1F ‘500, ‘600 e ‘700

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Napoli nel Cinquecento…

Con la prima metà del secolo XVI, comincia ad affermarsi, a Napoli, anche nel campo del­le arti figurative, l’opera di artisti locali, che, progressivamente si liberano dall’influenza di pittori e scultori romani, toscani e lombardi. Pri­mo, fra tutti, il pittore Andrea Sabatini (An­drea da Salerno), che rivela nei di­pinti una robusta grazia raffaelliana; e gli scultori Giovan­ni Mariliano, (Gio­vanni da Noia) Gerolamo Santacroce, Annibale Caccavello, i due D’Auria. Segue una nuova predominanza di ar­tisti stranieri: Giorgio Vasari, Leonar­do da Pistoia, Marco Pino da Siena, pittori; e Michelangelo Naccarino e Pie­tro Bernini, scultori. Solo sul finire del secolo, si ha una ripresa artistica napoletana, con caratteri di continuità e di originalità, specie in pittura. Quanto all’architettura, essa rimane vincolata a moduli di altre regioni italiane, e, an­che quando il barocco napoletano assu­merà una fisionomia pro­pria, risentirà ancora dell’influsso del bergamasco Cosimo Fanzago, che lasciò a Napoli pa­recchie sue pregevoli opere.

Anche la musica napoletana ebbe, nel ‘500, i primi indirizzi di scuola locale, nel Conserva­torio di S. Maria di Loreto e in quello dei Poveri di Gesù Cristo, istituito, nel 1589, dal frate francescano Marcello Fossataro.

Anche la città si allargò, per la cre­scita della popolazione, salita, ormai, ad oltre 262.000 anime, come risulta da un censimento del 1547. Fu necessaria, quindi, una nuova cerchia di mura, che, iniziata nel 1583 fu terminata nel 1587, per opera del viceré don Pedro de Toledo. La cinta andava da Porta S. Gennaro a S. Maria di Costantinopoli, per via Bellini e l’attuale Piazza Dante, lungo la collina dove ora c’è l’ospedale della Trinità, il Corso, donde proseguiva per S. Lucia a monte e S. Maria Apparente, scendendo, poi, a S. Caterina a Ghiaia (Porta di S. Spirito), salendo a Pizzofalcone e, di là, ridi­scendendo verso S. Lucia a Castelnuovo. Il capolavoro di don Pedro fu, però, via Toledo, aperta nel 1536, una delle più celebri e belle vie del mondo, che, tuttora, costituisce il centro più vitale e la gloria dei napoletani. Lo stesso vi­ceré provvide ad altre strade di colle­gamento, come l’Infrascata, del 1560, che portava all’Arenella e ad Antignano, allora villaggi, donde, attraverso amene campagne, si raggiungeva San­t’Elmo, che fu restaurato tra il 1537 e il 1549. Don Pedro si­stemò, inoltre, la viabilità del borgo di Ghiaia, dal pa­lazzo Cellammare fino al Largo Fer­rantina, dov’era la villa di Alfonso II d’Aragona, che, per un certo periodo, i viceré scelsero come loro residenza. Dal borgo, si proseguiva verso la chie­sa di Piedigrotta, sorta su un antico tempio e rifatta nel ‘500, intorno alla quale si celebrava ancora la più folclo­ristica di tutte le feste napoletane e si andava fino a Mergellina, ov’è la casa del Sannazaro, che fece costruire la chiesetta di Santa Maria del Parto – denominazione che ci fa ricordare il suo « De Partu Virginis » – in cui si trova la tomba del poeta.

Alcuni borghi rimasero fuori le mu­ra, come i Vergini, borgo Avvocata, S. Antonio abate e Loreto.

…nel Seicento…

Nel Seicento molte e originali furono le opere di architettura sorte in Napoli soprattutto per la genialità del Fanzago di cui ancora oggi ammiriamo S. Teresa a Ghiaia, S. Ferdinando, S. Maria degli Angeli alle Croci, S. Maria Egiziaca, la Certosa di S. Martino.

