4Q E ora… tutti a tavola!

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L’alimentazione dei Romani era basata prevalentemente sui vegetali. Tra questi il primo posto va ai cereali. Il grano tenero (triticum sativum) non si diffuse che a partire dal V secolo a.C. Precedentemente si coltivavano il farro (di valore nutritivo molto modesto) e l’orzo. Mancavano il riso e il granturco. I vari tipi di farina, bolliti in acqua, costituivano la puls (sorta di polenta) che veniva poi condita con formaggio, miele o altro.

Il pane era di solito fatto in casa, anche se esistettero, a partire dall’età repubblicana, numerose botteghe di fornai. Qualcuno di questi commercianti si arricchì con gli appalti statali, come M. Virgilio Eurisace che nel suo monumentale sepolcro volle ricordata l’attività svolta in vita.

Il pane in origine non era lievitato, e anche in epoca più tarda la galletta rimase l’alimento dei ceti più modesti e dei militari.

C. Gracco nel 123 a.C., sancì con una legge la prassi — prima seguita solo occasionalmente — di vendere i cereali al popolo a bassissimo prezzo, ma già nella prima età imperiale le distribuzioni alla plebe romana divennero addirittura gratuite.

Dopo i cereali, gli alimenti più comuni erano i legumi, che venivano mangiati freschi o secchi, crudi, bolliti o tostati.

Si consumavano grandi quantità di lupini, lenticchie, ceci, piselli e, soprattutto, fave. Di queste si mangiavano anche i baccelli cotti. Il fagiolo non era conosciuto e la parola phaselus indicava un altro legume, il dolico. Apprezzatissimi erano gli ortaggi e le verdure, in primo luogo la lattuga e i cavoli, di cui esistevano molte qualità. Mancavano la patata e il pomodoro. Aglio e cipolla entravano quasi dappertutto. Molto diffusi erano i porri. Per condire si usavano anche i semi di lino, del sesamo, del papavero. Si mangiavano anche i bulbi del gladiolo e dell’asfodelo.

Per conservare i vegetali non c’erano che due sistemi: lasciarli seccare o metterli in salamoia (cioè in una soluzione di sale).

Per quanto riguarda la frutta, il primo posto spetta, per tutta l’antichità classica, al fico. Venivano poi mele, pere, mele cotogne, prugne, melograni, uva. Lucullo importò le ciliege dall’Oriente. In età imperiale erano abbastanza comuni pesche, albicocche, nespole, susine. Erano conosciuti anche il melone, il popone, il cedro. Conosciuto, ma poco diffuso, il limone. È dubbio se fosse noto l’arancio. Oltre che cruda, la frutta era mangiata cotta con miele, vino e altri aromi. La si usava molto per gli intingoli che accompagnavano le carni. La frutta secca — uva passa, noci, mandorle, castagne, datteri, pistacchi — entrava nella composizione di molti dolci. Nel Satyricon di Petronio, Trimalcione, rivolgendosi agli ospiti e indicando la mensa imbandita, così elogia il suo cuoco: «II mio cuoco ha fatto tutto questo che vedete con un maiale. Non c’è uomo più prezioso di lui. Non hai che da dirlo, e di un ventre di scrofa ti fa un pesce, di un pezzo di lardo un colombo, di un prosciutto una tortora, di uno zampone una gallina».

G. Pucci

Familiae cibaria

Catone De Agri cultura, c 56

Qui opus facient: per hiemem tritici modios IIII, per aestatem modios IIII S; vilico vilicae, epistatae, opilioni: modios III; compendis: per hiemem panis p IIII ubi vineam fodere coeperint panis pV; usque adeo dum fico esse coeperint; deinde ad p IIII redito.

Cibo per gli schiavi

Gli schiavi che scaveranno la trincea: per l’inverno avranno quattro moggi di farro, per l’estate quattro moggi e mezzo; per il fattore, la fattoressa, il sovrintendente, il pecoraio: tre moggi; per gli schiavi con i ceppi: per l’inverno quattro libbre di pane; quando avranno iniziato a zappare la vigna cinque libbre; fino a quando non avranno incominciato a mangiare i fichi; infine si ritornerà a quattro libbre.

Libum hoc modo facito

Catone De Agri cultura, c 75

Casei p.II bene disterat in mortario; ubi bene distriverit, farinae siligineae libram aut, si voles tenerius esse, selibram similaginis solum eodem indito; permiscetoque cum caseo bene; ovum unum addito et una permisceto bene. Inde panem facito; folia subdito; in foco caldo sub testu coquito leniter.

Farai il “libum” in questo modo

Trita in un mortaio 1 kg di formaggio di pecora; dopo averlo ben tritato, aggiungerai mescolando 500 g di farina o, se vuoi sia più soffice, soltanto 250 g di farina; aggiungerai un uovo e mescolerai bene. Poi formerai il pane; metterai sotto il pane alcune foglie di alloro; lo cucinerai lentamente su fuoco caldo coprendolo con un coperchio.

