4E Teatri e spettacoli

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Teatri e spettacoli

I Romani, come i Greci, non ebbero originariamente edifici stabili per gli spettaco­li. Questi ultimi furono dapprima nient’altro che celebrazioni di carattere religioso (ludi) che si svolgevano all’aperto, su palchi eretti di volta in volta presso i luoghi di culto. I primi attori furono etruschi, e da quella lingua venne la denominazione di histriones. Nel 155 a.C., quando si pensò di erigere un teatro stabile, i conservatori si opposero al progetto, ritenendolo nocivo ai sani costumi. Un teatro fisso fu eretto solamente nel 58 a.C., da Emilio Scauro. Ma il primo edificio completamente in mura­tura fu costruito da Pompeo nel Campo Marzio nel 55 a.C. Alla sommità della cavea (gradinata) c’era un tempio dedicato a Venere Vincitrice: secondo alcuni fu un espe­diente per superare il divieto di erigere teatri stabili (quasi non si trattasse che di un podio per il tempio), ma in realtà lo schema architettonico aveva una sua lunga tradizione in Italia (santuari di Pietrabbondante e di Palestrina). Dietro la scena c’era un grande portico. Le statue che lo adornavano furono procurate da Attico, un amico di Cicerone che faceva anche il mercante d’arte. Un’esedra sul fondo era usata per le assemblee del senato. Fu proprio qui che fu ucciso Cesare nelle fatidiche idi di marzo del 44 a.C.

Lo schema teatro + portico fu seguito in tutti i successivi edifici. Il teatro di Marcello fu iniziato da Cesare e terminato da Augusto, che lo dedicò al genero Agrip­pa, morto prematuramente. Sorgeva davanti al tempio di Apollo, là dove prima si costruivano le strutture provvisorie per i ludi Apollinares. Si è conservata parte della facciata esterna, inglobata nel Palazzo Savelli-Orsini.

Tra il teatro di Pompeo e quello di Marcello sorse, sempre in età augustea, il teatro di Cornelio Balbo. Un altro teatro, costruito da Traiano sempre nel Campo Marzio, ebbe breve vita.

I teatri romani si distinguono da quelli greci soprattutto per due caratteristiche: la gradinata non è appoggiata al fianco di una collina ma è sorretta da una struttura completamente in muratura; inoltre, dato il ridursi delle funzioni del coro, lo spazio semicircolare tra le gradinate e la scena si restringe per far posto a sedili per spettatori di riguardo: magistrati, sacerdoti, senatori, cavalieri. Tutti i posti erano del resto asse­gnati secondo un preciso ordine gerarchico. Gli spettacoli si svolgevano di giorno, e perciò sulla cavea venivano stesi dei teloni (velario) per riparare dal sole gli spettatori.

Al contrario dei teatri moderni, in cui all’inizio dello spettacolo il sipario si solle­va, nei teatri romani esso si abbassava rientrando nella parte inferiore della scena. Organizzare i ludi era compito dei magistrati. Essi si rivolgevano a un impresario, che forniva la compagnia (grex) composta per lo più da schiavi. Il mestiere dell’attore era considerato tra i più infamanti. Chi lo esercitava, anche se era un uomo libero, era escluso da alcuni diritti civili, e ai senatori era vietato imparentarsi anche lontana­mente con attori. Le attrici erano equiparate a delle prostitute. Del resto la cosa era motivata dalla licenziosità di certi spettacoli, come le feste in onore di Flora, dove le interpreti comparivano già nude o erano costrette a spogliarsi a furor di popolo.

C’erano anche attori che riuscivano a emergere dalla massa e a diventare ricchi e riveriti. Un certo Lucio Aurelio Apolausto Menfio ebbe erette statue in varie città d’Italia e fu definito «il primo del suo tempo».

La forma degli spettacoli seguì l’evoluzione della società. La commedia di Plauto e Terenzio, la tragedia di Pacuvio e di Accio cedettero il passo ad altri generi più leggeri, come la pantomima (sorta di rivista musicale), o a farse sboccate che si riface­vano al teatro popolare delle origini (commedia atellana). Per la audizione musicale e le declamazioni c’era bisogno di teatri chiusi, detti odeia. A Pompei ne fu costruito uno (il cosiddetto «teatro piccolo») già in età sillana. A Roma era noto quello costrui­to da Domiziano vicino al suo stadio. Ma gli spettacoli che più appassionavano i Romani erano i giochi gladiatori.