Ma più che l’architettura, fiorì la pittura. E’ noto che, nella Napoli sei-centesca, gli influssi della potente arte pittorica di Michelangelo Merisi da Caravaggio, creatore del luminismo italia­no, si fecero sentire su tutti gli artisti dell’epoca. Non passivamente, però. So­prattutto i pittori maggiori, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Mattia Preti, — che dipinse i fa­mosi pannelli della peste del 1656 per le porte della città — pur attingendo spunti e motivi alla grande arte caravaggesca, seppero infondere toni, movenze, espressioni nuove alle loro figurazioni; e così pure Massimo Stanzione, il Fracanzano, Salvator Rosa, che, inter­pretando il natu­ralismo e il colorismo congeniti ai napotani, precorsero quella transizione dal­la pittura del ‘600 a quella del 700, che si attua con Luca Giordano e con Francesco Solimena.

Nella seconda metà del Seicento, na­sce anche la musica nel senso tutto na­poletano di quest’arte. Si smette con le imitazioni veneziane e fiorentine; e il teatro di San Bartolomeo, costruito nel 1620, a gara con quello del Palazzo reale, diviene, a partire dal 1651, sotto il viceré d’Onate, il tempio del dramma musicale napoletano, ove si rappresentano le prime opere di Fran­cesco Provenzale e di Alessandro Scar­latti, iniziatori e precursori del nostro Ottocento musicale. I conservatori del­la città preparano le nuove generazioni di musici e di cantanti; e, insieme con essi, sorgono schiere di ballerini, di mi­mi, di scenografi, di vestiari­sti, di at­trezzisti, che, a poco a poco, acquistano fama di bravura in tutta Italia e al­l’Estero.

Insieme con le arti, si afferma a Na­poli la nuova cultura. La vita del pen­siero, che si era precedentemente asso­pita, si riaccende alla luce viva della filosofia di Cartesio e dell’illu­minismo di Hobbes, che relega in soffitta l’ari-stotelismo e il tomismo, e da inizio a quello che possiamo chiamare il nuovo corso della verità e della ricerca scien­tifica, con una serie di uomini geniali, quali Tomaso Cornelio, il Valletta, Leo­nardo di Capua, l’Ausilio ai quali spet­ta il vanto di avere spianato la via a Giovanbattista Vico. Né, per la verità storica, il nuovo pensiero fu imbava­gliato dal regime viceregnale spagnuo-lo: quantunque i sovrani di Spagna si atteggiassero a strenui difensori del cat­tolicesimo e si fregiassero con orgo­glio del titolo di re cattolici, pure, sotto sot­to, si guardavano sempre in cagnesco col potere ecclesiastico, per via delle questioni giurisdizionali, di cui erano gelosissimi. Contro il nuo­vo pensiero intervenivano solo se sconfinasse in propaganda eversiva politica: per il resto, lasciavano correre.

Non progredirono molto, nel ‘600, le scienze giuridiche e neppure gli stu­di storiografici, sebbene questi fossero stati avviati, per opera del Capaccio e del Summonte, del Capece­latro e del Parrino, che fornirono molto materiale a Pietro Giannone. Ma avvio notevole eb­bero le scienze economiche, per ope­ra del cosentino Antonio Serra, il qua­le meditando sulla miseria delle popo­lazioni meridionali, ne intuì per primo le cause e ne propose i rime­di, dando inizio agli studi per la soluzione di quel­la questione del Mezzogiorno, che, co­me la tela di Penelope, non arriva mai a un compimento definitivo. Trattato da visionario e cacciato in galera dal conte di Ossuna, il Serra è stato piena­mente riabilitato dal giudizio della sto­ria. Le cose del mondo vanno spesso così. Il Leopardi amaramente cantò: « Virtù, viva sprezziam, lodiamo, estin­ta ».

Napoli generosa ha intitolato ad An­tonio Serra l’istituto statale di econo­mia e commercio.

