1G Il Risorgimento

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Napoli e l’Italia Meridionale non ac­cettarono e subirono passivamente l’uni­tà italiana. Non solo i cittadini del Regno delle Due Sicilie e della città di Napoli cospirarono e combattero­no apertamente per l’ideale nazionale, ma lo fecero con fede e con spirito di abne­gazione benché convinti che, sull’altare dell’unità, il Mezzogiorno d’Italia, che costituiva, con la Sici­lia, il più grande, ricco e bel reame della Penisola, sareb­be stato chiamato a dare più che a ri­cevere e a sacrificare, prima di tutto, il suo ruolo di regno indipendente, a ca­rattere nazio­nale.

Il popolo napoletano odiava la regi­na Maria Carolina, l’austriaca, e, per riflesso, non nutri­va eccessiva benevo­lenza per Ferdinando IV. Ma odiava più profondamente i francesi, te­neva, sia pure a suo modo, alla religione, non era sordo al sentimento di patria, sia pure campanilisticamente, e, nella monarchia dei Borboni vedeva non solo un pre­sidio di indi­pendenza, ma una afferma­zione di nazionalità. Si sfogò, quindi, con ferocia, nel periodo fra la vergo­gnosa fuga del re e l’ingresso dei fran­cesi, contro i liberali, sospetti di connivenz­a e di tradimento con essi. E, per tre giorni, si oppose con le armi alle truppe di Cham­pionnet, con un fu­rore che trasformò i lazzari in eroi. I francesi ebbero tali perdite — dice Vin­cenzo Cuoco — che, « se al posto di Championnet si fosse trovato Napoleo­ne, avreb­be fatto mettere Napoli a fer­ro e a fuoco ». Il generale francese si limitò a imporre alla città — secondo il costume inaugurato dalla rivoluzione — una taglia di due milioni e mezzo di ducati e una di quindici milioni alla provincia, da pagarsi, in mancanza di danaro liquido, anche in preziosi. Si dice che, ad una delegazione di napo­letani, inviata, per protestare contro la eccessiva richiesta, a Championnet, questi avesse risposto, come l’antico ante­nato brenno gallico ai romani: « Guai ai vinti ».

La Repubblica Partenopea fu pro­clamata nei primi giorni del 1799. La sua breve, caotica e difficile esistenza si svolse fra tumulti e saccheggi, guerri­glie fra realisti e repubblicani, mi­sfatti di briganti e di lazzari nelle campagne e in città, l’incredibile caos creato da­gli stessi errori del Direttorio, formato da teorici, che legiferavano sul modello del Direttorio francese, quasi che il po­polo napoletano – fa notare il Cuoco — avesse la stessa maturità politica e sociale di quello d’oltr’Alpi. Le diedero il tracollo la violenta rapida reazione del cardinale Fabrizio Ruffo, e la resa, dopo eroica resistenza, dei patrioti a Vigliena, in seguito ai fatti solenne­mente giurati e disinvoltamente abiu­rati dal reazionario cardinale, il quale li conse­gnò alle vendette infami di Ma­ria Carolina, di Nelson e della sua amante Emma Lyon­ne, moglie di Hamilton. La tragedia si concluse con gli ignobili processi e le esecuzioni di Fran­cesco Caracciolo, di Domenico Grillo, del Conforti, di tutto il fior fiore dei repubblicani, di Eleonora de Fonseca Pimentel, di Luisa Sanfelice. Sono fatti a tutti noti, che apparten­gono alla sto­ria di tutta la nazione italiana e aprono il martirologio del Risorgimento.

Dopo la sfortunata stagione repub­blicana si ebbero i regni napoleonici di Giuseppe e di Gioacchino Murat.

Nel clima relativamente disteso di questi due regni si poterono compiere alcune opere pubbliche importanti. Fu istituito un Consiglio degli edifici civili, qualcosa di corrispondente al nostro Genio Civile, che provvedeva alla or­ganicità dei programmi di opere pub­bliche, in modo che queste ne risulta­vano più utili ed efficienti. La strada, che dal Museo conduce a Capodimonte, col ponte della Sanità, a cui fu dato il nome di Corso Napoleone, iniziata sot­to il re Giuseppe, fu terminata da Gioacchino Murat. Questo re fece an­che costruire il Campo di Marte, am­pliare via Foria, prolungare la via di Posillipo fin giù a Coroglio e diede piena efficienza all’Orto Botanico. Sot­to di lui, continuarono anche i lavori già iniziati sotto Giuseppe Bonaparte, della Specola Astronomica, disegnata dall’astronomo Giuseppe Piazzi e mo­dificata da Federico Zuccari, ma com­pletati solo nel 1819.

