘700 e fin quasi alla fine del secolo era conosciuto a Napoli e nei paesi circostanti un frate domenicano di nome Gregorio Maria Rocco, ma generalmente chiamato Padre Rocco. Il frate, tenuto in molta considerazione sia dal popolo che dalla nobiltà, era anche ascoltato dai sovrani che si succedettero in quel periodo: Carlo III e Ferdinando IV. La popolarità di Padre Rocco era dovuta all’opera intensa che lui svolgeva a favore dei miseri e dei derelitti per i quali intercedeva presso tutti coloro che, in un modo o in un altro, potevano essere loro di aiuto. Cercava in ogni angolo della città i ragazzi in balia di se stessi, senza casa e senza famiglia, destinati ad essere preda del vizio, li catechizzava, spiegando i pericoli ai quali loro erano esposti e a chi lo ascoltava assicurava un avvenire tranquillo collocandolo presso coloni o artigiani oppure a servizio in case borghesi e talvolta anche patrizie. Lungo sarebbe l’elenco delle opere e dei meriti di Padre Rocco nell’arco di tempo durante il quale svolse la sua missione, ma bisogna citare l’assistenza che dedicò agl’infermi in occasione dell’epidemia del 1764 durante la quale rifulsero le sue doti organizzative, la sua carità cristiana ed il suo spirito di sacrificio. Bisogna parlare del merito di aver promosso la costruzione dell’Albergo dei Poveri e di aver realizzato lui, un povero frate, la prima illuminazione della città. Senza mai stancarsi, con tenacia ammirevole, giovandosi della preziosa alleanza della regina Maria Amalia, riuscì a fare emettere a re Carlo III il decreto che autorizzava la costruzione di un ospizio capace di dare asilo a tutti i poveri della città.

Il 1751, su progetto di Ferdinando Fuga, ebbe inizio la costruzione del colossale edificio del quale, purtroppo. Padre Rocco non riuscì a vederne la fine essendo morto nel 1782. Infatti i lavori sospesi diverse volte per varie cause, comprese quelle dei rivolgimenti politici che caratterizzarono l’epoca, terminarono solo nel 1829, ed oggi, nella piazza intitolata appunto a Carlo III, si staglia il mastodontico edificio comunemente chiamato « Reclusorio » che, pur avendo una lunghezza di oltre 350 metri, non rispecchia il progetto iniziale che lo prevedeva molto più grande. Riguardo all’illuminazione della città, sia pur rudimentale, realizzata da Padre Rocco, bisogna tener presente che a quei tempi, si parla sempre del ‘700, Napoli, nonostante fosse la capitale del regno, era totalmente al buio. I nobili uscivano scortati da servi che portavano torce a vento, qualche borghese faceva uso di lanterna, ma la maggioranza dei cittadini non poteva fare altro, se costretti ad uscire di sera, che raccomandarsi al buon Dio di non fare brutti incontri. Ladri e ribaldi ce ne sono sempre stati, ce ne sono e ce ne saranno in ogni tempo ed in ogni luogo, quindi nessuna meraviglia se a Napoli, con il favore delle tenebre, si commettevano reati di ogni genere: Dal furto all’effrazione e dalla rapina all’aggressione; le strade, specialmente quelle dei quartieri bassi, erano teatro di sconci spettacoli, di ferimenti, di oscenità e di uccisioni; non era insolito trovare al mattino, in qualche strada, un corpo insanguinato e senza vita. Gli spauriti viandanti procedevano cauti nell’oscurità ma, ciò nonostante, difficilmente sfuggivano all’insidia della corda che due ribaldi usavano tendere a poca altezza da terra, tenendone in mano i capi, uno da un lato della strada ed il secondo dall’altro; in tal modo il malcapitato inciampandovi cadeva a terra dove veniva subito immobilizzato dai ladri che lo depredavano di quanto possedeva non esitando, in caso di resistenza, ad usare il coltello.

