5F Letteratura Latina 3

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Fedro

— Tracia o Macedonia, 15 ca a.C.? – 50 ca d.C.? —

Nato in Macedonia e condotto schiavo a Roma, era stato affrancato da Augusto e nell’Urbe aveva preso a scrivere una raccolta di favole dal titolo «Phaedri Augusti liberti fabulae Aesopiae» la cui pubblicazione, soprattutto dei primi due libri, dovette causargli qualche problema a causa di allusioni più o meno velate a potenti personaggi del tempo: così almeno sembra si debbano interpretare le sue proteste per l’eccessivo accanimento di Seiano nei suoi confronti, l’allusione politica a Tiberio ed allo stesso Seiano, la richiesta di essere protetto avanzata al liberto di Caligola, Eutico, protezione che deve essere stata accordata, data la serenità dei suoi toni sia nella dedica del quarto libro (a Particulone) che in quella del quinto (a Fileto).

Continuò a scrivere favole fino a che la morte non lo colse all’epoca di Claudio o di Nerone.

Della sua raccolta in cinque libri ci sono pervenute solo novantatré favole (tutte in senario giambico regolare, brevi di estensione, tranne la III 10 composta da sessanta versi), troppo poche per poter completare una pèntade, pur con l’aggiunta delle «fabulae novae» scoperte a Napoli nel 1808 nel codice Perottino.

Queste ultime, in numero di trentadue, provengono da una raccolta di componimenti di diversi autori («Cornucopia»), messa insieme verso la metà del sec. XV dall’arcivescovo di Manfredonia Niccolo Perotti.

Il fatto che l’opera di Fedro non ci sia giunta nella sua completezza lo si ricava anche dalla mancanza di proporzione dei vari libri (il secondo ed il quarto contengono favole di numero inferiore rispetto agli altri), da alcune evidenti lacune, dall’intenzione, rimasta tale nell’autore, di far parlare anche gli alberi, oltre che gli animali.

Originali e ben strutturate, tra le molte, ci sembrano del primo libro la favola 15 (L’asino al vecchio pastore), del secondo la 5 (L’aquila e la cornacchia) e la 7 (II cervo ed i buoi), del terzo la 10 (II galletto e la perla [I]) e la 13 (Le api ed i fuchi giudicati dalla vespa), del quarto la 5 (Le tre figlie e la madre), del quinto la 4 (L’asino ed il maiale) e la 7 (II Principe e il flautista),…

IlI, 10

In un letamaio un galletto, mentre cercava cibo, una perla trovò. «Tu, oggetto così bello, – disse – te ne stai in un luogo indegno! Ciò se qualcuno, avido del tuo valore, avesse visto, già da un pezzo saresti tornata all’antico splendore. Il fatto che ti ho trovato io, cui è molto preferibile il cibo, né a te può giovare, né a me in alcun modo». La favola io narro a coloro che non mi comprendono. (tr. Manna)

ma interessanti, ed utili per le vicende biografiche, risultano i prologhi ad ogni libro in cui Fedro espone anche i suoi intendimenti artistici e morali.

E così, ad esempio, nel prologo del primo libro espone il suo intento artistico: egli vuoi dare una veste poetica ad una materia già trattata in prosa da Esopo al fine di muovere al riso e di suggerire saggi precetti di vita; nel prologo del quarto libro l’autore conferma la sua indipendenza dal Greco e la sua originalità: confida che le sue favole sono «esopie», in quanto si muovono nel genere di Esopo, ma non sono «esopiche», perché, spesse volte, l’ispirazione è nuova, come nuove sono le favole riguardanti il mondo romano; nel prologo del quinto libro, infine, informa il lettore che il favolista greco per lui non è altro che un nome.

V, prologo

Se da qualche parte inserirò il nome di Esopo, al quale già da prima ho tributato ciò che dovevo, sappi che ciò avviene a causa della sua autorità; come oggi fanno alcuni artisti, i quali trovano un pregio maggiore per le loro opere, se scrissero Prassitele sulla loro scultura nuova, Mirone sull’argento cesellato, Zeusi su di un quadro. A tal punto l’invidia mordace favorisce l’antichità falsificata più che le belle opere attuali. Ma ora vengo ad una favola di un tale (tr. Calesella)

«Le bestie della scena esopiana», dice il Marchesi, «sono gli eterni rappresentanti della specie umana, nelle opere del bene e in quelle assai più frequenti ed evidenti del male. Su quella scena senza sipario appare la volpe (sagace, fine e beffarda), il lupo (sleale e feroce), il topo (agile, sottile, furbesco), il cane (calunniatore, insidioso, scioccone), il leone (forte e maestoso), l’asino (stanco, martoriato e vilipeso). Della consueta varietà dell’indole umana si anima tutto quel divertente spettacolo animalesco, dov’è la volgarità gracidante delle rane, la vanità sfortunata del cervo, la grossezza inerte e bonacciona del bove. Fedro non ha la natura di Esopo. Nella sua favola si sente soltanto la voce umana, la mossa animalesca non si vede; e manca il profilo vivace della bestia. Il favolista è tutto proteso verso la moralità o l’allegoria, ma, malgrado ciò, Fedro ha un malinconico senso della immutabile realtà, e qualche volta contraddice e corregge il contenuto troppo ottimistico del racconto. La vita apparve a lui quella che è: una mescolanza di dolore e di gioia».

Ignorato da Seneca il G., quando il filosofo tentò di convincere il liberto dell’imperatore Claudio, Polibio, a cercar la fama componendo apologhi, neppure menzionato nelle trattazioni specifiche da Quintiliano e da Gellio, ricordato una sola volta da Marziale ma per essere criticato, citato da Aviano (ma dopo il greco Babrio), sconosciuto nel Medioevo che vede la sua opera confondersi con le anonime ed eterogenee parafrasi in prosa che di essa vengono in gran numero realizzate, solo in tempi più vicini a noi Fedro ha cominciato ad essere apprezzato, sollecitando l’imitazione di favolisti come La Fontaine e i fratelli Grimm, Carlo Gozzi e Trilussa.

La chiarezza e la semplicità del suo stile lo hanno reso dunque popolare presso gli studenti di latino, ma, come narratore, citiamo dal La Penna, «egli è piano senza essere piatto: ricerca sobriamente, insieme con la brevità, l’eleganza dello stile, ma molto raramente mostra grazia e vigore. Più che nelle favole di animali egli è narratore vivace e spigliato in certe brevi novelle con cui arricchisce il repertorio esopico».

Ancora su Fedro

Vita.

Schiavo affrancato da Augusto. F. nacque durante il principato di Augusto, ma fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio. E’ uno dei pochissimi autori di nascita non libera nella letteratura della I età imperiale: egli era infatti uno schiavo di origine tracia (ma dovette avere una discreta educazione letteraria, se è vero – come egli stesso confessa – che da fanciullo legge Ennio), e nei manoscritti delle sue opere è citato come liberto di Augusto (sembra, quindi, che fosse stato liberato proprio dall’imperatore, da cui avrebbe ricavato il prenome Gaio e il nome Giulio: ma non conosciamo le circostanze dell’affrancamento).

Guai col potere costituito, morte nella quasi dimenticanza. Da accenni nella sua stessa opera (prologo del III libro), si evince che il poeta sarebbe stato inoltre perseguitato da Seiano, il braccio destro di Tiberio, rimasto offeso da allusioni colte in alcuni scritti. Dopo la condanna, F. soffrì umiliazioni e, probabilmente, la povertà: visse abbastanza a lungo, ma – oltre ciò – nulla di più certo si sa della sua vita. Segno, questo, che la sua produzione evidentemente non ebbe molta fortuna ai suoi tempi.

