4G La forza delle Dee

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Le credenze dell’antica Grecia portavano spesso a pensare che entità superiori intervenissero nel corso della vita degli uomini.

Le divinità che abitavano l’Olimpo, infatti, manipolavano le azioni umane per il raggiungimento dei loro fini.

In particolare le dee, animate dal desiderio di primeggiare e di essere venerate dagli uomini, non esitavano a punire coloro che intendevano sfidare la loro autorità, ma sapevano anche es­sere benevole con chi si dimostrava rispettoso nei loro confronti.

Anche Posidone, dio che possiede la Terra, si scontra con potenti dee, ed è sempre sconfitto da queste donne.

Ad esempio, quando la città di Atene si riunì per scegliere la divinità poliade tra Atena e Posi­done, poiché in Attica le donne, per volontà di Cecrope, sedevano in assemblea con gli uomini e avevano i loro stessi diritti politici, consacrarono la vittoria ad Atena, in quanto la parte fem­minile disponeva di un voto in più.

La sfida tra Atena e Posidone per i diritti sull’Attica riprende sotto il regno di Eritteo.

La città di Eleusi, capeggiata da Eumolpo, figlio di Posidone, sotto consiglio di quest’ultimo muove guerra ad Atene, difesa da Eritteo.

Gli ateniesi decidono di consultare l’oracolo di Delfi per sapere come assicurarsi la vittoria, e così comprendono che è necessario il sacrificio di una delle figlie di Eritteo.

Questi torna dalla moglie Prassitea, sicuro che la donna si ribellerà alla terribile ingiunzione dell’oracolo, ma sottovaluta la forza dell’amore di una madre che per il bene della città sa ver­sare il sangue della sua stessa carne.

Forte del sacrificio offerto agli dei, Eritteo uccide Eumolpo, causando la disfatta di Eleusi.

Posidone, adirato per la morte del figlio, uccide Eritteo, facendolo precipitare in una crepa da lui stesso causata nella rocca dell’Acropoli.

Atena nomina allora Prassitea, unica sopravvissuta della sua famiglia, sacerdotessa del suo culto poliate: ella è l’esecutrice della volontà della dea.

Il vero eroe di questa tragedia è la stessa Prassitea, è un’esecutrice della giustizia, è lei che prende le decisioni nel momento in cui bisogna agire, è completamente opposta ad Eritteo, il quale è interamente travolto dal destino.

Atena, nata dalla testa di Zeus, è una donna che non si connota esclusivamente per la sua bellezza o per il suo ruolo di generatrice, ma per virtù quali la saggezza e la forza, che delinea­no una nuova figura femminile.

Dea della saggezza e della guerra, rivolta ad instaurare i valori della giustizia, improntò sem­pre le sue azioni, anche le più audaci, ad un senso di cauta riflessione; tuttavia, quando si ve­deva offesa nelle sue virtù, conosceva bruschi impeti d’ira.

La dea eccelleva nelle opere squisitamente femminili.

Molto infatti si vantava della propria abilità nel filare la lana, nel tessere e nel ricamare stoffe, al punto da ritenere che nessuno potesse eguagliarla.

C’era però in Lidia una fanciulla di nome Aracne che, espertissima del ricamo, andava dicendo in giro che avrebbe sfidato la stessa Pallade.

La dea furiosa, sotto le spoglie di una rugosa vecchietta, si recò dalla fanciulla e tentò di dis­suaderla dal suo provocatorio atteggiamento.

Ma in nessun modo Aracne, fiduciosa nei suoi mezzi, depose la sua arroganza; allora la dea le si rivelò e le propose una gara.

Pallade ricamò sulla tela lo splendore dell’Olimpo e la divina maestà degli dei, la fanciulla inve­ce rappresentò nel suo ricamo le avventure amorose di Zeus.

La bellezza del lavoro di Aracne era pari a quello della dea, che non poté non ammirarlo, ma non riuscì nello stesso tempo a sottrarsi ad un impeto di collera, per cui, adirata per tanta inso­lenza, distrusse la tela ed i fusi della fanciulla e trasformò questa in ragno, condannandola con ciò a tessere per sempre una tela dai fili sottilissimi, la cui trama a malapena si scorge.