Ancora oggi qualche vecchio al quale si chiede qualche cosa oltre le sue possibilità, risponde: « E che te cride ca vaco a mettere ‘a fune ‘a notte! ». Per porre fine a tale stato di cose, Padre Rocco si propose di fare illuminare le strade ed in tal senso si rivolse al re che, dopo aver nicchiato un poco, accondiscese a quanto il frate gli chiedeva. Delle lampade ad olio furono collocate nelle strade principali, trascurando però le meno importanti e del tutto i vicoli, sicché risultarono insufficienti, non solo, ma chi aveva interesse all’oscurità s’incaricava, capitando l’occasione, di fracassarle; non passò molto tempo, quindi, e la città fu nuovamente al buio. Allora ancora una volta l’intelligenza e la capacità di Padre Rocco ebbero modo di rifulgere. Avuta l’autorizzazione del sovrano egli percorse la città in lungo ed in largo, visitò in ogni strada, vicolo o fondaco, gli abitanti dei terranei che sapeva più religiosi e consegnò loro un’immagine sacra raffigurante la Madonna oppure un Santo, a scelta dei devoti, pregandoli di attaccarla al muro, fuori, accanto alla porta e di accendervi davanti, ogni sera, una lampada ad olio. Distribuì le immagini ogni 5 o 6 « bassi » e, ad operazione compiuta, ogni luogo della città fu, di notte, sufficientemente illuminato. I malintenzionati non provarono neppure a rompere le lampade sospese, prima perchè sapevano di suscitare le rimostranze dei fedeli, poi perchè anche il più incallito delinquente aveva in sè, profondamente radicato, il senso religioso, tanto che per loro era normale raccomandarsi alla Madonna ed ai Santi prima d’intraprendere un’impresa delittuosa. Napoli fu così più tranquilla e sicura con quell’illuminazione improvvisata che, tuttavia, durò molto tempo perchè solo nel 1806, durante il periodo francese, fu realizzata la prima illuminazione ufficiale con l’impiego di quasi 2000 fanali. Il retaggio dei Santi e delle Madonne di Padre Rocco è tuttora esistente ed è costituito dalle edicole religiose che, specialmente nei quartieri popolari, si vedono sui muri. Queste edicole costruite dai fedeli, per voto o per devozione, sono spesso arricchite da marmi ed ornamenti che ne fanno delle vere e proprie Cappelle.

fuga 1965

Nel 1965

Palazzo Fuga: il Louvre napoletano?

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castel nuovo

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CASTEL NUOVO

Come Alfonso d’Aragona, che volle eternare la sua conquista nell’Arco di Trionfo, che, poi, doveva risultare uno dei capolavori del Rinascimento, così il figlio Ferrante volle ricordare la vittoria riportata su Giovanni d’Angiò, che gli aveva conteso il possesso del regno di Napoli, facendo collocare all’ingresso del castello una porta di bronzo, a due battenti, sulla quale erano rappresentati gli episodi salienti della guerra combattuta dal 1459 al 1464, contro il pretendente angioino ed i baroni ribelli. Nel vestibolo di Castel Nuovo, subito dopo aver oltrepassato l’androne, a destra, si vedono fissati al muro i due battenti della porta di bronzo che, una volta, precludevano l’accesso del castello. Ognuno dei due battenti è composto da tre pannelli che sono inquadrati da cornici decorate con motivi del Rinascimento e con negli angoli dei medaglioni recanti le « imprese » della Casa d’Aragona ed altri vari motivi. I due battenti, curvilinei in alto per la configurazione del vano nel quale alloggiavano, raffigurano, nei due pannelli superiori, l’abboccamento-imbóscata tra re Ferrante ed il ribelle Marino Marzano, principe di Rossano, e sugli altri quattro vittorie di Accàdia e di Troia. Sotto ogni episodio una scritta in latino spiega l’avvenimento. Nel pannello inferiore del battente sinistro è tagliata una porticina che, probabilmente, doveva avere funzioni d’emergenza, ma più che di un taglio deve trattarsi di una fusione a parte perchè le figure che vi sono rappresentate non concordano con le altre che si vedono sul resto del pannello.

La porta reca i segni di 4 colpi di bombarda, dei quali 3 sul battente sinistro ed 1 su quello destro, questo al margine superiore sinistro della cornice che inquadra il pannello inferiore. Le parti danneggiate dell’altro battente sono: Il margine esterno della cornice curva del pannello superiore, il lato destro del pannello centrale e la parte alta della porticina, prima accennata, nel pannello inferiore. E’ su quest’ultimo colpo che bisogna accentrare l’attenzione per la stranezza che si riscontra. La palla di ferro (i proiettili allora in uso) dal diametro di 124 m/m. ha colpito il pannello dall’interno, squarciandolo ma senza trapassarlo, e rimanendovi quindi incastrata.

