5E Letteratura Latina 2

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Gaio Valerio Catullo

— Sirmione, Verona, 84? – Roma, 54? a.C. —

Vita.

Biografia incerta. Scarse e incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica: i suoi carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se non proprio per le indicazioni più strettamente biografiche e cronologiche (di cui praticamente sono privi), almeno per ricostruirne e comprenderne, in generale, personalità e stati d’animo.

La formazione e l’ingresso nel bel mondo romano. C. proveniva – come altri neoteroi – dalla Gallia Cisalpina (ovvero, dall’Italia settentrionale) e apparteneva ad una famiglia agiata: suo padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda (come c’informa Svetonio). Trasferitosi a Roma (intorno al 60) per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie benestanti, C. trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore: trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di trasformazione (la vecchia repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le lotte politiche, ma anche le vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte dei “neóteroi” o “poetae novi” ed entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo attento o ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni (non mancò di attaccare violentemente Cesare e i suoi favoriti, specialmente il “prefectus fabrum” Mamurra: ma Cesare seppe riconquistarlo…). Di contro, nella capitale, un giovane come lui – esuberante e desideroso di piaceri e di avventure – si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione, dalla libertà di costume e di comportamento pubblico e privato, che distingueva la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima conservò sempre i segni dell’educazione seria, anzi rigorosa, ricevuta nella sua provincia natale, famosa per l’irreprensibilità morale dei suoi abitanti.

L’incontro con Lesbia-Clodia. C. è stato definito, a buon diritto, come il poeta della giovinezza e dell’amore, per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta amò con ogni parte del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più probabilmente nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia, come ci rivela Apuleio nel “De magia” (chiamata Lesbia, “la fanciulla di Lesbo”, perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa appunto di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno della plebe (58) P. Clodio Pulcro (agitatore del partito dei “populares” e alleato di Cesare, nonché mortale nemico di Cicerone), e moglie – per interesse – del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere.

Una storia difficile. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento: nelle poesie di C. abbiamo, così, diversi accenni allo stato d’animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all’addio finale.

Il lutto familiare e la crescente delusione d’amore: il viaggio in Oriente. C. era a Roma, quando ebbe la notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi e vi stette per alcuni mesi, ma le notizie da Roma gli confermavano i tradimenti di Lesbia (ora legata a M. Celio Rufo, quello stesso che Cicerone difese nella “Pro Caelio”, rappresentando Clodia come una mondana d’alto rango, viziosa e corrotta). Il poeta fece così ritorno nella capitale, sia perché non riusciva a star lontano dalla vita romana, sia per l’ormai insostenibile gelosia. Deciso, infine, ad allontanarsi definitivamente da Roma, per dimenticare le sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia, esattamente il dedicatario del “De rerum natura” di Lucrezio. Laggiù, in Asia, il giovane C. entrò in contatto con l’ambiente intellettuale dei paesi d’Oriente; fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in patria.

Il ritorno e la morte. C. tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove trascorse gli ultimi due anni della sua vita, consumato fisicamente da un’oscura malattia (mal sottile?) e psichicamente dalla sfortunata esperienza d’amore e dal dolore per la morte del fratello.

Opera.

Il “Liber” catulliano consta di 116 di “carmi” (per un totale di circa 2300 versi), raggruppati in 3 sezioni non in base ad un ordine cronologico, bensì in base al metro ed allo stile, seguendo un criterio di “variatio” e di alternanza fra temi affini, secondo la mentalità e l’usanza tipiche degli editori alessandrini. Abbiamo, così:

– (cc. 1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama “nugae“, o “coserelle”, “versi leggeri”: ovvero, espressioni di una poesia intesa come “lusus“, scritta cioè per “gioco”, per passatempo e divertimento, a cui però il poeta stesso consegna la propria profonda e tormentata personalità e augura l’immortalità; i metri più usati sono l’endecasillabo falecio (il più frequente), il trimetro giambico puro, il coliambo, la strofa saffica minore, il priapeo, il tetrametro giambico catalettico, l’asclepiadeo maggiore, il trimetro giambico archilocheo;

– (cc. 61-68) sono definiti “carmina docta“, di maggior respiro e complessità, tal che si è portati ad individuarvi un maggiore impegno compositivo [ma, a tal proposito, vd. oltre]. Si tratta di elegie, epilli ed epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l’epitalamio per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e felice trasposizione moderna di Saffo; l’ “Attis”, poemetto in versi galliambi, strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura callimachea; il celebratissimo carme 64, vasto epillio per le nozze di Péleo e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una piccola epopea mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della “Chioma di Berenice” di Callimaco, preceduta dalla dedica all’amico Ortalo in distici elegiaci; un’elegia epistolare di gusto alessandrino, che ricorda il tempo felice dell’amore di Lesbia.

– (cc. 69-116) sono carmi brevi e di presa immediata, o “epigrammata” (epigrammi, elegie): i temi sono praticamente gli stessi del I gruppo, ma resi con metro diverso: il distico elegiaco.

Il “liber” è dedicato a C. Nepote [c. 1], ma esso non è certamente il “libellus” della dedica, nel senso che questo doveva comprendere, per esplicita dichiarazione del poeta stesso, solamente le “nugae“, e non anche i “carmina docta“, come invece noi lo possediamo. L’opera, quale a noi è giunta, è – dunque – con molta verosimiglianza, una raccolta postuma, nella quale accanto ai carmi del “libellus” trovò definitiva sistemazione il corpus – non però integrale – della produzione poetica catulliana: insomma, di quella produzione, esso sarebbe una raccolta antologica.

Considerazioni sull’autore e sull’opera.

Le “nugae” e il difficile rapporto con Lesbia. Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le “nugae“, a cui è consegnata tutta la storia dell’amore di C. per Lesbia, “frammentata” in 25 carmi che percorrono trasversalmente i due gruppi [cc. 2, 3, 5, 7, 8, 11, 36, 37, 38, 40, 43, 51, 58, 70, 72, 75, 76, 79, 83, 85, 86, 87, 92, 107, 109]. Le peripezie di questa vera e propria autobiografia d’amore “romanzata”, proprio a causa di questa frammentazione e di una disposizione non cronologica delle varie tappe del rapporto, non ci appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni (e per lo meno una notte) di felicità, ma anche molte sofferenze, giacché Clodia, checché se ne dica, prestava grande attenzione alla propria reputazione e al suo onore di gran dama, e anche, molto più probabilmente, perché lei e C. non concepivano l’amore nello stesso modo. Egli l’amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull’idea che Clodia fosse per lui “la sua sposa”; a lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava. Clodia, inoltre, era una donna che aspirava al successo e che amava civettare con uno stuolo di giovani al suo fianco: C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere l’unico, in nome degli illusori diritti che dà l’amore. Quando si avvide che non era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in versi atroci, dove pretendeva che Lesbia addirittura si prostituisse con chi le capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei: “Amo e odio”, le scriveva, “tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e soffro.”

Il disimpegno e la rottura. Dunque, nel rapporto con Lesbia C. programmaticamente (e in piena fedeltà alla poetica neoterica) trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del “civis” romano (del resto, sebbene vissuto in un’epoca di grandi cambiamenti politici, egli nelle sue composizioni dimostra una grande indifferenza per le situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e Cicerone): tende insomma a ritagliarsi una sorta di “spazio del privato” (“otium“), dove vivere e parlare esclusivamente d’amore.

Orbene, come detto, quel rapporto amoroso – nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros – nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale; o quantomeno come un “foedus“, un ibrido originale – se vogliamo – dei due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano (la “fides” e la “pietas“), trasferiti dal piano pubblico ad un piano più decisamente “privato”, e quindi rinnovati nel loro significato.

Tuttavia, l’offesa ripetuta del tradimento (il “foedus violato”) produce in C. una dolorosa dissociazione fra la componente meramente sensuale (“amare“) e quella profondamente affettiva (“bene velle“), fin allora profondamente ed esistenzialmente intrecciate: resta forte il desiderio sessuale, mentre l’affetto, a fronte delle delusioni e del tormento della gelosia, diminuisce man mano d’intensità.

Gli altri temi. Tuttavia, il “Liber” catulliano non coincide esclusivamente e completamente con la tormentosa storia tra il poeta e Clodia (come invece spesso si pensa): accanto e in mezzo ad essa, quasi a formarne la cornice “di costume e società”, si trovano numerosi altri carmi, cui sono consegnati gli altri “temi” che vanno a intarsiare la sfaccettata e complessa esistenza del poeta. La varietà di quei temi impone che se ne rilevino (come del resto è stato fatto anche da critici illustri) almeno i più “importanti” o quantomeno i più caratterizzanti, tal che sia possibile individuare dei veri e propri “cicli” alternativi e integrativi rispetto a quello amoroso: si trovano, così, carmi rivolti contro “vizi privati e pubbliche virtù”, ovvero di polemica scopertamente sociale [ad es., contro i mediocri, i truffatori, gl’ipocriti e i moralisti] e letteraria [C. flagella i poeti che seguono le orme del passato, come ad es. Volusio], ma anche larvatamente politica [ad es., l’ironia contro il già detto Mamurra, un fidato di Cesare], in tono volentieri scurrile, satirico e spesso goliardico; carmi dedicati al tema dell’amicizia [per Veranio e per Fabullo, più spontanea; per Calvo e Cinna, più letteraria], un sentimento che C. vive quasi con la stessa intensità con cui vive l’amore (e altrettanto sdegnato e iroso è nei confronti degli amici che lo hanno tradito, ad es. Alfreno Varo); carmi, infine, che esprimono profondi affetti familiari e altissimi vincoli di sangue (alto è il senso della famiglia, in C.; non dimentichiamo, del resto, che il poeta voleva sublimare a livello “familiare” lo stesso sentimento provato per Lesbia): tra questi ultimi, spicca sicuramente il bellissimo c. 101, estremo e commovente saluto sulla tomba dello sfortunato fratello.

Continuità tra “nugae” e “carmina docta”. Il II gruppo di carmi (61-68), invece, come accennato, è quello che più lega C. al movimento neoterico, e quello che più corrisponde alla variante romana del gusto alessandrino.

Ma la critica recente ha sottolineato come la distinzione tra “nugae” e “carmina docta” non implichi in C. l’impiego di un diverso impegno letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso livello espressivo: si tratta, insomma, in entrambi i casi, sempre di una lirica dotta e aristocratica (come i fruitori dell’opera), secondo i canoni estetici dei neoteroi, anche laddove l’effetto patetico e certe movenze apparentemente dimesse potrebbero far pensare ad un’espressione, per così dire, “popolare” (è, invece, come più giustamente è stata definita, “ricercata spontaneità”).

La lingua. La stessa lingua utilizzata è il risultato di un originale impasto di linguaggio letterario (uso di grecismi ed arcaismi) e “sermo familiaris” (uso di diminutivi, di espressioni prosastiche, proverbiali e “provinciali”), il secondo “filtrato” dal primo, a formare uno strumento agile e vivace, che riesce ad adattarsi ai temi, alle occasioni e ai registri più svariati: dall’affetto all’amore, dall’ironia all’invettiva, dall’intimo al pubblico.

C. primo vero poeta romano dell’amore “soggettivo”. L’opera di C., anche se non è ancora quella di un “elegiaco”, è comunque l’espressione vivente di un sentimento personale e profondo, che ha già acquistato diritto di cittadinanza nella poesia: egli fa dell’amore (e attraverso questo, della poesia) l’unica ragione di vita, anzi in lui amore poesia e vita veramente coincidono. Per ciò che conserva ancora in sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere fra i predecessori immediati (ma è l’unico di essi ad emergere) piuttosto che fra i poeti augustei, che formeranno in seguito il “classicismo” della poesia (anche “erotica”) romana.

Lucrezio (98-96 a.C. – 55 ca)

— a cura di Diego Fusaro —


Vita e opera. Della vita di Tito Lucrezio Caro rimane poco o nulla: due righe di san Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente avversi alla dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con ponderatezza.

Si è solitamente propensi a collocare la sua nascita tra il 98 e il 96 a.C. e la sua morte nel 55. Il silenzio su questo grande poeta e filosofo, che dovette provocare comunque un certo scalpore nella Roma di allora, è tuttavia emblematico della stigmatizzazione che dovette subire il De rerum natura, lontano com’era sia dagli allora in voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall’esaltazione della politica attiva o della guerra fatta da Catilina e Cesare.

Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario, probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all’aristocratico Memmio non si riesce però ancora a capire se fosse anch’egli un aristocratico oppure un liberto) e altrettanto probabilmente trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi del “De rerum natura”. Va, tuttavia, respinta la teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da un filtro d’amore: si pensa infatti che l’accusa sia nata nel IV secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta.

L’Epicureismo a Roma. A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l’epicureismo era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva i cittadini dall’impegno politico per la difesa delle istituzioni. Inoltre l’epicureismo, negando l’intervento divino negli affari umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la religione come strumento di potere. Poco si conosce riguardo la penetrazione dell’epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni dell’epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti.

Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, Lucrezio scelse la forma del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell’agire di Lucrezio: se da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall’altro ne fa uso per divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da Lucrezio, così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover spiegare anche l’atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l’eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di Lucrezio nella sua polemica all’epicureismo.

La filosofia di Lucrezio. *Religio: Il De rerum natura si apre con l’invocazione a Venere, dea dell’amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra: Lucrezio vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe politica romana. La via che Lucrezio trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano. All’inizio del poema Lucrezio invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema ne è il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata dal padre per ingraziarsi gli dèi, o anche l’immolazione del vitellino e la descrizione della madre che lo cerca, disperata): la religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è più nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. Si vede, quindi, già dai primi versi come Lucrezio offra un nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi timori nascono dall’ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo. Con parecchi secoli di anticipo su Marx, Lucrezio si accorge che la religione è l’ ‘oppio del popolo’, e ha portato l’uomo a compiere azioni imperdonabili. L’accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della filosofia di Lucrezio: Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice. Lucrezio si scaglia con ardore contro la religione, contro quella meschina invenzione umana che ‘potè suggerire tanto male’ (tantum potuit suadere malorum) e che con Epicuro si è trovata ‘calpestata’ (religio pedibus subiecta). I timori degli uomini di fronte alla morte e alla religione sono del tutto vani e analoghi alla paura dei bambini di fronte al buio.

Natura: Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere cioè la paura per morte, malattia, dolore e dei, Lucrezio inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina rerum o genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e cosí persino l’animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle elementari, c’è comunque spazio per la libertà: all’origine dell’universo c’è una deviazione del moto atomico, un clinamen, che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura.

Morte: Dopo aver descritto la natura della materia l’autore invita i suoi lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di ineluttabile e comunque esterna all’uomo: quando noi siamo non c’è morte, quando c’è la morte noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide ambizioni (E tu esiterai, e per di piú t’indignerai di dover morire? Tu cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e vedi e consumi nel sonno la parte maggiore del tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l’animo tormentato da vane angosce, né riesci a scoprire qual sia cosí spesso il tuo male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni parte gli affanni e vaghi oscillando nell’incerto errare della mente – III, vv. 1045-1052).

Sensi e amore: Il IV libro tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano essere turbati. I sensi, per Lucrezio, non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi (IV, vv. 507-8). Anche stavolta, dopo aver cercato di trasmette l’atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui dedica i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio: Brucia l’intima piaga (l’amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra, se non confondi l’antico dolore con nuove ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori, e ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo (vv. 1068-1073); Infatti proprio nel momento del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l’ardore degli amanti che non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto, qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia (vv. 1076-1083). Dopo aver condannato l’amore come sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv. 1079-1083), amarezza (v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e segg.), cecità (v. 1153), miseria (v. 1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179), Lucrezio cambia tono: “È proprio lei che talvolta con l’onesto suo agire, / l’equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, / ti rende consueta la gioia d’una vita comune. / Nel tempo avvenire l’abitudine concilia l’amore; / ciò che subisce colpi, per quanto lievi ma incessanti, / a lungo andare cede, e infine vacilla”. Appare diverso, teneramente malinconico, più paterno (“E spesso alcuni […] trovarono fuori [di casa] una natura affine, così da poter adornare di prole la loro vecchiaia”, vv. 1254-6). Personalità contrastata fra ratio e furor, Lucrezio, come scrisse Schwob, “conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, continuò a piangere e a desiderare l’amore e a temere la morte”.

Civiltà e peste: Nel libro seguente il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita della civiltà: I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della civiltà nascono anche l’ambizione e la cupidigia, contro cui Lucrezio si scaglia con forza: Lascia dunque che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano sull’angusto sentiero dell’ambizione, poiché sanno per bocca d’altri e dirigono il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo accade e accadrà piú di quanto è accaduto in passato (vv. 1131-1135). Insomma, Lucrezio pone molta attenzione sul progresso dell’uomo e ne delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali. Anche nel discusso finale dell’opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell’epicureismo, per immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente l’opera non doveva avere questo finale (è comunque appurato che dovesse essere il sesto l’ultimo libro e non moltissimi versi alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi degli dei e la spiegazione di come l’epicureismo possa aiutare ad affrontare persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane comunque emblematico del tormentato animo lucreziano, che in questa descrizione è piú vicino al gusto dell’orrido di stoici come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino.

Politica: Seguendo gli insegnamenti del maestro Epicuro (‘vivi al di fuori della sfera politica’), Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni e di tormenti per l’anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi, poi, dalla vita politica, dedicandosi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. Lucrezio sottolinea la vacuità e l’inutilità di ogni forma di potere: solo distanti dalla vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è indenni.

Lo stile. Se le teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l’animo, Lucrezio la considera come il miele che, cosparso sull’orlo del bicchiere, aiuta il bambino a prendere la medicina ( nam veluti pueris abstinthia taetra medentes / cum dare conantur, prius oras pocula circum / contingunt mellis dulci flavoque liquore – lib V vv. 11-13): la sua poesia è scientifica, chiara ( obscura de re tam lucida pango / carmina ), in netta rottura coi vatum terriloquis dictis di molti poeti che l’hanno preceduto (anche se può sembrare strano che la ricerca della chiarezza si accompagni ad un frequente uso di arcaismi e grecismi). Il commento di Cicerone, pensatore notoriamente avverso all’epicureismo, riguardo il De rerum natura testimonia che egli ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche le grandi capacità di elaborazione artistica. Anche lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a una prima vista, potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche. Anche l’invito all’attenzione del lettore è ripetuto spesse volte. Non bisogna trascurare inoltre che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi in grado di esprimere certi concetti della filosofia greca, Lucrezio si trovò costretto così a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli: il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri ne crea ex novo. Vi è inoltre un uso abbastanza frequente di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, infiniti passivi in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai e l’uso dell’enjambement. Lucrezio dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell’entusiasmo poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma anche all’invettiva profetica: comunque sempre grandioso.

Considerazioni. Prima del De rerum natura, la letteratura romana non aveva prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno; d’altra parte, Lucrezio si differenzia notevolmente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha come unico scopo quello di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della vita dell’uomo e del mondo, di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua ispirazione negli argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza dell’importanza ella materia e delle informazioni date determina un particolare tipo di rapporto tra Lucrezio e il lettore discepolo: questo viene continuamente esortato e minacciato affinché segua con rettitudine i precetti e il percorso di felicità imposti dall’epicureismo. Un’ ulteriore differenza tra la poesia didascalica ellenistica e quella di Lucrezio sta nel fatto che quest’ultimo ricerca le cause dei fenomeni, e propone al lettore una verità, una ratio sulla quale è obbligato ad esprimere un giudizio, mentre la prima si limita a descrivere in maniera empiristica tali fenomeni. Per Lucrezio non vi è nulla di cui meravigliarsi nell’osservazione di questo o quel fenomeno poiché esso è connesso necessariamente con una regola oggettiva: non può trarne stupore chi abbia capito il funzionamento di tale regola. Alla retorica del mirabile egli sostituisce la retorica del necessario (necesse est è una formula molto usata nel poema di Lucrezio). I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono pensati per spronare il lettore a scegliere anch’egli un modello di vita forte e alta: il lettore di Lucrezio è chiamato a trasformarsi in eroe, a farsi pronto e forte come la poesia che egli legge. Il destinatario ideale di Lucrezio è colui che sa adeguarsi alla forza sublime di un’esperienza sconvolgente: in questo modo la dottrina degli atomi è descritta non solo in sé, ma anche nelle reazioni di vertigine che può provocare nel lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel De rerum natura un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare per contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è la rigorosa struttura argomentativa. Lucrezio usa anche il sillogismo. Il libro che testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. Pur avendo dimostrato scientificamente la mortalità dell’anima, Lucrezio si rende conto che ciò non basta per distogliere l’uomo dalla paura di lasciare la propria vita. Al fine di convincerlo Lucrezio, nella parte finale del libro, dà la parola alla Natura stessa, che si rivolge all’uomo; si tratta di una delle più celebri prosopopee della letteratura latina: ‘Perchè la morte ti strappa questi gemiti? Perchè se hai potuto godere a tuo piacimento della vita trascorsa,se tutti questi godimenti sono stati come radunati in un vaso forato,se non sono scorsi via e perduti senza profitto, perchè, come un convitato sazio, non ritirarti dalla vita? Perchè, povero sciocco, non prenderti di buona grazia un riposo che nulla turberà? Se, invece, tutto ciò di cui hai a lungo goduto é trascorso in pura perdita, se la vita ti é di peso, perchè volerla prolungare di un tempo che a sua volta deve terminare in una triste fine e dissiparsi tutto senza profitto? Non posso immaginare ormai altre nuove invenzioni per farti piacere: le cose vanno sempre allo stesso modo. ‘ In questo libro è evidente il contatto di Lucrezio con la letteratura diatribica (ossia l’accorgimento di far parlare dei personaggi fittizi di particolare interesse). I critici sono molto confusi riguardo al binomio autore e narratore: benché siano la stessa persona non devono essere sovrapposte meccanicamente. Come visto, un’attenta lettura dell’opera induce a constatare che la tensione dell’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale. Lucrezio è fortemente contrario alle insensatezze della passione amorosa poiché questa non è certamente un bisogno necessario e deve essere, di conseguenza, esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoteroi . La volontà di Lucrezio è allora, come già detto, quella di ricercare un indirizzo stilistico elevato che accolga nella sua forma sublime gli elementi della satira e della diatriba.

Riassunto del De rerum natura. La più grande opera di Lucrezio, il De rerum natura, fu scritta in esametri e suddivisa in sei libri: probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il poema è dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna. San Girolamo asserisce che il “De rerum natura” fu rivisto e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di Lucrezio. La data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta nel periodo successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio. Il motivo del poema, come spiega lo stesso Lucrezio, è la diffusione della filosofia epicurea a Roma; un’impresa ardua, tanto più per il fatto che la lingua latina aveva un vocabolario molto ristretto e Lucrezio si trova in difficoltà nel tradurre in latino parole greche centrali nella filosofia di Epicuro e deve ricorrere a perifrasi nuove, quali semina, primordia o corpora prima per designare gli atomi. Ma perché allora Lucrezio, per impartire insegnamenti filosofici, si avvale della poesia? Lucrezio spiega che come i genitori somministrano le medicine ai bambini cospargendole di miele per renderle meno sgradite, così lui intende fare con la filosofia: vuole cioè cospargere col miele delle Muse una dottrina apparentemente amara, che riduce l’esistenza dell’uomo al mondo terreno. Quest’idea, di sfuggita, è ripresa anche da Torquato Tasso in La Gerusalemme liberata , libro I : E che il vero condito in mille versi, / i più schivi allettando ha persuaso . Il poema è chiaramente articolato in tre gruppi di due libri (diadi): nel I libro, dopo l’inno a Venere, personificazione della forza vivificatrice della natura e immagine della contemplazione razionale della bellezza della natura, sono spiegati i princìpi generali della filosofia epicurea: gli atomi, le parti ultime della materia (indivisibili, immutabili, infinite), muovendosi nel vuoto infinito si aggregano in modi diversi e danno vita a tutte le realtà esistenti; interviene poi la disgregazione. Nascita e morte sono costituite da questo processo di continua aggregazione e disgregazione: a rigor di logica, spiega Lucrezio, nulla muore, nulla nasce e tutto si conserva. Alla fine del I libro Lucrezio fa una carrellata di teorie naturalistiche contrapposte a quella di Epicuro, confutandole una ad una: Eraclito, Empedocle, Anassagora. Nel II libro viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo: il clinamen, ovvero la deviazione degli atomi dal loro corso, svolge due funzioni importantissime. Se non ci fosse, da un lato, il mondo non si sarebbe potuto formare: esso è infatti dato dallo scontro degli atomi e dalla loro successiva aggregazione, ma se essi cadessero verticalmente nell’infinito non potrebbero mai incontrarsi; con il clinamen, invece, per una qualche legge che sfugge al rigido determinismo, può succedere che qualche atomo si allontani dal suo moto verticale e vada a scontrarsi con altri atomi. La teoria del clinamen, poi, rende possibile il libero arbitrio dell’uomo, il quale è, per Epicuro e per Lucrezio, artefice del proprio destino: l’idea che nel mondo non tutto vada secondo necessità, secondo leggi rigidamente determinate è dimostrato dal fatto che gli atomi subiscano il clinamen (deviazione) e si scontrino, dando origine al mondo; viene così garantito un margine di libertà all’agire umano. Il III e IV libro costituiscono la seconda coppia che espone l’antropologia epicurea: il III spiega come l’anima e il corpo siano entrambi costituiti da atomi e, pettanto, entrambi destinati a morire. Tuttavia si tratta di atomi diversi: quelli dell’anima sono più leggeri e lisci. Il IV libro tratta la gnoseologia epicurea: entra in gioco la teoria dei simulacra , teoria secondo la quale alcuni atomi si staccano dall’ oggetto conosciuto per colpire i sensi del soggetto conoscente. I simulacra , tra l’altro, servono anche per spiegare le immagini che vediamo nei sogni e sono anche all’origine della reazione dei dormienti di fronte all’immagine degli oggetti del loro desiderio. Lucrezio dà anche una celebre spiegazione della passione d’amore, spiegando come essa altro non sia che un’attrazione fisica, meramente materiale. La terza coppia di libri prende in esame la cosmologia: il libro V espone la mortalità del mondo (uno degli infiniti tra i mondi esistenti), analizzandone il processo di formazione. Lucrezio tratta anche, in questo libro, del moto degli astri e delle sue cause. Il VI libro, invece, si sforza di dare spiegazioni assolutamente naturali dei vari fenomeni fisici (i fulmini, i terremoti, ecc), estromettendone la volontà divina, che non influisce minimamente negli affari degli uomini. Sulla descrizione dei vari eventi catastrofici si innesta la descrizione della terribile peste scatenatasi ad Atene nel 430 e già narrata splendidamente da Tucidide, con la quale l’opera si chiude bruscamente. Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante di dissoluzione. All’attacco di ogni libro, invece, c’è una celebrazione di Epicuro ( ille deus fuit ripete Lucrezio), del suo coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui Lucrezio evidentemente intende il riferimento anche come rivolto a se stesso). Come detto, il “De rerum natura” probabilmente non ha ricevuto un’ultima revisione: il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, in corrispondenza con il gioioso inno a Venere, e non con il terrificante quadro della peste di Atene.