Già nel II secolo a.C. il popolino abbandonò il teatro dove si stava dando l’Hecyra di Terenzio per andare ad assistere ai combattimenti offerti nel Foro per la morte di Emilio Paolo. Un primo anfiteatro fu costruito a Roma nel 53 a.C. da Curione.

Era di legno e presentava una particolarità: lo si otteneva facendo ruotare due teatri contigui fino a che non si trovavano uno di fronte all’altro. Mentre Pompei ebbe già in età sillana un anfiteatro in muratura (almeno parzialmente), Roma non lo ebbe che nel 29 a.C., ad opera di Statilio Tauro. Distrutto questo nell’incendio neroniano, Vespasiano e Tito provvidero a ridare un anfiteatro alla capitale. L’Anfiteatro Flavio o Colosseo (così detto dalla vicina statua colossale di Nerone) fu uno dei più famosi monumenti di ogni epoca. Sappiamo da Marziale che gli spettacoli inaugurali duraro­no cento giorni: vi morirono centinaia di gladiatori e un numero imprecisato di fiere (fino a 5.000 in un giorno solo). Poteva contenere fra 50 e 90.000 spettatori.

G. Pucci

teatro

I ludi visti da Dionigi di Alicarnasso

«II Senato romano, dunque, decise di celebrare questa festa in seguito al voto formulato dal dittatore Aulo Postumio, quando si trovava sul punto di attaccare bat­taglia con i Latini che si erano ribellati ai Romani e intendevano ricondurre a Roma Tarquinio. Il Senato ordinò che si spendessero ogni anno cinquecento mine di argento per i sacrifici e per i giochi, e questa somma fu spesa fino ai tempi delle guerre puniche. Durante questi giorni festivi avvenivano anche altre celebrazioni secondo le usan­ze greche, vale a dire, assemblee generali, accoglienze a stranieri, cessazioni delle ostili­tà che sarebbe troppo lungo descrivere. Ma per quel che riguarda le processioni, i sacrifici e i giochi, essi erano i seguenti (e bastano anche a fornire un’idea delle cele­brazioni che non racconto).

Prima di iniziare le gare i principali magistrati conducevano una processione in onore degli dei: essa partiva dal Campidoglio attraverso il Foro e arrivava al Circo Massimo. Conducevano la processione prima i giovani romani quasi in età virile e che avevano l’età adatta a far parte della processione, andando a cavallo, nel caso che i loro padri fossero della classe dei cavalieri, o andando a piedi quelli che avrebbe­ro fatto il servizio militare come fanti. I primi erano in squadroni e in distaccamenti, gli altri in divisioni e compagnie come se andassero a scuola: questo perché fosse ben visibile agli stranieri il fior fiore della gioventù della città e il suo numero e la sua bellezza. Li seguivano gli aurighi, i quali conducevano quadrighe e bighe e cavalli non aggiogati; dopo di loro gli atleti delle gare faticose e di quelle più facili, nudi in tutto il corpo ad eccezione dei genitali. Gli atleti erano seguiti da molti cori di danzatori divisi in tre gruppi, prima quello degli uomini, poi quelli degli imberbi e quindi quello dei ragazzi. Quindi venivano i suonatori di flauto, che usavano antichi flauti, piccoli e corti, come avviene anche adesso, e suonatori di cetra, che toccavano cetre d’avorio a sette corde e gli strumenti chiamati «barbita». […]

Mentre la vittima stava in piedi, la colpivano con una mazza alla tempia, mentre altri la ricevevano con i coltelli del sacrificio mentre cadeva. Quindi la scuoia vano e la facevano a pezzi e toglievano le primizie dalle interiora e da ogni altro membro; poi, dopo aver cosparso le primizie di grani di orzo, le portavano entro canestri ai sacerdoti che sacrificavano. Quelli, dopo aver posto i canestri sugli altari, accendevano il fuoco e vi libavano sopra del vino mentre le vittime ardevano.