Sono due le versioni fornite su questo caso: La prima è che il 1495 la porta di bronzo, facente parte del bottino che Carlo Vili asportò nel ritirarsi da Napoli, fu imbarcata sopra un galeone e collocata in posizione verticale sul ponte. Durante la battaglia navale tra la flotta della Lega e quella francese, al largo di Genova, la porta, esposta sulla tolda, fu colpita ed una palla vi restò incastrata. La seconda versione è che il 1503 gli spagnuoli, penetrati per altra via nel castello occupato dai francesi, spararono dall’interno diversi colpi di bombarda contro i nemici che presidiavano l’entrata ed una palla s’incastrò nel battente sinistro della porta. La prima versione, in verità non è abbastanza convincente, infatti è inconcepibile che la porta fosse stata collocata in posizione verticale sulla tolda della nave tenendo conto di tutti gl’inconvenienti che potevano derivare, durante la navigazione, dal mare mosso, dal rollio ed altre cause non previste, quando era facile sistemarla di piatto su qualche superficie piana del ponte che, certamente, non mancava. Ma ammettendo pure che la porta fosse stata effettivamente collocata in posizione verticale, allora bisogna far notare che sotto la violenza del colpo il battente, per quanto saldamente tenuto, avrebbe sempre subito una pur minima flessione, il che non avrebbe permesso al proiettile di restare incastrato; solo se appoggiata a qualche cosa di solido e largo, come ad esempio una parete del cassero, la porta avrebbe potuto offrire la resistenza necessaria perchè la palla rimanesse incastrata, ma, in tal caso, l’altra faccia, quell’esterna, non avrebbe potuto essere colpita. Tutto questo senza tirare in ballo l’eventuale traiettoria del colpo, discorso che dimostrerebbe, inequivocabilmente, l’assurda teoria della porta verticale ma che, contemporaneamente, sarebbe lungo e tedioso. La spiegazione logica, quindi, (accettando la versione della battaglia navale) è che effettivamente la porta stava sulla tolda, si, ma di piatto, sicché la palla affondando nello spessore del bronzo non potè fuoruscire dall’altra parte, sia per la perdita della forza d’urto iniziale, sia per la resistenza incontrata nel duro legno del ponte sul quale il battente poggiava. Gli altri danni, all’esterno della porta, furono arrecati, o durante l’assedio spagnuolo del 1503, oppure nei precedenti assedi degli ultimi tempi aragonesi.

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S. CATERINA A FORMIELLO

All’inizio di Via Carbonara, a destra, c’è la chiesa di S. Caterina a Formiello. Al margine dello spiazzo, antistante la chiesa, si vede un’edicola religiosa con il busto di S. Gennaro. Quest’edicola fu eretta nel 1708, in onore del Santo, a memoria della protezione data alla città, nell’anno precedente, dalla minaccia della lava ignea vesuviana. La chiesa, già esistente nel XV° secolo, fu ampliata e rinnovata nel secolo successivo e dedicata a S. Caterina. Nel 1574, quando erano ancora in corso i lavori di rinnovamento, sotto l’altare della cappella del SS. Rosario furono deposte le ossa di 240 martiri della città di Otranto. Nell’agosto del 1480 Acmet Pascià, ammiraglio di Maometto II, aveva espugnato Otranto e fatto suppliziare 800 abitanti, rei di non aver voluto abiurare la fede cristiana. Alfonso, duca di Calabria e principe ereditario, accorso da Napoli liberò la città dai turchi e, ritornando, portò una parte dei teschi, 240, degli 800 martiri. Alla chiesa, terminata nel 1577, fu aggiunto, più tardi, il portale ornato da una piccola statua di S. Caterina, quindi la data, 1658, che si legge sull’architrave, si riferisce al portale. « Formiello » è la versione dialettale di « formello », un antico nome, questo, con il quale veniva indicato un orificio dell’acquedotto. Anticamente le condutture sotterranee avevano caratteristiche differenti dai moderni acquedotti, esse erano costituite da canali con il fondo lastricato e le pareti rivestite da un impasto di calce e lapilli. Nel XIII° secolo, fuori Porta Capuana, (e non si deve dimenticare che a quei tempi la Porta stava più indietro, addossata, cioè, sul lato settentrionale del Castello) il « formello » era costituito da un vero e proprio serbatoio alimentato dal fiume Sarno, che portava, attraverso le condutture sotterranee, l’acqua ai pozzi ed alle fontane di quasi tutta la città. Restando nel tema di acque e serbatoi bisogna citare Via Dogliuolo, una strada dislocata tra il Corso Garibaldi e l’Arenaccia, che sbocca al Vico II° Casanova. « Dogliuolo » (da Doliolum) era il nome con il quale veniva chiamato il luogo di confluenza dell’acqua della Bolla (o Volla) e del Sarno che formavano in quel punto una grande vasca. Diventato il luogo paludoso ed infetto, perchè abusivamente usato per la macerazione della canapa e del lino, Carlo d’Angiò ordinò il prosciugamento della zona e l’incanalamento delle acque.