Opera.

Il “corpus” delle favole. Sotto il nome di F., ci sono tramandate poco più di 90 “Favole”, divise in 5 libri, e tutte in senari giambici. Sono sicuramente sue anche le circa 30 favole raccolte nella cosiddetta “Appendix Perottina”, che prende nome dall’umanista Niccolò Perotti, curatore della raccolta. Di altre ci resta la parafrasi in prosa.

Il I libro (31 favole) fu scritto subito dopo la morte di augusto; il II (8) durante il ritiro di Tiberio a Capri; il III (19) il IV (25) e il V (10) sotto Caligola e sotto Claudio. La scarsa estensione del II e del V libro è forse un indizio che la raccolta, così come ci è giunta, è in verità estratto di una più ampia.

La struttura. Nonostante la (relativa) varietà di situazioni e personaggi presenti nelle favole, la struttura di queste segue, generalmente, strutture ordinate da “passaggi” quasi obbligati; ecco, ad es., come gli alunni della Scuola Media “N. Ricciotti” di Frosinone hanno chiaramente schematizzato la struttura di tre notissime favole:

Il lupo e l’agnello: 1 – Azione immediata dei personaggi; 2 – Contrasto di carattere; 3 – Assenza di aspetto fisico; 4 – Ruolo indistinto tra protagonista e antagonista; 5 – Successione alternata di attacco e di difesa attraverso il dialogo; 6 – Scioglimento violento del contrasto; 7 – Morale espressa.

Il lupo e il cane: 1 – Accenno di situazione iniziale; 2 – Descrizione funzionale dei personaggi; 3 – Ruolo indistinto tra protagonista ed antagonista; 4 – Confronto dialogico; 5 – Scoperta della verità attraverso il dialogo; 6 – Morale.

La vacca, la capretta, la pecora e il leone: 1 – Morale espressa; 2 – Situazione iniziale; 3 – Azione dei personaggi; 4 – Prepotenza e violenza giustificate attraverso la parola; 5 – Umiltà e sottomissione dimostrate attraverso il silenzio; 6 – Morale espressa.

Orbene, con buona approssimazione, potrei affermare che quasi tutte le favole presenti nel “corpus” seguono praticamente le scansioni suddette.

Considerazioni.

La favola in Grecia e a Roma. Il genere della favola, prima di F., non aveva una grande tradizione (almeno scritta) nella letteratura latina: la sua nascita – almeno per quanto riguarda la sua forma scritta – coincide praticamente con la produzione del greco Esopo (VI sec. a.C.), una produzione invero già “matura”. Essa constava di storielle, in prosa, che presentavano spunti umoristici e pillole di saggezza, e a cui erano allegate una premessa o una postilla che spiegavano il tema della favola o la morale che si poteva trarre da essa. Tipico del genere era, poi, l’uso di animali come maschere, personaggi umanizzati dotati di una psicologia fissa (evidentemente, l’uso di questi “tipi” animaleschi doveva essere ritenuto meno compromettente, su un fronte casomai “politico”: ma ciò fu solo in parte esatto, se è vero che lo stesso F., nonostante avesse “ereditato” almeno all’inizio questo accorgimento, incorse comunque nelle ire di Seiano, come detto).

A Roma, con molta probabilità, questa materia originaria dovette avere, almeno all’inizio, una diffusione esclusivamente “orale”, e soprattutto fra gli strati subalterni, nonché – a livello letterario più “nobile” – attraverso una vera e propria “contaminazione” col genere satirico, almeno secondo istruttivi indizi su Ennio e Lucilio, e secondo l’opera dello stesso Orazio. Proprio a quest’ultimo, infatti, risalgono – se vogliamo – le prime vere testimonianze di favole scritte in latino: il famoso apologo del topo di città e del topo di campagna, nonché richiami alle favole della rana e del bue, del cavallo e del cervo, della volpe e della donnola, contenute negli “Epodi” e soprattutto, manco a dirlo, nelle “Satire”.

E’ a questo punto d’arrivo che si colloca la figura e l’opera di F., che da tutti quei prodromi prenderà spunti, temi (morali), situazioni e personaggi, però rielaborandoli ed adattandoli – come vedremo – alla propria personalità e al proprio tempo.

Limiti palesi di F. … Ora, F. ha una posizione sociale modesta e come poeta non si può definire veramente un virtuoso: pratica un genere letterario ritenuto minore, anch’esso marginale rispetto alle grandi corrente dell’età imperiale. Come narratore, invero, egli poi inventa ben poco: prese una per una, le sue favole sono poco originali, indebitate con la tradizione esopica e con una raccolta di favole di età ellenistica (questo, soprattutto nel I libro); quanto alla rielaborazione letteraria, nessuna delle favole di F. può superare le opere dei grandi poeti.

ma, altresì, suoi grandi meriti: la favola assurge a dignità letteraria. Tuttavia, a questo umile artigiano tocca una priorità storica importante: è il primo autore che ci presenta una raccolta di temi favolistici, concepita come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Il merito del nostro sta, infatti, nell’impegno costante e metodico per dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile: egli, insomma, pur definendosi come il continuatore di un genere già a suo modo “stabilizzato” da Esopo, tuttavia lo innova, ne dilata gli orizzonti e lo porta a perfezione, adattandolo alla tradizione culturale latina. Lo stesso F. è orgogliosamente consapevole di questo “traguardo”, raggiunto ovviamente attraverso tappe difficili e progressive, com’è avvertibile, del resto, nel corso stesso dell’opera (da una più vincolata aderenza al modello verso una più spiccata e piacente originalità). Alla fine, il nostro favolista può ben affermare che le sue composizioni sono “Aesopias, non Aesopi“, “esopiane, ma non di Esopo”, ovvero composte secondo lo stile e i caratteri della favola esopica, ma non semplici traslitterazioni di quella.

Non solo. F. – rivoluzionariamente – volge la prosa favolistica in poesia, adottando il senario giambico come metro per le sue composizioni: con questa scelta, egli si collega alla versificazione latina arcaica, mostrando – non senza una certa nota polemica contro i detrattori di quel genere, ostinati (come detto) a considerarlo “minore” – che la favola era ben degna di un tal illustre verso (tipico dell’alta commedia, con la quale del resto condivideva lo scopo: “risum movere“, “far ridere”) e di uno stile rigoroso e colto.

Componimenti “metaletterari”. Queste sue riflessioni di poetica (sui rapporti con la tradizione e sui tempi e i modi della propria originalità), F. le affida a specifici componimenti, che all’interno della sua opera assumono funzione prettamente, come dire, “metaletteraria”: è il caso, ad es., degl’importanti prologhi dei 5 libri e degli altrettanto importanti epiloghi dei libri II, III, IV.

Istanze sociali nelle favole. Le “morali” di F., e la stessa allegoria del mondo animale, poi, non sono soltanto mere espressioni del buon senso, bensì esprimono anche una mentalità sociale, ossia il punto di vista delle classi subalterne della società romana: egli è davvero l’unico a dare voce al mondo degli schiavi e degli emarginati, promuovendolo ad oggetto letterario; e non manca di accenni violentemente polemici, colpendo – nel suo stile quasi satirico – tipi di uomini e regole del vivere: perché le sue favole vogliono essere sì divertenti, ma insieme vogliono anche “istruire”.