Adesso devo parlare dei giochi che si compivano dopo la processione. Dapprima c’era la corsa delle quadrighe e delle bighe e dei cavalli non aggiogati. Nelle gare equestri continuavano ad essere osservati due antichi costumi fino ai miei tempi, così com’erano quando furono istituiti all’inizio. Il primo si riferisce al carro tirato da tre cavalli: accanto ai due cavalli aggiogati come per la corsa delle bighe correva un terzo cavallo attaccato a delle redini: questo era chiamato dagli antichi «quello che corre al di fuori», perché correva al di fuori degli altri. L’altro consiste nella corsa di quelli che montano sul carro accanto all’auriga. Giacché, quando le gare dei cava­lieri sono finite, quelli che hanno corso in compagnia degli aurighi balzano già dai carri e gareggiano tra di loro in una corsa lunga uno stadio. Terminate le gare ippiche, allora si facevano avanti quelli che contendevano mettendo a prova le forze del loro corpo, e cioè i corridori, i pugilatori e i lottatori. Negli intervalli delle gare essi pratica­vano un’usanza che era tipicamente greca e che era la migliore di tutte: vale a dire, incoronavano i vincitori e pronunciavano i discorsi elogiativi in onore dei loro benefat­tori; veniva allestita, inoltre, davanti agli occhi di tutti gli spettatori, una mostra delle spoglie conquistate in guerra.

(trad. A. La Penna)

I giuochi nel circo

La politica dei Cesari, cercando di divertire sempre di più i sudditi, non faceva che attenersi alla necessità che regge i governi di massa.

Il culmine della sua grandezza, al principio del II secolo a.C., coincide con quello della sua magnificenza nelle gare di corsa dei suoi ludi, nelle rappresentazioni dei suoi teatri, nei combattimenti autentici delle arene, nelle lotte simulate e nei concorsi letterari e musicali dei suoi agones. […]

Penetrando nelle arene, dopo quasi duemila anni di cristianesimo, abbiamo vera­mente l’impressione di discendere nell’inferno dell’antichità. Per l’onore dei Romani noi vorremmo strappare dal libro della loro storia questo foglio in cui restò intorbida­ta — macchiata da sangue indelebile — l’immagine di quella civiltà di cui essi hanno creato le voci significative e propagato la vivente realtà. Condannare tutto questo non ci basta: non arriviamo neppure a comprendere l’aberrazione nella quale cadde questo popolo quando trasformò il munus, questo sacrificio umano, in una festa cele­brata gioiosamente dall’intera cittadinanza, e quando, tra tutti i piaceri che gli veniva­no offerti, esso preferì lo scannamento di uomini, armati solo per uccidere ed essere uccisi alla sua presenza. Già dal 164 a.C. questo popolo aveva disertato per un com­battimento di gladiatori il teatro in cui si rappresentava l’Hecyra di Terenzio. Nel primo secolo a.C. ne era diventato così avido che i candidati cercavano di guadagnarsi il suo favore invitandolo a queste carneficine spettacolari. […]

Nell’epoca di cui ci occupiamo, l’organizzazione dei giuochi sanguinar! è perfetta. Nei municipi italici, nella città di provincia, i magistrati locali, cui incombe ogni anno l’obbligo dei munera, si rivolgono per adempiere il compito loro a impresari specializ­zati: i lanisti. Questi industriali spregevoli, il cui mestiere nella letteratura e presso i giuristi porta lo stesso marchio d’infamia del mestiere dei prosseneti o lenones, sono veramente i mezzani della morte. Ai duoviri e agli edili il lanista offre al miglior prezzo, per quei combattimenti in cui di solito muore la metà dei combattenti, la schiera dei gladiatori. […].

Nel corso dei giochi i gladiatori marciavano con andatura disinvolta, con le mani libere e seguiti da valletti che portavano le armi; quando arrivavano all’altezza del palco imperiale, si voltavano verso il principe e con la destra tesa verso di lui in segno di omaggio gli rivolgevano l’acclamazione lugubre e veridica «Ave, Imperator, morituri te salutant».

Quando la sfilata era terminata si passava all’esame delle armi, la probatio armarum, per togliere di mezzo le spade che avessero il taglio o la punta smussata, e la funesta bisogna potesse così compiersi fino in fondo. Quando le armi erano state trovate di buona tempra e, quindi, distribuite, venivano costituite, tirando a sorte, le coppie di duellanti, si fosse stabilito di opporre gladiatori della stessa categoria, o di mettere alle prese gladiatori di armi diverse: un sannita ed un trace, un mirmillone e un reziario; sia che, per rendere più attraente lo spettacolo, si ricorresse a strane formazioni o a selezioni a contrasto e, per esempio, si ponesse un negro contro un negro, come nel munus con cui Nerone onorò il re di Armenia, Tiridate, o un nano contro una donna, come nel munus che fu organizzato da Domiziano nel 90 d.C..