Tra le opere educative istituite dai Napoleonici ricordiamo gli Educandati femminili, il Con­servatorio di S. Pietro a Maiella, ove vennero riunite tutte le scuole musicali degli antichi conserva­tori napoletani – – (S. Maria di Loreto, S. Onofrio, Pietà dei Turchini) —; la Società Reale di Cultura, divisa in tre Accademie, scienze, arti, lettere, con un appannaggio annuo di 15.000 ducati. Murat curò, inoltre, la sistemazione definitiva di Piazza Plebiscito, su un la­to della quale già esisteva, fin dal ‘700, il palazzo del Comando Militare; nel 1815, per amore di simmetria, gli si costruì di fronte la Foresteria (ora sede della Prefettura). La Chiesa di S. Fran­cesco di Paola, prospiciente alla Reggia, fu fatta erigere per voto da Fer­dinando IV, in ringraziamento del riacquisto del regno. L’architetto Pietro Bianchi, che la progettò e ne diresse i lavori, durati dal 1817 al 1846, prese a mo­dello il Pantheon di Roma e, per il por­ticato, utilizzò un colonnato dorico ini­ziato da Murat. Sulla piazza, nel 1829, sorsero le due statue equestri di Carlo di Borbone, del Canova, e di Ferdinando I, del Calì.

Un’altra costruzione dell’ultimo pe­riodo borbonico, fatta sorgere, tra il 1819 e il 1825, allo scopo di riunirvi tutti i Ministeri, è il palazzo oggi sede del Municipio Centrale di Napoli, sul­la gran piazza omonima. Sul lato setten­trionale di questa, oltre al casermone della Gran Guardia, c’era e vi rimase fino al 1884, il teatro « San Carlino » sede della commedia dell’arte napoleta­na e regno incontrastato della celebre maschera del Pulcinella. Opera gran­diosa di Ferdinando II, che valorizzò immensamente la città, fu il Corso Ma­ria Teresa — oggi Vittorio Emanuele. – Esso si snoda per due chilometri e mezzo dalla Cesarea a Piedigrotta; pro­gettato dagli architetti Alvino, Sapo­nieri, Cangiano, Gavaudan e France­sconi fu portata a fermine in un anno, dal­l’aprile 1852 al maggio 1853. Un re­scritto reale vietava che si costruisse dalla parte del mare; ma, purtroppo, posteriormente, non è stato più osser­vato e la magnifica panoramica ne è ri­masta in parte menomata.

Si era provveduto, così, dal ‘500 in poi, e anche prima, a creare un centro cittadino vera­mente superbo e degno di ogni grande metropoli: ma, dietro queste stupende cortine, re­stavano (e ancora oggi, purtroppo, benché il brut­to sconcio tenda a scomparire!) i grossi formicai umani, agglomerati in rioni su­dici dai vicoli stretti e senza luce, covi di vizio e di malattie.

Anche Ferdinando II, fece, dunque, qualcosa di buono; non fu, comunque, quel re lazzaro­ne, che ci ha presentato l’iconografia sabauda, secondo la quale così lo avrebbe definito la moglie, la regina Maria Cristina, ch’era una Sa­voia, né un re inetto. E se la sua poli­tica fu tutta un cumulo di errori, per-

