Napoli rinascimentale
Anche Napoli ebbe il suo Rinascimento, non così splendido e magnifico, forse, come sbocciò e fiorì in tante altre città d’Italia, perché a Napoli mancarono i grandi tiranni mecenati dell’arte, della poesia, della scienza, che ebbero, invece, Roma, Firenze, Ferrara e molte altre città italiane, e mancarono, anche, quelle condizioni di tranquillità politica, che sono indispensabili alla civiltà umana, per iniziare e compiere ogni nuovo ciclo di progresso storico, materiale e spirituale.
Ma il Rinascimento passò, come una ventata fresca di primavera, anche nella nostra città a rinnovarvi uomini e cose. Il segno, anzi, il simbolo più significativo che ne rimanga a Napoli, è l’arco di trionfo, che il genio del Laurana elevò fra le torri frontali del Maschio angioino, in occasione dell’ingresso solenne di Alfonso d’Aragona in città. Questo re incarnò a Napoli lo spirito del Rinascimento; e pur fra le tempeste politiche e le insidie militari, che dovè affrontare e superare, durante il suo regno, trovò tempo e modo di accrescere la bellezza e il decorso della sua capitale e di influire sull’ingentilimento dei costumi e del vivere civile dei napoletani. Egli convocò i più famosi architetti, pittori e scultori di Italia, da Firenze, da Milano, da Bologna, finanche dalla Spagna; si circondò di umanisti nostri e stranieri, di poeti, di filosofi, di storici, di scienziati, in modo che la sua Corte non era per nulla inferiore a quelle dei più rinomati principi mecenati del Rinascimento italiano, sfolgorante di lusso e di buon gusto, mentre la sua capitale si ampliava e si abbelliva, a vista d’occhio, di edifici e di monumenti insigni.
Chi considera quel periodo torbido di lotte, politiche e militari, di anarchia, di atti briganteschi, di miseria, che fu il regno di Giovanna II, ultima dei durazzeschi, non può non essere preso da stupore per il rapido mutamento della situazione napoletana, dopo l’avvento al trono di Alfonso d’Aragona. Fu una vera, prodigiosa rinascita. Ma procediamo con ordine.
Grande sovrano della dinastia aragonese, succeduta a quella angioiana, fu Alfonso il Magnanimo che incarnò il principe rinascimentale arricchendo Napoli con iniziative culturali e diffondendo il gusto dell’arte.
Raffinatezza ed eleganza rinascimentale Alfonso dimostrò anche nelle feste sacre e profane, nelle giostre, nelle rappresentazioni teatrali. Basta ricordar le feste da lui date per la visita dell’imperatore di Germania Federico III e della moglie Eleonora di Portogallo (1452), che, per dieci giorni consecutivi, mandarono in visibilio i napoletani. Non sappiamo se tutto quanto è stato narrato di esse sia vero.
Le botteghe ricevettero ordine di consegnare agli ospiti del seguito ogni cosa da essi richiesta, sul conto del re. Agli Astroni ci fu una caccia e i cavalli dei sovrani e dei gentiluomini di Corte vennero nutriti di confetti, non di fieno e biade. Fu costruito un padiglione, vasto quanto un palazzo, per i banchetti, serviti in vasellame d’oro e d’argento di ingente valore. Le fontane, come nella favolosa età dell’oro, versavano, per dieci ore al giorno, non nettare, ma vini pregiati, ai quali poteva bere a garganella chi avesse voluto.
L’ultimo re della dinastia aragonese fu Federico. Dopo molte e travagliate vicende si chiudeva con lui il regno nazionale di Napoli. Da questo momento la città è sede di un viceregno spagnuolo.
Il Viceregno spagnuolo
Con la dominazione degli spagnoli, Napoli tocca il punto più basso della sua parabola politica e morale, anche se – come osserva Benedetto Croce, col solito acume di geniale critico della storia — non tutti i mali di Napoli e dei napoletani sono derivati da essi. Ma un fatto è certo: che tra il 500 e il 600 si operò nei napoletani una profonda trasformazione sia esteriore, fisica, che interiore, morale.
Prima essi erano ben diversi, da come divennero durante il governo vice-regnale spagnuolo e da come sono oggi; e, a quel tempo, la città cominciò pure a foggiarsi, attraverso demolizioni, trasformazioni, abbellimenti, ampliamenti e anche deformazioni, quell’aspetto che non si è più sostanzialmente alterato nonostante le costruzioni dell’età borbonica e di quella moderna e contemporanea, che ne ha enormemente dilatato le dimensioni e le proporzioni, in superficie e in popolazione. Nel 600, la società napoletana — come educazione civile, costumi, formazione morale, forma mentale – non è più quella del glorioso Ducato o del Regno indipendente.
Un guizzo dell’antica fierezza lo vediamo ancora sprizzare nell’irriducibile avversione del popolo napoletano contro l’inquisizione, ma già la sommossa di Masaniello, col suo caratteristico svolgimento farsesco, mossa soltanto da motivi economici, ci dimostra come nessun bisogno sentito di partecipazione attiva alla vita della città e dello Stato, nessun ideale etico-politico, nessuna aspirazione all’indipendenza e nemmeno alla elevazione sociale entravano più nei propositi e nei finì della sua azione.
A stretto contatto con le soldatesche spagnole, la plebe napoletana, agglomeratasi nelle zone alte di via Toledo, dette ancora oggi, i Quartieri, appunto perché vi si accasermarono le truppe del dominatore, contrasse tutti i difetti e i vizi caratteristici degli spagnoli: il turpiloquio, l’arte della menzogna e dell’inganno, la millanteria, il gusto di sembrare senza essere, l’ipocrisia e la superstizione religiosa, l’altezzosità nella miseria, la vanagloria stupida, l’aggressione proditoria a scopo di rapina o di vendetta.