In questo, la sua opera contiene una forte istanza realistica (di “realismo comico”, ovviamente) e a suo modo “ideologica”; anche se, a ben vedere, la sua ideologia esprime più che una vera protesta una rassegnata e amara consapevolezza: la consapevolezza che nel mondo sempre ha regnato, regna, e regnerà sempre incontrastata la legge del più forte e del più prepotente: agli umili, ai poveri, ai sottomessi non resta altro che provare ad eludere questa forza, per quanto possibile, con l’astuzia e con l’arguzia, cercando nella vita sempre il “men peggio”. E proprio loro – gli schiavi, gli umili, gli emarginati – sono gl’ideali destinatari dell’ “utilitaristica” produzione del favolista romano.

Temi, linguaggio e personaggi, fra tradizione ed originalità. Nelle favole, è quasi del tutto assente – invece – un realismo descrittivo e linguistico, anzi il loro mondo è piuttosto generico, il linguaggio asciutto e poco caratterizzato (ma è una “brevitas” che lo stesso autore annovera tra i suoi pregi). Non mancano tuttavia spunti di adesione alla realtà contemporanea: F., infatti – come già accennato – non si limita sempre alla tradizione della fiaba d’animali, e talora (soprattutto nei libri successivi al I) sembra inventare di suo, come nel racconto che ha per protagonista Tiberio; altrove ricava anche aneddoti dalla storia, seguendo anche una scelta oculata che rispettasse il criterio della “variatio“. Così, non troviamo soltanto quegli animali-personaggi già assodati dalla tradizione (i più frequenti, e con un ruolo da dominatori, sono il lupo, la volpe, il cane, il leone, l’aquila, il serpente…), né le solite anonime figure umane (il ladro, i viandanti, il brigante, il buffone, il contadino…), ma anche personaggi storici (Simonide, il poeta Menandro, il tiranno Demetrio, Cesare, Socrate) o mitologici (Prometeo, Giove, Giunone), nonché lo stesso Esopo, assurto a simbolo dell’arguzia popolare. Il “padre fondatore” del genere lascia – qui – quasi la sua palma a F., divenendo poco più che un semplice personaggio fra gli altri, anche se di rilievo.

(fonte internet)

Aulo Persio Flacco

— Volterra, 4 dic. 34 d.C. – Roma, 24 nov. 62 d.C. —

In un’epoca così travagliata anche spiritualmente, fatta di malcelati rancori e di alienazione, per non parlare di pura follia e di mania di persecuzione anche nelle personalità più in vista politicamente, caratterizzata da saggi imperatori quali Nerva e Traiano, ma anche da despoti come Nerone e Domiziano; in un’epoca in cui emergere, sia pure in campo letterario, era diventato pericoloso e, nel migliore dei casi, poteva dar adito a «sospetti» di partigianeria o ad accuse infondate, era logico che rinascesse la satira, già patrimonio comune delle età di Lucilio e di Orazio, ora variamente intesa e adattata alla personalità degli autori, sia nella poesia (con Persio e Giovenale), sia, come vedremo, nella prosa (soprattutto con Seneca il Giovane e con Petronio).

Per la biografia ci soccorre moltissimo una «Vita», del suo contemporaneo Valerio Probo (come afferma il Rostagni) o di Svetonio dal «De poetis» con interpolazioni e rimaneggiamenti (come sostiene il Paratore), ma di certo elaborata, almeno nelle parti essenziali, da persona molto vicina al poeta, a noi utile per conoscere uno scrittore che, per le circostanze della sua vita, ci sarebbe rimasto pressoché sconosciuto.

Nato a Volterra, in ambiente etrusco, il 4 dicembre del 34 d.C., da una famiglia di rango equestre, e rimasto privo del padre, a soli sei anni, riversò il suo affetto sulla madre Fulvia Sisennia, sposatasi in seconde nozze con un cavaliere romano di nome Fusio, deceduto di lì a poco: dalla madre, appunto, ricevette la prima istruzione fino al dodicesimo anno di età, quando fu mandato a continuare gli studi a Roma presso il grammatico Q. Remmio Palemone ed il retore Virginio Flavo (condannato nel 65 d.C. all’esilio da Nerone per «aver destato con la sua eloquenza gli entusiasmi dei giovani»).

A sedici anni divenne discepolo ed amico del filosofo stoico L. Anneo Cornuto che gli fece conoscere l’«aequaevus» M. Anneo Lucano, ma non mancò di essere in grande familiarità e per lungo periodo di tempo con P. Trasea Peto (sposato con una sua parente, Arria Minore, e condannato a morte da Nerone nel 66 d.C.) e di frequentare Cesio Basso e Calpurnio Statura (suoi amici «a prima adulescentia»), Claudio Agaturno (medico di Sparta e cultore di filosofia), Petronio Aristocrate (di Magnesia), Servilio Noniano (oratore, filosofo stoico, console nel 35 d.C.,) Plozio Macrino ed il filosofo Anneo Seneca, conosciuto, però, secondo la «Vita», «sera», tardi, ed in modo superficiale.

Segue nella «Vita» la descrizione fisico-psicologica dello scrittore, considerato «verecundiae virginalis, formae pulchrae,… frugi, pudicus», per, poi, passare alle disposizioni testamentarie (in esse lasciava due milioni di sesterzi alle uniche due donne della sua vita, la madre e la sorella, ed un quinto della somma predetta con l’aggiunta dei settecento libri di Crisippo o dell’intera biblioteca al suo maestro Anneo Cornuto) ed alla data di morte, che è posta il 24 novembre del 62 d.C., a soli ventotto anni, «vitio stomachi», «in praediis suis», sulla via Appia, ad otto miglia da Roma, nelle vicinanze di «Bovillae» (menzionata dallo stesso Persio).

LE OPERE GIOVANILI

Sempre la «Vita» (ma in questo caso non si sa fino a che punto possa essere attendibile), fa risalire agli anni giovanili la composizione di alcuni versi in ricordo di Arria Maggiore (la matrona che si dette la morte prima del marito Cecina Peto condannato da Claudio), di un libro di viaggi (di quelli, forse, compiuti al seguito di Trasea Peto) e di una tragedia «praetexta», «Vescia», opere queste non fatte pubblicare dalla madre per volontà di Cornuto.

COLIAMBI E SATIRE

Della sua produzione, comunque, a parte quattordici versi coliambi, di attribuzione incerta, restano solo sei satire, collazionate, pur nella loro incompiutezza, da Cornuto, pubblicate da Cesio Basso, scritte «et raro et tarde» e lasciate senza «labor limae», tanto è vero che il filosofo eliminò alcuni versi alla fine dell’opera perché sembrasse ultimata.

La struttura

I: Persio, contrario alle mollezze del suo tempo ed al facile far versi dei patrizi, dialoga con un amico, strenuo difensore della poesia leggera e superficiale a discapito di quella autentica, ma eccessivamente moraleggiante.

II: È un dono del poeta per il compleanno dell’amico Macrino; in essa si scaglia contro quanti chiedono alle divinità le cose più assurde, come se gli dei potessero venir comprati e diventare complici dei mortali, e contro chi alle preghiere non fa seguire un adeguato comportamento morale.

IlI: Prende le mosse da un rimbrotto che un maestro fa al discepolo trovato, a sole alto, ancora a letto, per mirare ad una condanna dei vizi, ad un’esaltazione della vita virtuosa anche nelle ristrettezze, ad ottenere una sanità non solo fisica, ma anche morale, unica garanzia di difesa dalle tentazioni.