ché non seppe comprendere i tempi nuovi, assai saggia fu la sua amministra­zione, che procacciò la rinascita econo­mica della capitale. Quanto, poi, alla idea liberale, che gli sto­riografi del pie-montesismo propalano di essere stata a noi importata dal Nord, essa è sor­ta, invece, qua, a Napoli e nel Sud, per opera, soprattutto, dei due Napoleonidi, che, per primi, si voglia o no ricono­scere, introdussero quell’idea nella le­gislazione dei loro regni e si ispirarono al liberalismo di Stato. Quali e quante non furono, infatti, le iniziative liberali di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat? L’Istituto di incoraggiamento delle industrie (1806); la Camera Con­sultiva di Commercio (1808); le Socie­tà Economiche della Provincia (1812). E, per la formazione tecnica artistica e professionale, la Scuola d’arti e mestie­ri (1810); e, un anno dopo, il tentativo di costituire addirittura i Consigli delle arti e mestieri, per la loro conservazio­ne e per il loro sviluppo. E Ferdinan­do II, nel biennio 1832-1834, istituì a Napoli la Compagnia Sebezie per le Industrie, la Società enologica, la So­cietà In­dustriale Partenopea, la Econo­mica Commerciale, con un capitale com­plessivo e, per quei tempi, ingente, di cinque milioni di ducati. Nel 1838-1839, il Banco di San Giacomo, sorto dalla fusione dei sette antichi banchi napoletani, si trasformò in Banco di Napoli; e, nello stesso 1838, si inau­gurò il primo tronco ferroviario, da Napoli al Granatello, prolungato in se­guito fino a Castellammare e a Caserta.

Le principali vie di Napoli, Toledo, Ghiaia, il Piliero, furono illuminate a gas, nel 1840. Le fabbriche di tessuti e gli zuccherifici di Sarno, le cartiere del Liri, lo stabilimento di Pietrarsa per le forniture all’esercito napoletano e alla guarnigione austriaca di residenza, che era a carico del governo napoletano, di­mostrano una certa vitalità nel campo delle industrie e dei commerci. Non si vuole con ciò sostenere che industrie e commerci vi fossero molto sviluppati. Ma, se non è attendibile il giudizio de­gli storiografi borbonici, non è neppure da prendere per verità sacrosanta la conclusione negativa, a cui pervengono quelli ostili mi­ranti a negare anche quel tanto di buono che i Borboni hanno fatto. Le difficoltà complesse di creare nel Sud una grande industria sono an-cor oggi non del tutto superate.

Pessimo era, invece, lo stato finan­ziario di Napoli. Le spese per il solo esercito ammonta­vano ad oltre 85.000 ducati e si pensi con quanto malanimo il popolo sopportava questo sperpero, per un esercito che non valeva niente e non era sentito da alcuno come presidio della nazione. Si dovè ricorrere nel 1821 a un prestito forzoso di tre milio­ni di ducati con l’imposizione ai com­mercianti e ai ceti abbienti di sottoscri­vere al massimo; e se, nel 1823, fu abolita la scala franca, altri balzelli col­pirono i generi coloniali, il pesce secco e salato, il macinato: imposizione, que­st’ultima, tanto iniqua, da indurre Ferdinando II, quando giunse al trono – ed è tutto dire! — a sopprimerla. E ricordiamo qui, non solo incidental­mente, che la tassa sul macinato ha co­stituito a lungo un incubo per il popolo italiano, che la dovè su­bire a denti stret­ti, anche dopo l’Unità, quando Quinti­no Sella la ripristinò per riportare al pareggio il dissestatissimo bilancio dello Stato unitario. Altrettanto iniquo fu il dazio sui libri esteri: imposto, questo, forse più per il retrivo spirito reazio­nario degli ultimi Borboni, nemi­ci della cultura e paurosi delle idee nuove, (Ferdinando II odiava i letterati, scrit­tori e gior­nalisti, trattandoli, con di­sprezzo, da « pennaiuoli ») che per esi­genze strettamente finan­ziarie. E fu questo odio per gl’intellettuali uno de­gli errori più gravi di Ferdinando II: che, se non si fosse alienati gli uomini di pensiero e avesse saputo raccoglierli intorno a sé, per farsi da essi consiglia­re, il corso degli avvenimenti politici italiani avrebbe forse preso un altro svolto, in senso favorevole alla sua di­nastia. Preferì, invece, poggiarsi sulla polizia, che accrebbe enormemente di numero e di potere, per la quale si ar­rivò alla spesa enor­me di oltre 300.000 ducati annui, senza tener conto che se si arrestano le persone, è paz­zesco pre­sumere di arrestare le idee.