Ed eccoci alla poesia. Il Seicento na­poletano è il secolo di Giovanbattista Marino: poeta, senza dubbio dotatissimo di estro e di senso dell’armonia, di immaginazione anche troppo viva e di virtuosismo coloristico, gran conoscito­re della lingua, ma privo di potenza creativa e di quel freno d’arte, che gli avrebbe risparmiato la ridondante gon­fiezza e vacuità, che i critici gli rimpro­verano e che spesso ha causato la messa in evidenza più dei difetti che dei pregi della sua poesia, collocata in pes­sima luce dai suoi stolidi imitatori: i marinisti. Ma, dal flagello di costoro, la poesia napoletana si redense subito, accostandosi alla vena po­polare, con le fiabe del « Pentamerone » e con le « Muse napoletane », di Giovambattista Basile, che si diffusero e piacquero in tutta Italia e in altri paesi d’Europa; e, se pure in gra­do minore, con la Vaiasseide e il « Micco Spadaro » di Giusep­pe Cesare Cortese e con gli scritti di altri poeti dialettali meno importanti, i quali descrivono tanto realisticamente la vita quotidiana del popolino napole­tano da farcene un quadro assai più chiaro che non tanti li­bri di storia. Na­turalmente, si scrissero anche opere da buttare al macero, di ogni specie, giu­stamente sepolte senza infamia e senza lode, perché nessuno le lesse, tranne i loro autori.

Intanto, però, lo stato della città pre­cipitava sempre più nel disastro econo­mico. Nel 1648. finanche soldati spagnuoli, detti, forse per questo, bisogni, chiedevano l’elemosina « con gravità spagnuola » come si esprime, umoristi­camente, il cronista. Sommosse, specie di donne, si verificarono al Lavinaio, per il diminuito peso della palata. L’in­flazione monetaria e la falsa monetazio­ne causarono lo svilimento della mo­neta; e i torbidi civili e l’insicurezza sociale ad opera del banditismo (dive­nuto tanto potente che il capo-brigante abate Cesare Riccardi osò imporre pat­ti al viceré per non chiudere completamente le vie, di cui era pa­drone, al vet­tovagliamento) gettarono la città nella situazione più disperata. Vi si aggiunse­ro le calamità di due terremoti, 1688 e 1692, che fecero vittime e rovine nelle province e in città, dove crollarono la cupola del Gesù Nuovo e la parte ri­manente del portico del Tem­pio di Castore e Polluce, incorporato nella chie­sa di S. Paolo.

Man mano, poi, che il regime vice-regnale spagnuolo volgeva al tramonto, si vennero acuendo le lotte fra nobili e plebei, che ebbero particolare recrudescenza sotto il viceré Pietrantonio d’Aragona, benemerito – dice il Doria — per miglioramenti edilizi, ma nel­lo stesso tempo spoliatore della città di opere d’arte. Allorché si verificò una gravissima rottu­ra fra la nobiltà e il Viceré, il popolo stette dalla parte del governo. Avvenne, però, che, mentre, a Napoli, il Viceré minacciava fulmini e tuoni contro i nobili, i cui eletti si erano riti­rati, per protesta, dall’ammi­nistrazione della città, a Madrid, la regina reggente approvava l’operato dei nobili.

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Napoli nell’arte del ‘600

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…e nel Settecento

E’ il secolo dei Borboni a Napoli, una dinastia che, si voglia o no, vi la­sciò segni non peritu­ri del suo passaggio. Gli storici disputano ancora sulla funzione politica che i borboni d’Ita­lia si assunsero di svolgere, nel Settecento, nel reame napoletano e Ruggero Mosca­ti, d’accordo col giudizio di Benedetto Croce, di Giustino Fortunato, del Pala­dini e di altri insi­gni storici, sostiene che la loro azione fu, anche per i loro rapporti con la corte di Roma, positiva, e, nel suo complesso, progressiva, fin quando le due maggiori potenze borbo-niche, Francia e Spagna, sostennero, in Europa, un ruolo di prima grandezza. Ma la loro crisi influì negativamente sulle minori potenze borboniche e, quindi, su Napoli, anche se qui, dopo due secoli, era tornato, coi Borboni, il regno.