Cornelio Nepote

— Gallia Cisalpina 99 ca – ? 24 ca a.C. —

Vita.

Vita fatta esclusivamente di studi. Provinciale di solida condizione economica, N. sembra aborrire in tutta la sua vita l’impegno civile e politico, preferendo piuttosto rifugiarsi completamente nell’ “otium” letterario e nell’erudizione storica. Trasferitosi ben presto a Roma, dove visse praticamente fino alla morte, ivi conobbe molti personaggi politici ed intellettuali del tempo, da Cicerone ad Attico a Catullo, che gli dedicò perfino la sua raccolta di carmi.

Opere.

Opera maggiore. N. è autore della più antica raccolta di biografie latine giuntaci: il “De viris illustribus” (34 a.C.), almeno 16 libri di vite di generali, storici, poeti e oratori latini e stranieri (raggruppati secondo le “categorie professionali”), con una trattazione parallela derivata forse dalle “Imagines” di Varrone e ripresa, in seguito, nelle “Vite” di Plutarco.

Dell’opera – <<una sintesi [dunque] dell’umanità migliore nello spazio e nel tempo vista con l’occhio universale di Roma>> [Alfonsi] – ci restano numerosi frammenti: 2 vite (Catone il Vecchio e Attico) del “De historicis latinis” e l’intera sezione “De excellentibus ducibus exterarium gentium” (22 biografie). E’ chiaro l’intento dell’autore di fare del genere letterario della biografia il veicolo di un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, evidentemente senza adombramenti nazionalistici.

Opere minori. Altre opere (perdute): “Cronica” (di cui ci dà testimonianza lo stesso Catullo), storia universale in 3 libri, forse in prosa, in cui – ispirandosi all’opera di Apollodoro di Atene – già affiorava l’esigenza di un confronto tra la civiltà romana con le altre; “Exempla”, aneddoti e curiosità storiche e geografiche in 5 libri, a sfondo moraleggiante; “Vite” più ampie di Catone e di Cicerone.

Considerazioni.

N. teorico del “relativismo culturale”? Uno dei problemi principi posti dalla critica sull’opera di N. riguarda soprattutto le sue biografie: molti studiosi, a tal proposito, riferendosi alla loro struttura “parallela”, hanno insistito sul carattere di “relativismo culturale” (o almeno una delle sue prime importanti forme nella cultura romana) propugnato dal nostro autore: in realtà, N. – nella prefazione del “Liber” – sembra effettivamente porre le basi del concetto della relatività dei valori in relazione ai diversi contesti storici e culturali di appartenenza (anche se affronta il problema senza un grande approfondimento teorico): tale relatività riguarda la formazione dei giovani, i comportamenti sociali e le qualità morali che informano la vita privata e pubblica. Le biografie, dunque, intenderebbero rappresentare per il mondo romano, e in special modo per quello più tradizionalista, un’apertura verso elementi culturali diversi, e il loro intento compositivo sarebbe, con ogni probabilità, quello di dimostrare, nella fattispecie, l’esistenza di “convergenze etiche” tra mondo romano e greco.

Il valore delle biografie. Ma N. è essenzialmente un “improvvisatore”, e cita le sue fonti spesso senza averne conoscenza diretta e senza controllarne il valore: le sue stesse, già citate, biografie, di modesta levatura letteraria e “scientifica” anche se di piacevole lettura, appaiono piuttosto panegirici moraleggianti (ma il suo è un moralismo che rifugge dalla prassi e che tende ad isolarsi in una dimensione decisamente asociale) che ricerche critiche o storiche, e ci danno informazioni preziose – volendo – solo nelle descrizioni d’ambiente: esse costituiscono, insomma, un’ulteriore conferma di quel “culto della personalità” che è un motivo ricorrente in tutta la cultura coeva al nostro autore.

Intellettuale disimpegnato. Da quanto detto finora, appare infine chiaro come quello di N. <<è il tipico atteggiamento dell’intellettuale che, nei momenti di crisi […], si isola [piuttosto che agire], chiudendosi nel guscio di una cultura che in tal modo perde i contatti con la realtà per divenire soltanto sterile erudizione. Se la repubblica romana non ebbe più la forza di sopravvivere [alla sua crisi], le motivazioni vanno cercate anche nel fatto che gli intellettuali come N. ebbero il sopravvento numerico su quelli come Cicerone>> [libero adattamento da Monaco – De Bernardis].

Marco Terenzio Varrone

— Reate, oggi Rieti, in Sabina, nel 116 – 27 a.C. —

Vita.

Autore longevo. L’elemento più significativo della vita di V. è sicuramente la sua longevità, che lo mette in condizione di assistere agli eventi che vanno dal comparire di Mario sulla scena politica all’ascesa di Augusto.

Fra tradizione e modernità. Studiò a Roma e ad Atene. Difensore della tradizione (secondo, potremmo dire, quasi il dettato genetico della sua origine sabina), si schierò dalla parte di Pompeo, ricoprendo la carica di tribuno della plebe e, in seguito, quella di pretore, senza peraltro proseguire e concludere il suo “cursus honorum“. Cesare gli perdonò e gli affidò addirittura la biblioteca pubblica che intendeva instaurare in Roma: la scelta proprio di V. potrebbe spiegare la valenza politica del progetto cesariano: il mondo nuovo che dittatore sta realizzando si preoccupa di mantenere la memoria del passato per trasmetterla ai posteri. Pare, infine, che V. sia stato anche consigliere di Augusto per le questioni religiose.

Opere.

Ancor più che come poeta moralizzante, V. agì sul suo tempo come erudito. La sua riflessione si estese a tutti i campi che si presentavano agli “antiquari” del suo secolo, in una sorta di “summa” enciclopedica del sapere in lingua latina dagli inizi della storia di Roma fino all’età repubblicana: dal passato della lingua latina (“De lingua latina”) alla storia letteraria di Roma (“De poetis”, “De poematis”, eccetera, con particolare riguardo per i problemi sollevati dal teatro di Plauto), alla religione romana e alla “vetustà” delle istituzioni e dei costumi profani (“Antiquitates”), fino al diritto (15 libri di diritto civile), alla cronologia generale, alla genealogia delle famiglie nobili, passando ancora per la geografia, l’agricoltura (“De re rustica”), la geometria, l’aritmetica, per concludere infine con un quadro dei differenti sistemi filosofici.

Ecco, nello specifico, i contenuti delle opere maggiori, di cui purtroppo spesso conserviamo solo i titoli o scarsi frammenti:

– De rustica. In 3 libri: il I tratta dell’agricoltura in generale; il II dell’allevamento del bestiame; il III degli animali da villa e da cortile.

Non destinata all’istruzione pratica del fattore (se non nelle apparenze), ma scritta piuttosto per alimentare e compiacere l’ideologia (tradizionalmente romana) del ricco proprietario terriero – secondo il presupposto del processo di concentrazione delle terre – l’opera in qualche modo “estetizza” la vita agricola: essa testimonia anche il cambiamento profondo dell’ideale di “agricola“, definitivamente trasformatosi in gentiluomo di campagna, che conosce tutti gli aspetti della gestione di un’azienda, ma non ha più alcun diretto contatto col lavoro dei campi.

Altre caratteristiche dell’opera sono: la profonda conoscenza della materia, la formula dialogica – spesso briosa ed arguta, quando non è soffocata dall’erudizione – e l’amore per la sana vita dei campi.

– Antiquitates rerum humanarum et divinarum. In 41 libri: da S. Agostino, che ce ne ha conservato lo schema strutturale, apprendiamo che essa si divideva in due parti, dedicate la I alle antichità profane (libri 1-25), la II a quelle sacre (libri 26-41). La storia – come è qui concepita – è soprattutto storia di costumi, di istituzioni, e anche di “mentalità”; è la storia collettiva del popolo romano, sentito come un organismo unitario in evoluzione.

– Imagines. Quest’opera, conosciuta anche sotto il titolo di “Hebdomades”, è in 15 libri e consta di 700 ritratti di uomini illustri, latini e greci, accompagnato ognuno da un elogio in versi e da una notizia in prosa, disposti in 7 su un foglio e distribuiti in diverse categorie: capitani, politici, poeti, ecc…

– De lingua latina. Primo trattato sistematico di grammatica latina, l’opera era divisa in 3 parti: sull’etimologia (libri II-VII), la teoria delle declinazioni (VIII-XIII) e la sintassi (XIV-XXV).

Dei libri superstiti (V-X), i primi 3 parlano dunque di etimologia, mentre gli altri della flessione, e in particolare discutono la questione, allora in voga, dell’ “anomalia” e dell’ “analogia” (ovvero, la prevalenza, nei fenomeni linguistici, dell’uso o della norma). V. propende sostanzialmente per la seconda opzione.

– Logistorici. In 76 libri, è una serie di “trattatelli”, che affrontavano argomenti storici e filosofici con ampia documentazione: ogni libro recava come titolo il nome di un personaggio storico, seguito dall’indicazione del tema trattato, ad es. “Marius, de fortuna”, “Catus, de liberis educandi”…

– Disciplinarum libri IX. In 9 libri, è una vera e propria enciclopedia delle arti liberali, che si occupava di grammatica, dialettica, geometria, aritmetica, astrologia, musica, medicina in forma organica e manualistica;

– Saturae Menippeae. In 150 libri, in chiave etico-didascalica, ad emulazione dei prosimetri di Menippeo di Gàdara (filosofo cinico, severo fustigatore dei corrotti costumi), ma anche vicine alla tradizione satirica romana. Dai frammenti superstiti, si comprende come l’autore abbia trovato, nella forma aperta (per contenuti, lingua e metro) caratteristica di questo genere, il mezzo ideale per esprimere la propria visione del mondo, volta alla idealizzazione della purezza di costumi del passato.

Considerazioni.

Scrigno di cultura. Il pensiero di V. è chiaro, sebbene egli abbia la tendenza ad usare e ad abusare di suddivisioni sistematiche non sempre rispondenti alla realtà. Egli si presenta come uno dei primi e, forse, il più completo degli enciclopedisti romani: dall’antichità in poi, ha costituito la fonte inesauribile delle informazioni, cui hanno attinto tutti gli autori successivi e in particolare sant’Agostino, che da lui ha ricavato moltissimi elementi relativi alla religione romana. Virgilio, da parte sua, ha molto utilizzato il suo trattato sull’agricoltura (che è fra le fonti delle Georgiche).

Testimone tra due epoche. V. fornisce perciò al proprio secolo l’impalcatura delle conoscenze sulle quali aspira ad appoggiarsi una letteratura che si rivela sempre meno una manifestazione di pensiero e sempre più un fenomeno di “stile”. Egli, insomma, costituisce il punto di sintesi di tutto il passato di una civiltà nel momento della trasformazione politico-istituzionale e culturale che ne modifica totalmente l’assetto: il suo sembra essere il progetto di un intellettuale che vuole conservare e tramandare ai posteri il patrimonio culturale di tutta un’epoca.

Gaio Giulio Cesare

— Roma 100 ca. – 44 a.C. —

Vita.

Premessa. E’ impossibile scindere la vita di C. uomo politico da quella di C. “artista”, o avventurarsi in due diverse valutazioni “settoriali” e “statiche”, o subordinare fittiziamente l’un aspetto all’altro: unico grande scrittore della latinità ad essere “romano di Roma”, egli fu altresì, e soprattutto, enorme uomo di stato e stratega e combattente, fondatore del più grande organismo politico della storia antica, l’impero di Roma (e già questo dice tutto): quasi che la sua esuberanza e la sua grande volontà di essere sempre e comunque “princeps” non lo accontentasse dei successi politici, ma lo portasse a voler anche primeggiare nel campo delle lettere.

La formazione e l’ingresso nella politica. C. nacque da una famiglia antica e patrizia, che, tuttavia, nello schieramento politico, era di simpatie popolari. Anch’egli mostrò presto simpatia per il partito democratico, cui fu presto legato anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo sposò Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia Minore (81-78), non senza aver prima ricevuto un’accuratissima educazione grammaticale e letteraria. Quando tornò in patria, dovette sostenere alcune accuse di concussione mossegli contro. In questo episodio, mise in luce la propria grande arte oratoria, la freddezza e la compostezza, mostrando di essersi subito adeguato all’infuocata vita politica dell’Urbe.

Il “cursus honorum”. Nel 68 cominciò il “cursus honorum” in Spagna, come questore. Continuò poi come edile, accattivandosi il favore del popolo con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo fu eletto pontefice massimo, la carica più alta nel sistema religioso del periodo, molto legata alla vita politica. In questi anni, fu spesso coinvolto in tribunale, per via della congiura di Catilina, che proprio in quegli anni veniva sventata. Nel 62, ottenne la carica di pretore; l’anno dopo, il governo della Spagna. In questo periodo ripudiò la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in scandalo con Clodio. Intelligentemente, trattò quest’ultimo con mitezza, mirando all’appoggio politico che poteva trarne dall’amicizia. Nel 60, chiese al Senato la carica di console, ma non gli fu accordata, per via del suo irriducibile nemico Catone.

Il triumvirato e la conquista della Gallia. C., comunque, arrivò lo stesso al potere grazie a quella alleanza che in seguito sarà definita come “I triumvirato”: strinse cioè un accordo del tutto privato con Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, personaggi potentissimi, scontenti anche loro dell’atteggiamento del Senato nei loro confronti. C. sposava, poi, in terze nozze Calpurnia, e contemporaneamente dava in isposa Giulia, la proprio figlia, a Pompeo. L’accordo portò i suoi frutti, e nel 59 fu eletto console. Da questo momento in poi, darà prova delle sue doti militari e politiche, distinguendosi e superando qualsiasi rivale: proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese la conquista, terminata nel 51.

La guerra civile: uomo più potente di Roma. La formidabile ascesa al potere cominciò a procurargli numerosi e reali nemici: il conflitto col senato e l’aristocrazia romana e lo scontro con Pompeo sfociarono (49) in guerra civile: vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia, C. raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e soffocandone definitivamente i focolai di resistenza. Intanto, padrone assoluto di Roma, C. ricoprì – talora contemporaneamente – dittatura e consolato, attendendo ad una radicale riforma della costituzione dello Stato.

Il cesaricidio. Il 15 marzo (“idi“) del 44, veniva tuttavia assassinato da un gruppo di aristocratici di irriducibile fede repubblicana, preoccupati per le tendenze aristocratiche e regali ch’egli sempre più andava assumendo.

Opere.

Opere minori. Tra le composizioni giovanili di C., mai pubblicate, si ricordano generalmente il poemetto “Laudes Herculis” e la tragedia “Oedipus”: forse si dedicò anche alla poesia amorosa. Il poemetto perduto “Iter”, a memoria del viaggio fatto da Roma in Spagna, prima della battaglia di Munda (46 a.C.), appartiene invece agli anni della maturità. Compose anche una raccolta di sentenze (“Dicta”), un’opera di carattere astronomico (“De astris”), delle “Epistulae” (celebri al suo tempo, ma oggi purtroppo perdute) e alcune importanti orazioni. Riguardo queste ultime, non ci restano che alcuni titoli e qualche frammento (un peccato, perché le orazioni di C. ebbero il plauso di Svetonio, Cicerone, Quintiliano e Tacito, il che fa pensare che fossero molto belle): una del 77, contro un Cornelio Dolabella; due nel 63 (mentre era “Pontifex Maximus“), una in difesa dei Bitini (ne abbiamo solo l’esordio), l’altra in difesa dei Catilinari (ne possediamo però il rifacimento sallustiano). Sappiamo che, nel 67, C. compose anche gli elogi funebri per la zia paterna (vedova di Mario) e per la moglie Cornelia; nonché è opportuno ricordare anche i discorsi “diretti” contenuti nei “commentarii” [uno nel B.G., VII 77; due nel B.C., II 31-32 e III 87). C., per tutte queste orazioni, si atteneva agl’insegnamenti di Molone di Rodi, che evitava rigorosamente gli eccessi dell’asianesimo.

Ma le opere “minori” più importanti del nostro autore sono decisamente l’ “Antìcato” e il “De analògia”: il primo, in 2 libri, fu scritto [45?] in polemica, non aliena da intenti politici, con l’elogio di Catone fatto da Cicerone nel 46; il secondo [55-52?, comunque durante le pause della campagna gallica] era un’opera grammaticale in 2 libri, che interveniva nella controversia fra “analogisti” e “anomalisti” sul problema della natura delle lingue (queste, ci si chiedeva, dovevano esser sottoposte a regole razionali – quelle appunto dell’ “analogia” – o potevano essere oggetto di creazioni arbitrarie, “senza leggi” – anomale – secondo la fantasia degli scrittori?): formatosi alla scuola dell’analogista M. Antonio Grifone, C. risolse per un ideale linguistico fortemente improntato ai criteri della “ratio” e del “purismo” (ad es., sosteneva la necessità di declinare alla latina le parole greche) e tenacemente avverso a ogni concessione alla “consuetudo” e all’ “usus“; insomma, per lui il linguaggio si costruisce mediante una selezione naturale-razionale-sistematica. Come appare chiaro, il “De analògia” fungerà da programma e, al tempo stesso, da preparazione alla composizione delle opere maggiori.

Corpus Caesarianum. I capolavori di C. sono ovviamente quelli d’impianto storico, contenuti, insieme ad altri spurii, nel cosiddetto “Corpus Caesarianum”; esso comprende:

– “Commentarii de bello Gallico” o semplicemente “Bellum gallicum”. Sono 7 libri, uno per ognuno dei 7 anni della guerra gallica, e cioè dalle spedizioni contro gli Elvezi e contro Ariovisto (58) alla presa di Alesia e alla sconfitta di Vercingetòrige (52). E’ opera scritta “di getto”, probabilmente fra il 52 e il 51 (ma c’è anche chi pensa ad una scrittura graduale e contemporanea agli eventi), con grande equilibrio e straordinario senso della storia.

Con quest’opera, C. intese evidentemente reagire alle critiche degli avversari politici per i grossi sacrifici di sangue e di denaro che la guerra aveva imposto: egli presentava così ai Romani la conquista della Gallia come una necessità storica volta ad evitare che i Germani, passato il Reno, invadessero appunto quella regione, premendo pericolosamente ai confini di Roma. Completati e integrati dall’ VIII libro, che copre gli anni 52-51 ed è solitamente attribuito al generale Irzio, furono seguiti dai

– “Commentarii de bello civili” o semplicemente “Bellum civile” [47 – 46?]. Questi sono in 3 libri, e narrano i fatti degli anni 49-48 (guerra civile contro Pompeo), dal passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della guerra alessandrina (nov. 48). Non è affatto certo che la divisione in 3 libri risalga allo stesso autore: è possibile, infatti, che il I e il II formassero un unico libro, dato che (tenendo presente, in questa supposizione, la scansione del commentario precedente) narrano gli avvenimenti di un solo anno, il 49, mentre a quelli del 48 è dedicato il III.

Il tono, rispetto alla precedente opera, è più partecipe (arrivando addirittura a sfiorare il satirico, quando assale gli avversari), anche per l’intento – pur se non palesemente – “apologetico”: C., difatti, vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nella legalità, e che anzi l’ha sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria costante volontà di “pax“; mostra i propri esempi di “clementia” verso i nemici sconfitti; e così via. Manco a dirlo, il destinatario della sua propaganda è lo strato “medio” e “benpensante” dell’opinione pubblica romana, pedina fondamentale per oggni velleità di potere.

Nel corso della narrazione, vengono a trovarsi di fronte da una parte C. e dall’altra una classe dirigente ormai indegna di governare: questa contrapposizione “manichea” tra il vecchio e il nuovo è il fulcro centrale di questa entusiasmante opera storico-narrativa, ed è anche la sua chiave d’accesso. E’ lui, infatti, C., l’esecutore di un processo storico rivoluzionario, che senza alcun dubbio porterà al superamento dell’oligarchia-senatoria a vantaggio del popolo romano e ad una nuova era di gloria per Roma.

Certamente, essendo stata scritta da C. stesso, l’opera non può essere asetticamente imparziale: tuttavia, nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua sincerità. Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile e ne attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché loro e non Pompeo erano i veri colpevoli. Loro avevano infangato la sua “dignitas“, loro con il “senatus consultum ultimum” avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre il veto. C., di per sé, non voleva la guerra civile. Se così non fosse come si spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli avversari? Non c’è stato un combattimento, poiché il suo scopo era far arrendere l’avversario e non distruggerlo, e ciò avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro Afranio e Petreio e nei primi anni della guerra contro l’esercito di Pompeo. Come spiegare, ancora, la clemenza di C.? O la mancanza, nell’opera, di frammenti e di riferimenti riguardanti l’attraversamento del Rubicone? Inoltre dalla lettura viene fuori anche un grande amore del generale per i suoi soldati, tanto grande non fargli citare mai nell’opera l’ammutinamento della nona legione a Piacenza. Egli, poi, non parla mai di “hostes“, ma di “adversarii“, perché gli “hostes” non possono essere cittadini romani. Nella sua opera, insomma, non c’è odio, né nei confronti di Catone e degli ottimati, né tantomeno nei riguardi di Pompeo. Quest’ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano ed era geloso dei successi di C., che offuscavano il suo nome; C., da parte sua, definiva Cnaeus Pompeius Magnus come un uomo che aveva sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo entusiasmare dagli ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso sapeva benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di poter comprendere il suo vero ideale politico. Il nostro autore non commenta la morte di Pompeo, la narra e nel suo silenzio c’è angoscia: non a caso, l’opera termina con l’assassinio di Potino, ordinato proprio da C. per vendicare il grande Pompeo.

– “Bellum Alexandrinum” (sull’omonima guerra, 48-47), di cui pare essere autore il già citato Irzio;

– “Bellum Africanum” (in “sermo vulgaris“) e “Bellum Hispaniense”, in cui scrittori di molto minore levatura, forse essi stessi generali di C., narrano appunto le guerre d’Africa e di Spagna (46).

Considerazioni.

Fra tendenza all’oggettività storica e subliminale distorsione ideologica. Nei suoi “Commentarii“, C. si propose di fornire materiali agli storici per stendere un’opera criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un’opera d’arte, limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista e testimone, e spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo comportamento militare e politico. E’ da dire, comunque, che sotto questa pretesa d’impassibilità, la critica recente ha tuttavia ritenuto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni quasi “subliminali” degli avvenimenti, a fine di propaganda.

Comunque, proprio il suddetto presunto proposito di verità, nonché la semplicità stilistica, conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed eleganza, frutto anche di lunga consuetudine di studio e di lima. Lo stesso titolo di “Commentarii” può significare che si tratta di libri di memorie o di appunti presi giorno per giorno; una sorta di diario che riporta il nudo tessuto degli avvenimenti.

Sulla traccia del greco Senofonte, poi, C. racconta i fatti in terza persona, al fine di attribuire il massimo di oggettività agli avvenimenti narrati e ai suoi comportamenti; da questo scrupolo dell’oggettività è derivato il rifiuto di inserire lunghi discorsi in forma diretta, così cari, invece, agli storici antichi.

Il valore artistico. Ma accanto al valore storico non si può dimenticare l’effettivo valore artistico di queste opere, che in tutti i tempi hanno costituito un testo base per lo studio della lingua latina. <<Nudi sono – diceva già Cicerone – schietti e semplici questi Commentarii, che, pur essendo privi di ogni ornamento, sono pieni di grazia>>. Non minori sono gli elogi tributati all’opera dagli studiosi moderni: il Marchesi, ad es., afferma che nessuno degli antichi seppe scrivere un opera <<dove siano adoperate meno parole per dire tutto, dove tutte le cose più complicate siano espresse con così sobria e precisa chiarezza da sembrare disegnate>>. La narrazione, come visto, è sempre condotta in modo personalissimo e sempre fresco e non viene mai appesantita dall’autocelebrazione.