IV: Non basta un piacevole aspetto, fa dire Persio a Socrate rivolto ad Alcibiade, per partecipare alla vita della città, ma è necessario anche essere virtuosi e, soggiunge il filosofo, il considerarsi tali, il conoscere bene se stessi, non è da tutti.

V: Persio mette in bocca a Cornuto l’esaltazione della sua poesia, semplice e personale, che molto deve agli insegnamenti del maestro.

La vera libertà, aggiunge, consiste nel non essere schiavi di vizi, passioni e facili ambizioni.

VI: Lasciata incompiuta da Persio ed indirizzata all’amico Cesio Basso, in essa il poeta gioisce della propria tranquillità, lontano da invidie, chiacchiere, avidità, contento del poco che possiede e disposto a vivere senza far economie piuttosto che lasciar facili eredità ad un erede lussurioso.

VI, 1-17

Già le brume invernali t’hanno consigliato, o Basso, il tuo focolare sabino? Già la tua cetra e le sue corde dal suono profondo si animano per te al tocco del tuo plettro, o meraviglioso artista, così bravo a riprendere coi tuoi ritmi le leggende delle antiche età e a ricavare virili armonie dalla cetra latina, oppure a giocare, nella forte vecchiaia, gioiosi scherzi giovanili con purezza di canto. Qui ora intiepidisce per me la spiaggia di Liguria e sverna il mio mare, dove gli scogli mantengono aperta un’ampia insenatura e il lido si ritira con curva profon-da.«Di Luna il porto è bene, che voi conosciate, o Romani!», comandava la saggezza di Ennio, poi che ebbe smesso di sognare, russando, d’essere Omero, nato Quinto dal pavone pitagorico. Qui me ne sto al sicuro dalle chiacchiere della gente, senza preoccuparmi di quel che prepari l’Austro, tanto funesto ai greggi, e del tutto tranquillo anche se il terreno del mio vicino è più ferace del mio; se tutti coloro che son di origine più modesta, arricchissero all’improvviso, io non invecchierei certo per questo, né mi ridurrei a cenare di magro e a sfiorare col naso il sigillo d’una bottiglia inacidita. (tr. Barelli)

Un pessimismo amaro

II tono dei circa settecento versi che compongono in totale le satire è doloroso, amaro, risentito, derivante dalla concezione pessimistica che l’autore, vissuto lontano dal flusso vario e mutevole della vita vera, appartatosi dalla frenesia della vita politica romana e circondato solo dall’affetto costante delle donne di casa, aveva degli uomini e delle cose.

Pregi e difetti

Ancora oggi i critici non sono d’accordo sull’effettivo valore poetico delle «Satire»: vi si riscontrano pregi, ma anche difetti; non manca la vivacità di alcune scene, né una certa finezza di sentimenti o armoniosità nelle descrizioni e, tanto meno, una sottile intuizione psicologica, ma, nonostante queste qualità positive, Persio si presenta come un poeta faticoso, difficile, oscuro; si sentono di lui lo sforzo costruttivo e lo studio, non la spontaneità e l’immediatezza.

Mancano in lui del satirico il mordente di Lucilio, la serenità di Orazio, la spregiudicatezza di Giovenale, l’arguzia scanzonata di Marziale: è rimasto Persio un letterato, un moralista, e le sue satire sono spesso appesantite da intonazioni moraleggianti che derivano dalla filosofia stoica e non si sono alimentate al soffio vivo dell’esperienza diretta e personale.

Il moralismo

«Persio», afferma il Bayet, «è una sorta di giovane predicatore puritano, di un pudore verginale, che disprezza e fustiga senza indulgenza, e con una sorta di amaro compiacimento, i capricci e i vizi del suo secolo. Il puro stoicismo gli ispira una morale rigida e unilaterale, che vorrebbe applicare a tutti: è il contrario della delicata direzione delle coscienze, quale Seneca la concepisce. In lui si uniscono così il rigore della opposizione aristocratica e la vivacità cinica dei predicatori da strada. La poesia di Persio è di un’oscurità proverbiale, ma egli aveva un suo chiaro disegno: voleva fare delle satira un “grande genere” pur conservandole le sue tradizionali caratteristiche, il senso del pittoresco e la libertà di svolgimento».

Il «buon senso»

«Non mancò a Persio», continua il Marmorale, «la cultura filosofica, necessaria al moralista, né gli mancò la visione di un mondo migliore da sostituire, almeno nelle intenzioni, a quello che meritava di essere staffilato. E neppure mancò a Persio un’altra dote, il buon senso, che negli uomini negati alla cultura filosofica può agevolmente sostituirla, specialmente se accoppiato all’innata esatta intuizione del bene e del male. In realtà nelle satire di Persio il buon senso si nota nell’osservazione non velenosa della vita di tutti i giorni, che egli domina, senza lasciarsi travolgere dall’ira anche dagli spettacoli più ripugnanti; ed è ugualmente notevole il buon senso col quale egli, che pure sentì profondamente nell’anima lo stoicismo più come fede che come dottrina filosofica, non si ostina a volerlo applicato ad ogni costo nella vita degli altri, ma si limita a raccomandarlo come l’unica via di perfezione morale».

Nel tempo

Eccezionale la fortuna dell’opera nel Medioevo (Dante lo pone accanto ad Omero, Euripide, Anacreonte, Plauto, Virgilio e Stazio), anche se successivamente la valutazione dei letterati si fa sempre più ostile.

Lo Scaligero, definendolo «ineptus», lancia per primo una crociata anti-Persio soprattutto in riferimento alla «voluta» [?] oscurità del versificare che egli paragona all’andatura incerta di un febbricitante.

Lo Hensius definisce «sdentate» le satire; unica voce di difesa, quella del Casaubon.

Notevole, invece, il successo della produzione di Persio nella letteratura spagnola del sec. XVI, come dimostra il commento edito nel 1503 ed ininterrottamente ripubblicato fino al 1529 ad opera di Antonio de Nebrija.

Ancora su Persio

Vita.

La nascita e gli studi. P. nacque da famiglia agiata e appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura dalla madre, Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13 anni, ad educarsi presso le migliori scuole di grammatica e retorica: ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a segnarlo fu l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto (liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di Lucano), che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato (P. legò soprattutto con Tràsea Peto).

La formazione interiore. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P. fu amorevolmente circondato dalle cure della madre, ma anche di altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore, moglie di Tràsea Peto, e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio Statura, Lucano, Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio Noniano e i già citati Tràsea Peto e Cornuto (per lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia.

L’isolamento. La naturale introversione e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale aveva scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che mostrò di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure (ma tardi) conobbe: tuttavia, è difficile stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad una scelta per così dire “estetica” ed etica, o se non vi sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento “politico” di rifiuto della realtà che lo circondava.

La morte. P. morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia. Lasciò in eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) – nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé i libri, mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta.

Opere.

Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti al testo delle “Satire”, che probabilmente va fatta risalire all’erudito Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite sulla sua vita, c’informa anche della sua produzione.

Oltre che le “Satire” (che sono, ovviamente, il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una “pretexta” (dal titolo “Vescio”, che non comprendiamo); quindi, un libro contenente una narrazione di viaggi (“Hodoeporicon”) e un componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di Tràsea Peto (quella stessa Arria che volle morire suicida insieme al marito Cecina Peto).

Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette minori fossero distrutte, forse per constatate imperfezioni di stile dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse rappresaglie per il contenuto antimperialista di quella tragedia e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità di Nerone.

Satire. Trama e considerazioni.