Racconta Ovidio nelle Metamorfosi: ” … Atena …  poscia partendo la spruzza con sughi di magiche erbette: subito il crine toccato dal medicamento funesto cadde e col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce: l’esili dita s’attaccano, invece dei piedi, nei fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse la tela di un tempo” .

Un’altra dea che non esitava ad affermare la propria autorità è Hera.

In quanto sposa di Zeus, divenne di diritto la regina di tutti gli dei, signora dell’Olimpo, madre di tutti i mortali.

Espressione della moglie modello, la divina signora era casta e fedele, ma nello stesso tempo gelosa e ostinata.

“…dei venti favorevoli, per tornare a vedere moglie e figli, dopo dieci anni, i Greci che invasero questa terra. Quanto a me, devo cedere innanzi a Hera argiva e ad Atena, che di tutto fecero pur di sconfiggere i frigi, e abbandonare la regale Ilio e i miei altari.” (Euripide, Troadi, vv. 15-25)

Ritenendo a buon diritto di essere la più potente e la più maestosa fra le dee, rifiutandosi di es­sere screditata dagli ingegni e dalle infedeltà di Zeus, spesso scendeva sulla terra per punire le Ninfe che avevano suscitato l’interesse di Zeus.

Così accadde nei confronti di Io, come pure di un’altra ninfa, Eco.

Costei suscitò la gelosia della dea che non esitò a mostrare la sua potenza punendola: la con­dannò a ripetere in eterno le ultime parole che udiva.

In un’altra occasione scatenò la sua tremenda ira contro Endimione, un bellissimo pastore fi­glio di Zeus e di Calice, che aveva offeso la sua divina maestà: la dea lo abbandonò ad un sonno eterno in una grotta del monte Latino.

Come capitava alle altre dee, anche Afrodite era spietata nel colpire coloro che le rifiutavano ossequio; come accadde ad Ippolito.

“… quanti abitano entro il Ponto e i limiti di Atlante e vedono la luce del sole, quelli che rispet­tano il mio potere io (li) proteggo, mentre quelli che sono superbi verso di noi io (li) rovino” (Eu­ripide, Ippolito, vv.3-6)

A Trezene, nella casa di Pitteo, viveva il giovane Ippolito, figlio di prime nozze di Teseo.

Questi trascorreva le sue giornate cacciando, dedito al solo culto della casta Artemide, colti­vando nel cuore una sorta di ostilità nei confronti dell’amore e delle donne. Afrodite si sentì of­fesa da quest’atteggiamento e decise di punirlo: la dea instillò una potente passione d’amore nell’animo di Fedra, la giovane sposa di Teseo e matrigna di Ippolito.

La regina, non potendo soddisfare la passione che la divorava, si ammalò.

Solo alla nutrice, in un attimo di debolezza confessò la sua disgrazia.

La donna allora, cercando di aiutarla, diede avvio a molte sciagure.

Avvicinò infatti Ippolito e lo mise al corrente di ciò che la sua signora sentiva per lui.

Veemente fu la reazione dell’aspro e acerbo giovane, che per Fedra, e per tutte le donne, sep­pe trovare solo parole di profondo disprezzo.

Furioso, Ippolito abbandonò la reggia.

Troppo grande fu per Fedra l’oltraggio, si suicidò, non prima però di aver lasciato uno scritto in cui accusava Ippolito di averle usato violenza.

Mentre avvenivano questi fatti, Teseo tornava dopo una lunga assenza. Dinanzi alla schiac­ciante prova di questo scritto non prestò fede alle dichiarazioni di innocenza del figlio ma lo maledisse e lo esiliò con un bando da Trezene.

Subito la maledizione si avverò: Ippolito venne travolto dai cavalli del suo cocchio, atterriti dall’apparizione di un mostro che Posidone aveva fatto sorgere dal mare.