Non è azzardato riscontrare in quell’ambiente guasto le origini della camorra tristemente famosa. Coi vizi, la degenerazione fisica, oltre quella morale. Spesso, per le strade, i passanti s’imbattevano in cadaveri pugnalati alle spalle, le più volte di soldati spagnuoli; ed era estremamente pericoloso azzardarsi, di notte, nel dedalo di vicoli di certi rioni malfamati, regno della malavita, la quale giunse a tal punto di temerità nei delitti, che don Pedro di Toledo e il marchese del Carpio ci si misero di punta a reprimerla, ma senza risultati veramente positivi.
Né migliore è il quadro che la storia ci presenta della nobiltà napoletana sotto la Spagna. Spento, in essa, ogni ardore di indipendenza e ogni ambizione di potere si era ridotta a vivere prona davanti allo straniero, e, quel che è peggio, si era attaccata fedelmente alla monarchia spagnuola, non certo per devozione ma per egoistico interesse. Aristocrazia feudale ed eletti dei Seggi tutti eseguivano con zelo indecoroso la volontà del dominatore, cercando di trar-ne il maggior profitto, in privilegi e in cariche remunerative, spingendo il loro aperto favoreggiamento per gli spagnuoli sino a persuadere il popolo a starsene tranquillo, se mai avesse avuto qualche tentazione di sommossa. Si finì, così, in una vera e propria gara fra i nobili a chi si rendesse più utile allo straniero; e quelli, fra essi, che venivano meglio compensati, destavano la gelosia degli altri, che, spesso, degenerava in discordia. E questo, come sempre – – secondo la norma romana del « divide et impera » – giovava agli spagnuoli, che avevano le mani nel governo viceregnale, molti dei quali, alti ufficiali dell’esercito, funzionari dell’amministrazione statale, finanche alcuni viceré, giunti a Napoli poveri in canna, o ricchi decaduti e indebitati fino al collo, contrassero vantaggiosi matrimoni con donne dell’aristocrazia napoletana, sicché si stabilì una vera e propria alleanza fra questa e il Vicereame spagnuolo. Ciò acuì l’odio del popolo contro i nobili; e, a pescare nel torbido, ci si mise la classe media, nella lusinga di attrarre a sé la plebe, staccandola definitivamente dall’aristocrazia. Ma se questa era odiata, perché rappresentava l’estremo della ricchezza, la classe privilegiata, che, pur essendo minoranze, comandava, il popolo, espressione di estrema miseria, diffidava anche del ceto medio, che, pur di origine plebea, rappresentava il ceto degli avvocati e degli appaltatori delle gabelle, che esso aborriva, per ovvii motivi, in modo tutto particolare. Il dominio del popolo sfuggiva, pertanto, sia ai nobili che alla classe media. E ne profittava l’astuta politica spagnuola, che si reggeva barcamenandosi fra i tre ordini cittadini: ora blandiva la nobiltà contro i due ceti inferiori; ora favoriva lo scatenarsi degli istinti e delle passioni popolari; ora dimostrava di voler riconoscere il valore del ceto medio, donde traeva quegli zelantissimi appaltatori ed agenti delle gabelle e delle imposte, che, per un regime di spoliazioni fiscali come quello spagnuolo, il più esoso fra tutti, voleva dire sfruttare fino all’osso le risorse eco-nomiche dei popoli soggetti, a vantaggio, onore e gloria dell’erario di Sua Maestà il re cattolico. Facendo il punto della ingordigia spagnuola, Traiano Boccalini ha scritto: « Ogni vil soldato spagnuolo, che arriva a Napoli ignudo, se ne parte vestito di seta e d’oro ». Figuriamoci, da questo, come se ne partivano i capitani!
La povertà di vita spirituale, la carenza di un ideale politico e di una coscienza nazionale, che caratterizzano l’epoca spagnuola a Napoli, si riscontra, del resto, nella letteratura del tempo. La prima metà del ‘600 risente ancora dell’influsso rinascimentale, specie in materia religiosa, in cui c’è sentore di riforma, nella propaganda anticattolica di Juan de Valdès e sulla tenace opposizione napoletana all’introduzione dell’Inquisizione.
Ma è anche nel campo della poesia e della cultura varia, dalla quale è assente ogni interesse politico nazionale, che troviamo la conferma dell’indifferenza verso ogni forma di attività civile, in cui è caduto lo spirito dei napoletani. Si segue, infatti, l’andazzo umanistico del Pontano, dal quale non sa staccarsi neppure il genio poetico di lacopo Sannazaro, come non se ne staccano né Pietro Summonte, né altri, e al quale rimangono attaccati anche i poeti (o rimatori che si vogliano stimare) — eccetto, forse, Angelo Di Costanze, storico e poeta, in cui si avverte un qualche anelito di patria — e, con lui, il Rota, Luigi Tansillo, Galeazze di Tarsia, Vittoria Colonna, Isabella di Morrà. Formalismo, senza pensiero. Ma il pensiero, senza cura della forma, trionfa con l’avvento di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, i tre grandi filosofi meridionali, che, col loro genio, scuotono le fondamenta del vecchio mondo culturale, precorrendo Giovan Battista Vico, l’astro maggiore del pensiero napoletano, che coi « Principii di una scienza nuova » fa cadere tutto il castello sillogistico di Aristotele e ci dà la chiave per interpretare, in linguaggio moderno, la filologia e la storia delle civiltà universali. Allo stesso modo, un altro genio napoletano, Giambattista Della Porta, si scioglierà dalle formule magiche dell’astrologia per iniziare l’era della scienza.