Globulos sic facito

Catone De Agri cultura, c 79

Caseum cum alica ad eundem modum misceto; inde, quantos voles facere,facito. In aenum caldum unguem indito. Singulos aut binos coquito; versatoque crebro duabus rudibus; coctos eximito; eos melle unguito; papaver infriato: ita ponito

Farai le palline dolci fritte così

Mischierai formaggio di pecora e semola di grano duro nella stessa quantità; poi farai le palline che vuoi tu; Scalderai in una padella olio o burro. Le cucinerai una alla volta o due alla volta; le girerai frequentemente con due cucchiai di legno; quando saranno cotte le toglierai; le bagnerai con del miele; sbriciolerai sopra semi di papavero: le servirai in questo modo.

Braciuole apiciane

Apicio, De re coquinaria VII, 4

Disossa le braciuole, piegale in rotondo, infilale con gli stecchi e accostale al forno.

Poi falle indurire e levale in modo che trasudino l’umidità,

seccale sulla gratella a fuoco lento in modo che non brucino.

Trita del pepe, del ligustico, del cipero e del cumino; stempera con la salsa e del passito.

Metti le braciuole nel tegame con questa salsa.

Quando saranno cotte, levale e asciugale senza salsa.

Cosparse di pepe, portale in tavola. Se saranno grasse, quando le infilzerai, toglierai la cotenna.

Si possono fare braciuole anche dall’addome.

Altre braciuole: sono buone anche fritte o arrostite.

Prendi una tazza di salsa, una di acqua, una di aceto e una d’olio.

Mescola e mettile in una padella adatta di terracotta, friggi e servi.

Calamari in padella

Apicio, De re coquinaria IX, 3

Trita pepe, ruta, poco miele, salsa, vino dolce cotto e gocce d’olio.

Calamari farciti: pepe, ligustico, coriandolo, semi di sedano,

tuorlo d’uovo, miele, aceto, salsa, vino e olio.

Restringi con amido.

Salse per il riccio di mare

Apicio, De re coquinaria IX, 8

Prendi una pentola nuova, poco olio, salsa, vino dolce, pepe tritatissimo.

Fai in modo che bolla. Quando avrà bollito, metterai nei singoli ricci la salsa;

girerai e farai fare tre bollori.

Quando sarà cotto, cospargerai di pepe e servirai.

Altro modo per il riccio: pepe, poco mosto, menta secca, vino melato, salsa, 
una spiga indica (o spigo d'India) e una foglia di nardo.
                                                                                          Trad. C. Vesco

Di solito che cosa mangiavano i greci, a casa loro? La maggior parte, soprattutto ad Atene, erano rinomati per la loro sobrietà causata dal clima e dalla scarsa fertilità del suolo. Ma gli abitanti della fertile e pianeggiante Beozia erano noti come forti mangiatori e la loro ghiottoneria, come la loro grossolanità, erano fonte di scherno. Ma la predilezione per la buona tavola e il vino che veniva loro attribuita era probabilmente effetto dei pregiudizi di vicini malevoli. Il regime alimentare degli spartiati passava invece per essere ancor più frugale di quello degli ateniesi, ma si trattava anche in questo caso, probabilmente, di un «miraggio» in senso contrario.

Omero già chiamava gli uomini «mangiatori di farina». I cereali, soprattutto orzo e grano, di cui gli ateniesi dovevano importare forti quantità, costituivano la base della loro alimentazione… La farina d’orzo impastata in gallette è la maza, cibo essenziale nella vita di tutti i giorni. Secondo una prescrizione di Solone, il pane di frumento propriamente detto (artos) in pani rotondi doveva essere mangiato solo in giorni di festa. Ma certamente nell’Atene del secolo di Pericle tutti i giorni si trovava dal panettiere sia la maza sia il pane di frumento (mentre un tempo ogni famiglia si cuoceva il suo pane), ma la maza costava assai meno e i poveri dovevano quasi sempre accontentarsene. Ogni alimento solido che si accompagnava al pane si chiamava opson: verdure, cipolle, olive, carne, pesce, frutta e dolci. Le verdure erano rare e, in città, relativamente care, tranne le fave e le lenticchie che si consumavano soprattutto in purea. Si consumavano molto formaggio, cipolle e aglio, soprattutto nell’esercito, presso il quale i più delicati lamentavano la dieta grossolana e monotona.

Assai di rado si beveva vino puro (acratos). Prima di ogni pasto, in un grande vaso chiamato cratere, si componeva una miscela, più o meno alcoolica, di acqua e vino. In età classica il vino era allungato con quantità più o meno ingenti d’acqua, secondo le circostanze. I servi attingevano al cratere con lunghi mestoli col manico ricurvo, di argilla o di legno, o con oinochoes e riempivano con essi le coppe dei convitati. Il vino serviva anche, nelle cerimonie religiose, alle libagioni in onore degli dei, ma il culto di certe divinità escludeva il vino e le loro libagioni si facevano col latte.

R. flacelière, La vie quotidienne en Grece au siècle de Périclès, Rizzoli, Milano, 1983

4Q E ora… tutti a tavola!ultima modifica: 2022-12-09T16:50:49+01:00da masaniello455