Il giovane straziato venne portato dinanzi al padre, e prima che morisse la stessa dea Artemi­de venne a proclamare la sua innocenza. Ippolito spirò sereno e finalmente la vanità di Afrodi­te fu soddisfatta.

Afrodite, dea della bellezza e dell’amore, nata dalla spuma del mare, approdò sul guscio di una conchiglia sull’isola di Cipro, in cui si diffuse molto il suo culto.

Venerata in particolar modo per la sua bellezza, è tuttavia molto astuta, proprio contando sulla sua qualità caratterizzante riesce a piegare gli uomini al proprio volere.

All’apparire di Afrodite, nel cuore degli esseri umani si scatenavano tumultuosi e fervidi impeti d’amore, che non si smorzavano nemmeno dinanzi ai rischi e ai pericoli: il troiano Paride si in­vaghì di Elena e non la riconsegnò agli Achei se non dopo che la sua patria fu distrutta; Dido­ne, regina di Cartagine, vistasi abbandonata da Enea, presa da una follia amorosa si suicidò.

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Al contrario di Afrodite, Artemide chiese al padre Zeus di concederle una vita libera da ogni passione, lontana da ogni legame sentimentale.

L’unico amore che doveva esserle riservato, desiderio profondo ed irrinunciabile, era quello verso la natura, che si esprimeva nelle lunghe scorribande notturne, dedicate alla caccia, nelle selve silenziose, ma ricche di vita, celata allo sguardo altrui.

Uniche sue compagne inseparabili le Ninfe che, come lei, erano votate ad una vita casta, di semplici costumi, vergini bellissime armate di arco e saette, così come la stessa Artemide, che queste armi recava sempre con sé, prezioso dono dell’arte dei Ciclopi.

Zeus permise che la fanciulla, dea dolce e tenera, ma volitiva, sicura di sé e di animo indipen­dente, conducesse la sua vita secondo i propri desideri.

Artemide sapeva però al tempo stesso punire le ninfe in modo inflessibile, se si sottraevano alle regole da lei stessa imposte.

In particolare era attenta al fatto che nessuna di esse venisse meno al giuramento di castità, o che comunque indulgesse ad un atteggiamento frivolo.

Si racconta infatti della Ninfa Callisto che non seppe opporsi al fascino di Zeus.

Accondiscese la fanciulla ai desideri del re degli dei, da cui ebbe il figlio Arcas.

Artemide, con la compiacenza di Hera, trasformò la ninfa in orsa, poi si diede ad una caccia mortale, la scovò e la uccise.

Zeus, impietositosi, l’assunse in cielo sotto forma di costellazione, con il nome appunto di Orsa.

Il poeta latino Ovidio, raccogliendo antiche tradizioni, espone in versi la spietata vendetta che Artemide trasse nei confronti di una fanciulla, la bellissima Chione.

Costei osò menare vanto dinanzi ad Artemide di essere più bella di lei e di annoverare tra i suoi pretendenti addirittura Hermes e Febo.

La dea, scossa da un moto di sdegno, volle punire in modo esemplare la sfacciata fanciulla.

Le vibrò contro un dardo che le trapassò la lingua e la gola, lasciandola morire in un confuso gorgoglio di sangue che a fiotti ella vomitava dalla tremenda ferita.

Identica determinazione mostrò Artemide nei confronti di Atteone.

Questo giovane, prode guerriero e cacciatore, mentre errava tra i boschi, malauguratamente si imbatté nella dea nel momento in cui questa stava nuda per immergersi in una fonte.

Osò guardarla. Si soffusero di rossore le guance della vergine, e per pudore e per sdegno.

Artemide non perdonò l’incauto. Lo trasformò prima in cervo e poi gli aizzò contro i suoi cani, che fecero scempio delle carni di lui.

E la dea assisteva muta, immobile, sorda agli strazianti bramiti dell’animale, che moriva orren­damente dilaniato.