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LA COLONNA DI CORRADINO

Quando nel settembre del 1267 Corradino di Svevia scese in Italia per riconquistare il regno di Sicilia, già del suo avo ed ora in possesso di Carlo d’Angiò, non prevedeva certo a quale funesto destino andava incontro. Sconfitto a Scùrcola, presso Tagliacozzo, il 23 agosto 1268, dal vecchio ma esperto connestabile di Valéry, Corradino per sottrarsi alla cattura galoppò disperatamente, insieme ad alcuni cavalieri, fino alla torre di Astura. Tradito da Giovanni Frangipane, fino allora suo sostenitore, al quale aveva chiesto ospitalità in attesa di prendere il mare per più sicuri lidi, fu consegnato al suo nemico che lo fece rinchiudere nel Castel dell’Ovo. Dopo il processo, celebrato solo per dare una parvenza legale alla sua morte (già decisa da Clemente IV e Carlo d’Angiò) Corradino fu condannato alla decapitazione. Il mattino del 29 ottobre 1268, nella vastissima Piazza del Mercato, allora del Moricino, gremita da una folla muta ed angosciata, il biondo capo di Corradino di Svevia cadde sotto la mannaia del boia. Aveva 16 anni. Carlo I d’Angiò, che da un palco eretto nella stessa Piazza aveva assistito all’esecuzione, emise un sospiro di sollievo: l’ultimo degli Hohenstaufen era morto, più nessuno, ormai, poteva contrastargli il possesso del regno di Napoli. Nessuna onoranza funebre ebbero le spoglie del giovane svevo che furono seppellite presso la foce del Sebeto, poco distante dal luogo dell’esecuzione. Qualche tempo dopo, a cura della derelitta madre Elisabetta di Baviera, corsa in Italia con la speranza di salvare il figlio, il corpo ebbe cristiana sepoltura nella chiesa del Carmine e sul luogo del primo interramento fu eretta, a ricordo, una colonna che rimase sul posto per molto tempo. Nel 1351, a cura della Corporazione dei Cuoiai, sul luogo esatto dell’esecuzione, dove oggi c’è un obelisco-fontana, fu costruita una cappella nella quale, alla memoria di Corradino, fu eretta una colonna di porfido. Il 1781, durante la festa della Madonna del Carmine, i fuochi pirotecnici provocarono l’incendio di questa cappella ed anche di un’altra dedicata alle Anime del Purgatorio, eretta nel 1656, nell’opposto lato della piazza, sul luogo dove una croce indicava la fossa comune dei morti nella zona, vittime della peste. Nello stesso anno, nella parte settentrionale di Piazza Mercato, al sommo dell’emiciclo, a compendio delle due cappelle distrutte dal fuoco fu costruita una chiesa che, in memoria della croce sulla fossa degli appestati, fu chiamata Santa Croce al Mercato. Entrando in questa chiesa si vedono, appena entrati, ai lati della porta due lapidi che ricordano le cappelle citate; a destra, entrando, la lapide che ricorda la cappella dei cuoiai ed a sinistra l’altra delle Anime del Purgatorio. Sempre a sinistra, (dove, per coerenza, avrebbe dovuto esserci la lapide corrispondente che invece è a destra) isolata da un cancelletto, si vede la colonna di porfido recuperata dopo l’incendio della cappella originaria. Di colore rosso-scuro, dal diametro di circa 60 centimetri, e di oltre 2 metri e mezzo di altezza, la colonna è sormontata da una croce di marmo con, in rilievo, il Cristo Crocefisso; sulla sfaccettatura alla sommità della colonna si distingue ancora la data incisa, MCCCLI, mentre quasi illeggibile è la scritta sottostante, incisa, sull’orlo, attorno alla colonna:

ASTURIS UNGUE LEO PULLUM RAPIENS AQUILINUM HIC DEPLUMAVIT ACEPHALUNQUE DEDIT

Che tradotto significa:

Il leone artigliando ad Astura l’aquilotto lo rapì
qui gli divelse le ali e lo decapitò

Nel 1847 il principe Massimiliano di Wittelsbach, la cui Casa era imparentata con gli Hohenstaufen, fece erigere sulla tomba di Corradino, nella chiesa del Carmine, una statua raffigurante il giovane svevo ritto su di un piedistallo. Sul lato sinistro della base che regge la statua è raffigurato il distacco di Corradino dalla madre al momento della partenza per l’impresa, sul lato destro il saluto, prima del supplizio, tra Corradino e Federico di Baden, suo compagno d’armi e di sventura, anch’egli condannato a morte e decapitato. A terra, davanti al piedistallo, c’è questa scritta:

Massimiliano principe ereditario di Baviera
erge questo monumento
ad un parente della sua casa
che fu re Corradino.