“Manicheismo” politico, ma grande rispetto per gli “adversarii”. Sul piano strutturale dell’intera opera, ogni elemento linguistico punta direttamente a mettere in mostra la figura dello scrittore, che è insieme demiurgo-ordinatore di ogni azione; autore-narratore di ogni piano e di ogni progetto; attore-protagonista di ogni scena ideata e realizzata. Una preziosa spia, in tal senso, è il fatto che il racconto – come accennato – è sapientemente riportato in terza persona e in essa il nome di “Caesar” oppure, in sua vece, “is” o “ipse” appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione spesso anche la prima persona plurale (“nostri“, “nostrum“, “nostrorum“): e ciò sia per mettere sempre in prima linea la persona dell’autore sia per coinvolgere, per quanto su un piano inferiore a quello del comandante, gli attori secondari del racconto, che sono, poi, sempre “i soldati di Cesare”. Ad essi si contrappongono, nella veste di soggetti passivi, oggetto del racconto, i nemici, che, nel “De bello gallico” sono i barbari con i loro vari nomi, nel “De bello civili”, invece, sono gli oppositori politici dello scrittore, anch’essi puntualmente individuati. Naturalmente, alcuni di questi nemici hanno una grande personalità (ad esempio, Vercingetorige nel “De bello gallico” e il già detto Pompeo nel “De bello civili”), tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore, che tutti riesce a superare.

C. “regista” e “attore” della storia e del racconto: il ruolo delle forme verbali. In questo contesto, ha molta importanza, quindi, mettere in evidenza i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e turbinose della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro significati è facile cogliere l’intima ansia dello scrittore, che pone su un versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori, ossia quelli della sua parte; sul versante opposto, invece, egli colloca i nemici, tutti destinati alla sconfitta. Gli scenari delle battaglie vengono concepiti sempre come degli immensi palcoscenici, in cui le azioni del “regista-attore” vengono scandite appunto dall’uso dei tempi del verbo, in cui prevale il presente storico, che consente allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il racconto, suscitando l’attenzione del lettore, dall’altra, di “rappresentare” quasi cinematograficamente gli eventi narrati (non mancano il perfetto e 1’imperfetto, ma ciò avviene con minore frequenza e il loro uso è subordinato alla volontà del narratore di frapporre una netta separazione tra se stesso e la narrazione).

Stile e lessico. Sul piano stilistico, poi, a C. vengono concordemente riconosciute dalla critica le seguenti qualità: la chiarezza (= “perspicàitas“), ossia un procedimento lineare e terso, alieno da ogni pensiero contorto e involuto; la brevità (= “brevitas“), che mira all’essenzialità e alla rapidità; l’assenza di ornamenti superflui, come bene intuì il già citato Cicerone; l’eleganza del dettato (= “urbanitas“), al punto che pochi sono gli scrittori dell’intera latinità che possano gareggiare con 1ui in purezza e proprietà di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli incarnò quel “puri sermonis amator“, che, in uno scritto minore, aveva vista realizzato nel poeta comico Terenzio; infine, l’armonia e simmetria dei costrutti, che gli antichi (con Cicerone ancora, che ne fu il massimo maestro) chiamavano “concinnitas“. Sul piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la tendenza all’arcaismo e compie determinate scelte sui vocaboli, senza preoccuparsi se poi ciò causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano sintattico, egli predilige la paratassi all’ipotassi, soprattutto per motivi di chiarezza, e riesce a costruire sempre un periodare lineare e lucido.

Valore “socio-geo-politico” dell’opera. Grande, infine, risulta il valore dei “Commentarii” sia per ciò che si riferisce alla geografia, all’etnografia, all’economia, alla civiltà dell’Europa nord-occidentale, sia specialmente (e ovviamente) per quanto riguarda le istituzioni e gli usi militari dei Romani. C., anzi, si presenta davvero come l’unico grande storico militare della latinità e come uno dei più autorevoli informatori geografici dell’antico mondo germanico.

G. Sallustio Crispo

— Amiterno, Sabina, 85 ca – Roma 35 o 36 a.C. —

Vita.

Un protagonista, non proprio “trasparente”, della politica del suo tempo. S. nacque da famiglia provinciale e plebea, ma abbastanza agiata, tal che egli poté completare la sua formazione a Roma, venendo in contatto con la scuola neopitagorica di Nigidio Figulo; partecipò anche, e volentieri, alla vita mondana della capitale. Politicamente si affiancò ben presto a Cesare, e per questo suo impegno ottenne la carica di “questor“, nel 54. Questo fu un anno molto turbolento per la politica romana: vi fu l’uccisione di Clodio, un demagogo del popolo, ad opera di Milone. S. si schierò decisamente contro quest’ultimo e anche contro Cicerone, suo difensore. Nel 50, fu espulso dal senato per immoralità (aveva infatti – presumibilmente – una relazione con Fausta, figlia di Silla e moglie in seconde nozze con Milone): ma in realtà, il provvedimento nascondeva piuttosto mene politiche e rancori personali. Durante le guerre di quel periodo, fu sempre fedele a Cesare, aiutandolo anche alle operazioni militari in cui, però, non risultò sempre vincitore.

Questa fedeltà, tuttavia, gli fu premiata con la riconquista, nel 48, della questura e della dignità senatoria. Alla fine del 47 seguì Cesare in Africa, e portò a compimento un’operazione militare, conquistando l’isola di Cercina. A seguito di questo successo, Cesare gli affidò il compito di governatore della cosiddetta Africa Nuova, costituita dal vecchio regno numidico di Iuba. In quei mesi di governo, poté accumulare notevoli ricchezze (non diversamente, del resto, dagli altri colleghi del suo tempo: ma non possiamo giurare sul fatto che la sua amministrazione fu tanto disonesta e rapace quanto le testimonianze avversarie ci vogliono far credere), che gli permisero – dopo la morte di Cesare ed il suo ritiro dalla vita pubblica, nei celebri e bellissimi “Horti Sallustiani” – di vivere il resto della sua esistenza in ricchezza, dedicandosi esclusivamente alla composizione delle sue opere.

Opere.

Di S. abbiamo:

1] due monografie:

– “De coniuratione Catilinae” (42?): con essa, lo storico interrompe la tradizione annalistica della storiografia romana e si occupa di un episodio di storia contemporanea – appunto la congiura e il moto del 63-62 – facendovi precedere un’analisi della condotta cesariana del 66-63, vista come unica valida alternativa al corrotto “regime dei partiti”, con riflesso sulle sue scelte politiche.

Dopo un proemio moraleggiante e filosofico, impostato sull’affermazione che l’uomo è composto di anima e di corpo e che le facoltà spirituali devono prevalere su quelle materiali (facoltà spirituali precipue sono l’attività politica, quella militare, quella oratoria, quella storiografica), tutta la prima parte restante dell’opera è, praticamente, un’analisi e un’esegesi dell’inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta, perciò, un quadro fosco, ma estremamente vivace, di una società profondamente corrotta, su cui campeggia come figura dominante Catilina, intelligente, coraggioso e malvagio: una figura sinistra, ma estremamente affascinante, al cui carisma sembra non riuscire a sottrarsi neanche lo stesso S.. Accanto a Catilina, troviamo poi altri personaggi “studiati” con eguale interesse: i congiurati, Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone (visti come entrambi positivi – direi “complementari” – per Roma: uno con la sua liberalità, munificenza e misericordia; l’altro con la sua “integritas“, “severitas“, “innocentia“…).

Come già si può arguire da quanto detto, il metodo e il fine adottati nell’analisi sono moralistici: S. ritiene che l’antica grandezza della repubblica fosse garantita dall’integrità e dalla virtù dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso le cause della decadenza e la possibilità di tentativi come quello di Catilina.

– “Bellum Iugurthinum” (40 ca): narra, in 114 capitoli, la guerra combattuta dai romani (111-105 a. C.) contro appunto Giugurta, re di Numidia. Ma il pretesto bellico serviva a mascherare un’altra guerra, quella interna, del popolo che combatteva la prepotenza della nobiltà senatoria, la quale delle imprese militari si era creato un monopolio a beneficio dei suoi appaltatori, avidi di nuovi guadagni provinciali.

Così, anche qui il taglio è moralistico e scopertamente politico: se infatti, da una parte, S. si dimostra capace di forti sintesi storiche, dall’altra rivela vigore polemico nel denunciare l’incompetenza della “nobilitas” nella conduzione della guerra, e la sua corruzione generale; nel valorizzare le ragioni espansionistiche della classe mercantile; nell’auspicare la nascita di una nuova aristocrazia, fondata sulla “virtus” (a tal proposito, si ricordi il discorso di Mario, contenuto nell’opera).

2] le “Historiae”, di cui abbiamo un numero abbastanza cospicuo di frammenti di 5 libri e alcuni discorsi. Esse riprendono e sviluppano le “Historiae” di Sisenna, andando dalla morte di Silla (78) fino (probabilmente) alla guerra di Pompeo contro i pirati (67). Dai frammenti, si evince che S. era ritornato all’annalistica (ma, diversamente dall’annalistica tradizionale, non iniziava “ab urbe condita” e trattava solo una serie di avvenimenti, per lo più contemporanei) e che il suo pessimismo si era, se possibile, acuito.

3] Oggi non conosciamo più la sua traduzione dei poemi di Empedocle (ammesso che l’ “Empedoclea”, di cui parla Cicerone in una lettera, sia davvero opera sua). A lui si attribuiscono anche 2 epistole politiche a Cesare, nelle quali addita al dittatore le possibili riforme dello stato (in primo luogo, l’abolizione del capitalismo), che ponessero freno al lusso dei nobili ed attuassero una più profonda giustizia sociale; quasi sicuramente spuria è invece un’invettiva contro Cicerone, di scuola retorica.

Considerazioni.

La storiografia come strumento d’indagine politica ed arma ideologica. S. – adottando una tecnica a suo modo rivoluzionaria (ma avendo già l’illustre esempio delle “monografie” cesariane) – scelse di raccontare la storia di Roma “carptim“, ovvero “per argomento”; e i temi delle sue due “monografie” rispondono ad intenti ben precisi: mostrare – soprattutto – in che modo un regime aristocratico, quale quello instaurato dopo la sconfitta dei Gracchi, fosse andato progressivamente in rovina.

La prima delle cause era – secondo il nostro – da ricercare negli scandali che avevano accompagnato la guerra contro il re numida Giugurta, e che avevano messo in luce i compromessi e la corruzione di quegli stessi uomini che, nel senato, erano i responsabili della politica romana: la stessa personalità universalmente rispettata di Metello, cui si era finito per dare il carico della guerra, non bastò a impedire l’ascesa di C. Mario, al quale il popolo affidò l’incarico di porre termine a una guerra quasi conclusa da Metello, raccogliendone quindi i frutti della gloria. Questo episodio aveva segnato, in effetti, l’inizio delle guerre civili, che dovevano provocare le smisurate ambizioni dello stesso Mario.

La “Congiura di Catilina”, mettendo in luce i crimini di cui erano stati complici un pugno di aristocratici, esaminava – a sua volta – le cause morali di tale decadenza: gusto del piacere, corruzione dei costumi, sfrenata avidità di denaro. La forza di Catilina, e il suo pericolo per lo stato, era consistita soprattutto nella sua abilità demagogica nel farsi interprete dei malcontenti e dei disagi di una plebe anarchica e faziosa, di nobili ridotti in rovina, di giovani squattrinati amanti del piacere, di uomini – insomma – una volta appartenuti al partito di Silla.

La contraddizione. Dunque, S. considerò la storiografia – ritenuta comunque inferiore alla politica attiva – non solo come cronaca di fatti, ma anche come “archeologia”, cioè come ricerca delle loro cause: essa quindi tende a configurarsi come indagine sulla crisi, e l’impostazione appunto monografica ben si prestava alla messa a fuoco di un periodo o problema storico: analisi che lo storico conduce a partire comunque e sempre da un moralismo di fondo, da una profonda contraddizione – che appartenne al suo tempo ed alla sua stessa vita – tra essere e dover essere, tra le parole e i fatti, tra i propositi e le realizzazioni. Il quadro che lo storico dipinge è, così, già quasi degno di Tacito, nelle sue movenze drammatiche, per non dire tragiche.

Uno sguardo al recente passato, velato di ideologia e malinconia. S. scrive le sue pagine dopo la rivoluzione guidata da Cesare (senza dubbio dopo la morte dello stesso dittatore), e dopo che il mondo da lui evocato, anche se appartiene ad un passato recentissimo, si è già definitivamente dissolto sul campo di battaglia di Farsàlo; questa movenza “retrospettiva” ha, tuttavia, anch’essa una motivazione politica: per lo scrittore sabino, <<il punto d’arrivo della storia di Roma è Cesare, egli non procede oltre; anzi risale “a ritroso” il corso delle generazioni, per “spiegare” e “giustificare” Cesare e l’opera sua (e quindi se stesso)>> [I. Lana]. Di qui l’incapacità dell’uomo di elevarsi ad una visione obbiettiva e spassionata dei fatti.

Tuttavia, S. non è un “democratico” che rivendica al popolo una parte di potere: come i suoi predecessori, da Catone a Cicerone, si propone piuttosto come l’avvocato dei valori morali essenziali, un adepto di quel “conservatorismo intelligente” che – nella convinzioni di questi intellettuali – è il solo a poter salvare Roma. E’ il programma che Augusto riprenderà alcuni anni dopo.

Uno stile originale: l’ “inconcinnitas“. Un’altra caratteristica dell’opera di S. è la consapevole originalità del suo stile, nel quale si giustappongono ricercati arcaismi e ardite innovazioni (“arcaismo innovatore”), termini presi dal linguaggio familiare ed ellenismi. Egli vuole, innanzitutto, dare un’impressione di vita, in virtù di un periodo serrato e vibrante, di scorci rapidi e di giri sintattici “atemporali” (è la famosa “inconcinnitas” sallustiana), come l’impiego ripetuto di ellissi, dell’infinito narrativo o lo sviluppo sistematico di proposizioni participiali che costituiva, tra l’altro, uno dei tratti caratteristici e di maggior rilievo dello stile narrativo dei greci.

Questa lingua composita suscita oggi l’impressione di una certa artificiosità, o comunque rimane lontana da quella “naturalezza” ciceroniana, che ci è invece familiare: non dobbiamo credere, tuttavia, che il periodo ciceroniano fosse più vicino alla lingua parlata e la frase di S., invece, la libera creazione di un artista. La lingua quotidiana si collocava, in realtà, alla medesima distanza sia dall’uno che dall’altra. Per sua natura, non era né periodizzata né ritmata. Ma neppure disponeva delle molteplici risorse che S. mette insieme.

Marco Tullio Cicerone

1. Vita e carriera oratoria

Arpino, dove Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a. C., godeva ormai da tempo della cittadinanza romana a pieno titolo. Continuava a servirsi del voto orale, pronunciato a voce, laddove Roma da tempo si avvaleva del voto scritto, il quale almeno in teoria garantiva la segretezza dei suffragi. In un sistema clientelare, il voto orale permetteva, naturalmente, l’esercizio di pressioni di ogni genere sugli elettori. Proprio il nonno di Cicerone fu a suo tempo, nella municipalità di Arpino, il più tenace organizzatore della resistenza alla proposta popolare di introdurre il voto segreto su scheda: ciò gli valse gli elogi di membri influenti dell’aristocrazia della capitale, e forse una promessa di sostegno, qualora avesse desiderato intraprendere una carriera politica a Roma.

Gli elementi centrali della coalizione auspicata da Cicerone, l’ordine senatorio e l’ordine equestre, restavano tuttavia divisi da conflitti politici e di interesse, destinati a rinfocolarsi una volta passata la necessità di fare fronte comune contro il pericolo catilinario. Intanto andava delineandosi la supremazia dei grandi “potentati”, Cesare, Pompeo e Crasso, che nel 60 si sarebbero uniti nel cosidetto «primo triumvirato», accordo segreto in vista della spartizione del potere. Cicerone vide rapidamente sgretolarsi il consenso intorno alla propria linea politica, e divenne oggetto di attacchi ripetuti, concentrati soprattutto sull’esecuzione sommaria dei complici di Catilina. Nel 58 Publio Clodio — un tribuno che rivelò formidabili capacità nell’agitazione demagogica del proletariato urbano e nella sua organizzazione in vere e proprie bande armate, fino a gettare Roma in uno stato di anarchia — riuscì a far condannare Cicerone all’esilio.

La nuova politica di Cicerone

Richiamato a Roma nel 57 grazie allo schiarirsi della situazione politica, Cicerone fornì negli interventi del periodo successivo una nuova versione del suo progetto politico, e una rilettura delle proprie esperienze alla luce di una meditazione filosofica che da allora in poi lasciò tracce importantissime nella sua eloquenza.

Così nella De domo sua (57 a. C.) — il discorso tenuto di fronte al collegio dei pontefici per rientrare in possesso dell’area dove sorgeva la sua casa, che Clodio aveva fatto demolire per edificare al suo posto un tempietto di Libertas — Cicerone polemizza con quanti avevano criticato la scarsa fermezza d’animo che egli avrebbe mostrato durante il suo esilio. Proprio la grandezza della sofferenza che aveva provato, dava la misura del suo sacrificio in favore della patria; e quella sofferenza, spiega l’oratore, lo aveva reso consapevole dell’impossibilità di affrontare le privazioni conseguenti alla calamità dell’esilio con una saggezza di tipo stoico; perciò Cicerone rivendica, contro la “indifferenza al dolore” propagandata dagli stoici, l’opportunità di lasciarsi guidare, nelle proprie reazioni, da un “senso comune” che non può giudicare “indifferente” quanto di bene o di male può capitare nella vita (il concetto veniva dalla polemica accademico-peripatetica, cioè dei seguaci di Platone e di Aristotele, contro i paradossi dell’etica stoica).

Tra le orazioni di questo periodo spicca — in quanto vero e proprio “manifesto” del nuovo programma politico di Cicerone — la Pro Sestio (56 a. C.), difesa di un personaggio che veniva citato in giudizio dai partigiani di Clodio per gli episodi di violenza connessi con la sua attività in favore del richiamo di Cicerone. In questo discorso si mostra al suo meglio una della peculiarità più caratteristiche dell’eloquenza di Cicerone, la capacità di inquadrare il singolo caso in dibattimento in un contesto politico, sociale e culturale assi più vasto e generale. L’oratore rintraccia una perpetua divisione del corpo cittadino tra sostenitori dell’ordine costituito e della fedeltà alla funzione direttiva del senato, e fautori del disordine, della sommossa, della sedizione. Egli si sforza di indicare ai giovani desiderosi di intraprendere la carriera politica un altissimo ideale di servizio verso lo stato, fondato sulla ricerca di una “vera gloria” (un altro concetto di derivazione filosofica), del tutto indipendente dal momentaneo successo che deriva dalla compiacenza verso i “capricci” del popolo. I leaders della gente “perbene” hanno il compito di garantire l’ordine e la tranquillità sociale reprimendo ogni conato sedizioso; essi sono chiamati a interpretare e a dirigere la volontà di un’opinione pubblica rappresentata, in tutta l’Italia, da quanti, indipendentemente dalla loro collocazione nella gerarchia sociale, godono di buona salute economica e morale, ed avversano pertanto la sovversione; un’opinione pubblica di fronte alla quale i leaders politici sono fatti responsabili delle loro scelte: il governo dell’aristocrazia trova così una giustificazione che va al di là della consuetudine autoritaria all’esercizio del potere.

Meno di un mese dopo la Pro Sestio Cicerone tornò a occuparsi dell’educazione dei giovani nella Pro Caelio, la difesa di un suo vecchio allievo nell’eloquenza, ora accusato di atti di violenza politica. Fino a poco prima Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno (probabilmente la “Lesbia” di Catullo), la quale sembra intendesse presentarsi in tribunale per aggiungere ai già pesantissimi capi di imputazione contro Celio quello di avere tentato di avvelenarla.

La Pro Caelio è una delle orazioni più divertenti e brillanti di Cicerone, senz’altro uno dei suoi capolavori. Nell’intento di pilotare i giudici attraverso gli stati d’animo più diversi, Cicerone si avvale di una pittoresca alternanza di toni e di registri, che lascia emergere di preferenza la vena brillante, ironica, talora apertamente comica.

Clodia è ridicolizzata come un’innamorata respinta, indotta esclusivamente dalla gelosia a farsi l’unica regista delle manovre contro Celio. L’oratore fa dei costumi sessuali notoriamente liberi di Clodia l’oggetto dell’ilarità degli ascoltatori, mentre dipinge il suo cliente come un giovane morigerato, solo momentaneamente traviato dalle arti di una donnaccia; e di qui prende lo spunto per formulare, tra il serio e il faceto, l’ideale di un’educazione tollerante nei confronti dei piccoli capricci, o delle momentanee deviazioni morali e politiche di tanti giovani della Roma contemporanea.

Al di là del tono brillante e mondano, la ricerca di un’etica lontana dal rigore arcaico, più adeguata a una società ormai ricca e agiata, corriponde a un’esigenza costante da parte di Cicerone. Nella Pro Caelio egli ha inteso tra l’altro rendere in qualche modo più “umano” e più praticabile l’alto ideale di servizio verso lo stato già additato ai giovani nella Pro Sestio: alla buona causa sono recuperabili anche giovani che l’ardore dell’età e l’esuberanza del talento hanno spinto ad avventurarsi lungo strade poco raccomandabili.

Il processo di Milone e la guerra civile

Negli anni successivi Cicerone fu spesso costretto, con fortissime pressioni, a farsi portavoce delle esigenze politiche dei triumviri, e a difendere vari personaggi a loro legati. A Roma continuavano intanto a imperversare le bande armate di Clodio, cui si opponevano quelle arruolate da Milone, un fautore del senato. Clodio rimase ucciso in uno scontro avvenuto nella campagna romana, nel gennaio del 52. La rabbia della plebe urbana esplose con una violenza senza precedenti.

L’oratore ideale che Crasso dipinge combacia largamente con l’ideale di uomo politico che Cicerone raffigurerà nel De re publica. Al fine di poter incidere con la forza della parola in ogni settore dell’esperienza umana, all’oratore è richiesta — oltre alla piena padronanza delle tecniche retoriche della persuasione — una vastissima cultura generale, al cui interno un ruolo privilegiato è attribuito alla filosofia morale: insegnando a leggere nei cuori, questa si rivela della massima utilità per agire con efficacia sull’animo degli ascoltatori, ma è anche un mezzo per educare l’oratore al rispetto dei valori sui quali poggia la res publica.

La concezione ciceroniana dell’unità della cultura risponde anche alla preoccupazione di mantenere unite le forme di sapere che concorrono al rafforzamento del potere dell’aristocrazia. Per custodire, con la propria autorevolezza, le istituzioni e le tradizioni, l’oratore deve essere insieme filosofo, giurista e uomo di stato. Così Cicerone fonda la supremazia dell’oratore — prima che sul suo rango sociale o sulla vastità delle clientele — sull’autorità morale e politica, sulla vasta formazione culturale che si traduce in una superiore capacità di valutazione dei comportamenti. Ma altrettanto importante è l’intento di affermare la dimensione “artistica” dell’eloquenza: di qui la frequente insistenza sul piacere che essa provoca agli ascoltatori.

La storia dell’eloquenza romana nel Brutus

Nel Brutus, composto nel 46 a. C. sotto la dittatura di Cesare, Cicerone riprese, dopo diversi anni, la riflessione sull’oratoria. Da qualche tempo gli orientamenti fondamentali della sua eloquenza venivano messi in discussione da un gruppo di oratori più giovani, i cosiddetti atticisti. Le loro preferenze andavano a uno stile piano, conciso, incisivo, per il quale si ispiravano a modelli dell’eloquenza ateniese come Lisia; criticavano Cicerone per non avere preso sufficienti distanze dallo stile “asiano”: egli appariva loro troppo ridondante di parole e troppo attento agli effetti del ritmo e della sonorità.

Anche il Brutus è un dialogo, che ha per protagonisti l’autore stesso, l’amico Attico e Bruto. Dedicando l’opera a quest’ultimo, Cicerone si proponeva di sottrarre all’influenza degli atticisti un personaggio che gli pareva ben avviato verso la carriera di oratore. Egli si sforzò di delineare le proprie preferenze stilistiche nel quadro di una storia dell’eloquenza romana, dalle origini fino all’epoca attuale, ricostruita con grande talento di critico letterario. In questo contesto Cicerone colloca la propria stessa produzione, puntando a enucleare le caratteristiche salienti che avevano fatto del suo stile oratorio il più originale che Roma avesse mai conosciuto: la mirabile varietà dei toni, la capacità di mettere in luce le implicazioni generali delle cause in questione, l’abbondante uso dell’umorismo, il ricorso alla filosofia e alla storia, la sovrana abilità nel pilotare le emozioni dell’uditorio.

Il Brutus è tuttavia percorso da una fortissima vena di pessimismo sulle sorti future dell’eloquenza romana, che trova talora espressione in toni di struggente malinconia: dopo una splendida fioritura, culminata con lo stesso Cicerone, l’oratoria appare avviata a un inesorabile declino, dal momento che la dittatura di Cesare ormai inibisce la libera espressione politica e chiude ogni spazio ai nuovi talenti.