“Artemide attinse l’acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all’uomo, inzuppandogli i ca­pelli con quel diluvio di vendetta, e a predire l’imminente sventura, aggiunse: «Ed ora racconta d’avermi vista senza veli, se sei in grado di farlo!». Senza altre minacce, sul suo capo goccio­lante impose corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli in­fuse in più la timidezza. Via fuggì l’eroe, figlio di Autònoe, e mentre fuggiva si stupì d’essere così veloce. Quando poi vide in uno specchio d’acqua il proprio aspetto con le corna, «Povero me!» stava per dire: nemmeno un fil di voce gli uscì. Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase […] lo avvista­rono i cani. Melampo e Icnòbate, quel gran segugio, per primi con un latrato diedero il segnale (Icnòbate di ceppo cretese, Melampo di razza spartana). Poi di corsa, più veloci di un turbine, si avventarono gli altri … quei cani da ogni parte l’attorniano e, affondando le zanne nel corpo, sbranano il loro padrone sotto il simulacro di un cervo: e si dice che l’ira della bellicosa Diana non fu sazia, finché per le innumerevoli ferite non finì la sua vita.” (Ovidio, Metamorfosi)

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Un altro esempio di vendetta di Artemide ci è dato dalla vicenda di Niobe, figlia di Tantalo, che, fiera dei suoi figli, si insuperbì a tal punto da affermare che la sua prole era degna di ammira­zione più dei figli di Letò: Artemide e Febo.

Letò affidò ai suoi figli il piacere della vendetta. Niobe annichilita dal dolore, stette in lacrime tra i cadaveri dei suoi figli, lasciati insepolti per nove giorni, perché gli dei avevano pietrificato i Te­bani per non consentire loro di dare ai morti gli onori funebri.

Alla fine Zeus ne ebbe pietà. Consentì che i corpi fossero seppelliti e trasformò la donna in rupe, sul monte Sipilo: ancora oggi, al soffio del vento, quella roccia geme e stilla lacrime.

Altrettanto decisa troviamo la dea quando si trattò di punire le empietà di coloro che avevano trascurato il suo culto, come capitò nei confronti di Oeneo, re di Calidone.

Sulle terre di questo re, che aveva omesso di offrirle primizie, la dea scatenò la ferocia di un grosso cinghiale e tale flagello durò fino a quando il coraggio dell’eroe Meleagro non ebbe ra­gione della fiera.

Di Admeto, invece, che pure si era macchiato della stessa colpa, la dea si vendicò terrorizzan­dolo: gli fece trovare accanto nel letto un groviglio di serpi striscianti.

Durante l’ansiosa ricerca della figlia, anche Demetra ebbe l’occasione di punire l’irriverenza di alcuni e di premiare la devozione di altri.

Il re degli Inferi Ades voleva prendere in moglie Core, figlia di Demetra.

Zeus allora gli consigliò di rapirla, poiché la fanciulla difficilmente avrebbe acconsentito alle nozze con la prospettiva di trascorrere il resto dei suoi giorni nel regno dei morti.

Così Ades, mentre la fanciulla era intenta a raccogliere fiori, improvvisamente uscì da una fen­ditura nel terreno e la condusse con la forza con sé.

Demetra, non vedendo tornare la figlia, si pose disperata alla sua ricerca. Per nove giorni la dea, senza mai concedersi alcun ristoro, andò errando sulla terra, finché il suo pianto non commosse il re degli dei, che le rivelò l’accaduto.

Cercò di tranquillizzarla, giustificando tutto quanto era avvenuto con la straordinaria forza d’amore che aveva travolto Ades.

La terribile notizia esacerbò maggiormente l’afflizione di Demetra. Irritata contro Zeus che ave­va disposto di sua figlia senza nemmeno interpellarla, non volle tornare più sull’Olimpo e ab­bandonò il suo solito aspetto di dea, assumendo le sembianze di una vecchia decrepita, si co­prì di cenci e riprese a percorrere villaggi e campagne, senza meta, come una mendicante va­gabonda, sperando di consumare il suo dolore a furia di stenti e privazioni.