Ultimo degli Hohenstaufen.

L’anno 1847 giorno 14 maggio.

Una strada ed una traversa, adiacenti la Piazza del Mercato, sono intitolate a Corradino di Svevia. Aleardo Aleardi gli dedicò un canto:

e una bipenne

calar sul ceppo, ove posava un capo
con la pupilla del color del mare,
pallido, altero, e con la chioma d’oro.

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I DECUMANI

Con il nome di « decumanus » era indicata la via dell’accampamento romano che andava dalla porta anteriore a quella posteriore; in altri termini, la via che attraversava il campo dalla porta principale (decumana), per mezzo della quale l’esercito manteneva le comunicazioni con l’interno, alla porta pretoria, per la quale si usciva contro il nemico e così chiamata per la vicinanza della tenda del pretore. Le vie che attraversavano da un capo all’altro le città romane, da est ad ovest, e quindi costruite ad imitazione degli accampamenti, erano chiamate ugualmente « decumanus » ed avevano, quasi sempre, una porta ad ognuna delle due estremità. Le vie trasversali ai decumani erano chiamate « càrdini ». Napoli romana aveva tre « decumanus » o, italianizzando la parola, decumani: Il superiore, il mediano, (o maggiore) e l’inferiore. Il decumano superiore era l’attuale tracciato di Via SS. Apostoli, Via Anticaglia, Via Sapienza ed era chiuso ad oriente dalla Porta Carbonara, (poi S. Sofia) e ad occidente dalla Porta Romana. Il decumano maggiore percorreva Via Tribunali, dalla Porta Capuana all’angolo dell’attuale Piazza Bellini, dove c’era la Porta Domini Ursitate che poi si chiamò Donnorso. Il decumano inferiore iniziava da Via Forcella, dove c’era la Porta Ercolanese (poi Furcillensis) e proseguiva per Via S. Biagio dei Librai fino alla Porta Putuelana (poi Cumana) che sorgeva all’angolo di Piazza S. Domenico Maggiore. Avanzi di costruzioni romane caratterizzano il decumano superiore che, proprio per questo, prende il nome di Via Anticaglia. Questi avanzi sono rappresentati da due archi, poco discosti uno dall’altro, che cavalcano la stretta via poco dopo il Vico Cinquesanti. Sono i resti delle grosse mura laterize che contraffortavano il teatro romano. Questo teatro occupava l’area tra la Via S. Paolo ad ovest, il Vico Gigante ad est, l’Anticaglia a nord e l’ex-convento dei teatini, annesso alla chiesa di S. Paolo Maggiore, a sud. Altre testimonianze del periodo romano si trovano nel decumano maggiore, cioè Via Tribunali, e consistono nelle due colonne corinzie che s’innalzano davanti alla chiesa di S. Paolo Maggiore in Piazza San Gaetano. Queste due colonne sono quelle rimaste delle otto che sorreggevano il pronao del tempio di Càstore e Polluce sulle rovine del quale fu costruita la chiesa attuale. Il terremoto del 5 giugno 1688 fece crollare le colonne, 6 delle quali furono distrutte, e danneggiò la chiesa. Alle due estremità dell’attuale facciata, sotto le statue di S. Pietro e di S. Paolo, si vedono i dorsi dei Diòscuri che furono trovati, a loro tempo, tra le rovine del tempio pagano. Nel decumano inferiore, Via S. Biagio dei Librai, una colonna romana incastrata nello spigolo di un fabbricato all’angolo del Vico Figurari, di fronte alla Via S. Gregorio Armeno, è un’altra vestigia della Napoli grecoromana.