Allora finalmente si levava lo stridore di un’orchestra, o piuttosto di un jazz, i cui flauti si univano alle trombette stridule e i corni all’organo idraulico. Su ordine del presidente del munus, si iniziava a suon di musica la serie dei duelli. Non appena i gladiatori della prima coppia avevano cominciato a saggiarsi, una febbre analoga a quella che regnava durante le corse s’impadroniva dell’anfiteatro.

Come al circo gli spettatori ansavano di inquietudine e di speranza, gli uni per gli «azzurri», gli altri per i «verdi», il pubblico del munus divideva i suoi voti e le sue angosce tra i palmularii, preferiti da Tito, e gli scutarii, verso i quali inclinava Domiziano. Si scambiavano, come per i ludi, scommesse, sponsiones, e per timore che le prove riuscissero falsate da un segreto accordo tra i combattenti, stava vicino a loro un istruttore, pronto ad ordinare ai lararii o staffilatori, che stavano ai suoi ordini, d’eccitare l’ardore omicida con ignobili inviti all’assassinio: «colpisci (verbera), sgozza (iugula), brucialo (ure)» ; o, se era necessario, di eccitarli frustandoli a sangue con le loro cinghie di cuoio. A ogni ferita che i gladiatori si infliggevano, il pubblico, che tremava per le sue poste, reagiva con odiosa passione. Non appena vacillava colui contro il quale avevano scommesso non si trattenevano più da un infame tripudio e accusavano selvaggiamente il colpo: «le ha prese (habet)», «questa volta le prende (hoc habet)»; e provavano una gioia barbara per la vittoria del loro campione, quando vedevano il suo avversario crollare sotto un colpo mortale. Subito servi travestiti da Caronte o da Ermete Psicopompo si avvicinavano al giacente, si assicuravano a colpi di mazzuola sulla fronte dell’avvenuta morte e facevano segno ai libitinarii di portarlo via sulla barella fuori dell’arena, mentre la sabbia insanguinata veniva rimestata in fretta.

Qualche volta, per impetuoso che fosse stato, il combattimento non aveva esito, essendo i duellanti egualmente robusti ed abili; o cadevano tutti e due o restavano tutti e due in piedi (stantes). L’incontro era dichiarato nullo e si passava alla coppia seguente. Più spesso ancora il vinto, stordito o ferito, non era ancora colpito a morte, ma, sentendosi nell’impossibilità di continuare la lotta, deponeva le armi, si stendeva sul dorso e levava la mano per domandare grazia. Di regola era in potere del vincitore accordare o no la grazia, e noi possiamo leggere l’epitaffo di un gladiatore il quale, ucciso da un avversario cui aveva fatto grazia in un precedente incontro, s’immagina mandi d’oltre tomba ai suoi successori questo consiglio ferocemente pratico: «la mia sorte sia per voi un avvertimento. Non si dia quartiere ai vinti, chiunque essi siano! (moneo ut quis quem vicerit occidat!)». Ma il vincitore abdicava al suo diritto in favore dell’imperatore, il quale, spesso, prima di farne uso egli medesimo, interrogava la moltitudine. Quando pareva che il vinto si fosse energicamente difeso, gli spettatori agitavano i loro «fazzoletti», levavano in alto il pollice e gridavano: «Mitte (rimanda­lo)». Se l’imperatore si conformava al loro desiderio, levava anch’egli il pollice, il vinto era graziato e rimandato via dall’arena vivo: missus. Se al contrario il pubblico giudicava che il vinto per la sua fiacchezza aveva meritato d’essere sconfitto, abbassa­va il pollice gridando: «iugula (scannalo)». E l’imperatore, tranquillamente, ordinava, volgendo in giù il pollice — pollice verso —, di immolare il gladiatore atterrato al quale ora non restava che offrire la gola al colpo di grazia del vincitore.

J. Carcopino

4E Teatri e spettacoliultima modifica: 2022-02-15T12:18:29+01:00da masaniello455