In compenso, Napoli, apparentemen­te, era una città ricca e gaia: e, agli stranieri, che vi af­fluivano in gran nu­mero, né soltanto comuni mortali, ma uomini grandi, come Stendhal, Dumas, Gregorovius, appariva come la Mecca del piacere, sfolgorante di bellezza, di fol­clore, di attrattive incomparabili, come i suoi canti, le sue danze, le sue musiche, i suoi usi e costumi, le feste sacre e profane. Pittori e poeti vi tro­vavano fonti inesauribili di ispirazio­ne. Il movimento dei forestieri era tale che non si trovavano posti negli alberghi, nelle lo­cande, nelle pensioni private. Locandieri, camerieri, guide, vetturini, facchini, fabbricanti e venditori di « souvenirs » e di cianfrusaglie, procac­ciatori di clienti alle donne di vita facev­ano affari, che, onesti o disonesti, mitigavano la miseria delle classi basse del popolo.

La cultura era in piena decadenza. Costretti a fuggire da Napoli tutti i colpiti della rivoluzio­ne del 1820-1821, era toccata la stessa sorte di Vincenzo Cuoco ai poeti Dante Gabriele Rossetti e Alessandro Poerio, che andò a mo­rire nella difesa di Venezia. Fuoriusci­to, per necessità, anche lo storico Pie­tro Colletta. L’Università era dominata dal clero, con inse­gnanti magari ottimi nelle discipline scientifiche, ma reazio-nari e contrari ad ogni novità. Solo le scuole private, quella di Basilio Può ti, il purista che faceva della dignità e pu­rezza della nostra lingua una questione di prestigio e di sentimento nazionale, e, in grado assai maggiore, quella di Francesco De Sanctis formavano la gio­ventù alla luce delle nuove idee politi­che e morali e alla nuova concezione della filosofìa della storia, che è quanto dire del­la vita. I loro insegnamenti ac­cesero e mantennero viva la fiaccola del­la fede liberale nel Risorgimento della Nazione Italia, che Dante, Petrarca e Machiavelli avevano preconizza­ta.

Allontanati da sé gli intellettuali, i liberali e gli scrittori, con a capo Luigi Settembrini, che lanciò la famosa « Pro­testa »; messa in sospetto, per i suoi gu­sti demagogici, l’aristocra­zia, che — del resto – – non era più una classe chiusa in sé, nell’orgoglio del sangue e dei pri­vilegi, perché si era venuta abbondan­temente amalgamando con la borghe­sia del com­mercio e delle industrie, del­le professioni e delle arti; sapendo di aver contro gran parte della borghesia, quella cittadina, perché la più vessata dal fisco; a Ferdinando II — strano, in verità! — rimase attaccato il ceto popo­lare, se non per affetto al sovrano, che, comun­que, era sempre un napoletano, di nascita e di costumi, (come si com­piaceva ostentarlo nei suoi contatti col popolo, con la sua bonarietà alquanto istrionica) certo per odio contro i libe­rali, dipinti nelle chiese dai preti sanfe­disti come nemici dichiarati di Cristo e della sua religione. Anche tra la bor­ghesia, specie fra quella rurale, che si veniva sostituendo nel possesso della terra ai feudatari, non erano scarse le simpatie per il re, per evidenti ragioni di interesse.

Ferdinando II fu preceduto sul tro­no dal padre Francesco I (1825-30), il quale è rimasto nella storia come il peg­giore re fra tutti i Borboni. Non c’è vizio o difetto che non avesse: maniaco, forse perché luetico, non era del tutto ignorante, ma si comportava sempre da stolto. Furbo, vendicativo, malizioso, falso, si divertiva a giocar brutti tiri ai cortigiani. Si narra che, una volta, ri­tornato dalla Spagna, dove si era re­cato in occasione delle nozze della fi­glia con Ferdinando VII, fingesse di fare dei munifici donativi di oggetti preziosi, per gratitudine, ai cortigiani spagnuoli. Ebbene: quegli oggetti era­no nient’altro che vili cianfru­saglie.