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LA DUCHESCA

L’area costituita da vicoli intersecanti e delimitata da Piazza Garibaldi, Via Alessandro Poerio, Via Maddalena e Via Stanislao Pasquale Mancini, è chiamata: La Duchesca. Questa zona nel XV secolo era molto più estesa, andava dalla chiesa di S. Caterina a Formiello fino a quella di S. Pietro ad Aram, ed era ricca di ville, fontane e giardini. Il complesso edilizio, costruito nel 1487, era la residenza di Alfonso, duca di Calabria, figlio di re Ferrante d’Aragona e confinava, ad oriente, con le nuove mura recentemente erette per l’allargamento della città. Da Porta Nolana, infatti, la nuova cinta urbana seguiva l’attuale Via Diomede Marvasi, attraversava Piazza Garibaldi, (dietro il monumento) piegava per Via Carriera Grande e si allacciava a Porta Capuana. Una torre e parte della cortina sono ancora visibili dal Vico Vasto a Capuna, sul retro di Via Carriera Grande. Il duca di Calabria teneva splendida corte nella dimora che veniva chiamata la « Casa Duchesca », volendo dire la casa del duca, così, come si dice, per la casa di un principe, « casa principesca ». Alla fine del XVI secolo, durante il viceregno spagnuolo, la sfarzosa residenza fu trasformata e, anche restando qualche giardino, vi sorsero case, strade e chiese. Oggi i vicoli della Duchesca sono numerati fino a 10 ma in realtà sono 8 perchè manca sia il Vico I° e sia il Vico V°, non solo, ma il Vico III° si chiama semplicemente Vico Duchesca ed il Vico IV” Via S. Giuseppe Calasanzio.

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VIA MEZZOCANNONE

Via Mezzocannone non era così spaziosa come lo è attualmente e non si chiamava Mezzocannone, bensì Fontanula o Fontanola, perchè nel luogo c’era una piccola fontana; inoltre la strada, o per meglio dire il vicolo, che tale si poteva considerare, dava il nome al Seggio che faceva parte della contrada di Nido, quando il numero dei Seggi era di 29. Verso la fine del ‘400 la fontanella fu sostituita da una fontana più grande che, oltre ad essere provvista di una vasca, era ornata da una statua. Questa statua raffigurava un uomo basso e tozzo, ritto in una nicchia scavata nel muro, al disopra della vasca che accoglieva l’acqua sgorgante da un cannello sottostante la statua. Per il popolino che, anche oggi, argutamente, chiama un uomo di bassa statura « ’o miez’ ommo », la statua divenne « ‘o miez’ ommo d’ò cannone », intendendosi per « cannone » il cannello della fonte che oggi, in dialetto, è chiamato « cannuolo » ma che a quei tempi era detto cannone. Via Fontanola non fu più chiamata in tal modo perchè tutti, ormai, l’indicavano come la via « d’ò miez’ommo d’ò cannone » che poi, per brevità, divenne « d’ò miezo cannone ». Dalla fontana derivò anche il titolo di « ’o rrè ‘e miezocannone » (c’è anche una commedia dialettale in proposito) perchè nella statua il popolo volle ravvisare i tratti di re Ferrante d’Aragona. Tale convinzione fu, probabilmente, originata dall’iscrizione sulla fontana che diceva, questa, costruita per ordine di Ferrante. La statua, già per se stessa sgraziata, rosa dal tempo e dall’umidità assunse un aspetto, a dir poco, miserevole, quindi, di chi si dava delle arie, nonostante le proprie precarie condizioni, oppure spavaldamente ostentava una importanza che non aveva, si diceva ironicamente: « Me pare ’o rrè ‘e miezocannone ». Durante il risanamento della città la fontana fu rimossa ed alla strada, ampliata e rinnovata, rimase il nome, italianizzato, di Mezzocannone.

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I QUARTIERI

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Nel 1536, dopo l’apertura della strada che prese il suo nome, d. Pietro di Toledo provvide a sistemare i soldati spagnuoli che stavano acquartierati, un po’ dovunque, nella città. A monte della nuova strada, sulle pendici del colle di S. Martino, fece costruire vaste caserme, in modo che, oltre ai soldati di stanza nella città, vi potessero alloggiare anche le truppe di transito che, dato i tempi guerreschi, capitavano di frequente. Come accade sempre dove circolano i soldati, (e basta vedere, oggi, Piazza Municipio quando nel porto approdano navi straniere) presso gli alloggiamenti spagnuoli ci fu, ben presto, tutto un via vai di gente, della specie più disparata, alla ricerca della « giornata ». Oziosi e ciarlatani, ladruncoli e venditori ambulanti, meretrici e manutengoli, si aggiravano attorno ai « quartieri », ognuno alla ricerca del « soggetto », per concludere un buono affare. Gli spagnuoli, che in quanto a furbizia non avevano niente da invidiare ai napoletani, reagivano a qualche inganno, si ribellavano ai raggiri ed allora avvenivano liti che, talvolta, diventavano risse. Ma lo sconcio maggiore, a parte quanto detto, era quello delle donnine che, per i loro convegni galanti, si servivano di un vicino bosco nel quale abbondava l’albero del gelso. Avuto sentore di quanto avveniva, il viceré, con un apposito editto, stabilì pene severe per chiunque fosse stato trovato nel bosco a fornicare. Ma la fertile fantasia napoletana trovò subito il rimedio per evitare le minacciate sanzioni e continuare a svolgere la redditizia attività Negli spiazzi, ad una ragionevole distanza dei quartieri militari, furono erette delle baracche di legno dove la prostituzione continuò a prosperare, anche quando non ci furono più i soldati spagnuoli, tanto che oggi, a distanza di quasi 5 secoli, vi alligna ancora. I luoghi citati sono chiamati tuttora, Via Lungo del Gelso, Largo Baracche e, tutta la zona, i «Quartieri».