Comunque è nel ‘700 che essa acqui­sta quello splendore di metropoli europeistica, che at­trasse e innamorò tanti uomini illustri, visitatori di eccezione, in cerca delle emozioni del bello natu­rale e artistico, come Miguel Cervantes che la esaltò in celebri versi.

Il regno indipendente — ci fa nota­re Gino Doria — la rese emula delle grandi capitali euro­pee: Parigi, Madrid, Londra, Vienna. Io penso che, affer­mando ciò, il più appassionato sto­rico della sua e nostra città abbia voluto in­tendere che Napoli, al pari di quelle capitali, pur cosmopolizzandosi, abbia saputo conservare l’originalità dello spirito della sua gente, che, insieme col fascino della incomparabile bellezza del suo ciclo, del suo mare, della sua ter­ra, e lo splendore della sua arte, costitui­sce una delle attrattive più seducenti per i viaggia­tori che vi approdano, co­me al porto del loro desiderio, soprat­tutto uomini di alta levatura artistica e intellettuale.

E questa originalità, come nello spi­rito del popolo, traluce nel pensiero dei geni napoletani, primo fra tutti G. B. Vico, che con la « Scienza nuova » chiu­de il passato e apre le porte dell’avve­nire, alle scienze storiche, giuridiche, filosofiche e filologiche. L’evoluzione dei tempi, le idee nuove, che compiono il loro corso storico fatale, hanno avuto, certo, il loro effetto nella trasformazione di Napoli. Ma le idee nuove — si sa – per imporsi hanno biso­gno di un propulsore umano; e questo propulsore umano fu Carlo III, fu il suo ministro liber­ale Bernardo Tanucci, il cui maggior vanto fu — come dice il grande storico meridionali­sta Giustino Fortunato – che « nullum vectigal imposuit ». Non si sarebbe attuato il cosmo­politismo di Napoli, se Carlo III avesse ostacolato il corso delle idee nuove e messo al bando Cartesio, Hobbes, Voltaire e Locke e avesse vietata al suo ministro ogni riforma in senso progressivo. Ingegni, invece, come il Gravina, l’Argento, il De Gennaro, il Filangieri, l’Intieri, il Genovesi, il Brogia, il Galiani, il Doria, il Galanti, il Giannone, il Signorelli, potero­no liberamente esporre il loro pensiero d’avanguardia, su tutti i problemi politici, economici, religiosi, mo­rali. Non condivido, perciò, l’opinione del Doria su Carlo III, del quale lo storico tende a diminuire la personalità e a ridimensionare i meriti, che, a mio avviso, non si limita­no a quelli edilizi, giacché egli si fece anche promotore del­la cultura e dell’arte. La fonda­zione del­l’Accademia Ercolanense valse a far sor­gere una schiera di illustri archeologi­; fi­nanche i nobili si convertirono alla cultura ed espressero il Filangieri e il Palmieri. E il clero, ignorante e più de­dito agli acquisti di beni terreni che di grazie celesti, e che aveva, perciò, ma­terializzato la fede, tornò agli studi e alla pietà religiosa, di cui divennero esempi lumi­nosi S. Alfonso Maria dei Liguori e Padre Rocco, il famoso cor­rettore del popolo napoleta­no, per le suppliche del quale Carlo III si decise, nel 1751, a costruire il reale « Albergo dei Poveri » su disegno di Ferdinando Fuga; grandioso edificio, la cui mole noi ancora ammi­riamo. Padre Rocco fondò pure l’asilo di Vincenzo della Sa­nità, per le giovani pericolanti; e a lui, preoccupato degli sconci morali, degli agguati, delle rapine e degli assassini, che av­venivano, di notte, nel buio del­le strade, si deve il primo saggio di illuminazione cittadina. Sorsero anche al­tri istituti di assistenza. E per quanto qualche sociologo abbia sostenuto che istituzioni del genere fomentavano l’o­zio e il vagabondaggio, non si può ne­gare che il benefìcio che esse arrecaro­no ai poveri di Napoli fu immensamente superiore agli incon­venienti, che si poterono lamentare.