Premessa. Le “Satire”, in numero di 6, in esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da un proemio di 14 versi “coliambi” (variazioni del trimetro giambico: nell’autorevole codice di Montpellier, del X sec., questo breve testo precede la satira I come introduzione a tutta la raccolta; nelle edizioni moderne, viene posto all’inizio oppure alla fine della raccolta). Molto probabilmente il poeta aveva un ben più vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le “Satire” per l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti, entrambi i revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio il periodo in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro erano ormai apertamente ostili). Non solo: alcuni versi della fine del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché l’opera non apparisse incompiuta.

Contenuto. E’ da premettere che è molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera: il modo di procedere di P. è quanto di più asistematico si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro risultano, infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della logica. Si aggiungono, a questo, altri problemi di interpretazione del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia, per quanto ci è possibile, procediamo con ordine.

– I “coliambi” (14 vv) hanno un vero e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è quello di educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo, volte esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della sua poesia e della sua ispirazione.

– La I satira (134 vv), strutturata in forma di dialogo tra l’autore e un immaginario interlocutore, è di argomento letterario: illustra i vizi deplorevoli della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna, cui il poeta – programmaticamente sulla scia di Lucilio e, soprattutto, di Orazio – oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad uomini liberi: P. si augura di avere anche pochi lettori, ma che certo sapranno intendere i suoi versi.

– La II (75 vv), inviata all’amico Plozio Macrino in occasione del suo compleanno, attacca la religiosità formale ed ipocrita, affermando di contro che agli dèi bisogna rivolgersi con fede onesta e sincera.

– La III satira (118 vv) biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi piuttosto alla morale stoica.

– La IV (52 vv) illustra la necessità di praticare la norma del “nosce te ipsum”, soprattutto per chi ambisca alla carriera politica (il poeta immagina che questa accusa, o rimprovero, venga rivolta ad Alcibiade da Socrate), e bolla chi s’industria a scrutare i difetti altrui senza conoscere i propri.

– La V (191 vv), dedicata a Cornuto (profonda e commossa è la riconoscenza dell’allievo nei confronti del maestro e dell’amico), la più lunga e la più bella, svolge il tema della libertà secondo il saggio stoico, ch’è consapevolezza razionale e dominio delle passioni: di conseguenza, l’unico veramente libero è il sapiente.

– La VI satira (80 vv, incompiuta), infine, rivolta sottoforma di lettera a C. Basso, che si trova in Sabina (mentre l’autore è a godersi la meravigliosa scogliera ligure di Luni), muove da un elogio dell’amico come poeta lirico, e progressivamente giunge a trasformarsi in un componimento soggettivo ed autobiografico: P., mostrandosi grato per l’educazione ricevuta, afferma di avere raggiunto l’equilibrio spirituale e deplora sia la prodigalità inconsulta sia l’avarizia, cui contrappone la “moderazione” (“metriotes”) propria degli stoici.

Considerazioni. P., imbevuto – come detto – dell’ambiente stoico e lontano dalle esperienze della vita, parla col tono del moralista intransigente, ma astratto; così, gli uomini diventano pretesto per una denuncia e per un esame “scientifico” (esemplato sui manuali morali del tempo) e “fenomenologico” del vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un lessico, come dire, “corporale”), col risultato di mettere a fuoco, anziché l’uomo, il suo comportamento tipizzato (i “mores”): la sua poesia è dunque anzitutto ispirata da una forte esigenza etica; ma un’etica distruttiva, o solo marginalmente costruttiva (sono poche, cioè, le indicazioni del “recte vivere”).

Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che altro come “antimodello”, nel senso che in P. il rapporto “maestro-poeta/discepolo-destinatario” si risolve in una reciproca “incomprensione”, che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un “barocchismo” macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il monologo della confessione. E, invero, la passione sincera spesso riscatta la sua arte.

Stile. L’esigenza realistica è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della tecnica della “iunctura acris” (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico) e quindi si “deforma”, condizione necessaria ad esprimere verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque, più che altro, una scelta estetica. Come dire che tale oscurità non è il risultato di una tecnica imperfetta, bensì una voluta difficoltà, che il poeta offre ai suoi lettori perché meditino attentamente sul suo messaggio.

Ovviamente, per quanto detto, destinatario dell’opera non può essere l’uomo (per dir così) comune, ma sarà un pubblico costituito da gente colta, istruita e anch’essa dotata della stessa profonda sensibilità del poeta.

Fortuna. Fatto sta, comunque, che le “Satire” di P. riscossero un enorme successo tra i contemporanei, specialmente presso Lucano. Il nostro autore fu molto letto e citato anche nei secoli successivi, studiato dai grammatici per la peculiarità della lingua e dello stile, e apprezzato dagli autori cristiani per il carattere spiccatamente moralistico della sua produzione. La sua fortuna, fiorente lungo tutto il medioevo, declinò tuttavia in età rinascimentale, oscurata da quella di Orazio satirico, moralista meno intransigente e scrittore meno duro e oscuro.

(fonte internet)

Gaio (?) Petronio

— ? – m. Cuma 66 d.C. —

Una parodia del romanzo greco sarebbe, secondo alcuni studiosi, il «Satyricon».

Poche opere della letteratura mondiale sono segnate da zone d’ombra così numerose e dense: di quest’opera, infatti, sono incerti l’autore, la data di composizione, il titolo ed il suo significato, la sua estensione primitiva, la trama, il genere letterario a cui riferirlo.

L’autore

È accettabile l’identificazione del Petronio autore del «Satyricon» con l’omonimo personaggio descritto da Tacito in un memorabile «ritratto» nel XVI libro degli «Annales»?

Indubbiamente le consonanze tra il ritratto tacitiano e il tipo di autore che può aver composto un’opera come il «Satirycon» sono molteplici e suggestive: colto e raffinato ma amante del lusso e delle mollezze, dedito spregiudicatamente ai piaceri, protagonista della vita salottiera e notturna, «arbiter elegantiae» alla corte di Nerone, questo personaggio impresse il segno del suo stile perfino alla morte che gli fu imposta come complice della congiura pisoniana.

Fattosi recidere le vene, attese infatti la fine banchettando e conversando di poesia, senza omettere di denunciare i crimini dell’imperatore.

Non c’è nessuna prova concreta che colleghi il Petronio tacitiano al «Satirycon», eppure sono sempre in maggior numero i critici che sostengono questa identificazione.

La data di composizione

Anche se l’identità dell’autore, purtroppo, continua a restare nel vago e da adito a controversie forse inconciliabili, tutti gli elementi di datazione interni all’opera, le allusioni ai personaggi storici, i riferimenti economici ed istituzionali ricavabili dalla trama, l’ambiente in cui i vari personaggi si muovono, la lingua profondamente diversa dal latino letterario, sono tutti elementi che concordano per una datazione del «Satyricon» da collocare non oltre il principato di Nerone.

La struttura

Attraverso un codice del 1423 scoperto nel 1663 a Traù, in Dalmazia, da Pietro Petit, iniziante con «venerat iam tertius dies» (c. XXVI) e terminante con «fugimus» (c. LXXVIII), abbiamo parte dei ll.XV e XVI del romanzo a cui è attribuito il titolo di «Satyricon» o «Satyricon libri»: titolo che, se si accetta l’ultima dizione, si presume derivi dall’aggettivo greco a tre uscite e indichi la «satura» latina, ovvero un componimento di carattere vario e misto.

Il «Satyricon» è, infatti, una satura menippea con due digressioni poetiche: «Troiae halosis», in sessantacinque senari giambici (c. LXXXIX), parodia del carme intorno alla presa di Troia declamato da Nerone con l’accompagnamento della lira durante l’incendio di Roma, ed il «Bellum civile», in duecentonovantacinque esametri (c. CXIX-CXXIV), parodia dell’omonima opera di Lucano.