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IL RISANAMENTO

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Fu l’epidemia colerica del 1884 a far decidere, finalmente, le autorità centrali a risolvere la questione del risanamento di Napoli che si dibatteva fin dai primi tempi dell’unificazione. La legge in merito fu approvata il 15 gennaio 1885, ma dovettero passare ancora quattro anni e mezzo per passare dalle parole ai fatti. La posa della prima pietra avvenne il 15 giugno 1889 e la cerimonia, che si svolse nella Piazza di Porto, fu presenziata dai sovrani Umberto I e Margherita di Savoia. Intervennero delegazioni delle arti e dei mestieri, l’arcivescovo di Napoli, il presidente del consiglio dei ministri, rappresentanti del governo e del parlamento e le autorità cittadine. La Piazza e la Strada di Porto, come tutta la zona circostante, erano imbandierate e brulicavano di folla. Per ricordare l’avvenimento c’è un marmo sulla facciata del maestoso edificio che fa da sfondo alla Piazza della Borsa, all’estremo limite sinistro, dove il palazzo fa angolo con Via Depretis.

ADDÌ 15 GIUGNO 1889
NICOLA AMORE

SINDACO DI NAPOLI

Sa. Ma. UMBERTO I RE D’ITALIA
CON L’INTERVENTO

DELLA REGINA MARGHERITA

DI S.A.R. IL PRINCIPE DI NAPOLI

DEL CARD. SANFELICE

E DEL POPOLO FESTANTE

POSE LA PRIMA PIETRA

PEL RINNOVAMENTO DELLA CITTÀ

QUÌ NEL VECCHIO MERCATO DI PORTO

TRASFORMATO POI

NELLA GRANDE PIAZZA DELLA BORSA

1900.

Il piccone demolitore sventrò i vicoli, i budelli ed i fondaci di quella zona compresa tra l’attuale Piazza Municipio e Via Guglielmo Sanfelice e dalla Piazza della Borsa alla Ferrovia; Via di Porto diventò Via Agostino Depretis e Piazza di Porto, Piazza della Borsa. Dalle macerie dello sventramento sorse il Corso Re d’Italia, nome che dopo il regicidio fu tramutato in quello attuale di Corso Umberto I ma comunemente chiamato « il Rettifilo ». In questo Corso, dall’angolo di Via Mezzocannone alla zona di Portanova, fu costruito il maestoso edificio dell’Università che, iniziato il 1897, fu terminato nel 1908. Si sistemò la piazza antistante la stazione ferroviaria che fu chiamata Piazza Unità Italiana e poi, dopo l’installazione del monumento a Garibaldi, avvenuta nel 1904, appunto Piazza Giuseppe Garibaldi. La Società per il Risanamento di Napoli, appaltatrice dei lavori di demolizione e ricostruzione, s’impegnò a costruire su nuove aree abitazioni a prezzo ridotto, secondo l’apposita legge emanata, per le famiglie che abitavano le case demolite. Sorsero, quindi, due nuovi Rioni alle spalle delle due estremità del Corso Garibaldi, che nel frattempo era stato prolungato e si estendeva da Via Marina a Piazza Carlo III. Il rione meridionale fu costruito nell’area compresa tra: Il Borgo Loreto, Via S. Cosmo fuori Porta Nolana, Via Stella Polare (oggi Corso Arnaldo Lucci) ed il fossato della ferrovia Circumvesuviana. L’altro, il rione settentrionale, sorse tra: Il Corso Garibaldi, l’Arenaccia, Via Casanova e Piazza Carlo III. Anche l’edilizia privata contribuì al risanamento di Napoli e costruì, seguendo le direttive del piano regolatore del Comune, un rione nella parte orientale della città che era, in maggior parte, costituita da « paludi ». Con strade parallele, orizzontali e verticali, incrocianti ad angolo retto, il nuovo rione fu delimitato: a nord dalla Via e Ponte di Casanova, a sud dal lato settentrionale della Piazza Garibaldi, ad est dal muro finanziere del Corso Orientale (poi Corso Malta ed oggi Via Giovanni Porzio) e ad ovest dal tratto del Corso Garibaldi, dalla piazza omonima all’angolo di Via Casanova. Il nuovo rione si chiamò, e tuttora si chiama, Vasto, perchè, probabilmente, i luoghi erano in origine possedimenti della Casa d’Avalos, dei marchesi del Vasto.