La linea di difesa adottata da Cicerone nei confronti degli atticisti consiste in primo luogo in una ridefinizione dello stesso “stile attico”, la quale, contro allo stile smagrito ed esangue di Lisia, privilegia il modello di Demostene, l’oratore più grande e più vario che Atene avesse conosciuto. Ma nei confronti degli atticisti Cicerone avanza anche una seconda importante obiezione: il valore dell’eloquenza si misura sulla capacità di persuadere larghe masse di persone; quindi il metro per giudicare l’eloquenza deve essere costituito dal successo che essa riscuote presso il popolo, prima che dal parere degli intenditori dall’orecchio raffinato e dal gusto elegante. Si richiede pertanto non uno stile sobrio e misurato quale quello che gli atticisti privilegiavano, ma uno stile dagli effetti potenti e grandiosi, tali da scuotere in profondità le coscienze.

La polemica con gli atticisti continuò nell’Orator, un trattato anch’esso dedicato a Bruto: tesi fondamentale dell’opera è che l’oratore veramente grande sa eccellere in tutti i registri dello stile, e in particolar modo in quello “grandioso” e commovente, capace di smuovere con violenza gli animi degli ascoltatori: una capacità che, a giudizio di Cicerone, mancava totalmente all’eloquenza troppo controllata degli atticisti.

3. I dialoghi politici: De re publica e De legibus

Le opere politiche di Cicerone nascono, al pari delle successive opere filosofiche, dal bisogno di cercare un risposta alla gravissima crisi politica e morale che Roma stava attraversando. Il De re publica fu pubblicato nel 51 a. C.: è un dialogo in sei libri (pervenutoci in condizioni assai lacunose), ambientato nel 129 a. C., cui intervengono Scipione Emiliano e altri membri della sua cerchia; la conversazione ha per oggetto quale sia la migliore forma di stato.

Cicerone riprende da diversi pensatori greci (tra i quali lo storico Polibio) la dottrina della cosiddetta “costituzione mista”.

In base a questa teoria, le tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) sono viste come inevitabilmente soggette a degenerare nelle rispettive forme “estreme” della tirannide, della oligarchia (governo dei pochi) e della oclocrazia (governo della feccia del popolo). Per questo è necessario il contemperamento di elementi delle tre diverse costituzioni in una forma statale equilibrata, tale da prevenire le tendenze degenerative.

La costituzione mista si realizza nel modo più compiuto nello stato romano, dove l’elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l’elemento aristocratico nel senato, e quello democratico nei comizi popolari.

Si nota qui una divergenza fondamentale dalla Repubblica di Platone, che pure ha fornito lo spunto all’elaborazione dell’opera: Cicerone non pensa a uno stato “ideale”, costruito in base a un modello teorico; secondo una visione di tipo “storicistico”, lo stato che più si avvicina all’ideale è identico alla res publica romana, che ha raggiunto la sua compiutezza attraverso secoli di lenta formazione.

In realtà, nell’analisi ciceroniana la tripartizione dei poteri si risolve in una più fondamentale bipartizione, tra elemento aristocratico (senato e consoli insieme) e elemento democratico; a un’interpretazione largamente estensiva dell’autorità del senato, Cicerone ne affianca una altrettanto limitativa dei poteri del popolo. Ciò mostra come la dottrina della costituzione mista ubbidisca in sostanza a una tendenza conservatrice: il mantenimento dei vigenti rapporti di potere e di proprietà, e la contemporanea garanzia, per i ceti inferiori, di una voce più o meno nominale negli affari politici.

Nel De re publica l’uomo politico ideale si configura come un arbitro delle divergenze interne al corpo sociale: a questa figura di statista veniva attribuito il nome di princeps (“leader politico”) o di “timoniere dello stato”; l’uso del termine al singolare non presuppone affatto che il governo dello stato debba essere affidato a una sola persona (Cicerone non prefigura esiti di tipo “augusteo”), ma designa piuttosto un “tipo” ideale (come nel titolo De oratore), cui i membri di spicco della classe dirigente devono conformarsi.

L’educazione e la formazione del princeps erano trattate in sezioni del dialogo delle quali restano solo scarsi frammenti. Emerge l’immagine di un personaggio animato da un giusto desiderio di gloria (che lo spinge all’impegno e alla fatica), cui si affianca tuttavia l’ascetico disprezzo di ogni vantaggio personale (che gli impedisce di anteporre il proprio interesse a quello dello stato): un modello di uomo politico la cui la capacità di governo è fecondata da una ricca e profonda meditazione filosofica.

I protagonisti del De re publica si impegnano, tra l’altro, in un’approfondita discussione sulla giustizia del dominio romano sugli altri popoli. L’imperialismo romano è pienamente giustificato in quanto apportatore di regole di civiltà a popolazioni di per sé incapaci di autogoverno; di conseguenza vengono sottoposti a una dura confutazione gli argomenti con i quali il filosofo greco Carneade, in conferenze rimaste famose, aveva indicato nella sete di rapina la ragione fondamentale dell’espansione di Roma.

La Repubblica di Platone si chiudeva col mito del soldato caduto in guerra che, tornato in vita, raccontava quanto aveva visto nel mondo dei morti. Ricercando un superiore effetto di verosimiglianza, il De re publica di Cicerone si conclude non con un mito, ma col racconto di un sogno dell’Emiliano, in cui l’avo adottivo, Scipione Africano, gli era parso condurlo in cielo, per mostrargli di là la piccolezza e l’insignificanza delle cose umane, compresa la gloria terrena, e rivelargli tuttavia come ai grandi uomini di stato, benefattori della patria, fosse riservata l’immortalità e una perpetua dimora celeste. Si tratta di un “pezzo” letterario elevatissimo per capacità visionaria. L’insistenza sulla precarietà delle cose terrene ha la funzione di svuotare l’animo dell’uomo politico da ogni ambizione e brama personale, per trasformare la sua attività in un servizio nei confronti della comunità, e della divinità che gli impone questa missione. La promessa di immortalità, alimentata da suggestioni filosofiche diverse, intende offrire all’uomo politico un sostegno tale da farlo perseverare nella sua azione anche di fronte all’incomprensione o all’ostilità dei contemporanei, e insieme risarcirlo di un’esistenza interamente alienata nell’ossequio al dovere.

Cicerone lasciò incompiuto il dialogo De legibus (a noi restano i primi due libri e parte del terzo), che doveva affiancarsi al De re publica come le Leggi alla Repubblica di Platone. Muovendo da problemi di filosofia del diritto, Cicerone in pratica emanava un suo codice di leggi per lo stato romano, di stampo sostanzialmente conservatore e tradizionalistico. Egli suggeriva l’accrescimento dei poteri del senato, ma il suo “moderatismo” lo spingeva a cercare di “addomesticare” il popolo, evitando lo scontro frontale.

4. Le opere filosofiche

Cicerone compose le sue opere filosofiche nel periodo di forzato ritiro sotto la dittatura di Cesare, con l’intento di far conoscere ai Romani i contenuti del pensiero filosofico greco; ai suoi occhi la rigenerazione etico-politica della res publica richiedeva che la cultura filosofica — la quale comportava, tra l’altro, una riflessione sui valori che erano alla base della convivenza sociale — divenisse elemento costitutivo della educazione dei gruppi dirigenti di Roma e dell’Italia.

Forniamo qui l’elenco delle opere filosofiche di Cicerone; in seguito daremo una breve caratterizzazione solo di alcune tra le più significative. Dopo i Paradoxa Stoicorum, del 46 (che hanno più che altro il carattere di un’esercitazione retorica), tra il 45 e il 44 compaiono, nell’ordine, la Consolatio per la morte della figlia Tullia, un dialogo di esortazione alla filosofia, l’Hortensius (di ambedue non restano che frammenti), gli Academica (“Dispute accademiche”, sulla teoria della conoscenza), il De finibus bonorum et malorum — “Il sommo bene e il sommo male” —e le Tusculanae disputationes (ambedue sui problemi della filosofia morale), il De natura deorum, il Cato Maior de senectute (sul ruolo degli anziani nella società romana), il De divinatione (critica delle pratiche divinatorie e delle varie forme di superstizione diffuse nella società romana), il De fato, il Laelius de amicitia (sul contrasto tra l’amicizia disinteressata e l’amicizia come forma di partigianeria poltica), un perduto De gloria, e infine il De officiis (“Sui doveri”), composto nel pieno della lotta contro Antonio.

Le opere filosofiche di Cicerone dipendono largamente dalla produzione di pensatori greci, ma hanno un taglio profondamente originale soprattutto per ciò che riguarda l’adattamento del pensiero greco alla situazione romana: a buon diritto egli poteva vantarsi di avere dato alla sua patria, dopo un’eloquenza in grado di reggere il confronto con i massimi modelli greci, una letteratura filosofica in forma artistica.

Per l’esposizione e il confronto delle diverse dottrine filosofiche, Cicerone seppe infatti trovare una forma letteraria capace di interessare un pubblico relativamente vasto, e che non avesse come esclusivi destinatari i professionisti della filosofia — una forma dialogica accattivante, per cui egli si rifaceva alla tradizione accademica e peripatetica —; perciò egli insiste moltissimo sulla necessità del legame tra filosofia ed eloquenza elegante e persuasiva.

In precedenza, a Roma la filosofia era appannaggio pressoché esclusivo di insegnanti greci, il cui status sociale era in genere poco elevato. Del tutto nuovo è il tipo di impegno filosofico realizzato per la prima volta da Cicerone: quello del cittadino eminente per cui la filosofia non è una “professione”, un settore esclusivo di attività, ma uno degli ingredienti di una vita spesa al servizio dello stato. Si comprende così che anche i personaggi chiamati a discutere nei dialoghi ciceroniani non siano filosofi di professione, ma Romani dei ceti elevati: ciò permette di mettere in rilievo il legame tra filosofia e impegno civile.

Per orientarsi tra le diverse posizioni filosofiche in conflitto, Cicerone si rivolse allo scetticismo della Nuova Accademia, una delle filiazioni della scuola platonica; uno scetticismo che egli presenta come cosa ben diversa da un incerto vagolare tra le opinioni: si tratta piuttosto di impostare una ricerca aperta, libera da preclusioni, tesa a fare emergere, dal confronto tra le diverse posizioni, i criteri di una morale aliena da certezze assolute e da un anacronistico rigorismo, ma sufficiente a orientare correttamente l’azione (è il cosiddetto “probabilismo”: la ricerca non del vero, che è inattingibile, ma di quanto appare maggiormente probabile e verosimile).

Del tutto alieno dallo spirito di sistema, Cicerone rivendica la legittimità di modificare di volta in volta le proprie opinioni: la sua produzione filosofica documenta le tappe e gli ondeggiamenti di questa ricerca.

Soprattutto quando in lui prevalgono le esigenze di consolazione e di conforto (come nelle Tusculanae), oppure quando avverte più acutamente la necessità di dare nuovo e più credibile fondamento ai valori tradizionali (come nel De officiis e in parte nel De finibus), Cicerone si sforza di superare una critica puramente “corrosiva”, per orientare la sua ricerca verso uno sbocco positivo: sostanzialmente la commistione di un generico platonismo con uno stoicismo indebolito nelle pretese dogmatiche ma ritenuto, per la sublimità della sua visione dell’ordine del cosmo e per la nobiltà degli atteggiamenti che promuove, una guida rigorosa e seducente alla rettitudine del comportamento.

Nel De finibus bonorum et malorum la demolizione delle pretese dei sistemi filosofici contrapposti permette tuttavia di stabilire tra essi una gerarchia. L’epicureismo viene ripudiato con decisione, per il suo edonismo materialistico e perché si fa promotore di un’atteggiamento di astensione dall’impegno nella vita pubblica; dello stoicismo vengono criticati il dogmatismo, l’esasperato rigorismo morale, la pretesa della radicale indifferenza del saggio rispetto a tutte le contingenze esterne (come la malattia o la salute, la libertà o l’asservimento della patria); ma viene anche sottolineata la nobiltà con la quale la dottrina stoica identifica il bene supremo con la virtù. Non sembrano soddisfare totalmente Cicerone nemmeno altre correnti di pensiero, che tentavano di conciliare l’intransigenza morale degli stoici con la maggiore apertura umana della filosofia accademica e peripatetica.

Dopo l’inquadramento teorico della problematica morale fornito nel De finibus, le Tusculanae si occupano di questioni di etica pratica: il modo di fortificare la personalità di fronte al timore della morte e del dolore, e di fronte all’assalto delle passioni. Le Tusculanae rispecchiano uno stato d’animo profondamente angosciato, e bisognoso di consolazioni d’ogni sorta (Cicerone soffriva sia per la recente scomparsa della figlia, sia per l’oppressione della dittatura); proprio la forza dell’anelito consolatorio indirizza la ricerca, ben più che in altre opere (per es. nel De divinatione, dove è fortissimo l’afflato dello scetticismo “illuministico”), verso esiti “affermativi” che ben poco conservano delle originarie istanze critiche del metodo neoaccademico.

Dominato dal disgusto per una vita piena di sofferenze, Cicerone si muove tra il bisogno di immortalità, che lo spinge verso una vaga religiosità di tipo platonizzante, e la considerazione che anche la prospettiva del totale annientamento non esime dal disprezzo per la morte e dall’amore per la virtù. Nonostante vengano mantenute ferme alcune ragioni fondamentali di dissenso, la convinzione della necessità dell’assoluto dominio delle passioni da parte della ragione avvicina Cicerone al rigorismo stoico quanto lo allontana dalla sua più consueta simpatia per l’ampia, umana tolleranza dei peripatetici.

Egli ora sembra infatti accettare la tesi secondo cui l’animo è indifferente alle cose esterne. La svalutazione dell’esistenza in ogni suo aspetto sbocca nell’elogio di una sapienza che, trincerata in se stessa nell’attesa della liberazione della morte, sola sa sollevarsi al di sopra delle bassezze e dell’infelicità della condizione umana.

L’ultima delle opere filosofiche di Cicerone, il De officiis, non è un dialogo, ma un trattato indirizzato alla formazione etico-politica della gioventù e alla costruzione di un modello di comportamento, pubblico e privato, per i futuri membri della classe dirigente. Cicerone pose a fondamento del De officiis lo stoicismo riformato, più aperto e “mondano”, di Panezio, che rispondeva al suo bisogno di dare nuova fondazione ai valori tradizionali, di addolcirne l’intransigenza senza sottoporli a una critica dissolutoria. Il De officiis è un’opera per certi aspetti bifronte: per quanto largamente aperto ai problemi di una società moderna, e a un notevole pluralismo dei modelli di vita, per altri versi il trattato si rivela profondamente intollerante, dominato dalla radicale chiusura ai ceti meno abbienti e dalla riproposizione in toni autoritari dei princìpi etico-politici dell’antica res publica aristocratica. Durissima è la polemica contro il morto Cesare, presentato ai ceti possidenti come un tiranno eversore, avido di confische e di rapina.

5. L’arte espressiva di Cicerone come prosatore

Come abbiamo già accennato, Cicerone privilegiava, nell’eloquenza, uno stile capace di esercitare un forte impatto emotivo sugli ascoltatori. A questa intenzione va ricondotta la sua “magniloquenza”, criticata dagli atticisti, e che si esprime, prima ancora che nel ricorso alla copia verborum (“abbondanza di parole”, che spesso significa ridondanza espressiva al fine di ribadire un concetto) e alla amplificatio (la “dilatazione” di un concetto, al fine di farlo apparire più grandioso, maestoso, o spaventoso), nella sapiente costruzione del periodo prosastico, che nella letteratura latina è essenzialmente una innovazione ciceroniana. Ispirandosi soprattutto ai modelli di grandi oratori greci come Isocrate e Demostene, Cicerone eliminò la paratassi (“coordinazione”) tipica della prosa arcaica a favore della ipotassi (“subordinazione”), e costruì un periodo ampio e armonioso, basato sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti.

Nella prosa retorica e filosofica Cicerone sfruttò ampiamente lo stile che aveva elaborato per l’eloquenza. Ma, particolarmente nella filosofia, egli dové cimentarsi anche con la povertà espressiva del latino, di per sé inadatto a rendere adeguatamente molti termini e concetti del lessico intellettuale greco. Per la traduzione dei termini greci Cicerone si impegnò in un’accanita sperimentazione, che ebbe come risultato l’introduzione nel latino di molti neologismi che sarebbero divenuti patrimonio della tradizione intellettuale europea (come qualitas, quantitas, essentia, e così via).

6. Le opere poetiche

Gli interessi poetici occupano, nel quadro della complessiva produzione di Cicerone, uno spazio ridotto ma non insignificante. In gioventù, compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico e tradusse in latino i Fenomeni, il poema di didascalica meteorologica del poeta ellenistico Arato; successivamente tradusse anche la seconda sezione del poema di Arato, i Pronostici (della traduzione, condotta con un gusto sostanzialmente enniano che però non si preclude sporadiche raffinatezze “preneoteriche”, restano porzioni di una certa estensione). Dalla sua esperienza di uomo politico, Cicerone si sentì tuttavia spinto soprattutto verso l’epica di argomento nazionale: compose, sempre in stile enniano, un poema sul proprio consolato e sulla lotta contro Catilina, i cui resti lasciano intravedere barocchismo e ridondanza stilistica, e uno sulle gesta di Gaio Mario.

7. L’epistolario

Di Cicerone ci sono pervenute numerosissime lettere, suddivise in diverse raccolte: Epistulae ad Atticum (a Tito Pomponio Attico, l’amico di tutta la vita, in 16 libri); Epistulae ad familiares (amici, parenti, personaggi coi quali Cicerone intratteneva relazioni, in 16 libri); 3 libri di Epistulae ad Quintum fratrem e 2 libri (il secondo di autenticità controversa) di Epistulae ad Marcum Brutum. Si tratta di un epistolario estremamente ricco e vario; accanto ai bigliettini buttati giù in tutta fretta, abbiamo i resoconti vivaci della vita politica, e anche le epistole elaborate fino ad attingere la dignità letteraria di veri e propri trattati.

Permettendo a volte di seguire quasi quotidianamente l’evolversi degli avvenimenti politici, l’epistolario ciceroniano ha un valore storico eccezionale; per il fatto di nascere in buona parte da esigenze di comunicazione privata e personale, esso ci rivela anche gli aspetti più intimi e segreti della personalità di Cicerone, nella loro maggiore o minore nobiltà. Di nessun altro personaggio del mondo antico conosciamo così a fondo la psicologia, anche nelle pieghe più riposte.

(Emanuele Narducci, 1999-2000)

Publio Virgilio Marone

— Andes, 15 ott. 70 – Brindisi, 21 sett. 19 a.C. —

Vita.

*La formazione intellettuale. V. nacque in un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori, appartenente alla piccola borghesia locale, romanizzata piuttosto di recente: il padre possedeva un poderetto lungo le rive del Mincio, felice e salubre luogo d’infanzia per il poeta.

La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile. Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del retore Elpidio (esponente dell’indirizzo asiano), il quale annoverava tra i suoi discepoli i giovani che avrebbero formato la futura classe dirigente di Roma, fra cui ad es. Marco Antonio e Ottaviano.

V., tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, né intendeva perseguire la carriera forense (difese una sola causa, forse senza successo). Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare all’Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone. Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, i futuri curatori della I ed. dell’Eneide.

Il periodo della sua formazione è dominato, sul piano letterario, dalle personalità di Catullo e di Elvio Cinna (del quale scriverà un elogio discreto nella IX Egloga), e dall’astro nascente di C. Gallo, della sua stessa età. Sedotto e affascinato da questo ambiente, V., quasi certamente, scrive in questo periodo almeno alcune delle composizioni che entreranno a far parte della raccolta oggi conosciuta col nome di “Appendix Vergiliana” [per la quale, vd, oltre].

*La perdita delle terre. Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, V. fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l’amico della sua giovinezza, Asinio Pollione, che ricopriva l’incarico di distribuire le terre ai veterani. Grazie a lui, il poeta poté in un primo tempo sottrarre le sue terre all’esproprio: tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato nella composizione delle “Bucoliche”, i suoi campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia.

*Il trasferimento a Roma. Perdute le sue terre nel mantovano, V. si trasferì a Roma, dove pubblicò le “Bucoliche”. L’anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate. Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che V. stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire. Mecenate ed Ottaviano offrirono a V. una casa a Roma, nel quartiere dell’Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla composizione delle “Georgiche”, compiute in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.

Le “Georgiche” diedero a V. la fama e suscitarono l’ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione.

Si presume, in realtà, che V. fosse istintivamente un “cesariano”. D’altro canto, l’epicureismo invitava i suoi adepti a non occuparsi di politica, ma ad accettare, come male minore, un padrone che almeno assicurasse la pace.

*L’ “Eneide”. Nell’estate del 29 Ottaviano, tornato dall’Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là V. gli lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle “Georgiche”, aiutato da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco.

Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, V. fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe. Da questo momento fino alla fine della vita V. attese all’ “Eneide”.

Ancora tre anni dopo l’inizio della stesura del poema, V. scriveva ad Augusto che l’opera era solo “incominciata” e ci vollero ancora tre anni perché la I redazione fosse terminata. Nel 22, V. ne lesse all’imperatore alcuni canti, ma non si trattava ancora della stesura definitiva.

*Il viaggio in Asia e la morte. Nel 19 a.C. V. partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l’Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. V., che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane. Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto dell’ “Eneide”, ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici, per fortuna, non gli ubbidirono, forse secondo l’ordine dello stesso imperatore.

Il corpo di V. fu trasferito nell’amatissima Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare il poema.

Opere.

Le “Bucoliche” [42-39 a.C., composte in parte a Mantova e in parte a Roma].*Le “Bucoliche” [dal gr. “boukolos” = pastore] costituiscono forse una scelta (da cui il titolo posteriore, sempre dal greco, di “Ecloghe” = “poesie scelte”) giudicata definitiva di 10 componimenti in esametri, d’ispirazione alessandrina, di cui alcuni sono lirico-narrativi, altri in forma dialogica, distribuiti non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine d’intento letterario (numerosi sono infatti i rimandi, i parallelismi, le simmetrie).

Questo il contenuto:

*Ecloga I: d’intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e il possesso della sua terra.

Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di Alessi.

Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d’abilità nel canto.

Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta nel 40, quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all’ “età dell’oro”, che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione (e ricordiamo, tra le altre, la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura d’individuare in V. il profeta dell’avvento messianico).

Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi.

Ecloga VI: è trattata l’origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato.

Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra Coridone e Tirsi.

Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata quasi interamente da un modello di Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna vittorioso dalla Dalmazia.

Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica. Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i suoi canti.

Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l’infedele Licoride l’ha lasciato.

*L’egloga VI si apre con questa importante dichiarazione: “Prima Syracosio dignata est ludere versu – nostra neque erubuit silvas habitare Thalia” (“Per prima, la mia Talia stimò cosa degna poetare in verso siracusano, né arrossì di abitare le selve”). Con essa, V. rivendicava il merito di aver trattato per primo un genere che la letteratura latina non aveva ancora. In secondo luogo, avvertiva che tale genere era da considerarsi fra i minori: Talia è propriamente la musa della commedia, cioè della forma più dimessa della poesia drammatica, il verbo “ludere” indica un comporre quasi per divertimento, i boschi sono i luoghi più naturali ed incolti. Infine, riconosceva che era stato suo modello il poeta greco Teocrito (III a.C.). Tuttavia, V. lo rifonde in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col modello.

I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni connotazione realistica (nonostante siano vividi i riferimenti ed i ricordi della “bucolica” fanciullezza del poeta), e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione: a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri: Titiro, Melibeo, Mopso, Meri, Menalca… Essi non hanno un’individualità propria, ma (siano innamorati o delusi, vecchi o giovani, entusiasti o malinconici) ci appaiono un poco tutti, come osservò l’Ussani, “Virgili personati”, perché in tutti ritroviamo la sua delicata sensibilità, la sua “verecundia”, il suo amore per la vita serena e tranquilla, soprattutto quella naturale avversione ad ogni forma di violenza, che era stata acuita dai tumulti delle guerre civili, e che aveva trovato una sua forma filosofica proprio nell’atarassia epicurea: non è un caso, così, che V. non parli mai dell’attività dei pastori o delle loro fatiche, ma dei loro “otia” o dei loro “amores”.

Eppure, da un’iniziale imitazione di Teocrito abbastanza aderente all’originale, il poeta man mano allo sfondo aggiunge il senso del suo tempo e l’ansia del suo sentimento e del suo cuore, con sfumature tutte personali di dolcezza e di nostalgia. Così, sullo sfondo, si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma in nessun modo dimostrabile. E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri poeti contemporanei, e persino a Sirone, l’amato maestro, chi nasconde sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto, un volto della poesia?

Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici e di persone reali, bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi rappresentata: la tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica perfezione di quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione.

*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell’anno 39, momento in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le “Bucoliche” respirano perciò, in genere, un’atmosfera serena, e rendono omaggio a quel “giovane dio”, simile all’Apollo onorato dai pastori, nel quale è facile (stavolta) riconoscere lo stesso Ottaviano.

Le “Georgiche”. [37-30 a.C.] *Il poema delle “Georgiche” (grecamente, “trattato sull’agricoltura”), in 2183 esametri, si riallaccia alla poesia della natura, che è nelle “Bucoliche”, ed è insieme preludio al canto epico delle virtù umane, che sarà nell’ “Eneide”.