Durante il suo quinquennio, le cose del regno andarono alla malora. Lo ri­conobbe, per pri­mo, il figlio Ferdinan­do, nel suo discorso di successione. « Non ignoriamo – disse – esservi piaghe profonde che meritano esser cu­rate ». Qualcosa, infatti, fece. Allegerì l’erario, dimi­nuendo di 180.000 ducati la sua lista civile. Aprì le cacce a lui riservate, permise agli esuli, che glielo chiedessero con supplica, di ritornare in patria, tranne che al generale Carrasco­sa, da lui considerato un traditore. Rifiutò, invece, di rientrare a quelle condizioni il genera­le Guglielmo Pepe, perché – disse – « la libertà è incon­ciliabile con i Barboni ». A proposito di libertà, Ferdinando II ne aveva un concetto tutto personale: la confonde­va col patriarca­lismo. Diceva, infatti, forse con sincerità: « A fare la felicità dei miei sudditi, basto io ». Ma le sorti dei popoli non possono, dipendere dalla bontà dei principi, come insegnano Ni­colo Machiavelli e Vittorio Alfieri, ma solo dalle conquiste statutarie, le sole che possano rende­re sicure le libertà costituzionali. Questo, Ferdinando non volle comprenderlo; e fu, perciò, restio a concedere la costituzione, che, solo sotto l’incalzare degli eventi, concesse, il 10 febbraio 1848, giurandola sul Vangelo, come l’avo Ferdinando I, e, forse, già predisposto a rinnegarla, alla prima occasione. I napoletani andarono in delirio, applaudivano al re anche quelli che non capivano che cosa il re avesse concesso. Ma si venne presto al dissidio, fra Parlamento e Corona, sulla formula di giuramento dei deputati. Il re la trovò troppo giaco­bina e pretese che fosse modificata. I deputati si op­posero col rifiuto più netto. Il popolo, che si era montato al grido di « Viva la libertà! Viva la Costituzione! » si schierò contro il sovrano. Barricate fu­rono innalzate, a via Toledo, a San Fer­dinando. Da una parte il popo­lo, dal­l’altra i soldati. La prima fucilata, spa­rata non si sa da chi, fu il fatale se­gnale della mischia atroce. Alcuni stori­ci, come il Paladino, il Fortunato ed al­tri han tentato di negare o, almeno, di diminuire la responsabilità del re negli eccidi del 14 e 15 maggio. Chi ordinò l’uscita in armi degli Svizzeri dalla ca­serma? Furono gli Svizzeri, infatti, a precipitare la si­tuazione, non solo ucci­dendo, ma devastando e saccheggiando. Cataste di morti e di feriti giacquero per le strade, specie a Piazza della Ca­rità, a Santa Brigida, a Toledo. E, (fatto raccapricciante) una parte di quel po­polo, certo la peggiore, che si era mos­so per difende­re la libertà, si unì agli Svizzeri nelle rapine, nei saccheggi, nel­le devastazioni. I deputati, che non riu­scirono a oltrepassare i confini, furono arrestati e deportati. I più rappresentati­vi, Settembrini, Imbriani, Savarese, Poerio, Nisco, Agresti ed altri furono condannati all’ergastolo. Il re prevalse, ma il popolo si era ormai staccato da lui ed egli capì che l’abis­so non si sa­rebbe più colmato. La seconda moglie, Maria Teresa, anch’essa austriaca, come Maria Carolina, l’infausta moglie del­l’avo Ferdinando IV, dominata da preti e gesuiti intransigentemente reazionari, che, attraverso la regina, dominavano anche il re, lo aizza­va alla crudeltà. « Casticate — gli diceva — castìcate ». (Con questo nomignolo « la regi­na casticate » è passata alla storia).

Ci fu, poi, nel 1856, l’attentato del soldato Agesilao Milano. Il re avrebbe voluto mostrarsi clemente con lui, ma prevalse la cricca della moglie e il po­veraccio — un calabrese – – fu impic­cato. Il popolo applaudì al re! Chi può mai capire la mutevole anima delle masse? Dall’Osanna al « Crucifige » non c’è che un passo. Anche la spedi­zione di Sapri – 1857 – guidata da Carlo Pisacane e dal Nicotera, fallì mi­seramente con la strage di Padula, per il comportamento ostile delle popola­zioni. Ma ormai si avvicinava il triste tramonto dell’ultimo re, veramente ta­le, del regno di Napoli. L’ultima sua gioia fu il fidanzamento del figlio, lo scialbo Francesco II, con Maria Sofia di Baviera. Morì a 49 anni, il 22 mag­gio 1859.