La prima parte del «Satyricon», non in nostro possesso, sembra fosse ambientata a Marsiglia (ed, infatti, si è anche ipotizzato che Petronio fosse originario di quelle zone); la seconda parte, invece, in una «graeca urbs», in una città greca o grecizzata e sicuramente di mare, data la presenza in essa di personaggi quasi tutti marinai, città che si è individuata in Cuma o in Terracina oppure in Pozzuoli.

L’opera si conclude con toni ironicamente dissacratori del gusto «macabro» tipico di Lucano: Eumolpo, uno dei quattro personaggi del romanzo, sbarcato a Crotone, spacciandosi per un ricco proprietario terriero, propone agli abitanti di quella città, che egli distingue in «imbroglioni» ed in «imbrogliati», di devolvere il proprio enorme, quanto fantastico, patrimonio a chi mangerà il suo cadavere.

La trama

Anche difficile è definire la trama dell’opera per i tagli, gli spostamenti, le interpolazioni subite dal testo nel corso del tempo: di sicuro il romanzo era preceduto da un lunghissimo antefatto, forse in quattordici libri, seguito da una parte di lunghezza imprecisabile. Le vicende, in prevalenza erotiche e furfantesche, non hanno un vero protagonista, ma risultano incentrate sulle avventure di due giovani: Ascilto, rozzo e brutale, che funge anche da narratore, ed Encolpio, giovane colto ma dissoluto, avvezzo a vivere di truffe e di espedienti, entrambi omosessuali ed innamorati dell’effeminato Gitone, adolescente bello, capriccioso e vizioso, secondo il Marchesi «il ritratto di una cortigiana», che si diverte a provocare scene di gelosia e litigi tra i due predetti compagni di viaggio.

Quarto protagonista è il vecchio Eumolpo, geniale e scostumato, critico, poeta e truffatore, altro omosessuale che si finge pedagogo solo per poter stare accanto ai tre giovani:

c. XCIV, 5-9

Chiuso dentro, io decido di togliermi la vita con un laccio. E già avevo legato la cintura alla sponda diritta in piedi contro il muro e introducevo il collo nel cappio… allorché, spalancatisi i battenti, Eumolpo fa il suo ingresso con Gitone e da quel passo fatale me richiama alla luce. […] Appena [Gitone] ha così parlato, strappa al servitore di Eumolpo un rasoio, e, colpitosi una prima e una seconda volta alla gola, cade di schianto ai nostri piedi. Io caccio un grido di orrore, e, seguitolo nella caduta, cerco con il medesimo strumento di aprirmi una via alla morte. Ma né Gitone presentava una qualsiasi traccia di ferita, né io sentivo dolore alcuno. Si è che nella guaina c’era un rasoio senza filo, smussato a questo scopo, che gli apprendisti se ne servissero con la disinvoltura del barbiere. E perciò né il servitore si era spaventato a vedersi strappare lo strumento, né Eumolpo aveva interrotto quel suicidio da palcoscenico. (tr. Ciaffi)

II tema del viaggio, con cui si apre il romanzo, ricorda le peregrinazioni dei «clerici vagantes», ma, mentre questi viaggiavano per diffondere la cultura, Ascilto ed Encolpio viaggiano per il desiderio di avventura e di nuove esperienze anticonformistiche.

D’altronde elemento conduttore è proprio la persecuzione di Ascilto da parte del dio Priapo, che lo ha reso impotente e lo ha fatto respingere dalla sua donna, Trifena (né mancano altri tipi femminili, di spudorata dissolutezza o di ipocrita virtù), costringendolo ad andare ramingo con gli amici per l’Italia meridionale.

E tipica di questo genere licenzioso, estraneo al mondo romano, è la «fabula» raccontata da Eumolpo della matrona di Efeso (c. CXI-CXII), una vedova “inconsolabile” che, dopo aver ceduto alle voglie di un soldato posto di guardia a un crocifisso, per una serie di circostanze finisce con l’esporre sulla croce la salma del marito per salvare l’amante.

c. CXII, 5-8

Ma il soldato, mentre, impaniato come era, si dava buon tempo, quando il giorno seguente vide una croce senza il cadavere, temendo il supplizio che si meritava, corse a narrar l’accaduto alla donna; e soggiunse che, senza aspettar la sentenza dei giudici, con la sua stessa spada egli avrebbe fatto giustizia della sua spensieratezza. Gli acconciasse pure il luogo per quando fosse morto, e preparasse la fatale sepoltura per l’amante e il marito insieme. La donna, non meno pietosa che casta, «Gli dei non vogliono – disse – che io debba vedere a un tempo le esequie dei due uomini che ho avuti più cari. Meglio impiccare un morto, che uccidere un vivo». Così detto, gli disse di togliere dall’arca il corpo di suo marito, e di attaccarlo alla croce che era rimasta vuota. Il soldato mise in opera il bel ritrovato della saggissima donna; e il giorno dopo la gente non sapeva capacitarsi, come il morto fosse andato da sé a mettersi in croce. (tr. Cesareo)

Gli inserti poetici

Frequente nel «Satyricon» è anche l’interruzione del racconto in prosa a favore di intervalli in versi (e di quelli più lunghi a noi pervenuti, «Troiae halosis» e «Bellum civile», si è già parlato in precedenza). Tali inserti poetici sono strutturati come interventi del narratore, il quale abbandona la sua storia per operare un commento, per lo più con funzione ironica in quanto non corrispondente per stile o contenuto o livello letterario alla situazione commentata, con una continua variazione, quindi, di tonalità tra sogni e realtà, tra illusioni e brusche ricadute.

La «Cena», ovvero il realismo petroniano

Originale in Petronio è la carica realistica, evidente nella famosissima «Cena Trimalchionis», un episodio che si estende dal cap. XXXI al cap. LXXVII.

La scuola di retorica, la pinacoteca, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio, sono luoghi vivi e reali del mondo romano, non astratti e fuori del tempo, come nel romanzo greco, e Petronio in questi luoghi muove i personaggi della sua epoca, non tipici e quasi incasellati in «categorie» (come nelle satire), e li fa parlare nel loro linguaggio di tutti i giorni, nel «sermo cotidianus», per offrire ai lettori una visione della realtà disincantata ed oggettiva.

Ma è la «Cena» ad offrire maggiormente spunti per considerazioni: Trimalcione, uno schiavo arricchito, ma rimasto rozzo e «cafone», ha modo di fare sfoggio, nei capitoli in cui è di scena, della sua «cultura» e di ostentare le sue ricchezze in una cena-spettacolo che è un autentico trionfo del cattivo gusto.

E così, pur dicendo ai commensali di aver avuto il giorno precedente a cena persone più importanti di loro, fa servire il vino migliore, ad attestare una sua superiorità segno solo di «zoticaggine», né, durante il lungo e sontuoso banchetto, si astiene da innumerevoli atteggiamenti volgari e da esagerazioni paradossali, non lesinando percosse ai servi o pesanti offese a Fortunata, la «degna» e ingioiellatissima moglie. Anche nel chiedere ad Abinna, l’incisore di lapidi, a che punto sia la tomba ordinatagli, Trimalcione coglie l’occasione per descrivere le pompose decorazioni delle scene, che lo ritraggono in trionfo nella sua «casa» per l’eternità, e del proprio corteo funebre; e mostra perfino un orologio sul quale ha fatto incidere il suo nome, sicché chiunque legga l’ora è costretto a ricordarsi di lui. Un esempio…

c. XXXI, 2-4

Così finalmente ci mettemmo a tavola, con valletti di Alessandria che versavano acqua ghiacciata sulle mani, e altri che li rimpiazzavano ai piedi e con estrema precisione toglievano le pipite. E neppure questo servizio così ingrato li faceva star zitti, ma in quel mentre cantavano. Io volli provare se tutta la servitù cantava e chiesi allora da bere. Lì pronto mi secondò un valletto con un gorgheggio non meno stridulo, e così ogni altro a pregarlo di qualcosa.