Si dice che V. lo scrivesse su invito di Mecenate, che si faceva interprete del programma di risanamento morale di pace e di lavoro formulato da Augusto, cui realmente stava a cuore la ripresa dell’agricoltura, nel nome anche di un ritorno ideologico alle autentiche radici romane.. Ma ciò che più conta è che l’opera, al di là dell’intento propagandistico ben presto scongiurato, risponde alle vere aspirazioni del poeta.

*Affrontando questa tematica, V. ebbe sicuramente a modelli “tecnici” il “De re rustica” di Varrone e l’ “Agricoltura” di Catone, e a modello più propriamente poetico l’Esiodo di “Opere e giorni”; tuttavia, pur rimanendo formalmente nell’ambito dello spirito alessandrino, V. vedeva nel suo progetto (com’egli stesso orgogliosamente affermerà) la possibilità di annettere una nuova regione poetica alle lettere latine; le sue convinzioni epicuree, infine (forse già un po’ scosse, ma indubitabili), lo portano a emulare Lucrezio in un’epopea consacrata allo spettacolo del mondo e alle attività umane.

Il mondo dell’Arcadia bucolica, che era fittizio, e che escludeva, a dispetto delle apparenze, l’urgenza del mondo della realtà, lascia qui il posto ad un mondo soltanto (o prevalentemente) reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di lavoro aspro, di attività creativa e redentrice che le immaginate favole del mito e le invenzioni letterarie (anche qui inserite a trapuntare il tessuto narrativo e didascalico) non solo non annullano, ma anzi rilevano con più fermezza.

*Nelle “Georgiche” si registra il miracolo del superamento dei modelli grazie al dolore che connota l’intero poema. Qui il dolore non si mostra come generato dall’ingiustizia sofferta quale destino ineluttabile, superato o stemperato in dolce malinconia per mezzo dell’evasione in Arcadia, ma è dolore esistenziale intuito e scoperto nel quotidiano vivere dell’uomo nel suo contrasto, ad es., con le avversità atmosferiche, che rovinano i seminati. Tale condizione esistenziale non consente evasioni, anzi resta come il segno vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno idillico delle Bucoliche.

V. “vede l’uomo nella sua funzione di trasformatore” (Ferrero), capace di vincere le avversità, di correggere gli errori, di trovare rimedio ai mali grazie al suo impegno costante nel lavoro: il lavoro redime l’uomo, procura lo sviluppo civile e sorregge i legami della società, le istituzioni, i costumi. I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei termini del loro caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono gli aspetti autenticamente morali dell’agricoltura. Per tutte queste ed altre ragioni, l’intento didascalico dell’opera, che voleva rispondere all’invito di Mecenate, non risulta affatto fondamentale, anzi cade per fortuna presto nell’oblio, tant’è che non è difficile scoprire che i consigli e gli ammaestramenti dati dal poeta ai contadini non sono tutti o in tutto realizzabili né tutti opportuni o logici in senso strettamente pratico.

*Così, se il destinatario delle “Georgiche” dal punto di vista del contenuto strettamente tecnico è il contadino, badando tuttavia al livello artistico e alla perfezione formale (che è frutto di eccezionale cultura e porta i segni di una faticosa elaborazione, per la quale lo stile medio del poema didascalico si eleva al piano dello stile sublime dell’epica) il pubblico di lettori ideali a cui esse si rivolgono è più esattamente quello “urbano”, al quale più congruamente si adatta il contenuto etico generale, ispirato – come detto – al programma augusteo volto al recupero dei sani costumi e alla stabilità delle condizioni di pace.

Ciò, anche se, invero, nel suo poema V. cerca di dimostrare una verità che non rientra nell’ordine della mera politica. Egli mette a confronto l’uomo e la natura, e dimostra che quest’ultima è, per eccellenza, l’ambiente fisico e morale suscettibile di condurre l’uomo a una felicità abbastanza prossima a quella predicata dagli epicurei. Tuttavia, a poco a poco, V. è trascinato a rompere gli schemi un po’ angusti dell’epicureismo, quasi che lo spettacolo e la meditazione dei grandi momenti della “natura” gli rivelassero, in essa, la presenza degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito, che mostra come Giove abbia in realtà “dissimulato” negli oggetti ciò che l’uomo deve cercarvi: il fuoco nelle vene silicee o nel legno dei rami, il ferro nelle viscere delle montagne, imponendo così la legge, moralmente salutare, del lavoro. Se in Venere, simbolo della “voluttà”, Lucrezio aveva visto, in modo analogo, il motore del mondo, in V. il mito s’ingrandisce fino a dominare. La divinità si trasforma nell’aspetto “oggettivato” della sensibilità del poeta stesso, che si compiace nell’evocare le realtà religiose dell’esistenza rurale. Il calendario del rituale romano riprende il suo primitivo valore a contatto con la realtà fondamentale della terra.

*V., superate le strutture stilistiche delle “Bucoliche”, ha modellato le nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle, più complesse e più varie, se non ugualmente sempre perfette, dell’ “Eneide” (per alcuni critici, proprio le “Georgiche” sarebbero – per originalità, per perfezione formale e per ricchezza ed umanità di temi – il vero ed unico capolavoro di V.). Ma forse soltanto nella tristezza che ispira le conclusioni di tutti e 4 i libri può rintracciarsi la prova del preciso disegno architettonico dell’opera. Certo è che ognuno dei libri ha una sua tematica distinta, una sua autonomia che si rivela anche per mezzo del particolare proemio che lo introduce:

Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a Mecenate e l’invocazione alle divinità protettrici, prende in esame la natura, la semina e le sue cure specifiche, l’osservazione degli astri, i pronostici. Si conclude con una ulteriore invocazione agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto dalla guerre.

Libro II: Tratta della cultura delle piante, in particolare della vite e dell’olivo (nell’economia italiana di quel tempo, vino e olio costituivano i prodotti principali delle grandi tenute e la prima fonte d’esportazione verso le province occidentali). Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all’Italia: c’è, in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio patriottico e di una testimonianza di fede nel destino d’Italia, quanto l’emozione di chi si incanta al miracolo di una realtà di pace (quella appunto augustea) che fino a ieri era solo un’aspirazione.

Libro III: Dedicato all’allevamento del grosso e del piccolo bestiame e ai sistemi di sfruttamento dei terreni, italiani e no (Africa, Spagna, Illiria), che non si prestavano alla coltivazione della vite o dell’olivo; contiene un’altra invocazione, a Pale e ad Apollo, le divinità della pastorizia.

Libro IV: Riguardante le api, tratta dell’ubicazione e della costruzione dell’alveare, delle abitudini delle api e delle riproduzioni degli sciami (il miele aveva un posto di rilievo in un’alimentazione, quale quella romana, interamente priva di altre fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di un giardino con piante e fiori profumati, V. introduce la breve storia del vecchio di Corico, che riuscì grazie alla sua tenacia a sentirsi ricco e beato come un re.

*Ciascun canto presenta una “digressione”: nel I il racconto dei prodigi che accompagnarono la morte di Cesare; nel II il già detto elogio dell’Italia; nel III la peste (epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel IV, infine, a coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo “apicultore”, nella quale si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice.

*Architettura perfetta, dunque, ma della quale rimangono misteriosi i motivi profondi: forse per V. si trattava solo di colmare, in questo finale del IV libro, il vuoto lasciato dalla soppressione dell’elogio di Gallo (che appunto inizialmente ne era la conclusione), il quale era caduto in disgrazia presso Augusto.

L’ “Eneide”. * l’ “Eneide” si inserisce pienamente nel genere epico di ascendenza greca, riuscendo a farsi nel contempo interprete dei valori della romanità e dello spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da divenire il poema nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di mitologia e storia che caratterizzava l’epica latina arcaica, differenziandosi però per l’argomento: il mito assume un posto centrale e diventa nucleo primario della vicenda tanto che il protagonista non è Augusto, ma Enea. In virtù di questa impostazione, V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi contemporanei e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il significato della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello principale – altri elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli alessandrini, e in particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e romani, agli orfici, a Nevio e a Ennio. Né bisogna dimenticare che il mito di Enea aveva assunto per i Latini un valore nazionale e che per lo più ne veniva ammessa financo la storicità.

*Eppure, l’ “Eneide” risulta un’opera originale, nella sua straordinaria densità e complessità, grazie all’enorme quantità di materiali culturali: storici, letterari, antiquari e filosofici. Il modello principale – come detto – è Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la successione originale e riducendoli in uno solo. La prima metà, chiamata parte “odissiaca”, ha quindi come tema principale il viaggio, la seconda, detta “iliadica”, invece ha la guerra (spartiacque è il libro VI, quello della discesa di Enea negli Inferi). La presenza di Omero è massiccia oltre che nell’intreccio, nella ripresa di molti episodi. V. segue Omero anche in ciò che riguarda l’apparato mitologico, con alcune differenze fondamentali come il rinnovamento dei materiali poetici di cui si serve, che organizza e orienta in modo diverso in funzione del significato complessivo dell’opera. Il punto d’arrivo a cui tende la storia universale è Ottaviano Augusto, che viene unificato così alla celebrazione di Roma su di un piano ideologico.

*All’interno di questa struttura, l’azione si sviluppa abbastanza lineare, procedendo senza divagazioni verso la grande scena finale: infatti, l’interesse del poeta è tutto concentrato sul destino del protagonista, che attraverso molteplici avventure si avvicina sempre più alla meta fissata dal Fato: il nascere e la futura gloria di Roma. I vari episodi del poema non ne sono quindi altro che le necessarie tappe, secondo una curvatura decisamente teleologica.

E’ tale meta, dunque, che illumina, dà senso e giustifica le fatiche, le angosce, la morte che incombono e colpiscono inesorabilmente i personaggi: il mondo dell’ “Eneide”, infatti, a differenza di quello omerico, non conosce tanto esuberanze giovanili ed esaltazione eroica, ma appare invece dolente e meditativo, strettamente affine all’universo delle precedenti opere: postulato fondamentale è l’obbedienza al Fato, e anche in ciò personaggio emblematico è ovviamente il “pius” Enea.

*Al poema, V. lavorava dettando un gran numero di versi, e poi rielaborandoli per tutta la giornata. Seguiva uno schema di prosa che si preparava e che poi portava in versi. Qua e là, data la morte prematura, è rimasto qualche segno d’incompiutezza: versi lasciati in sospeso e da lui stesso detti “tbicines”, puntelli.

Questa la sintesi dell’opera:

Il racconto delle gesta di Enea non comincia dalla caduta di Troia, ma dal sesto anno degli avventurosi viaggi, dunque “in media re”.

Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata contro i Troiani, fa approdare Enea lungo le coste presso Cartagine. Con l’aiuto della madre Venere, Enea viene bene accolto dalla regina Didone, alla quale racconta la fine di Troia.

Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione della città, Enea riesce a scappare con il padre Anchise e il figlio.

Libro III: Racconto di Enea: partito da Troia, Enea si rende conto che una nuova patria lo attende in Occidente. Il viaggio è scandito da favolose e pericolose tappe. Sul finire, Anchise muore.

Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine, Didone – consunta dalla passione e dal dolore del distacco – si uccide, profetizzando l’eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei Troiani.

Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono dei giochi in onore di Anchise.

Libro VI: Enea arriva in Campania, dove consulta la Sibilla ed entra nel mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto a Troia, Didone, Palinuro, il timoniere, e il padre che gli mostra la sua eroica discendenza.

Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere, e riconosce in essa la terra promessagli dal padre. Qui stringe un patto con il re Latino, ma interviene Giunone che fa scagliare contro di loro il principe rutulo, Turno. Enea non può più sposare la principessa Lavinia.

Libro VIII: Enea è costretto a risalire il Tevere, dove trova degli alleati in Evandro, re di un piccolo gruppo di Arcadi, e in una coalizione di Etruschi. Il dio Vulcano, intanto, forgia le armi dell’eroe, tutte istoriate coi principali fatti della futura storia di Roma.

Libro IX: Con Enea assente, il campo troiano è in una situazione critica. Inutile il sacrificio dei giovani Eurialo e Niso, nel tentativo di avvisare l’eroe.

Libro X: Enea irrompe nella scena e uccide l’alleato di Turno, Mezenzio, che a sua volta aveva ucciso Pallante, protetto di Enea.

Libro XI: Dopo la vittoria, Enea piange l’amico morto. Le sue offerte di pace non hanno successo. La guerra riprende: la bella e prode Camilla, al comando della cavalleria di Turno, viene uccisa nel segno del destino, nonostante il suo coraggio e la sua forza.

Libro XII: Turno accetta di sfidare Enea a duello, ma un intervento di Giunone fa riprendere ancora la guerra. Enea sconfigge Turno e lo uccide nel nome di Pallante, il cui amaro ricordo vince la pietà del perdono.

*Si compie così il primo atto del destino di Roma. L’evoluzione religiosa del poeta fa dunque sì che egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico (o, se si preferisce, a un “neo-pitagorismo”), che ammette l’esistenza di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno della Provvidenza. V. si avvicina, per questa strada, alle idee professate dagli storici intrisi di stoicismo, epigoni di Polibio. Si realizza, in tal modo, la sintesi delle principali correnti spirituali di Roma, che consente all’ “Eneide” di farsi immagine di quest’ultima e giustificazione del suo straordinario valore storico.

*I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise è lo strumento obbediente della divinità, nella prima parte come profugo errabondo, nella seconda come guerriero: tuttavia egli, a differenza degli eroi di Omero, presenta una sua intimità, una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben volentieri fra le rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un’indistinta nostalgia del ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua “humanitas” spesso non va d’accordo con la sua “pietas”, ma lo rende altresì più umano e più vero.

Didone: è il personaggio, tragico e appassionato, meglio riuscito del poema, che supera abbondantemente i modelli cui potè ispirarsi, la Medea di A. Rodio e l’Arianna di Catullo.

Turno: come eroe è un personaggio meglio caratterizzato di Enea, anche se è, per così dire, ritagliato sull’Ettore omerico.

Camilla: è un altro personaggio ben riuscito: la sua forza e il suo coraggio di guerriera nulla tolgono alla sua femminile bellezza e alla sua palese e fatale vanità.

Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino, Evandro, Eurialo e Niso, Lauso e Mesenzio.

Considerazioni sulla poetica e sullo stile.

<< “Lo stile di V. è un miracolo come l’anima sua” è stato detto: e l’originalità della sua lingua è non meno grande di quella della sua arte. Egli sapientemente amalgama la tradizione arcaica di Ennio e di Lucrezio con quella neoterica ed alessandrina, con una consumata tecnica di ricreazione (anche dal greco) e di intarsio. Così, allitterazioni, omeoteleuti ecc. acquistano una nuova vita: analogamente, e le tracce volute di lingua popolare, e gli arcaismi, ed i tecnicismi, specialmente nelle “Georgiche”, ed i grecismi, seppur parchi, assumono una funzione speciale, ora per animare la scena, ora per suscitare visioni lontane, ora per evocare mondi sconosciuti. Particolare abilità V. mostra nell’uso dei suoni vocalici, nel riportare in grafia vicina all’originale nomi propri esotici, onde creare illusioni misteriose e suscitare fascini remoti. Poeta di gusto parnassiano e di tendenza riflessa, meditativa e non istintiva, sa dare alle parole, oltre al significato proprio, una espressività latente e vastissima: veramente il loro senso spesso sembra essere infinito. Così il suo esametro, che pure è quello normale, ha sempre un’eco immensa e inafferrabile. I suoi versi, isolati dal contesto, paiono assumere spesso valori del tutto nuovi, rivelare recondite verità, essere detti di sovrumana saggezza o di umani eterni aneliti e di moderne ansie implacate. Il suo stile, che ora ha movenze narrative, quasi storiche, di cronaca e di epigrafe, alle volte assurge alla levità della fiaba. Talora preferisce il tono drammatico: ma è una drammaticità raccolta, interiore, di lotte d’anima. Né manca l’andatura colloquiale, che può essere anche un po’ cruda, specialmente nelle “Ecloghe”: che però sa diventare pure solennità sentenziosa. La forza arcaica dell’espressione latina della preghiera, del trattato, degli “annales” si sposa alla “souplesse” dello studioso dei Greci, del figlio dell’età cesariana ed augustea. Prevale nella “maiestas” stilistica quasi una contenuta ombreggiatura elegiaca, che ingentilisce anche i tratti solenni e dona unità al racconto. Ovunque si sente presente lo spirito del poeta, anche nel poema epico, con la coscienza del suo valore, ed insieme con i suoi dubbi ed i suoi interrogativi tremendi. >> [Luigi Alfonsi]

Mi sono permesso di riportare per intero la valutazione critica di questo studioso, perché – al di là del suo tono aulico e a tratti “osanneggiante”, che ne tradisce anche l’appartenenza ad una determinata scuola di pensiero – tutto sommato, offre un quadro completo ed efficacemente esauriente dello stile e della poetica di V., in tutte le sue opere.

L’ “Appendix Vergiliana”.

Il termine “Appendix Vergiliana” [lett. “aggiunta a V.”] è moderno (risale, come evidentemente la silloge, all’età umanistica: le fu dato da Giuseppe Scaligero nel 1573) ed indica un gruppo di poemetti pseudovirgiliani (salvo forse un paio di poemetti dei “Catalepton”), inseribili nel quadro della poesia minore del I sec. d.C. (conclusivo è stato l’esame stilistico).

I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi priapei) non sono comunque databili tutti allo stesso periodo e sono sicuramente di mani diverse: inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti intenzionalmente come falsi. I componimenti principali sono:

1 una serie di epigrammi raccolti sotto il titolo di “Catalepton” (“componimenti leggeri”), che contengono preziose informazioni biografiche;

2 un’epopea ingenua intitolata “La zanzara” (“Culex”, 48 a.C.), un epillio di 414 esametri (di gusto neoterico). Un pastore, svegliato da una fastidiosa zanzara, che uccide, riesce per ciò a salvarsi da un serpente. Nella notte la zanzara gli appare, gli fa una lunga descrizione dell’oltretomba, e chiede e ottiene degna sepoltura.

3 un racconto leggendario, l’ “Airone bianco” (“Ciris”), di 541 esametri, che prelude alle “Metamorfosi” di Ovidio e che trova collegamenti con la poesia erudita alessandrina, che si compiaceva di leggende bizzarre: descrive infatti la trasformazione di Scilla in un uccello marino.

4 “Dirae”, carme di 183 esametri (attribuibile forse a Valerio Catone), in cui il poeta fonde insieme un canto di maledizione (contro l’attuale proprietario del podere di cui è stato spogliato) e un canto d’amore (il destino lo priva dell’amore di Lydia lontana).

5 “Aetna”, poema di 646 esametri (che Seneca attribuisce al “suo” Lucilio), di intonazione epicurea, in cui l’autore vuole spiegare i fenomeni naturali in modo scientifico, per sfatare le credenze popolari e le interpretazioni dei poeti.

6 “Copa” (“l’ostessa”), ch’è la descrizione vivida di una bella ragazza d’osteria, che domina tutto il breve idillio di 19 distici; sulla soglia dell’osteria, canta e danza, invitando i passanti ad entrare.

7 “Moretum” (“la torta campagnola”): poemetto di poco più di 100 esametri, che descrive minutamente la scena di un contadino il quale deve prepararsi il cibo (la focaccia piccante), per consumarlo al ritorno dal lavoro.

Quinto Orazio Flacco

— Venosa 65 a.C. – Roma 8 a.C. —

Vita.

Premessa all’uomo ed al poeta. La vita di O. è ricostruibile in maniera sufficientemente facile attraverso la biografia a lui dedicata da Svetonio e l’opera stessa del poeta, che continuamente ha parlato di sé (anche se le sue “confidenze” col lettore mai si aprono a vere “confessioni”: in questo “gettare l’esca” alla curiosità del lettore sul conto della propria vita è, secondo I. Lana, uno dei maggiori motivi di fascino delle opere del venosiano, e soprattutto delle “Odi”).

Come vedremo, questa stessa vita, così inscindibilmente legata all’attività poetica e culturale, <<così scarsa in generale di vistosi eventi esteriori e così piena di intimità, di raccoglimento, di appartata contemplazione e meditazione, di semplicità, di gusto raffinato del bello, riflette pienamente il tono e l’accento vero della poesia oraziana>> [Alfonsi].

Origini umili, ma studi eccellenti. Figlio di un liberto, ch’era riuscito a racimolare un piccolo patrimonio col mestiere di “coactor exactionum” (esattore delle pubbliche aste), O. fu portato a studiare proprio dal padre (quello ch’egli stesso definirà “il migliore dei padri”, suo maestro di vita e di morale) nelle migliori scuole di grammatica e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del severo grammatico Orbilio), andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i vent’anni (ma il nostro poeta avrebbe sempre sofferto del complesso d’inferiorità derivatogli dalle sue umili origini).

Il fervore repubblicano e la triste esperienza di reduce sconfitto. Lì O. aderì all’ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano, anche perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu coinvolto, così, dalla guerra dei “tirannicidi” Bruto e Cassio, ai cui comandi si arruolò come “tribunus militum“, combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò miracolosamente (come lui stesso racconta, gettò lo scudo e si diede alla fuga: ma si tratta di una reminiscenza archilochea?), e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41), profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni politiche. Le sostanze lasciategli dal padre erano state inoltre confiscate: così, dopo aver sperimentato anche la povertà, per vivere s’impiegò come contabile nell’amministrazione statale (“scriba quaestorius“).

L’incontro con Virgilio e Mecenate. In seguito, frequentò a Napoli la scuola epicurea di Sirone in compagnia di Virgilio. Iniziata l’attività poetica con gli “Epodi” e le “Satire”, nel 39 fu presentato proprio da Virgilio a Mecenate, che ben presto lo legò a sé come amico e gli donò (33?) un podere nella Sabina: un’amicizia che non poté non alimentare le invidie e le malelingue dei ricchi romani del tempo.

La svolta cesarista: O. intellettuale “allineato”. Il nostro poeta, così, tradendo la sua giovanile fede politica, fini con l’abbracciare, con sempre più convinzione e dedizione, le cause del cesarismo: Augusto gli offrì addirittura un lusinghiero posto di segretario, ma O. declinò l’invito, con molto garbo ma con altrettanta fermezza, assecondando tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia su quello letterario: fu un intellettuale, dunque, sostanzialmente “allineato”, se non addirittura “poeta vate”. Nel 17 fu inoltre incaricato di scrivere il “Carmen saeculare” in onore di Apollo e Diana, da cantare appunto durante i “ludi saeculares“: occasione, questa, particolarmente solenne, dato che quei ludi in quell’anno sancivano ufficialmente l’inizio della “Pax Augusta“. Nel 20, O. iniziò a pubblicare le “Epistole”; nell’8 a.C. scrisse 4 libri di Odi.

La morte. Ma nel sett. dell’8 a.C., Mecenate moriva: O. si sentì perduto, tanto che anche lui di lì a poco si spense, forse a causa di un’emorragia cerebrale. Già da 5 o 6 anni, tuttavia, non componeva o pubblicava quasi più nulla, preferendo un completo “otium” di riflessione e di ricerca puramente speculativa. Fu sepolto proprio accanto alla tomba dell’amico e protettore, “la metà dell’anima sua”, com’egli stesso lo definì.

Opere.

Premessa. L’attività poetica di O. si svolge su piani diversi e paralleli, coagulandosi essenzialmente su tre generi: satira esametrica, poesia giambica e poesia lirica. A tal proposito, si usa generalmente distinguere 3 fasi, <<in prospettiva con l’evoluzione culturale dell’uomo e con la condizione politica di Roma:

1. la I fase (43-30 a.C. ca) appartiene all’età giovanile del poeta: è il tempo degli “Epòdi” e delle “Satire” più antiche, in cui emerge lo stato di agitazione e di sconforto del poeta, ed irrompe il suo risentimento verso i nemici politici dopo Filippi.

2. la II fase (30-23 ca) coincide praticamente con la composizione delle “Odi”, e più esattamente dei primi 3 libri: è il momento in cui vengono a ridimensionarsi la dialettica e la lotta politica, e quasi di conseguenza il poeta, che aveva già cominciato ad usare nelle satire ultime (ossia nella maggior parte di quelle del II libro) un tono più moderato e bonario, si dedica decisamente alla lirica. E’ così che egli scopre se stesso, e la sua tecnica si fa soggettiva ed introspettiva; lasciati da parte odii personali e contingenze particolari, eleva il tono universale della sua poesia, tripudiando per il successo di Ottaviano ad Azio, che pone fine alle lacerazioni delle guerre civili;

3. la III fase (23-13 ca), infine, è quella della piena maturità del poeta, emulo, come già Virgilio nell’ “Eneide”, della composizione di versi paradigmatici per i fasti della sospirata Pace augustea. Appartengono a questo periodo i 2 libri delle “Epistole”, il “Carme secolare” e il IV libro delle “Odi”. >> [libero adattamento da Fiordelisi]

Per una migliore presentazione delle opere, dei loro contenuti e delle loro considerazioni in chiave umana e poetica, preferisco tuttavia procedere per mero ordine cronologico di composizione o di pubblicazione, esponendo le stesse opere in brevi monografie singole. Abbiamo, così:

Epòdi. Gli “Epòdi” (41-30 a.C.) sono 17 componimenti (O. li chiama “iambi“), ordinati metricamente, secondo la consuetudine alessandrina e neoterica. Il nome di “epodon liber“, o più brevemente “Epòdi” (come appare nei manoscritti, ma forse solo dal III sec. d.C.), fu loro assegnato dagli antichi evidentemente per il fatto che, nelle strofe distiche dei primi dieci carmi, ad ogni trimetro segue un dimetro giambico detto, appunto, “epodo“.