Se mettiamo, sulle due coppe di una bilancia, il bene e il male operati da Ferdinando, la bi­lancia sta in bilico? Salvatore Di Giacomo, che non fu, certo, un reazionario, ci ha lasciato di Fer­dinando II un ritratto, quale si con­verrebbe ad ogni più grande sovrano. E forse per questo, al gentile poeta di Napoli, Vittorio Emanuele III di Sa­voia rifiutò il laticlavio, giudi­candone insufficienti i meriti. Scrive Di Giaco­mo: « Ferdinando II è frugale, solle­cito, labo­rioso, non cacce, non feste, non corse, ma costruzioni di strade, di edifizi comunali, di laz­zaretti, di case per bagni minerali, di prigioni col no­vello sistema penitenziario, di scuole per sordomuti, di ospizi ed asili per in­digenti e orfani, o folli, o reietti; e isti­tuzioni di nuove accademie, nuove cat­tedre, nuovi collegi e licei; e bonifiche di terre paludose, colture di terre bo­scose, edificazioni di ponti di ferro e di fabbrica, fanali a gas, fari alla Flynel, com­pagnie di pompieri, stipulazioni di trattati di commercio, guardia civica e guardia d’onore. A sue spese ha rifatto la reggia, ove sono profusi meglio di due milioni del suo; con liberalità re­gale ha speso per i palazzi di Palermo, di Caserta, di Capodimonte, di Quisisana ».

Se, a tutto ciò che operò in Napoli e nel regno, si aggiunge il prestigio, che il suo regno go­dè in tutti gli Stati Eu­ropei, tanto che la sua oculata e digni­tosa politica estera seppe attrar­re a Na­poli capitali inglesi, francesi, tedeschi, belgi, svizzeri, coi quali si avviarono, in Cam­pania, fonderie, stabilimenti meccanici, tessiture, filature, tintorie, fabbriche di seta, impian­ti di gas illu­minante; fabbriche di armi e di polveri; cantieri navali; pastifici e industrie dol­ciarie; e poteron rifiorire gli artigianali dei guanti, delle scarpe, delle passama­nerie in oro, della falegnameria, del co­rallo, del cuoio, della carrozzeria e del­la tipografia; io penso che la bilancia del bene e del male si equilibri perfetta­mente. Il giudizio della storia su Fer-dinando II è, dunque, tutto da rive­dere.

Toccò a re Francesco II — 1859-1861 – – il triste compito di chiudere la serie dei re di Bor­bone a Napoli. Inutilmente egli elargì — nel 1860 -la terza carta costituzionale al regno. Dopo due rinnegamenti, nessuno gli credette. E fu come una inutile, tardiva inalazione di ossigeno a un agonizzante in exfremis.

All’avvicinarsi di Garibaldi, si ri­tirò con l’esercito sulla linea del Volturno. Sconfitto, si rifugiò nella for­tezza di Gaeta. E mentre, a Napoli, in­torno all’Eroe-dittatore, mestavano i turbo­lenti tribuni di Mazzini e i callidi emissari di Cavour, Gaeta, sui cui spal­ti apparve a combat­tere, impavida co­me un’amazzone, la regina Maria Sofia, la flotta e l’esercito di Vittorio Emanuele II – – quest’ultimo aveva violato lo Stato Pontificio per accorrere veloce­mente a Napoli ad imprimere alla con­quista il marchio sabaudo, cancellando quello autentico gari­baldino — costringevano l’ultima città borbonica alla ca­pitolazione. Francesco II e Maria Sofia, con una ridottissima corte, si imbarca­rono su una nave francese, il 13 feb­braio 1861. Sbarcarono a Terracina e proseguirono per Roma. Poi, li coprì l’oscurità. Maria So­fia se ne tornò in Baviera, dove visse fino al 1925. Fran­cesco II morì nel 1894.

1G Il Risorgimentoultima modifica: 2021-11-18T11:25:29+01:00da masaniello455