Giunta ad Eleusi, esausta, fu accolta dal re Celeo e per manifestare la sua riconoscenza predi­lesse il figlio di costui Trittolemo al quale insegnò tutti i segreti dell’aratura e della semina.

E’ a lui infatti che si attribuisce la diffusione nel mondo dell’agricoltura e della civiltà che ad essa è connessa. Trittolemo divenne il primo sacerdote di Demetra, in onore alla quale istituì ad Eleusi sacri riti e solenni feste.

Demetra, una volta istituito il suo culto, lasciò Eleusi per riprendere il proprio vagabondaggio.

Ma il suo cuore non era mutato, e il suo pensiero era sempre fisso alla sua Core, al modo di riaverla con sé, alla vendetta che voleva prendere contro Zeus.

Il mezzo per ottenere queste due cose tanto agognate era tuttavia nelle sue mani, e Demetra lo mise in opera: siccome ella era la dea dell’agricoltura, con un solo gesto della sua mano di­vina rese infruttuosa la terra, per un anno intero non si raccolse più né un filo d’erba né alcun prodotto della Terra.

La razza degli uomini era destinata a morire di fame e a scomparire dalla faccia del mondo.

“…con mano spietata spezzò gli aratri che rivoltano le zolle, furibonda condannò a morte uomi­ni e buoi insieme, e impose ai seminati di tradire le speranze in essi riposte avvelenando le se­menti. La fertilità di quella regione, decantata in tutto il mondo, è smentita e distrutta: le messi muoiono già in germoglio, guastandosi per troppo sole o troppa pioggia; stelle e venti le rovi­nano, con avidità gli uccelli ne beccano nei solchi i semi; loglio, rovi e inestirpabile gramigna soffocano il suo frumento.” (Ovidio, Metamorfosi)

Zeus se ne preoccupò e mandò Iris, la messaggera divina, a placare la sua ira; ma Demetra non si placò e restò sorda alle suppliche insistenti che Iris le rivolse a nome del re degli dei. Fu Zeus che dovette scendere a patti.

Fu inviato l’astuto Hermes ad Ades per ottenere che Core tornasse a rivedere la luce del sole. Il malinconico dio dell’Averno accondiscese, purché poi sua moglie potesse tornare a lui.

Si decise allora che Core per sei mesi avrebbe dimorato nel regno dei morti, assumendo il nome di Persefone, e per altri sei mesi, invece, sarebbe stata accanto alla madre col nome di Core.

E’ evidente che il ritorno di Persefone alla luce rappresenta il gioioso risveglio della natura a primavera.

Dalle varie vicende qui narrate emerge un nuovo tipo di donna: una donna del tutto moderna che entra nell’ambito delle competenze dell’uomo e in alcuni casi gli si sostituisce egregiamen­te; basti pensare ad Atena guerriera o ad Hera che sfida Zeus concependo una figlia senza il suo intervento quando lo scoprì incinto alla testa di Atena.

Queste donne sono anche capaci di intervenire nei disegni divini: consapevoli del proprio pote­re, rifiutano di accettare passivamente ogni decisione presa dal re degli dei.

Vi sono poi tre donne, le Moire, figlie di Zeus e Temi, dee del Fato: Cloto, Lachesi, Atropo. Persino il signore dell’Olimpo, che pure le ha generate, non può sfuggire al loro volere.

Sia nei confronti delle altre divinità, sia nei confronti degli uomini le dee sono capaci di provare odio, amore, rabbia, sentimenti di vendetta; tutte le passioni che infiammano i loro animi risul­tano essere mortali, più che divine: molte di loro erano quasi del tutto umane, eccetto che per nascita.

L’insediamento di Zeus come dio padre al di sopra di tutti gli altri dei rappresenta sì la vittoria del principio della famiglia patriarcale, però questo principio viene intaccato dalla potenza delle divinità femminili, un’eredità della società matriarcale che precedette l’avvento del matrimonio.

4G La forza delle Deeultima modifica: 2022-01-11T13:08:10+01:00da masaniello455