O. emula i giambografi greci, Ipponatte e soprattutto Archiloco (ma ne mutua – in modo peraltro decisamente originale – più che altro i metri e l’ispirazione aggressiva, non già i contenuti), anche se il suo “furor” è, in verità, talvolta alquanto o soltanto letterario. Tuttavia, gli “Epòdi”, malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente più violenti delle “Satire” (come vedremo), e più amari: il poeta vi deplora le disgrazie della patria e afferma la propria indignazione per alcuni scandali derivati dalle guerre civili (lo “scelus“, la “culpa“, il delitto originario, che diviene nella sua epoca la colpa di tutta una generazione). Il tutto tradisce, come dire, la matrice e l’ispirazione ancora giovanili di questa poesia.

Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo della guerra civile (epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto tribuno militare (IV), contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro (X), contro una vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII).

Tuttavia, in fondo, anche qui affiora la proverbiale “mitezza” di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate (il massimo ed unico dedicatario della sua poesia) al tempo di Azio e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità; più decisamente nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l’ironia finale c’è un forte gusto per la vita agreste; infine, nel XIII compare, forse per la prima volta, un altro tema caratteristico della sua poesia: quello della fugacità della vita.

In questi carmi, sono usati vari metri: strofe giambica, alcmania, archilochea, piziambica.

Satire. Le “Satire”, dette dal poeta stesso “Sermones” (ovvero propriamente “conversazioni”, e dunque scritte con stile e lingua studiatamente quotidiani), composte in esametri dattilici, sono divise in 2 libri: il I (35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8. Difficile ne è la cronologia interna.

Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli “Epòdi”, attraverso certo i temi della predicazione filosofica (in specie, quelli della diàtriba cinico-stoica, ma stemperati dal loro rigido moralismo) e la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere versione moderna, ma altresì originale: satire I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana e discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci, ma come detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura (il cosiddetto “giusto mezzo”, I1 e I2) che lo salvi dalle tensioni interne e non gli precluda il godimento della vita (“autàrkeia” [“bastare a se stessi”] e “metriòtes” [“misura”]).

Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà interiore, valendosi di uno straordinario senso critico e autocritico, oltre che del suo tatto e della sua conoscenza del mondo: il ragionamento si mantiene sempre sul piano psicologico-umano, e la polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto contro la loro vera radice, ovvero l’eccesso: come dire che egli si propone non certo di cambiare la società romana ed il modello etico di riferimento, ma almeno di fornire qualche utile elemento di riflessione per intervenire sulla coscienza dei singoli.

Inoltre, nelle prime “Satire”, O. si sforza di dimostrare che la morale epicurea non è in disaccordo con i valori tradizionali di Roma: moderazione, saggezza, rispetto dei costumi, eccetera. Insiste anche sulla semplicità dell’esistenza rurale quale condizione della felicità, parlando, in questo senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e precisamente nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva le sue “Georgiche”. Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo. Inoltre, l’amicizia da lui spesso elogiata non è scambio di favori, e ancor meno schiavitù (come spesso avveniva a Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una comunione profondamente spirituale o, anche, ideale.

Appare chiaro, insomma, che i “Sermones” toccano una straordinaria pluralità di temi, che non si lasciano imbrigliare in una sterile didascalia; mi limito, così, a ricordare le satire ritenute dai più le più rappresentative, oltre quelle già accennate. Così, ad es., un’altra satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche rivolte a se stesso e al genere satirico. Spunti autobiografici, invece, si riscontrano nelle satire: I4 (sul padre adorato); I6 (sulla presentazione a Mecenate); I5 (sull’avventuroso viaggio a Brindisi al seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia per la villa donatagli). Satire più propriamente etico-filosofiche sono invece: I2 (sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia degli uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6 (vi si trova l’apologo del topos campagnolo e del topos urbano, con cui il poeta esprime simbolicamente l’angoscia che prova in città ed il desiderio di rifugiarsi nella tranquillità della campagna).

<<Dunque, le satire di O. non sono un’astrazione teorica, ma una proiezione della realtà, sia rispetto alla vitae ratio seguita dal poeta, sia rispetto alle sue dottrine letterarie, sia infine come quadro d’ambiente, che ci riporta al “Satyricon” di Petronio e agli “Epigrammi” di Marziale: hanno un valore di trasmissione culturale dei vizi sociali>> [Fiordelisi].

Odi. Le “Odi” (titolo secondo i grammatici, “Carmina” per O.) constano in tutto di 4 libri: i primi 3 (88 odi), dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23 a.C., il IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C.. O. aggiunse il IV libro dopo molti anni, su richiesta di Augusto, per celebrare la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e Vindelici.

Il criterio d’organizzazione del libro sembra essere quello della “variatio“: sia dal punto di vista metrico-formale (ben 13 sono i metri usati, dall’alcaico al saffico all’asclepiadeo), sia per tono e contenuti (alternanza di temi politici e temi privati, di stile alto e stile leggero).

L’ispirazione oraziana qui si modifica e purifica in composizioni raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette (il modello è nei poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro…): in questo senso, potremmo dire che le “Odi” si caratterizzano come un riuscito tentativo di trasferire a Roma i ritmi della poesia eolica e rappresentano, per molti versi, l’opera più matura del nostro poeta. Del resto, lo stesso O. altrove aveva precisato la distinzione, all’interno della sua produzione, tra poesia giambica e poesia lirica (una distinzione che evidentemente trascendeva il canone meramente metrico-formale), attribuendo proprio a quest’ultima il merito della sua gloria di poeta.

Lo stile diventa così esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi fredda; il tutto, insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza tecnica (la declamata “callida iunctura“, cioè l’accorta disposizione delle parole e l’accurata articolazione del periodo) e dall’altro dal controllo di impressioni e sentimenti: O. si presenta come discepolo dei “poeti nuovi”, alla ricerca anch’egli della perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal superamento delle difficoltà.

Se O. nei “Sermones” era apparso, così, poeta e narratore, nelle “Odi” si rivela nelle vesti di un sublime “moralista”: non perché vada (neanche qui) predicando una morale, ma perché eccelle nel cogliere e nell’esprimere in un ritmo, in un accostamento di parole, nella suggestione di un’immagine, un’ “esperienza” privilegiata che illumina l’anima e la rivela a se stessa.

La causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile intemperanza (I16): è invece insistente l’idea della “misura” (“aurea mediocritas“, II10). Essa assume una dimensione nuova: da una parte viene ancorata saldamente al concetto di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni (modestia, parsimonia, campagna contro città, etc…: ad es., I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l’aggiunta del motivo – riflesso certamente autobiografico – della felicità di chi, oltre che saggio, è anche poeta (II16, III14…); dall’altra, sul piano della meditazione, è associata all’idea della morte, che tutto rilivella (II3 e 8, III1 e 24). Il senso della fugacità della vita acquista qui massimo rilievo e ispira tra le “odi” più celebrate: I11 (v’è il famoso motivo del “carpe diem“), I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28 (sulla tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo), ecc…

Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in special modo, l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es., Mimnermo), tale senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su questa poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido senso dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette “odi conviviali”), nel controllo stesso delle passioni nelle non poche odi dedicate a donne i cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale…) celano quasi certamente persone (e forse financo vicende) reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la necessità di una poesia che cantasse l’amore: chiede infatti proprio all’amico di porlo tra i poeti lirici [I 35]).

I temi maggiori delle odi. Come già risulta evidente, all’estrema varietà metrica e ritmica di quest’opera si associa un altrettanto straordinaria e variegata sequela di motivi filosofici, personali, amorosi, conviviali, storico-politici ed ideologici, tuttavia trattati in un’espressione sempre molto misurata della propria interiorità di poeta: O. trova, insomma, in quest’opera la sua più alta e completa espressione, con ampiezza di toni e ricchezza di sfumature. E’ possibile, tuttavia, estrapolare alcuni temi che sono rimasti particolarmente e giustamente celebri per la profondità del loro insegnamento e per la partecipazione e la chiarezza con cui sono comunicati. Ad es., una delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo era il valore proprio di ogni istante: O. se ne impadronisce e ne fa uno dei cardini privilegiati del suo lirismo. Il “carpe diem“, nel quale si è pensato di poter riassumere questa sua “saggezza” (immiserendola, in questo modo, in una formula angusta e anche un po’ volgare), è innanzitutto il nucleo di una poetica: non è tanto la ricerca, cioè, fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta l’ “otium“, che è anche e soprattutto quiete dell’intelletto e dell’anima, libertà interiore: il “carmen” prolunga la strada imboccata col “sermo“, trasfigurando ciò ch’era stato consiglio obiettivo in scoperta dell’anima. Il pensiero stesso della morte, anziché rivelarsi amaro, dà tutto il suo valore alla rinnovata presenza della vita.

Forse anche il vistoso apparato mitologico presente nelle “odi” va inteso, al di là del richiamo alessandrino o degli agganci alla religione della Roma augustea, come un elemento di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della poesia; epicureo, O. non crede davvero all’intervento degli dèi nel mondo: egli ne fa un gioco, allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione tutta intera, senza voler scoprire in essa il segno di una trascendenza divina. Ma, in fondo, non è un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità campestri della sua tenuta come presenze familiari che prolungano il suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse la propria “adorazione”.

Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza di essere poeta, di essere cioè in grado di donare l’immortalità con i propri versi: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del regime di Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico che riscontriamo nelle “Odi” (ovvero i 6 componimenti – detti “odi romane”, appunto – con cui si apre il III libro, e che vanno dall’iniziale esaltazione delle antiche “virtutes” e della religiosità degli avi alla scansione poetica dei momenti o eventi del mito e della storia di particolare importanza: ma accenni politici attraversano in verità l’opera nella sua interezza), nonché il successivo “carmen saeculare“.

Carmen Saeculare. Come già ricordato, Augusto nel 17 a.C. indìce i “ludi Saeculares“, nel momento più adatto, scelto con grande abilità, per celebrare i ludi, testimonianza di un’epoca di guerre e di lotte civili che si chiude e di un’era di pace che si apre.

Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva ricevere l’incarico di comporre l’inno per i ludi, perché nessuno più di O. aveva dimostrato, specialmente con le odi romane, di saper interpretare l’essenza della grandezza di Roma. O. accettò l’incarico, che significava per lui riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora, consacrazione della sua attività lirica, che appunto dalla composizione del “Carmen saeculare” trasse nuova linfa e riprese sostanza.

Così, il poeta affida al canto di due cori di giovani, l’uno maschile e l’altro femminile, il compito di invocare la protezione degli dèi su Roma.

Il “Carmen” presenta, ovviamente, i difetti propri delle composizioni eseguite su commissione, ma, se non è sorretto da altissima ispirazione, è tuttavia opera di altissima dignità artistica e, soprattutto, di profonda sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può liberarsi dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e dispiegare liberamente la sua fantasia, egli raggiunge “l’intensità poetica delle sue liriche più felici, interpretando con severità e serietà il mito storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un ideale quasi ieratico di potenza e di predominio” [Turolla].

Epistole. Le “Epistole” sono in esametri e si compongono di 2 libri: il I (di 20 componimenti) dedicato a Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 epistole del II libro, quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è del 18 ca.

L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O. non si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di cui si discute il carattere “reale” o semplicemente “letterario”), il poeta cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana, interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie filosofiche: quasi un “angulus“, insomma, di meritato “otium“): è il frutto della migliore lezione del suo epicureismo (non vi è dunque “svolta” in senso stoico, come taluno ha voluto supporre).

Le lettere, così, sono dirette ad una pluralità di personaggi, umili e potenti, giovani ed adulti, che rappresentano tutto il mondo relazionale ed affettivo del poeta; esse forniscono uno spaccato del suo mondo interiore, un punto di sintesi delle sue riflessioni sulla vita, sugli uomini, sulla filosofia; esprimono, insomma, la voce più matura di O., che vive con bonario distacco le vicende dell’esistenza e che attribuisce ai fragori ed alle inquietudini del vivere un valore ormai relativo: l’ammonimento a conseguire la saggezza, unico rimedio ai mali che affliggono l’uomo, è – sotto questo aspetto – il vero e genuino elemento che percorre tutta la raccolta.

Ars poetica. Infine, al II libro è aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come “Ars poetica” (17 o 13 a.C.) in base alla definizione di Quintiliano, in esametri (ma sin dall’antichità, essa andò separata dalle altre epistole, per la sua natura particolare e anche perché, data la sua lunghezza, costituiva un volumetto a parte): ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, l’ “Ars” è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale punto di riferimento il dramma.

Molto si è discusso, e si continua a discutere, se considerare quest’opera un vero e proprio trattato sull’arte poetica oppure semplicemente un insieme di riflessioni senza un progetto unitario (il tono è quello di una conversazione dotta, ma altresì amabile e confidenziale): comunque, sostanzialmente, essa è composta di due ben definiti nuclei concettuali, che trattano questioni relative all’arte del poetare ed alla figura del poeta.

Riguardo il primo punto, due tesi, in particolare, sono rimaste celebri: la necessità di fondere la spontaneità e l’immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e il noto principio dell’ “utile dulci“, della fusione cioè, diremmo oggi, fra utile e dilettevole.

Riguardo, invece, la seconda questione (l’ “artifex” della poesia), O. insiste molto sulla conquista della “sapientia“: per lui, innanzitutto, il poeta – come uomo – deve raggiungere un alto grado di consapevolezza e di conoscenza, erudita e soprattutto interiore; è questo, infatti, essenzialmente, il presupposto l’inizio e la fonte dello scrivere bene. A ben vedere, una sorta di testamento umano e letterario che il nostro poeta ha lasciato ai posteri.

Conclusione.

Infine, questa breve ma icastica considerazione mutuata da I. Lana, che – volendo – compendia tutto quanto detto finora: <<nella dotta Atene O. poco più che adolescente cercava di apprendere cosa fosse il vero ed il bene; nella quiete sabina degli ultimi suoi anni cercava ancora che cosa fossero il vero e il bene; questi, l’aspirazione di tutta la sua vita, e la sua poesia, la traccia lasciata da un’anima sorridente sì, ma inquieta>>.

Introduzione all’elegia

— la sua nascita e la sua fortuna a Roma —

La nascita e l’etimologia. Nella sua storia, l’elegia ha conosciuto toni e contenuti molto diversi, pur nell’identità della struttura metrica, che è quella del distico detto, appunto, “elegiaco” (un esametro e un pentametro dattilico in coppia). Incerta ne è la derivazione etimologica (gr. “eleghèia“): secondo alcuni grammatici antichi, “élegos” avrebbe avuto il significato originario di “canto di lamento”, e l’elegia si sarebbe conseguentemente sviluppata a partire dalle “lamentazioni funebri” (anche Orazio mostra di condividere questa versione); e in effetti, toni di tristezza e di malinconia caratterizzano talvolta (ma non sempre) l’elegia. Ma forse, e più probabilmente, il suo nome si ricollega alla designazione frigia (o di altra lingua vicina) dell’ “aulòs“, quello strumento simile al flauto su cui s’intonava la sua recitazione.

Caratteri e temi originari. Nata, comunque, in ambiente ionico, nel VII sec., l’elegia ebbe carattere guerresco con Callino e con Tirteo; con Solone divenne politica e sociale; con Mimnermo cantò la fugacità malinconica della giovinezza e dell’amore; fu pessimistica e moraleggiante con l’aristocratico Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V sec., significativa fu invece l’opera di Antimaco di Colofone, che raccolse una serie di elegie che narravano vicende mitiche d’amore sotto il nome di Lide, la sua donna (come Mimnermo aveva fatto per la flautista Nannò), costituendo un importante tramite per l’elegia erotica e narrativa di età ellenistica. Abbiamo così, in età alessandrina, la “Leonzio” di Ermesianatte, “Gli amori” di Fanocle, forse la “Battide” di Filita, l’ “Apollo” di Alessandro Etolo, la grande elegia eziologica di Callimaco. L’elegia alessandrina fu sopra tutto l’elegia dell’eros tormentato e doloroso, delle passioni del mito meno conosciute: fu elegia raffinata che ricercò ogni recondita dottrina; in essa il poeta, molto più che parlare di sé, doveva esporre gli antichi, mitici casi d’amore.

Rapporti tra elegia greca ed elegia latina: il “testimone” di Catullo. Proprio agli elegiaci alessandrini (come Callimaco e Filita) i Latini dovettero rifarsi come a maestri (anche per quella a sfondo più spiccatamente “eziologico”: gli “Aitia” callimachei costituiscono l’indubbio punto di riferimento per le “Elegie romane” di P. e per i “Fasti” ovidiani). Purtroppo, di quella produzione ellenistica quasi nulla a noi è pervenuto, e non possiamo dunque verificare se anche negli elegiaci alessandrini fosse presente, magari in piccola parte, quel carattere personale e soggettivo che sarà tipico, invece, dei Latini.

Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione (10, 1, 93 “elegia… Graecos provocamus“, “nell’elegia gareggiamo coi Greci”) doveva avvertire concretamente i caratteri in parve innovatori dell’elegia romana. Di sicuro, a tal proposito, noi possiamo soltanto sottolineare l’importanza di Catullo (e, forse, prima di lui, degli stessi “neoteroi“) e del suo mondo poetico per la mediazione con quel mondo greco e per la formazione dell’elegia propriamente latina: nelle forme e nelle tecniche alessandrine egli aveva immesso l’intensità passionale del suo temperamento, gli odi e gli amori, il dolore e l’idealizzazione mitica di una donna, l’esperienza drammatica della vita vissuta.

Riduttiva dunque, a questo riguardo, appare la tesi del critico F. Jacoby, secondo la quale l’elegia latina deriverebbe non direttamente dall’elegia erotica alessandrina (come invece affermava un altro critico, F. Leo), ma da un ampliamento dell’epigramma greco, il genere letterario al quale i poeti d’Alessandria avevano affidato l’espressione diretta del sentimento personale. Spunti epigrammatici non mancano, certo, presso gli elegiaci latini; tuttavia la momentanea effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre s’esaurisce in un respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione convenzionale, viene, dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che è già strutturalmente diverso, più ampio e impegnativo, e decisamente più “personale” o – come meglio si dice – “soggettivo”, autobiografico. Neanche sono assenti punti di contatto tra elegia latina e “commedia nuova”. E, ancora, sia per l’epigramma, sia per la commedia, tanta parte dovette avere, anche per i poeti elegiaci, l’insegnamento della scuola, in particolare la retorica, col suo ricco campionario di temi e situazioni.

Fedeltà esclusiva del poeta alla donna e all’amore. Al centro dell’elegia latina è la figura femminile, una donna dai netti connotati spirituali e dalla presenza fisica talora assai corposa, e spesso (inconsapevolmente) ossessiva. Accanto a lei, un poeta che la canta, perché (oltre tutto) è proprio lei ad esserne l’ “ingenium“, l’ispirazione esclusiva; un poeta che la canta e che la adora, pur fra tradimenti, liti e riappacificazioni, in un vagheggiamento che trascende la dimensione puramente erotica per approdare ad una dimensione immaginifica e mitica, spesso ambigua (ma il mito, quando c’è, non è elemento fondamentale, ma accessorio: fondamentale è piuttosto la vita del poeta: questa sarebbe, secondo taluni critici, la vera novità rispetto all’originale greco). Essenziale, nel corteggiamento, è poi lo stesso esercizio poetico, che prospetta all’amata una fama imperitura; un esercizio poetico che per il poeta diviene tutto, assorbe completamente la sua vita, distogliendolo completamente da quelli ch’erano i doveri (sociali e militari) propri del “civis” romano: una volontaria, e orgogliosa, “nequitia“, un vero e proprio “otium” amoroso, cui spesso si associava financo una programmatica “recusatio“: ovvero, l’autore elegiaco confessava di accontentarsi di trattare un genere così umile e “privato”, anche perché non in grado di (un modo garbato per dire che non voleva) trattare genere più impegnativi e più scopertamente ideologici, quali ad es. l’epica o l’eziologia (che fosse, questo, anche un larvato aspetto di polemica o di fronda politica?).

La donna, musa e delirio del poeta. Immancabilmente bellissima, la donna è dunque vita del poeta, ed è idealizzata sin nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia…): essa è l’amica o, meglio, la “domina” alla quale sottomettersi in un “servitium“, ovvero in una sorta di volontaria schiavitù o vassallaggio d’amore, non senza un dolce arrovellarsi nella sofferenza, perché la donna è anche (se non soprattutto) traditrice e volubile. E’ comunque amore che vuole durare eterno (almeno nelle intenzioni del poeta), e non passione intensissima ma labile, come quella di un epigrammista greco: è eros che va oltre la morte, e che talora il poeta canta addirittura come nenia funebre (“flebilis” è, come già accennato, tradizionalmente il componimento elegiaco).

Il canone degli elegiaci romani. Il canone degli elegiaci romani appare già in Ovidio, che afferma di essere quarto dopo Gallo, Tibullo e Properzio; alla fine del I sec. d.C., lo conferma Quintiliano, nella sua “Institutio oratoria”, in quel famoso trafiletto, in parte già citato, la cui valenza anche “critica” è, nella sostanza, valida ancor oggi: <<Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium malint. Ovidius utroque lascivior, sicut durior Gallus>>; ovvero: <<Anche nel genere elegiaco sfidiamo i greci: di questo genere, Tibullo mi pare essere il rappresentante più discreto e raffinato; altri invece gli preferiscono Properzio; rispetto a questi due, Ovidio è inoltre più licenzioso (nei toni e nei temi), mentre Gallo risulta più “compassato”>> [trad. N. Castaldi]. Infine, <<Catullo restò fuori dal canone semplicemente per i criteri esterni degli antichi, dato che il suo libro era polimetro e non costituito interamente da elegie>> [I. Mariotti].

Albio Tibullo

— Gabii? 55/48 – 19 o 18 a.C. —

Vita.

Biografia incerta. Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T. (anche il “praenomen” è ignoto), il poeta elegiaco che Orazio, in una sua epistola, pur ritrae bello e dotato di ogni bene, mentre s’aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi pensieri, ridotto come un “corpo senz’anima”.

La vita in campagna. Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, anche se è molto improbabile l’identificazione del luogo di nascita nel villaggio di Gabii, come da qualcuno è stato proposto. Vittima come tanti altri dell’ondata di confische di terre a favore dei veterani di Filippi, egli poté tuttavia conservare del suo patrimonio quel tanto che gli permise di condurre un’esistenza non più ricca come i suoi avi, ma certamente agiata.

L’incontro con Messalla. Il fatto più importante della sua vita “pubblica” fu l’incontro con Messalla Corvino, cui fu sempre legato da intensa amicizia e del cui circolo romano fu il principale rappresentante, fino alla morte: pur avversando la vita militare, T. accettò di accompagnarlo addirittura in due spedizioni militari, una in Oriente, nel corso della quale dovette fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfù); l’altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari (e in un’elegia, canterà proprio il trionfo di Messalla, celebrato nel 27).

Opera.

Corpus Tibullianum. I codici ci hanno trasmesso, sotto il nome di T., 3 libri di elegie, comunemente noti come “Corpus Tibullianum”. I primi due sono sicuramente del nostro poeta: il I fu composto tra il 30 e il 25, consta di 10 elegie e vi si canta sopra tutto l’amore per una donna, Delia, che Apuleio, nell’ “Apologia”, dice chiamarsi Plania (T. avrebbe ellenizzato il suo nome: “planus” = “delos“); il II comprende 6 elegie, in 3 delle quali è cantata un’altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una “Vendetta” per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio: una certa Glicera, “crudele” perchè venuta meno al patto d’amore col poeta.

C’è poi il III libro, ch’è un’antologia di 20 componimenti in distici elegiaci (salvo il VII, in esametri), divisa dagli umanisti italiani in 2 parti, o addirittura in 2 libri distinti (il III e il IV): la prima parte contiene una raccolta di 6 elegie [1-6] che l’autore, un poeta che si fa chiamare Ligdamo, dedica alla sua Neera; la seconda consta di 11 elegie [8-18] che cantano l’amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con 2 componimenti, verosimilmente attribuibili a T. giovane: un’elegia per una “puella innominata” (la Glicera di cui sopra?) e un epigramma. Fra l’una e l’altra sezione, è inserito infine il “Panegyricus Messallae” (è questo il componimento in esametri), un elogio, appunto, delle imprese di Messalla.

Considerazioni.

Opera “collettiva”. Molto probabile è che l’intero “Corpus” sia frutto di poeti del circolo letterario di Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune, quasi monocorde, comunque lontana dall’estrema ricchezza e varietà di toni dei poeti appartenenti invece alla cerchia di Mecenate.

I temi. Come ci rivela già la “programmatica” I elegia del I libro, i temi fondamentali della genuina poesia tibulliana, rinvenibile – a conclusione di quanto detto – nei primi 2 libri del “Corpus”, sono la campagna e l’amore (a cui possiamo associare, per importanza, il profondo senso di religiosità), sempre vagheggiati, molto spesso intrecciati: il poeta ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora appena tinta di un’indefinita malinconia e nostalgia.