La cultura si rinnovò, si estese a stra­ti più larghi della società. E, quel che è veramente si­gnificativo, specie a Na­poli, dove le donne erano ancora con­siderate a tutt’altro destinate che alla cultura, vi si dedicarono, con entusia­smo e successo, alcune patrizie, anche se costituirono un’eccezione. Si noti che, come nella antica Roma, anche ai tempi di Teren­zio, era considerato me­stiere da schiavi, per un nobile, darsi alle lettere e alle scienze, co­sì il fana­tico pregiudizio era ancora vivo nel ‘700 a Napoli.

Si coltivava, invece, molto la musica, specie quella melodrammatica che tro­vò il suo tem­pio nel San Carlo.

Durante i primi anni del suo regno e finché visse Filippo V, Carlo III fu sotto la tutela autori­taria del padre. Tanto che, scoppiata, nel 1749 la guer­ra tra Austria e Spagna e avendo Fi­lippo V, per volere della moglie Elisabetta, inviato un esercito in Italia, im­pose al figlio di rinforzarlo con truppe napoletane. Ma l’Inghilterra spedì una flotta nel golfo di Napoli, e re Carlo fu costretto a ritirarsi dalla guerra, per timore di perdere il regno. Solo alla morte del padre divenne sovrano di fatto e potè manifestare la sua vera per­sonalità. La madre Elisa­betta gli fece sposare, a 22 anni, la bellissima quat­tordicenne Maria Amalia di Sassonia, fi­glia del re di Polonia, ma la cui bellez­za rimase deturpata, più tardi, dal vaio­lo, che le la­sciò quella sua caratteristica butteratura. Quando lui e la mo­glie, al ritorno dalla luna di miele, en­trarono in Napoli, accoltovi festosamen­te, istituì l’ordine di S. Gennaro e fece co­niare delle monete d’oro, dette onze, e delle monete d’argento, dette « mezze pezze » donde la parola «pezza» del dialetto napoletano, corruzione di « pe­sos » per dire danaro in genere.

Gli nacque l’erede al trono, Filippo, nel 1747, fra il tripudio suo e della ma­dre. Ma il ragaz­zo, malaticcio e triste, campò male fino a 30 anni, allorché mo­rì e fu sepolto in Santa Chia­ra, dove la lapide, apposta al sepolcro, lamenta pa­teticamente che fu anche minorato di mente.

Carlo III fu un uomo di costumi se­veri; forte e sano di costituzione, amava molto la caccia e la pesca. Per questi suoi passatempi, egli fece costruire il parco di Capodimonte, col gran bosco, ricco di cacciagione pregiata, cervi, ca­prioli, cinghiali, fagiani, beccafichi ecc., nel 1735; ricostruì la casina di caccia che già c’era e, poi, nel 1738 la reggia del Medrano, ove sistemò le collezioni d’arte farnesiane e le fabbriche delle fa­mose ceramiche e porcel­lane, che vi fondò. Anche la regina Maria Amalia fu presa dalle attrattive della caccia, sul­l’esempio del marito.