Sembrava un coro di pantomimo, non il triclinio di un padre di famiglia.

Fu servito comunque un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all’infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto. Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinelio in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra. Ricoprivano l’asinelio due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana (tr. Ciaffi)

Petronio e la filosofia

Anche verso la filosofia ed i suoi esponenti Petronio non è tenero negli atteggiamenti, pur prendendo a prestito da essi espressioni tipiche.

Egli, in effetti, si pone in antitesi con Seneca e, servendosi di alcune sue frasi tipiche, le dissacra nei loro valori etici: ironizza insomma sulla filosofia facendo suo l’epitaffio che Trimalcione legge ai presenti: «Sono stato pio, forte, valoroso e non ho ascoltato i filosofi; possa fare ciò anche tu».

Così il romanzo, privato di ogni implicazione didascalica, si presenta come un grande affresco di un’intera epoca, con i suoi rivolgimenti sociali, le sue degenerazioni morali, i suoi compiacimenti dissacratori di una “classicità” sentita come anacronistica.

Il romanzo, in conclusione, esprime una vocazione satirica «incompleta» dominata dalla parodia, ma il ritenerlo solo parodia sarebbe senz’altro riduttivo.

Petronio in esso ha reinterpretato tutti i generi letterari nella loro storia ed i miti della propria epoca: Omero, Virgilio, la tragedia, l’elegia, la storia, la filosofia, il romanzo sentimentale, la novella, i mimi, le declamazioni, il racconto,…

Nel tempo

Dopo la scomparsa dell’originale, forse già dall’età dei Flavi, e le ampie sintesi («excerpta»), si deve al ritrovamento del frammento della «Cena Trimalchionis» un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto in Francia da parte di Lallemand e Nodot.

Il romanzo, pur noto in Italia a partire dal primo quarto del quindicesimo secolo, non ha particolare risonanza anche per l’opposizione degli ambienti umanistici, saldamente legati ad una concezione profondamente moraleggiante e al pregiudizio della «classicità».

Il «Satiricon» ha registrato un vero e proprio rilancio nel nostro secolo, parallelamente alla rivalutazione della letteratura post-classica e/o anticlassica e alla caduta delle preclusioni moralistiche.

Ne sono state ricavate anche versioni cinematografiche da importanti registi italiani (Fellini).

Ancora su Petronio

Vita.

La questione petroniana. Per molto tempo si è parlato di una questione petroniana, finché è durata l’incertezza sull’epoca, la persona, il nome completo e il titolo dell’opera narrativa di P., ovvero se si trattasse effettivamente del personaggio rappresentato da Tacito in “Annales” 16: T. Petronius Niger. Ma finalmente quest’identificazione sembra oggi pacifica: le qualità che Tacito dà alla figura di P. sono tutte qualità, infatti, che l’autore del “Satyricon” deve aver posseduto in modo elevatissimo. Non sappiamo se Tacito conoscesse direttamente il romanzo; se lo conosceva, è lecito pensare che ne abbia tenuto conto nella sua descrizione di P., ma non era tenuto a citare nella sua severa opera storica un testo così eccentrico e scandaloso. Certi aspetti del testo, poi, possono benissimo rimandare all’ambiente neroniano, e il gusto di P. per la vita dei bassi fondi può avere una sottile complicità con i gusti dell’imperatore. Se l’autore è in realtà il P. di Tacito, dobbiamo aspettarci certamente allusioni anche sottili all’ambiente della corte neroniana.

Tutti gli elementi di datazione interni concordano, del resto, con una datazione non oltre il principato di Nerone. Le allusioni a personaggi storici e i nomi di tutte le figure del romanzo sono, insomma, perfettamente compatibili con il contesto del periodo storico di Nerone.

Elegantiae arbiter. Il P. di Tacito – anche se a Roma non s’interessò di politica e non aspirò ad onori – fu altresì un uomo di potere (proconsole in Bitinia e “consul suffectus” nel 62); ma la qualità che lo rendeva caro a Nerone era ancor più la raffinatezza, il gusto estetico (“elegantiae arbiter“): gran signore, viveva a corte, dormiva di giorno e dedicava la notte ai piaceri e alle cose serie; non amava il lavoro, bensì il lusso e l’eleganza, ostentando però un carattere trascurato e vizioso.

L’odio di Tigellino e la diffamazione. Appunto per queste “qualità”, venne in invidia e in odio a Tigellino, il potente favorito dell’imperatore, il quale lo accusò di essere amico di uno dei capi della congiura di Pisone (65 d.C.).

Il suicidio “epicureo”. Ma questo P. stupì ancora una volta, realizzando un suicidio in grande stile: non volle attendere che gli giungesse l’ordine di morire, ma prima ancora, mentre era a Cuma (proprio a séguito dell’imperatore), si fece incidere le vene, e poi, rallentando il momento della fine richiudendosele, passò le ultime ore a banchetto non a discorrere, alla maniera dei saggi e degli uomini forti (insomma, alla maniera stoica di Lucano e di Seneca), i soliti discorsi sull’immortalità dell’anima, bensì – con ostentato atteggiamento epicureo – ascoltando poesie di contenuto poco serio e amene discussioni. Tuttavia, volle mostrarsi anche serio e responsabile: si occupò dei suoi servi (ne ricompensò alcuni, altri li fece sferzare), e scelse di denunciare apertamente, in una serie di “codicilli“, i crimini dell’imperatore (non volle adularlo come solevano invece fare i condannati per mettere al riparo da persecuzioni amici e parenti), descrivendone con ogni particolare la vita scandalosa, con nomi di pervertiti e di prostitute; quindi, sigillò lo scritto e distrusse il suo anello, perché non potesse venire riutilizzato in qualche intrigo o per calunniare innocenti.

Opere minori. Vengono attribuiti a P. circa 30 carmi e frammenti poetici. La paternità è, più di una volta, dubbia. L’ispirazione di fondo è quella “epicurea”: sensuale, scherzosa, gaudente, ma senza note originali e, comunque, senza che l’arte petroniana ne risulti accresciuta.

Il “Satyricon”.

**Premessa. Del capolavoro, il “Satyricon”, come accennato, sono incerti l’autore, la data di composizione, il titolo e il significato, l’estensione e la trama originarie, il genere letterario e le motivazioni per cui quest’opera venne scritta e pubblicata: in effetti, l’unico attestato dell’opera di P. (quello che, insomma, noi oggi leggiamo) è solo un lungo frammento narrativo in prosa, con parti in versi, residuo di una narrazione molto più ampia.

Il titolo, “Satyrica“, sembra formato da due grecismi: “Satyri” (i personaggi del mito e del folklore greco) più il suffisso di derivazione greca “-icus“. Il lungo frammento sopravvissuto copre parte dei libri XIV e XVI e la totalità del libro XV. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Questo perché il testo ebbe un destino complesso: fu antologizzato già in età tardo antica, con intervento anche di vere e proprie interpolazioni e “censure”.