L’amore. A Delia, nel I libro, egli dedica 5 elegie [I, II, III, V, VI]: ella è quasi certamente una creatura reale (anche se filtrata dalla fantasia letteraria del poeta), una bella biondina, sposata e liberta, o comunque di umile condizione: è lei la donna ideale per T., è lei l’ispiratrice degli accenti più teneri e delicati, dei pensieri più umani e gentili del canzoniere: il poeta, come già detto, sogna di vivere con lei una vita serena e felice nella pace dei campi e di averla accanto a sé in punto di morte. Eppure Delia si rivela tutt’altro da come T. se la rappresenta: è una creatura volubile, che sa anche tradire senza scrupolo. Inevitabile, così, la rottura, che il poeta, nonostante il voltafaccia di lei, pur non sopporta: egli si lascerà andare all’ira, ma un’ira essa stessa dolce, e portata al perdono: l’invettiva cruda e feroce è solo nei confronti della mezzana, che ha procurato alla “sua” Delia un nuovo amante.

Nel II libro i toni divengono forse più sofferti e più “crudi”: vi sono 3 elegie [III, IV, VI] dedicate a Nemesi, la “saeva, dura puella“, una cortigiana sensuale ed avida di denaro, tra le cui braccia il poeta malauguratamente si getta per “vendicarsi” dei tradimenti di Delia: ma il nuovo amore ben presto si mostra per quello che è veramente, imponendo al poeta un’umiliante schiavitù, un triste “servitium“.

Tuttavia, nonostante i cambiamenti di registri e situazioni, l’ispirazione di fondo permane sostanzialmente identica: infatti, le avventure con Delia, con Nemesi o, ancora, col giovinetto Màrato (cui T. dedica ben 3 elegie nel I libro) sembrano spesso svaghi di fantasia e di sogno più che reali, effettive esperienze: il poeta non ama soffermarsi su ciò che è attuale e presente, ma abbandonarsi sempre – come detto – alla speranza, al desiderio, alla rievocazione nostalgica del passato. La stessa Nemesi, pur se descritta, <<talora, con qualche tratto realistico, adempie troppo scopertamente ad una funzione di contrappunto, per riuscire a celare la letterarietà della sua costruzione artistica>> [I. Lana].

La campagna. Se metà di ogni libro è per la donna che domina, in quel momento, la vita del poeta, l’altra metà tocca altri temi cari a T.: rispettivamente, nel I libro, oltre al già detto amore per il giovinetto Màrato [elegie IV, VIII, IX] troviamo, quindi, la VII elegia che celebra la gloria di Messalla dopo il trionfo del 27, e la X, che loda la pace e la vita nei campi; nel II libro, la I elegia descrive la festa rurale degli “Ambarvalia” (rito di purificazione dei campi), la II è per l’amico Cornuto che festeggia il compleanno, la V – infine – è un’esaltazione (in toni che ricordano molto da vicino Virgilio) del Lazio agreste e idillico anteriormente alla fondazione di Roma (anche il nostro poeta, insomma, paga il suo tributo ai programmi di restaurazione augustei).

Si affaccia, così, prepotente il “mito” della campagna: essa non è solo quella di Delia e delle tenerezze d’amore: è anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi; T., infatti, non cerca la ricchezza e detesta la guerra, nella quale vede un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà: al contrario, egli s’accontenta di un’ “aurea mediocritas“, che gli consenta una vita moderatamente agiata e soprattutto tranquilla, nel segno di un profondo e desiderato “disimpegno”.

La religiosità. Quella di T. è, ancora, la campagna delle feste contadine, quella che conserva i riti antichi del mondo rurale. Il poeta è rimasto legato alla fede della sua infanzia, agli dèi della campagna e del focolare: i Lari (ai cui piedi egli correva, da bambino) e Silvano e Priapo e Bacco, e poi Cerere e Pale. La campagna coi suoi riti è per lui l’approdo sicuro, ove più genuini si manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della famiglia. Anche la già affermata esaltazione di Roma, presente nel II libro, si risolve nella rievocazione della religiosità agreste del Lazio primitivo.

Il ciclo di Ligdamo. Come sopra accennato, l’attuale III libro consta di 6 elegie attribuite a un certo Ligdamo (come si nomina lo stesso poeta), che canta il suo amore per una donna, Neera. Si tratta con ogni probabilità di uno pseudonimo: solo uno schiavo, infatti, avrebbe potuto avere un nome greco, mentre il poeta, come risulta dalle elegie, si rivela di condizione libera. Ardua è però l’identificazione di Ligdamo, anche se l’ipotesi più plausibile è che sia uno poeti che fecero parte del circolo di Messalla (taluni lo identificano con lo stesso T., talaltri addirittura con Ovidio giovane: Ligdamo stesso, del resto, confessa di essere nato nel medesimo anno di quest’ultimo).

Quel che si può con sufficiente certezza affermare è che Ligdamo ha letto, e imitato, sia T. che Ovidio, mutuandone immagini ed espressioni per dare vita al suo ancor tenue, giovanile mondo poetico. E’ innamorato di Neera, con una dilezione tenera e casta, e accarezza il sogno di una vita matrimoniale con lei. Ma Neera è incostante e infedele, e l’abbandona, lasciandolo affranto dal dolore: ed egli nel dolore s’arrovella, certo più di T., e vagheggia disperatamente ma dolcemente la morte.

Il Panegirico di Messala. Il “Panegyricus Messallae”, un elogio di Messalla composto forse nel 31 a.C., anno del suo consolato, apre l’attuale IV libro del Corpus. E’ stato attribuito a T. giovane, ma sembra troppo lontano dalla sua arte (con ben altro fermento fantastico T. ha celebrato l’amico-protettore nella citata elegia del I libro). Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e condottiero (nella II), con l’aggiunta di pedanti digressioni sull’Odissea e sulle cinque zone climatiche.

Il ciclo di Sulpicia e Cerinto. Seguono, nel IV libro, 13 componimenti. Il “ciclo di Sulpicia e Cerinto” ne “occupa” – come visto – 11: le prime 5 narrano le vicende d’amore di Sulpicia, forse una nipote di Messalla, col giovane Cerinto; esse sono state attribuite, con buona probabilità, a T. (ma come suona strano questo T. che narra amori altrui!). Gli altri 6 componimenti sono brevissimi biglietti d’amore composti, per il suo diletto, forse dalla stessa Sulpicia; in essi, la fanciulla confessa il suo amore, che è fuoco di sensi, con sorprendente immediatezza espressiva: ella brama rivelare la sua passione, e non tenerla nascosta, perché dolce le è l’aver peccato e perché se ha un vero pentimento è solo per un mancato incontro, ovvero per aver lasciato solo il suo Cerinto durante una notte, troppo preoccupata di nascondergli tutto il suo ardore.

Lingua e stile. Al tono a suo modo sognante e arcadico dell’opera, e apparentemente “dimesso”, contribuisce la stessa tecnica compositiva di T., che ama disporre come a onde i vari motivi che si sviluppano nell’elegia: un tema si innesta su un altro, per poi venire abbandonato e poi ripreso, in un gioco sinuoso di volute entro cui ogni realtà sembra perdere i suoi connotati, come in una composizione musicale. Le vane note della poesia tibulliana si fondono, così, spesso senza scorie che sappiano di stilizzazione o di “maniera”, in una struttura tanto sottile quanto organica; l’assenza di erudizione mitologica ne rende ancora più nitido il disegno, tal che l’elegia tibulliana, anche per questo, occupa nell’antichità un posto tutto particolare (già riconosciuto da molti, a suo tempo), e anche oggi straordinariamente moderno.

L’andamento vago, ondeggiante del testo poetico di T. si combina poi – ed è qui forse il suo fascino precipuo – con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo (già Quintiliano acutamente definì T. “tersus atque elegans“). Armonioso e musicale è infine il suo distico; forse – se proprio vogliamo muovergli una critica – solo un po’ “monotono”.

Sesto Properzio

— Assisi? 50 ca a.C. – Roma, dopo il 15 a.C. —

Vita.

La formazione e l’ingresso precoce nel mondo della poesia. P. nacque da agiata famiglia di rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu avviato alla carriera forense. Ma P. rivelò precoce attitudine per la poesia: già al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto “monobiblos” (“libro unico”), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la tradizione dei poeti alessandrini.

Il successo che gli arrise spinse Mecenate ad ammetterlo nel suo celebre “circolo” (ma quella di P. fu, come vedremo in seguito, un’ “integrazione difficile” [A. La Penna] al regime). Qui, P. conobbe i più importanti poeti dell’epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era solito recitare i propri “roventi” (“ignes“) versi. Difficili, invece, i rapporti con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e P. sembrano poi ignorarsi del tutto (gelosia reciproca?).

Il rapporto con Cinzia. Uno dei primi amori cantati dal poeta fu la giovane schiava Licinna, ma forse l’unico avvenimento davvero importante nella sua vita fu l’incontro con Cinzia. Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte Cinto (si ricordi, a proposito, anche la Delia di Tibullo). Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di P., dagli occhi neri e dai capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma anche di facili avventure d’amore (e dunque costituzionalmente infedele), dominò incontrastata nell’animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione.

Si amarono, talora “nevroticamente”, per quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desiderio di lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. Dunque, una vera e definitiva “rottura” nel rapporto non ci fu mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il “discidium“, la separazione definitiva; nonostante la stessa morte di lei.

Opera e contenuti.

P. compose 4 libri di “elegie” (per un totale di 92 componimenti):

– Come “monobiblos“, fu pubblicato – come detto – nel 28 il I libro (22 elegie); il suo contenuto è omogeneo: soprattutto, legami di amicizia e rivalità, ma su tutto domina la figura ora realisticamente sensuale, ora idealizzata di Cinzia, (col cui nome esso significativamente si apre), in una vicenda subito segnata da reciproche passioni e gelosie, tradimenti e riconciliazioni. Il tono prevalente è, tuttavia, ancora quello dell’abbandono malinconico e di un’atmosfera sognante.

– Tra il 28 e il 25 P. compose, invece, il II libro (34 elegie). <<Rispetto al “monobiblos“, questo è meno omogeneo nel contenuto ed è anche il libro più problematico sia per lo stato in cui è giunto il testo, sia per alcune sue caratteristiche: è sempre dominante il tema amoroso, ma le situazioni sono spesso esasperate e tese, con un procedere a sbalzi, anche all’interno della stessa elegia, che porta alcuni interpreti a postulare lacune e/o trasposizioni di versi. Ma per altri, tutto ciò potrebbe essere voluto dallo stesso poeta: manifestazione, nella scrittura, di uno stato d’animo frenetico ed appassionato.

Si nota, infine, anche una più marcata accentuazione delle reminiscenze poetiche ed erudite, segno anche questo del carattere più impegnativo di questo libro (anche materialmente, il numero dei versi è circa il doppio rispetto al I). Ma soprattutto, si segnala l’incontro “ufficiale” con Mecenate, che certo operò per spingere anche P. verso la poesia celebrativa>> [R. Gazich, libero adattamento]: da ciò si spiega il fatto che il libro si apra con una “recusatio“, un garbato rifiuto da parte del poeta di coltivare quel tipo di poesia.

– P. pubblicò il II libro forse insieme col III (25 elegie) nel 22. Quest’ultimo segna un mutamento decisivo, rispetto ai primi due: Cinzia è sempre presente, coi suoi umori e coi suoi amori, coi suoi abbandoni e le sue ripulse, ma accanto a questi temi “soliti” appaiono, ben rilevati, altri motivi: <<primo fra tutti, quello dell’ambiziosa consapevolezza del proprio valore di poeta e una più decisa adesione al tipo di poesia dotta e raffinata che era stata di Callimaco e di Fileta. Come ha ben chiarito il Fedeli, più che dell’amore P. ora s’interessa dello “status” di poeta d’amore, inteso sia come missione poetica, che come stile di vita, e lo si vede nella compatta e solenne dichiarazione di poetica delle 3 elegie proemiali, e anche nelle 2 successive, che trattano dell’opposizione fra poesia d’amore e l’avidità di conquista e di ricchezza. Notevoli, inoltre, anche i due epicedi (= canti funebri) per il naufrago Peto e per Marcello, nipote di Augusto morto a Baia nel 23. Sul fronte della passione per Cinzia, inoltre, c’è un calcolato accrescersi della tensione, fino all’ultima elegia del libro, che segnerebbe il distacco definitivo [il “discidium“] tra i due>> [R. Gazich, libero adattamento]

Non mancano, infine, motivi più scopertamente legati alle fortune e all’ideologia del regime augusteo: l’augurio per la spedizione contro i Parti [IV], la promessa a Mecenate di una poesia più “impegnata” [IX; preludio, questo, al libro successivo], un fiero elogio di Roma e dell’Italia [XXII].

– Il IV libro (11 elegie), che contiene le cosiddette 5 elegie “romane”, volte a cantare leggende e riti dell’antichità romana, collegate con culti o luoghi particolari (P. mostra dunque di accogliere finalmente, anche se con tutta misura, le richieste di Mecenate), fu probabilmente pubblicato nel 16 a.C., data a cui risalgono gli eventi cui vi si fa riferimento; i temi cantati in queste elegie “eziologiche” (ma non servilmente celebrative) sono: il dio Vertumno, il tradimento della vergine Tarpeia, la dedica del tempio di Apollo Palatino, la leggenda di Ercole e Caco, il culto di Giove Feretrio (numerosi spunti, di forma e di contenuto, ne trarrà l’Ovidio dei “Fasti”).

Anche le altre elegie risultano frutto di maggiore estensione e di maggiore impegno rispetto a tutte le precedenti altre. Ma ci sono anche due elegie dedicate all’amore coniugale: in particolare, l’XI, che la tradizione suole denominare “regina elegiarum“, si risolve in una celebrazione delle antiche virtù delle matrone romane, nelle nobili parole che, dopo la morte, Cornelia rivolge al marito Emilio Paolo. La stessa Cinzia vi ritorna ancora, due volte: una come ombra [7], ma sempre amara e aggressiva, che appare in sogno al poeta e lo rimprovera di essersi dimenticato di lei e dei momenti felici vissuti insieme; un’altra ancora in vita [8], gelosa e vittoriosa (ha “sgamato” P. con due meretrici, ma riesce a riportarlo a sé dopo una violenta sfuriata), in una sorta di elegia trionfale.

Il derivante carattere “composito” di questo libro è stato, infine, variamente interpretato, ora come voluta scelta di P., ora come necessaria conseguenza dell’essere una raccolta in realtà (secondo alcuni) postuma.

Considerazioni.

Poesia e amore. Poesia e amore sono i due elementi fondamentali e inscindibili in P.: il poeta si sente vittima d’amore, e proclama il suo “servitium Amoris“, la sua dedizione totale alla passione. Questa è una precisa scelta di vita, lontana dalle tradizionali ambizioni del foro e della politica, una vita di “nequitia” di cui il poeta è consapevole; ed è pure una scelta di poesia e di poetica (particolarmente illuminante, al riguardo, è la “programmatica” I elegia del I libro): di una poesia che esprima una vita dedita completamente all’amore, e che dunque sia idonea a far innamorare la donna, e di una poetica, quella callimachea, che con la sua “brevitas” e l’impiego del mito meglio si presti agli intenti del poeta elegiaco.

Cinzia sangue e carne… A differenza di altri elegiaci più – come dire – “fantasticanti”, P. ha poi un’immaginazione corposa, che ama le tinte intense, i bruschi trapassi: come in quelli, l’amore è certamente al centro della sua vita e del suo canto, ma è un amore fatto soprattutto di passione e di tormento, assoluto e coinvolgente, che si proietta oltre il reale, oltre la vita stessa, sino a superare le barriere della morte, sino a farsi mito.

Cinzia è innanzitutto splendida presenza fatta di carne, che ossessiona la fantasia e il ricordo e alimenta la gelosia di P.; quella donna che pure, teneramente nella mente del poeta, da sola costituiva “la sua casa, i suoi genitori”, ogni possibilità di gioia per la sua vita. Ma raramente in lui, come detto, l’amore è appunto gioia e tenerezza, quasi sempre è dolore: egli vive questo sentimento in modo drammatico, come una tormentosa passione che lo sfianca.

ma anche “mito”. Le “Elegie romane”. Pure per altra via la presenza di Cinzia diviene, nel poeta, memoria grandiosa: attraverso il mito, preziosa eredità della poetica alessandrina: ma, a differenza di quello, il mito usato da P. non è inteso puramente come brillante e talora divertito sfoggio di erudizione: in lui, la realtà stessa, l’intero suo mondo degli affetti viene trasfigurato e, per così dire, eternato dall’atmosfera incantata del mito. Sotto questo rispetto, la critica recente è portata a non ravvisare una reale frattura (spirituale e artistica) tra il P. cantore d’amore e il P. che canta antichi miti romani e italici.

Come sappiamo, infatti, collegandosi programmaticamente agli “Aitia” di Callimaco (addirittura come “Callimaco romano” P. si presenta nell’elegia proemiale del IV libro), P. – nelle “Elegie romane” (la II, IV, VI, IX, X del IV libro) – rivive le origini di storie e leggende dell’antica Roma, ma con una visione finale del mito che certamente supera gli angusti ambiti entro cui il poeta di Cirene lo aveva costretto. Al “mito” di Cinzia allora subentra (o, meglio, addirittura s’alterna) quello di Roma con un atteggiamento poetico sostanzialmente coerente: perché “mito” è per P., sempre e comunque, elevare la realtà attuale (qualsiasi realtà, storica o intima) in un passato esemplare che la renda in certo modo nobile ed eterna. Inoltre, <<[esso] suscita reminiscenze di cultura ed arte, il che doveva piacere in una società raffinata>> [L. Alfonsi].

Lingua e stile. <<All’intensità sentimentale dell’elegia properziana corrisponde una temperie stilistica densa, fatta di scorci, di trapassi arditi, in una concentrazione talora estrema, che costringe il lettore a indugiare di continuo per cogliere la pregnanza spesso oscura di un’espressione. A termini dotti e ricercati s’alternano, nei contesti più realistici, espressioni del linguaggio quotidiano, in una tensione stilistica ricca di ambiguità. E’ arduo talora cogliere appieno l’intera valenza connotativa di un’espressione, come è difficile, almeno all’inizio, individuare, nell’intreccio delle sue articolazioni, la struttura di un’elegia properziana: è una tecnica eminentemente composita, nella quale sembra tradursi l’animo stesso, appassionato e contorto, del poeta. Di qui gli inizi improvvisi, assai suggestivi, delle sue elegie; di qui i passaggi sintattici e concettuali repentini e, almeno in apparenza, lontani da ogni coerenza logica. Le sue espressioni hanno la concentrazione incisiva delle epigrafi, una densità di idee e di allusività che sembra di fiamma (come li definì Ovidio), ma anche, all’occasione, una certa patina di leggera ironia, che sembra svelare, in alcuni momenti, il gioco del poeta, ondeggiante tra fantasia e realtà, la sua capacità di distaccarsi dall’oggetto della sua passione, e di ragionare, un po’ divertito, sulla passione stessa. Il tutto con un linguaggio poetico elevato, informato a una dotta eleganza.>> [C. Salemme, libero adattamento]

Publio Ovidio Nasone

— Sulmona, Abruzzo 43 a.C. – Tomi, Mar Nero 17-18 d.C. —

Vita.

Nascita e formazione. O. nacque da antica e agiata famiglia equestre (in un’elegia dei “Tristia”, è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla sua vita). A Roma, ove si recò col fratello (31 a.C.), studiò grammatica e retorica presso insigni maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense e politica, O. avvertì invece subito imperiosa l’inclinazione verso la poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi (“et quod temptabam dicere versus erat“).

L’incontro con Roma e con la poesia. Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene a 18 anni, il nostro rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore: fu dei “tresviri” (“capitales“?), e dei “decemviri stlitibus iudicandis“, ma rimase pago dell’ordine dei cavalieri e non mirò al senato, alieno “sollicitae… ambitionis“.

Ad alimentare la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell’epoca, come Orazio, Properzio, Gallo (Virgilio lo intravide appena). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati ( da cui ebbe però una figlia), sposò una giovane fanciulla della “gens Fabia“, che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere.

Il triste declino: “carmen et error” e “relegatio”. Nell’8 d.C., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto (revocato neanche dal successore Tiberio), che lo relegava a Tomi, l’attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si trattò, è vero, di una “relegatio” che, a differenza dell’ “exilium“, non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte.

gnoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due colpe che l’avrebbero perduto: “carmen et error“. Nel “carmen” deve essere allusione all’ “Ars amatoria”, il suo trattato sull’amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col coevo programma augusteo di restaurazione morale dei costumi (ma evidentemente l’accusa mascherava più vere ragioni personali). Riguardo l’ “error“, l’ipotesi più verosimile è che O. sia stato coinvolto – come testimone o addirittura complice – in uno scandalo di corte, che l’imperatore aveva tutto l’interesse a mantenere segreto: fatto è che, nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.

Opere.

Possiamo dividere comodamente la pur multiforme attività poetica di O. in tre momenti, che corrispondono ad altrettante fasi della sua vita [per un’analisi dettagliata delle singole opere, vd. oltre].

1. Al I periodo [ciclo della poesia propriamente elegiaca amorosa] appartengono le poesie erotiche, che cantano l’amore nella galante cornice della vita di Roma: gli “Amores”, un canzoniere d’amore; le “Heroides”, lettere di eroine ai loro infedeli amanti; l’ “Ars amatoria”, una precettistica dell’arte d’amare; i “Medicamina faciei femineae”, un trattato di cosmetica; i “Remedia amoris”, composti per aiutare a guarire dalle pene d’amore.

2. Al II periodo [ciclo della poesia epico-mitologica] appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio respiro, composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la celebrazione del principato: sono le “Metamorfosi”, il poema delle trasformazioni, e i “Fasti”, un poema che doveva illustrare il calendario romano, ma che fu interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi.

3. II III periodo [ciclo della poesia dell’esilio] comprende la composizione dei “Tristia” e delle “Epistulae ex Ponto”, i canti della solitudine e della nostalgia, della noia e della disperazione.

Contenuti e analisi delle singole opere.

*”Amores”. Gli “Amores”, in 3 libri (una I ed. era però in 5 libri), furono composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione, dunque, intorno ai vent’anni.

Sono elegie che si strutturano in una sorta di romanzo amoroso, nel quale è cantata una donna, Corinna. Ma Corinna è uno pseudonimo (è il nome di una poetessa greca) forse di un personaggio puramente letterario, certamente lontanissimo dalle donne intensamente vagheggiate dagli altri poeti d’amore latini, e più verosimilmente vero e proprio filtro o simbolo delle galanterie amorose di O., in una Roma splendida, smaliziata e gaudente.

Amore come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta: corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma legate al momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente ottenuto, ma pronto a dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in questo gioco dei sentimenti, d’una arguzia gradevolmente ironica, che costituisce una delle note più gustose di questo suo disincantato mondo poetico. E’ una sequela di quadri, di scene di vita, che s’alternano a precetti d’amore, a casistiche varie, alle infinite situazioni che l’incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico elegiaco estremamente musicale, che segue con rara aderenza la materia trattata.

Ad alimentare la fantasia ovidiana è la precedente produzione elegiaca, con una serie di “luoghi comuni” (come il lamento davanti alla porta dell’amata, il servizio d’amore inteso come “milizia”…); è l’epigramma ellenistico d’amore, invece, che gli suggerisce variazioni su tema pressoché infinite; ma è anche, appunto, l’intera società romana, brillante e festosa.

Sorprendente, sin d’ora, è l’attitudine del poeta a scavare entro le pieghe riposte della psicologia femminile (la composizione delle “Heroides”, vero capolavoro in questo senso, è forse contemporanea a quella degli “Amores”).

Quella degli “Amores” è una poesia di una superficialità che incanta, che dell’amore sembra preferire i soli “esterni”, in una società che tutta pare ridursi a vivere in un perenne gioco galante. Arte della variazione spinta al massimo, e non solo dal punto di vista letterario. O. non può, diremmo costituzionalmente, riconoscere un unico oggetto d’amore: tutte gli piacciono le belle romane, e a nessuna si sente di opporre resistenza. Sono, così, amori che iniziano e finiscono spesso là dove sono nati, che sembrano, nonostante le premesse e le promesse, esaurirsi in un’amabile corte (come in quella, impareggiabile, che il poeta rivolge a una gran bella donna, tutta gambe e sorrisi, che, accanto a lui, assiste alle corse dei carri nel Circo).

*”Heroides”. Le “Heroides” (il nome in origine dovette però essere quello di “Epistulae heroidum”, “Lettere delle eroine”) sono 21 lettere d’amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare: le prime 14 sono lettere di eroine mitiche (Penelope a Ulisse, Fillide a Demofoonte, Briseide ad Achille, Fedra a Ippolito, Enone a Paride, Ipsipile a Giasone, Didone a Enea, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a Protesilao, Ipermestra a Linceo); la 15a è l’unica lettera di un personaggio non mitologico, ma storico: quella della poetessa Saffo a Faone; le ultime 6, disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono lettere di eroi alle loro amate, seguite dalla risposta di queste (Paride a Elena, Leandro a Ero, Aconzio a Cidippe).

Domina, nelle epistole, la forma retorica della “suasoria“, del discorso cioè che tende a “convincere qualcuno a compiere una determinata azione”: in questo caso a ricambiare un amore. O. può ben vantarsi di avere, con le “Heroides”, introdotto un genere nuovo nella letteratura antica, cioè l’epistola erotica in versi, anche se indubbio precedente era l’epistola properziana di Aretusa a Licota (due pseudonimi che però celavano personaggi reali, a differenza di O., che attinge dalla sfera del mito).