Il re aveva il senso del grandioso e il gusto raffinato del bello artistico. Tutto quello che co­struì ne reca, per­ciò, l’impronta. Tra l’altro, era felicis­simo nella scelta dei luoghi, dove far sorgere gli edifici. Il palazzo reale di Capodimonte e quello di Caserta, con l’incantevole parco, alle falde di monte Taburno, col quale volle emulare e su­perare il castello di Versail­les dei re di Francia e la reggia di Schonbrun degli Asburgo, affidandosi al genio del Vanvi­telli, perché realizzasse il suo propo­sito davvero degno di un grande mo­narca, ne sono la prova. Carlo III am­pliò pure il palazzo reale di Napoli e un altro ne costruì a Castellamma­re, an­ch’esso cinto da bosco per la caccia. Nel 1737, mise mano al tempio musicale della Napoli settecentesca, creandovi il « San Carlo » uno dei più belli e fa­mosi teatri lirici del mondo. A proposito del « San Carlo » si racconta un aneddoto, di cui non si può garantire l’autenticità. Si dice che il Carasale, co­struttore ed impresario del teatro, si fosse recato ad invitare il re e la regina, perché si degnassero di intervenire alla serata inaugurale. E che il re si fosse lamentato con lui perché non aveva pensato a un passaggio interno fra la reg­gia e il teatro. Il Carasale uscì mor­tificato; ma, qualche ora più tardi, tor­nò dal re ad annun­ziargli che il passag­gio interno era stato approntato e che le loro Maestà potevano, con ogni co­modità, accedere per via interna al tea­tro. L’impresario aveva radunato d’urgenza il maggior numero possibile di operai e di tecnici; e, una volta scavato il corridoio, ne aveva tappezzato la vol­ta, le pareti, il pavimento con arazzi e tappeti, sicché i sovrani vi passaro­no co­me attraverso una serie di fantasmago-riche sale, illuminate da torce e candele. A torto — a me pare – Carlo III è stato accusato di aver creato a Napoli soltanto un’edilizia di lusso, per i propri gusti voluttuari. E l’Albergo dei Po­veri? Ma c’è ancora il grande acque­dotto, insigne opera d’arte, che egli fece costruire nella Valle di Maddaloni e le cui arcate grandiose gareggiano, per la arditezza della costruzione, con quelle degli antichi acque­dotti romani. Un’al­tra accusa: per le sue costruzioni, Car­lo III si sarebbe servito di galeotti, di prigionieri e di schiavi musulmani, sen­za curarsi, per risparmiare il danaro dello Stato, di cui era custode gelosis­simo, di giovare ai disoccupati locali.

E’ probabile che il re si sia valso degli uni e degli altri. Anche per le fabbriche di Capodi­monte, lo si incolpa di aver fatto venire maestranze e tecnici dalla Sassonia, la patria della regina. Ma è da ritenere che ciò si sia verificato solo in un primo tempo, finché non si for­marono le maestranze locali. Quell’arte, era del tutto nuova per Napoli. Non va dimentica­to, inoltre, che Carlo III com­pì molte opere di pura utilità pubblica: oltre all’« Albergo dei Poveri » e allo acquedotto di Maddaloni, già ricordati, fece eseguire importanti lavori al Molo, aprì le strade della Marinella e di Mergellina, costruì l’edificio dell’Immacola­tella.

E, nel 1757, dette inizio all’emiciclo al largo del Mercatello (l’odierna Piaz­za Dante) su pro­getto del Vanvitelli, compiuto, poi, da Ferdinando IV, nel 1765. Napoli cambiò volto: ma, per i difetti organici dei suoi successivi ingrandimenti e abbellimenti, a meravi­gliose aree monumentali, come quella — per citarne una — difficilmente ri­scontrabile in altre grandi città, tra piazza Municipio, il Maschio Angioino, la Galleria, il « San Carlo », la reggia del Fontana, la Basilica di S. France­sco di Paola e Piazza Plebiscito, si con­trappongono angu­sti meandri stradali e case e palazzi oscuri e cadenti, che fan­no lamentare l’assoluta defi­cienza di un piano regolatore di integrale sventra­mento e ricostruzione, come quello mes­so in opera, con vantaggio enorme per il decorso cittadino, con l’abbattimento di quella fungaia malsana, covo di ma­lavita, che era tutto il vecchio rione fra la Corsea e i Guantai Vecchi. Non si può, dunque, far torto a Carlo III se non costruì secondo un razionale piano regolatore, soprattutto se si consideri che anche oggi, nonostante tutti i progressi delle tec­niche edilizie, un pia­no regolatore veramente razionale Na­poli non l’ha, come dimostrano le caotiche costruzioni dei nuovi quartieri re­sidenziali di Posillipo alto e, forse, per un com­plesso di cause, che non è qui opportuno enumerare, non lo avrà mai. Ma dovunque Carlo III ha costruito ha creato delle zone monumentali, che de­stano l’ammirata attenzione degli stra­nieri e danno luce e gloria alla città.