Le strade del nuovo quartiere, in concordanza con il nome della piazza con la quale confinavano, e cioè Piazza Unità Italiana, furono tutte chiamate con nomi di città. Da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Venezia a Salerno. Una strada fu chiamata Via Nazionale unitamente alla grande piazza, nella quale sbocca e che fino alla fine degli anni venti fu la sede del mercato ortofrutticolo. Per realizzare e portare a termine il risanamento della città ci fu una lotta continua, degli amministratori locali e degli uomini politici, meridionali e meridionalisti, contro l’ostilità, l’incomprensione e l’ostruzione burocratica del potere centrale. Si distinsero in questa lotta, per volontà e tenacia, Gennaro Maria Sambiase, duca di San Donato che, tra l’altro, promosse la prima campagna di bonifica con la demolizione dei fondaci del Porto, e Nicola Amore che fu l’anima della realizzazione. Entrambi ricoprirono, a turno, la carica di sindaco, ma sempre, prima, durante e dopo il mandato, non cessarono di adoperarsi per superare difficoltà, contrasti ed opposizioni, affinchè il risanamento di Napoli fosse portato a compimento. Al duca di San Donato è intitolata una strada che dal Corso Umberto I sbocca in Via Nuova Marina, ed a Nicola Amore fu intitolata, in uri primo tempo, l’odierna Via Depretis e poi la Piazza attuale che viene comunemente chiamata « i Quattro Palazzi » al centro della quale gli fu eretta una statua. Questa statua che raffigura il grande sindaco, ritto con la mano protesa, stava lì in mezzo alla sua opera, come per indicarla ai passanti; ora si erge in Piazza Vittoria nel giardinetto antistante la chiesa. Vi fu traslocata nel 1938, in occasione della venuta di Hitler a Napoli, per fare del Corso Umberto I un rettilineo senza ostacoli per la sfilata del corteo delle automobili.

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S. GIACOMO DEGLI SPAGNUOLI

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La strada che fiancheggia il palazzo del Municipio, sul lato destro, e sbocca in Via Roma si chiama Via S. Giacomo, lo stesso edificio Comunale è chiamato Palazzo S. Giacomo ed al limite del fabbricato, sempre sul lato destro, ce la chiesa di S. Giacomo degli Spagnuoli che ha dato il nome sia al Palazzo che alla strada. La chiesa, alla quale in origine si affiancava un ospedale che poi fu demolito, fu eretta nel 1540 per volere del viceré d. Pietro di Toledo e fu chiamata S. Giacomo degli Spagnuoli per distinguerla da quella di S. Giacomo degli Italiani, eretta dai pisani, nel 1238, nei pressi della loro Loggia. (Il luogo dove la Loggia era dislocata si chiama tuttora Via Loggia dei Pisani ed unisce Via Agostino Depretis con Via Guglielmo Sanfelice, fiancheggiando il Palazzo dei Telefoni di Stato). Nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnuoli si può ammirare, dietro l’altare maggiore, il sepolcro di d. Pietro di Toledo il quale lo commissionò, nel tempo stesso in cui si erigeva la chiesa, a Giovanni da Nola. Morto nel 1553 il viceré fu composto nella tomba, dal figlio Garcia, solo nel 1570; sul magnifico sepolcro, che accoglie anche la moglie di d. Pietro, Maria Ossorio Pimentel, si vedono le statue dei defunti e sui lati, in rilievo, episodi della vita del viceré. Nel 1819, avvenuta la restaurazione borbonica, Ferdinando IV fece iniziare la costruzione del palazzo per la sede dei ministeri, e per non abbattere la chiesa fu deciso d’incorporarla nell’edificio che fu portato a termine nel 1825. Dal 1861, scomparso il regno di Napoli, il Palazzo S. Giacomo fu adibito (e lo è tuttora) a sede dell’Amministrazione Municipale.

Da “Le strade di Napoli antica” di A. D’ambrosio

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