Il mito e la donna: è questo, insomma, il fulcro poetico dell’opera. Certo, non nel senso properziano dell’idealizzazione mitica della figura femminile: piuttosto, e al contrario, O. “umanizza” le antiche eroine. Le solenni vicende del mito rivivono, infatti, col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della Roma contemporanea, delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell’amore infelice, quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello della donna abbandonata, al quale s’affiancano numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci, e poi Catullo, Virgilio e Orazio.

Ad animare l’ampio materiale proveniente dalla letteratura precedente, è l’eccezionale capacità di O., erede, in questo, di Euripide, di penetrare negli intimi recessi dell’animo femminile, a sondarne i sentimenti pur attraverso ripetizioni, riprese, frasi dette e poi smentite, in un vortice di immagini ricche di sfaccettature e di risvolti imprevedibili. O., forte della sua preparazione retorica, si rivela maestro in quest’arte di andare a fondo di una situazione spirituale, di esaminarne, uno per uno, i possibili (e talora impossibili) esiti. Rischio (scongiurato dalla sua arte) di tale operazione poteva essere quello di ridurre ogni afflato sentimentale a una serie di giochi d’intelletto, di battute a freddo, in lunghi e sempre uguali monologhi di anime affrante.

Al centro, come detto, è la donna del mito, ma resa umana, quasi ridotta in frammenti di impulsi e di sensazioni: ed è proprio quest’arte di frantumazione del mondo sentimentale che consente a O. di gettare un fascio di luce su passioni anche scabrose, su segreti inconfessabili, su certi chiaroscuri che verranno ripresi e sviluppati dalla successiva letteratura imperiale. Così, le “Heroides” sono forse l’opera più “moderna” di O., in cui l’animo femminile si rivela con inedita verità.

Molto varie ne sono le vibrazioni sentimentali: la penetrante, straordinariamente “soffice” seduzione che Fedra vuole a tutti i costi esercitare su Ippolito, l’amato figliastro; la vanità, tanto intensa quanto puritana, di Elena che non vuol cedere, ma cede, a Paride; l’atmosfera “romantica” e le incantate sospensioni, paesistiche e sentimentali, che fanno da sfondo all’impossibile storia di Ero e Leandro; l’impossibile e scellerata la passione di Canace per il fratello Macareo, in una lettera densa di cupo pathos e presaga di morte; come quella, infine, di Laodamia a Protesilao.

*”Ars amatoria”. L’ “Ars amatoria”, composta tra l’1 a.C. e l’’l d.C., consta di 3 libri in distici elegiaci. I primi due libri sono indirizzati agli uomini, ai quali O. insegna come incontrare, conquistare (1), conservare (II) l’amore di una donna; nel III, composto in un secondo momento, il poeta rivolge gli stessi consigli alle donne.

Il titolo (che forse opportunamente sarebbe da tradurre “Arte della seduzione”) deriva dal primo verso dell’opera, e riecheggia – in modo quasi parodistico, certamente “rivoluzionario” – da un lato le coeve “artes oratoriae“, dall’altro le “arti d’amare” dei filosofi greci.

Dunque, anche l’ “Ars amatoria” si propone come un genere nuovo, laddove presenta, nella formale struttura “didascalica”, i contenuti caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano. L’opera vuole essere, infatti, un vero e proprio trattato sui comportamenti d’amore, vera summa – e culmine – di tutta l’elegia latina precedente, una precettistica di galanteria erotica, condita di arguzie e piacevolezze. Di qui un contrasto sottile, che offre al poeta l’occasione per istituire un suo gioco, intellettualistico e ironico, su quell’eterno gioco che è l’amore (egli è “lascivi… praeceptor Amoris“).

L’opera dispone, così, in maniera organica, quei precetti che più di una volta, anche se in forma isolata, erano già apparsi negli “Amores” (qualche spunto “precettistico” era del resto anche in Tibullo e in Properzio); ma è una precettistica molto poco austera, chè ogni situazione d’amore resta solo frivola avventura, arricchita da digressioni, gustosi riferimenti al mondo del mito o alla storia o alla leggenda (in alcuni “affreschi” mitici è già prefigurato quello che sarà il mondo delle “Metamorfosi”). Al di sopra di tutto, al di sopra dei luoghi comuni, dei consigli d’amore, delle scene di vita come degli squarci di mito, è la sorridente arguzia del poeta, che con arte suprema e impeccabile impegno formale ha creato un mondo in cui tutto sembra accordarsi – anche gli inganni, gli spergiuri e le astute simulazioni – in una superiore armonia. Sullo sfondo, ancora la Roma degli “Amores”, una Roma fissata in un’atmosfera di magica luminosità, nelle cui vie affollate unica dominatrice sembra essere proprio la donna, con l’incanto delle sue apparizioni, con la gioia e il senso di vita che riesce a infondere.

Questo ovidiano è soprattutto un mondo di grazia e di eleganza, ove ognuno trova la propria dimensione in un impegno d’amore che è, sì, coinvolgente, ma che mai assorbe troppo sul serio: anche gli dèi e gli eroi sembrano farne parte (si pensino alla scena di Ulisse e Calipso che discutono sulla spiaggia; all’atmosfera di magica attesa in cui si risolve la tragica storia di Procri; alla festevole leggerezza con cui si dipana la vicenda di Bacco e Arianna).

*”De medicamine faciei”. Anche il “De medicamine faciei” (“L’arte del trucco”) è opera a suo modo precettistica: un trattatello di circa 100 versi, in metro elegiaco, che si divideva in due parti: la prima, una difesa dell’eleganza della vita di città, in confronto all’antica semplicità campagnola dei costumi; la seconda, una serie di 5 ricette di cosmetici che permettessero alle donne di conservare e rendere più attraente la loro bellezza.

*”Remedia amoris”. Sempre in distici elegiaci (per un totale di circa 800 versi), i “Remedia amoris” – “Rimedi all’amore” – vogliono invece insegnare i mezzi (sono quasi “ricette”) con cui curare gli effetti nefasti dell’amore, in particolare degli amori sfortunati. A ben vedere, essi sono una risposta scanzonata e pungente alle critiche che, da parte dei moralisti, erano state rivolte alla sua precettistica d’amor galante.

Con fine ironia, che vuole ripetere quella dell’ “Ars”, il poeta invita dunque 1’amante infelice a considerare i difetti dell’amata, a fuggire la solitudine e, insomma, a “distrarsi”. Importante è poi ostacolare la mala passione quand’è all’inizio, prima che col tempo abbia modo di prender forza (non infrequenti, a tal proposito, sono i motivi desunti anche dalla topica filosofica d’ispirazione stoica). Amabile gioco, in definitiva, questo di O., che mostra di ritrattare, ma con infinito garbo, i suoi precedenti insegnamenti.

*”Metamorfosi”. Le “Metamorfosi” (“Metamorphoseon libri XV”), il “poema delle trasformazioni”, che O. iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata.

Opera in apparenza disorganica e “barocca”, frutto quasi di un’obbedienza eccessiva alle norme della “varietas“, le “Metamorfosi” rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.

Numerose possono essere considerate le “fonti” ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che O. deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle “Trasformazioni” di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci).

E tuttavia nuovo è il risultato dell’operazione ovidiana, che si sviluppa all’insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima “facilità” sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l’illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l’uomo alla natura.

L’opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= “catasterismo”) di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua.

II poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell’opera, di comporre un “carmen continuum“, un’opera, cioè, profondamente unitaria, anche – come visto – dal punto di vista “cronologico”. Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, O. pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell’universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione.

Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le “Metamorfosi”, nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. II poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all’altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall’altro in una dimensione che pare dilatarsi all’infinito.

Dominano nell’opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un’atmosfera di fiaba; un’arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé.

Della trasformazione, O. mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell’antica natura nella nuova. Dell’essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l’intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell’universo.

La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d’amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di O., così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in O. il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s’accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l’unica via d’uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto.

Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l’amore è dunque 1’altro grande tema del poema, ma non l’amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli “Amores” e nell’ “Ars”, bensì l’amore del mito (come già nelle “Heroides”), un amore che conosce un’ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all’incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre i1 loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d’alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle “Metamorfosi”, spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell’anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d’avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell’acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell’amato fanciullo, sino a divenire un’unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l’Ermafrodito; così e dell’amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l’opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l’albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto.

Infine, si può deplorare che l’opera non ha potuto avere l’ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che O., in un momento d’ira contro la prosapia d’Augusto da lui pur glorificata, l’aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d’un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.

*”Fasti”. Anche i “Fasti” sono opera narrativa, che vuole illustrare il calendario romano (“fasti” vale appunto “calendario”). Composti contemporaneamente alle “Metamorfosi”, essi dovevano comprendere 12 libri (uno per ogni mese), ma furono come quelle interrotti, a causa della relegazione a Tomi: ne rimangono così i primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi che vanno da gennaio a giugno. Durante l’esilio, il poeta rivide l’opera, in particolare il I libro che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio adottivo di Tiberio.

I “Fasti” intendono dunque cantare, in distici elegiaci, le tradizioni romane nell’ordine in cui compaiono nel calendario latino. Opera organica, nei disegni del poeta, a differenza del referente prossimo, le “Elegie romane” di Properzio, che però avevano selezionato soltanto alcuni tra i miti antichi; e opera eziologica, come gli “Aitia” di Callimaco, dal momento che intento di O. è quello di spiegare le lontane origini di una festa, di un culto, di un nome. A tale scopo, il poeta utilizza sopra tutto l’opera erudita di Varrone e di Verrio Flacco, nonchè la storia di Livio (da notare che i Fasti, per la loro documentazione, restano tra l’altro testimonianza preziosa di antiquaria latina).

Per la composizione di un’opera che voleva cantare la religione romana, in sintonia col severo programma augusteo di restaurazione, O. mancava tuttavia di autentiche motivazioni interiori, tanto che quanto in essa c’è di vivo e vero è in contrasto con quelli che dovevano essere gli impegnativi intenti programmatici. Ai riti, alle feste, alle sacre istituzioni di Roma antica, O. s’accosta con spirito disincantato, ancora con quel gusto di raccontare proprio delle Metamorfosi, e con una curiosità tutta sorridente nei confronti del divino.

II poeta ha comunque il merito di aver come fissato e trasmesso ai secoli un’immagine concreta e verace di quella che a lui appariva la religiosità romana: sono squarci sapidi di vita, come la descrizione della festa in onore di Anna Perenna, una vecchia dea di Roma; o, ancora, sono rievocazioni di antichi personaggi della tradizione, vicende soprattutto di donne, presenti anche qui col loro fascino tipicamente ovidiano: Lucrezia, bella e onesta fino alla tragica fine; o Silvia, la vestale che commette l’errore di abbandonarsi sull’erba e di addormentarsi mentre un dio bramoso la compromette senza rimedio; o la naiade Lotide, che pur s’addormenta dopo una festa dedicata a Bacco, che tenta invano di possederla.

Ancora una volta il mito è dunque avvertito dal poeta in maniera cordiale, con un senso di confidente familiarità coi culti, i riti, gli dèi di Roma, che è poi la dimensione più vera dell’opera: basterebbe a documentarlo il gustoso colloquio che, all’inizio del IV libro, O. ha con Venere, condotto con spregiudicata grazia alessandrina.

*Le opere dell’esilio. La produzione ovidiana dell’esilio comprende 5 libri di “Tristia” (“Tristezze”) 4 libri di “Epistulae ex Ponto” (“Lettere dal Mar Nero”), tutti in distici elegiaci. I “Tristia” furono scritti tra l’8 e il 12 d.C.; la composizione dei primi 3 libri delle “Epistulae ex Ponto” risale invece al 12 (il IV libro, più lungo, fu pubblicato postumo).

La struttura differente delle due opere è solo esteriore: i nomi delle persone cui sono dirette le elegie dei “Tristia” sono stati occultati – eccetto quelli della moglie e della figliastra Perilla – forse per non compromettere i corrispondenti con un uomo di recente “relegato”; invece, i nomi dei dedicatari cui sono indirizzate le “Epistulae” sono citati.

E forse, i “Tristia” hanno anche un’organizzazione più definita: nel I libro è contenuto il doloroso distacco da Roma; il II è costituito da un’elegia sola, di 600 versi, diretta ad Augusto, a discolpa del famigerato “carmen” e per invocare almeno un luogo di relegazione meno triste e lontano; gli altri 3 libri trattano dell’innominato “error”, e non sono indirizzati direttamente ad Augusto, bensì destinati al pubblico romano (col già accennato accorgimento dell’anonimato), per creare nell’aristocrazia senatoria una corrente favorevole al proprio ritorno.

Per il resto, i contenuti delle due opere sono sostanzialmente identici, se non monotoni: la solitudine e i lamenti dell’esule; la desolazione che lo circonda; il rimpianto di Roma e della vita mondana, rimpianto che, rinnovato, non fa che acuire lo strazio; l’adulazione, spesso insistente, nei confronti del principe nella speranza, inutile, che possa finalmente richiamarlo da una terra lontana quanto barbara, ove la vita è sempre ugualmente grigia e le giornate interminabili.

Certo, sono elegie, queste dell’esilio, disuguali, che troppo spesso ripiegano su stanchi luoghi comuni. Eppure, lo stesso O. era conscio dei difetti di questi suoi componimenti: in un passo toccante, invita il lettore a volerli comprendere e giustificare, considerando le circostanze che ne avevano accompagnato la composizione: solo per un conforto egli si dedica alla poesia, fidando nel suo potere consolatorio, e non per trarne gloria. Nella lontananza da Roma (indimenticabile ne è l’addio in trist. 3, 12), separato ormai da quella società e da quel pubblico cui l’aveva legato un rapporto simbiotico di gioia e vitalità, O. scopre l’essenzialità del dolore, mentre la sua stessa esperienza umana e poetica si scarnifica nella solitudine e nella nostalgia: l’espressione poetica accompagna, cioè, questo processo di scavo interiore che, col tempo, si fa sempre più asciutto e sconsolato.

Ridotto ormai – poeta che aveva scandagliato in ogni senso l’intimo delle sue eroine – a scavare entro se stesso, O. ci ha lasciato, con la X elegia del IV libro dei Tristia, prima di morire, una confessione che è anche bilancio di tutta una vita e di un’eccezionale esperienza artistica.

*Altre opere. Al periodo dell’esilio risale pure il poemetto “Ibis”, in distici elegiaci, rivolto contro un ignoto avversario del poeta, che a lui augura ogni male, attingendo da esempi tratti dal mito e dalla storia. Il titolo, che allude a un uccello egiziano cui gli antichi attribuivano immondi costumi (si cibava di rettili e di rifiuti), riprende quello, identico, di un poemetto da Callimaco diretto contro Apollonio Rodio.

Possediamo, poi, un lungo frammento di 134 esametri di un poemetto sulla pesca e sui vari tipi di pesci, ricordato da Plinio il Vecchio col titolo di “Halieutica” (cioè “Piscatoria”): soprattutto per motivi metrici si dubita possa essere autentico.

E ancora, ci restano 5 esametri di un poema astronomico (“Phaenomena”) e 2 versi di una tragedia, “Medea”, che dovette avere enorme fortuna nel I sec. d.C.

Niente, invece, ci rimane di altre opere, come il poema epico “Gigantomachia”, composto in gioventù, un epitalamio per le nozze di Paolo Fabio Massimo, un carme in onore di Augusto, scritto addirittura in lingua getica, la lingua del luogo di “relegazione”.

Non possono essere attribuiti a O., infine, né il poemetto “Nux” (un albero di noce si lamenta delle sassate che riceve), né la “Consolatio ad Liviam”, composta in occasione della morte di Druso (9 a.C.).

Conclusioni.

O., vero poeta della Roma del suo tempo, <<realizza una sua [originale] letteratura dell’immaginario e del misteriosofico: non curò la pensosità filosofica di Lucrezio, giacché, a proposito delle origini del mondo, si rivela un “superficiale” narratore di miti; non l’innovativa sensibilità di Catullo; non la rappresentazione dell’arcano di Virgilio e di Tibullo; non infine la sana ironia di Orazio. O. compie il miracolo dell’affabulazione e rappresenta le cose in divenire, le persone nel mistero dei sentimenti: fu sempre poeta pronto a replicare con la sua grande teoria della icasticità immaginaria.

Sono caratteristiche [invece] in lui la prontezza del verso, la fluidità e il ritmo della metrica, le riflessioni gnomiche, le ridondanze di espressione, il gioco delle figure e dei colori, il modo retorico che raffina la mancanza della lima. E’ O., infine, a dare la definitiva sistemazione al distico elegiaco, venuto a perfezione attraverso l’opera dei suoi predecessori, soprattutto Tibullo.>> [G. Fiordelisi]

Tito Livio

— Padova, 59 a. C. – 17 d. C. —

Vita.

Un provinciale che cantò la gloria e il declino di Roma. La vicenda biografica di L. si situa nella fase acuta della crisi che porta al cambiamento politico ed istituzionale: la lunga fase delle guerre civili, il secondo triumvirato e l’ascesa di Augusto. Eppure – pur provenendo da nobile famiglia – lo storico non partecipò alla vita pubblica: tuttavia, venuto a Roma, si guadagnò notevole prestigio, divenendo amico di Augusto e poi precettore di Claudio, di cui intese ed assecondò la propensione alla storiografia. I suoi interessi si rivolsero dapprima alla filosofia, ma ben presto (27-25 a.C.) si concentrarono interamente sulla sua opera storica.

Opera.

L. compose qualche dialogo filosofico e una monumentale opera storica in 142 libri (ma forse il piano originario doveva comprenderne 150): “Ab Urbe condita libri” (“Libri dalla fondazione di Roma”, secondo la tradizione manoscritta, dallo stesso autore chiamati invece “annales” [con riferimento alla divisione interna del materiale anno per anno] o semplicemente “libri“), che prendeva appunto le mosse dalla fondazione di Roma fino al 9 a. C. o, forse, al 9 d. C., anno della morte di Druso, fratello di Tiberio, in una spedizione militare.

Il lavoro venne successivamente diviso per decadi (ovvero, per gruppi di 10: tale scansione forse rispettava le fasi di pubblicazione), delle quali sono a noi pervenute:

la I (dalla venuta di Enea alla III guerra sannitica, 293 a.C.);

la III (sulla II guerra punica, 218-200 a.C.);

la IV (fino alla morte di Filippo il Macedone, 179 a.C.);

la prima metà della V (fino al trionfo di Paolo Emilio sulla Macedonia, 167 a.C.).

Ossia in tutto 35 libri. In verità, pare che L. abbia seguito vari criteri, pubblicando “partes singulae tanti operis“, ora decadi appunto, ora pentadi, ora raggruppando i libri relativi a determinati eventi (ad es., “Belli civilis libri”) con singole prefazioni ed acconce intitolazioni o sottointitolazioni. E ciò spiega anche qualche inevitabile contraddizione o incertezza e ripetizione. A tutta l’opera fu poi premessa una “praefatio” generale, che ne illustra le idee ed i caratteri fondamentali.

Il contenuto dei libri perduti è, infine, noto attraverso brevi estratti (“epitomae“) e riassunti (le “Perìochae”) e commenti (fra cui quello di Floro), che all’opera stessa ben presto seguirono.

Considerazioni.

Tra storia, oratoria e poesia. La narrazione di L., non priva di difetti dal punto di vista storiografico, si raccomanda per il vivo senso drammatico e per il colorito poetico (e il piacere della lettura pare davvero essere l’obiettivo primario): egli, in effetti, sembra realizzare in sé, abbastanza esattamente, quell’equilibrio fra scienza e retorica che costituisce il vero ideale dell’epoca augustea: preoccupazione, persino passione della verità, ma anche desiderio di comporre opere in grado di competere, in quanto a bellezza, con i prodotti della poesia e dell’arte.

L’opera, tesa a glorificare la “virtus” romana e l’ideale della “pax augusta“, attraverso il punto di vista di un nostalgico degl’ideali repubblicani (solo il grande passato di Roma indica per lui la via a chi intendesse rinnovare i fasti dell’Urbe), si presenta invero, più che come un’opera storica in senso stretto, piuttosto come un grande poema epico – a sfondo morale – in prosa (sostanzialmente non differente dalla commossa epopea virgiliana), in quanto concede largo spazio agli elementi appunto epici, come l’eroismo, la volontà degli dei, la missione di Roma, a scapito – spesso – dell’esame puntuale dei fatti.

L’amore e la celebrazione per Roma. Ciò non vuol dire che L. non fosse uno storico fondamentalmente “onesto”, e tanto meno – almeno per quanto già detto – che svolgesse una propaganda di sostegno acritico al regime augusteo: anzi, se con esso vi erano punti di contatto (ad es., nel culto della “res publica“), L. se ne allontanava decisamente rispetto all’ideologia “carismatica” e assolutistica (lo stesso Augusto gli rimproverava, amichevolmente, di essere rimasto, in fondo al cuore, un “partigiano di Pompeo”). In effetti, dapprima restìo, col tempo lo storico si “piegò” ad Augusto, quando s’accorse che l’impero era, ad ogni modo, quasi una necessità, e che il principe cercava di temperare il suo governo dittatoriale con qualche concessione improntata a princìpi repubblicani: così, nonostante tutto, l’impero viene storicamente “giustificato”, come frutto della cooperazione tra la “fortuna” provvidenziale e appunto la “virtus” del popolo romano, e la stessa crisi attuale – pur riconosciuta, suo malgrado, come “epocale” e non episodica (da cui il tono di amara malinconia che spesso traspare dal racconto) – non viene astratta dal quadro generale della storia di Roma.

Insomma, ciò che dà vita all’opera di L. è, più che una fede politica, un patriottismo profondo, un amore dappertutto sensibile per Roma. Sotto questo riguardo, egli è uno degli scrittori che più efficacemente hanno contribuito a diffondere e a far accettare, nelle province di lingua latina, un’immagine “romana” di Roma, esaltante e, per ciò stesso, unificante.

Le fonti. Inoltre, appare quantomeno superfluo attardarsi a sottolinearne i difetti metodologici e scientifici dell’opera: innanzitutto, l’acriticità nell’uso delle fonti (ci si è dilettati, in altri tempi, a cercare quale fosse la fonte di questo o quel libro, che si presumeva unica), dagli annalisti romani a Polibio (come lui, il nostro è, si potrebbe dire, un “filosofo della storia”). Ma L. non è, fondamentalmente, un erudito, ed impiega fonti già letterarie, e non “documenti grezzi”.

Comunque, le fonti di un’opera così immensa dovettero essere necessariamente numerosissime; gli studiosi son soliti distinguere: a) le fonti storiche latine, quali le “Origines” di Catone e le opere degli annalisti, che l’autore aveva sempre lo scrupolo di citare; b) le fonti storiche greche, quali le opere di Polibio e di Posidonio d’Apamea; c) le fonti letterarie, quali le opere poetiche (poemi epici e “fabulae praetextae“) di Nevio, di Ennio e di altri poeti, e gli scritti eruditi di Varrone Reatino; d) le fonti orali, ossia le tradizioni sia popolari che colte, a cui è da aggiungere anche qualche indagine antiquaria personale.

La struttura. Egli, in effetti, riprende la struttura annalistica, e tratta ogni anno in maniera sinottica, dilatando l’ampiezza della narrazione man mano che si avvicinava all’epoca contemporanea, secondo le aspettative dei lettori. Il piano della sua narrazione è sì impostato sull’ordine cronologico, ma egli seppe introdurre, in quello che poteva risultare un andamento monotono, varie parentesi drammatiche, episodi che formano quadri naturali.

Il filo narrativo è spesso interrotto da discorsi, ed è difficile dire se sono un prodotto di pura fantasia o se trovano sostegno in qualche fonte documentaria più o meno fedele. Si può ipotizzare che la proporzione fra verità e invenzione varia secondo le date dei discorsi. Le opere più antiche, probabilmente, non si fondano su documenti davvero autentici, mentre è probabile che le orazioni più recenti, pronunciate da questo o quell’illustre personaggio del II o anche del III secolo a.C., fossero conservate più fedelmente. Lo stesso vale per gli avvenimenti. Il quadro dei primi secoli di Roma è più “restaurato”, ma è anche più semplice e, in una certa misura, più direttamente epico di quello riguardante la storia più vicina.

Lo stile. Infine, nella scrittura, L. si contrappone alla tendenza di Sallustio, avvicinandosi piuttosto allo stile vagheggiato da Cicerone per la storiografia: la “lactea ubertas” – come la definì Quintiliano – consisteva così in una prosa ampia, fluida e luminosa, senza artifici e restrizioni, di limpida chiarezza (“candor“). Un periodare, insomma, destinato alla lettura.

Ma L. sa conferire al proprio stile anche un’ammirevole duttilità e varietà: dal gusto arcaicizzante della I decade (dettato dalla vetustà degli eventi) ad una sempre maggiore coloritura poetica e drammatica del racconto, se non addirittura “tragica”, soprattutto nella descrizione dei personaggi (Lucrezia, Virginia, Sofonisba, Coriolano, Camillo, Fabio Massimo, Scipione…), e “impressionistica” nella presentazione degli avvenimenti, verso cui spesso L. tradisce sentimentale partecipazione.

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