A Carlo III successe Ferdinando IV, re tipicamente napoletano che si trovò a vivere avve­nimenti più grandi di lui, come la Rivoluzione francese e le inva­sioni napoleoniche.

A Carlo III successe Ferdinando IV, che curò molto lo sviluppo della marina napoletana: il primo si dedicò partico­larmente a quella mercantile, il secondo alla marina militare. Si potè formare quella scuola marinaresca napoletana, da cui uscirono insigni uomini di mare, come l’audace e leggendario Capitano Pepe, (il Martinez), distintosi nella lot­ta contro i cor­sari, l’eroico ammiraglio Francesco Caracciolo, sacrificato dal­l’odio di Maria Carolina alla vendetta di Nelson, il Bausan ed altri. L’aumento dei commerci marittimi fu enorme, spe­cie per effetto dell’abolizione dei privi­legi di bandiera e l’istituzione di una compagnia di assi­curazioni marittime. E la città ne beneficiò.

Il popolo ottenne da Ferdinando IV l’abolizione del monopolio sui tabacchi, con gran giubi­lo dei fumatori. Ma, in compenso, nel 1774, egli istituì il gioco del lotto — la bonificiata — a cui il popolo napoletano era ed è rimasto appassionatissimo, tanto da avervi creato su tut­to un sistema cabalistico, e che rendeva allo Stato oltre 560.000 ducati annui. Arte raffina­ta di cavar danari al popolo senza farlo strillare.

Carlo III regnò dal 1737 al 1759. Ferdinando IV dal 1759 al 1790; ri­tornò sul trono, dopo la fuga in Sici­lia, nel 1791 e vi rimase fino al 1806. In questo anno, nonostante le sciocche vanterie del generale russo Lascy, di­venuto comandante in capo dell’eserci­to napoletano, che aveva promesso al re di umiliare Napoleone, il 14 feb­braio, i francesi giunsero alle porte di Napoli, sicché a Ferdinando e a Maria Carolina non rimase altro da fare che ritor­narsene in Sicilia. Pietro Colletta descrive vivamente la confusione e lo sgomento di quelle giornate: « Chi fug­gia, chi nascondevasi, chi andava incon­tro al vincitore ».

Ma Ferdinando IV ritornò ancora a Napoli, dopo il brevissimo regno di Giuseppe Bonapar­te (1806-1808) e la avventura, conclusasi tragicamente, di Gioacchino Murat, che vi regnò dal 1808 al 1815, l’anno fatale del tramon­to definitivo dell’astro di Napoleone. Per Ferdi­nando IV, il tramonto fu pla­cido, ma senza gloria. Dal 1815 al 1825, sopravvisse come l’ombra di se stesso; non fu granché amareggiato dai lutti familiari: la morte del fratello e quella della moglie Maria Carolina, per la quale, anzi, parve tirare un respiro di sollievo, come chi si scarica di un gros­so peso. Ebbe, però, tempo di infamar­si, rinnegando, al con­vegno di Lubiana coi sovrani della Santa Alleanza, la co­stituzione ch’egli aveva concesso dopo i moti rivoluzionari del 1821 e giurata solennemente sul Vangelo nella chiesa dello Spirito Santo. Morì il 3 gennaio 1825, all’improvviso, a 76 anni di età, dopo 65 di regno. Fu sepolto in Santa Chiara.

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1F ‘500, ‘600 e ‘700ultima modifica: 2021-11-18T11:23:10+01:00da masaniello455