**Trama. [Antefatto]. Tenendo presenti alcuni tratti che si possono ricavare dalla lettura complessiva dell’opera, è possibile ricostruire schematicamente l’antefatto del romanzo. Un giovane, Encolpio, narra le sue strane peripezie in prima persona: in sua compagnia vi sono Ascilto e Gitone, suo amato. Tutti e tre, dopo essersi conosciuti in disavventure svoltesi probabilmente a Marsiglia (e dove Encolpio deve aver commesso una colpa nei confronti di Priapo, dio della sessualità e della fecondità, oltre che un omicidio e un furto), si vengono a trovare in una città di costumi greci dell’Italia meridionale (Napoli? Cuma? Pozzuoli?), che nemmeno gli stessi personaggi conoscono, tant’è vero che non riescono a trovare la via del proprio albergo.

[La decadenza dell’eloquenza]. La parte del romanzo a noi pervenuta incomincia con una discussione sulle cause della decadenza dell’eloquenza, intavolatasi tra Encolpio, che attribuisce la colpa della decadenza alle declamazioni, e un retore di nome Agamennone, il quale se la prende, invece, con la cattiva educazione dei giovani.

[Il rincorrersi dei protagonisti]. Durante tale disputa, Ascilto se ne va per i fatti suoi e, dopo alcune peripezie, giunge ad un lupanare. Encolpio, accortosi di essere stato lasciato solo – anche Gitone, infatti, se n’era andato – va alla ricerca degli amici e, dopo essersi perso in una sorta di labirinto fatto di vicoli e vicoletti, ritrova Ascilto presso il lupanare e Gitone in albergo: qui ha luogo una scenata di gelosia tra i due amici a causa del piccolo Gitone (che confessa ad Encolpio le insistenti avance di Ascilto), che si conclude col proposito di separarsi e di tentare ognuno la fortuna per conto proprio; ma poi segue la riconciliazione.

[La tunica ritrovata al mercato]. Fatta la pace, hanno luogo molte vicende, che noi non conosciamo, finchè Encolpio ed Ascilto vanno al mercato per vendere un mantello rubato, onde rifarsi della perdita di una tunica (episodio evidentemente contenuto in una parte del testo non pervenutaci), in cui avevano nascosto il loro denaro: per fortuna incontrano il contadino che aveva trovato la loro tunica, e gli propongono il baratto col mantello; la cosa suscita un tale parapiglia che interviene la legge; ma i due riescono a riavere la tunica e se ne tornano in albergo, dove sono protagonisti d’un’altra ben strana avventura.

[Il rito orgiastico di Quartilla]. Una donna, di nome Quartilla, sorpresa dai due giovani in uno dei suoi riti orgiastici nel tempio di Priapo (altro episodio evidentemente contenuto in una parte del testo non pervenutaci), e ammalatasi per tal ragione di febbre terzana, li va a trovare, in compagnia di un’ancella, Psiche, e d’una bambina di sette anni, Pannichide, costringendoli a compiere un rito di riparazione (e di guarigione per la propria malattia), durante il quale Gitone è addirittura costretto a sposare Pannichide. Non ci mancasse altro, interviene un cinedo schifoso che intona il canto dei sacerdoti di Cìbele.

[La “cena Trimalchionis”]. I due giovani, sfiniti e disgustati, stavano cercando di liberarsi da quella strega, quand’ecco giungere uno schiavo del retore Agamennone a ricordare loro che avevano accettato un invito a cena presso un certo Trimalchione, tipica figura di arricchito, cafonesco e ridicolo. Qui inizia la descrizione della famosissima e pantagruelica “Cena Trimalchionis” (capp. 27-58): tutto è preparato col solo scopo di impressionare gl’invitati, dalle portate (abbondanti e bizzarramente “scenografiche”) ai “numeri di varietà” (“mimi”, musica…), dagli argomenti pseudoeruditi o spiritosamente spropositati intavolati dallo stesso padrone di casa per la discussione, alla messinscena pacchiana e patetica (addirittura) del proprio funerale.

[Encolpio, lasciato da Gitone, incontra Eumolpo]. Fuggiti dal luogo della cena (il cui clima era divenuto davvero irrespirabile) approfittando di un parariglia, i tre protagonisti si ritrovano nella locanda: Encolpio e Ascilto ancora litigano per Gitone, che alla fine preferisce il secondo. Encolpio, disperato e covando propositi di vendetta, si reca a visitare una pinacoteca, dove incontra Eumolpo, uomo vizioso ma innamorato della poesia, il quale deplora la decadenza delle arti e la corruzione dei costumi, e, ispirandosi ad un quadro, declama un carme in 65 senari giambici sulla presa di Troia (“Troiae halòsis”, cap. 89). Ma i presenti, infastiditi dalla “declamatio“, prendono il poeta a sassate.

[Encolpio, ritrovato Gitone, si mette in viaggio con Eumolpo]. Stretta amicizia col nuovo personaggio, Encolpio decide di partire con lui, portando con sé il ritrovato Gitone (ma prima abbiamo altre avventure, complicate dalla gelosia del narratore che scopre nel poeta un nuovo rivale in amore; Ascilto, dal canto suo, sembra scomparire dalla scena): sulla nave, però, scoppia una violenta baruffa, perché i due giovani – per l’occorrenza, inutilmente mascheratisi da schiavi – avevano un vecchio conto (ennesimo episodio non pervenutoci) da regolare proprio coi padroni della nave, i due coniugi dissoluti Lica e Trifena, a causa di fastidi patiti in precedenza nella casa di campagna di un certo Licurgo. Tornata la pace, segue un banchetto riparatore, durante il quale Eumolpo narra la gustosa novella della matrona di Efeso (capp. 111-112): una matrona vedova, simbolo della fedeltà e del perbenismo, finisce col concedersi ad un soldato proprio sulla tomba del marito.

[A Crotone, dopo il naufragio della nave]. La narrazione, ora, assume una svolta imprevista: una tempesta spinge la nave sulle coste di Crotone: i nostri vi giungono naufraghi, laceri e senza un soldo. Encolpio ha modo di riconoscere Lica in un cadavere di naufrago: per lui intona, piangendo lacrime ipocrite, un triste lamento sulla mala sorte degli uomini. A Crotone, per tirare avanti, i tre organizzano una truffa colossale: Eumolpo, infatti, venendo a sapere che in quella città vi sono molti cacciatori di eredità, per farsi accogliere cordialmente da tutti, finge di essere un ricco sfondato e senza figli (mentre Encolpio e Gitone si fanno passare per suoi servi) e si prende gioco dei grulli; quindi, approfitta di un’opportunità per rinnovare le sue lamentele sulla crisi della poesia e per improvvisare 295 esametri dattilici un “De bello civili”, appunto sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo; Encolpio – che intanto ha preso il nome di Polieno – s’innamora della ricca bella e svenevole Circe (fa da tramite la spudorata servetta Crìside), ma l’amore gli è negato dalla persecuzione del dio Priapo, che si vendica delle vecchie offese (il narratore tenta anche di recuperare la virilità perduta ricorrendo, tra l’altro, alla magia). Intanto si scopre la truffa. Eumolpo, per sbarazzarsi dei cacciatori di eredità, dichiara in testamento che lascerà tutti i suoi beni a chi avrà il coraggio di sbranare il suo cadavere. Qui il racconto s’interrompe.

**Personaggi. Maschili. Encolpio. E’ un giovane pieno di talento e di ingegno, sensibile all’arte e amante delle belle lettere, una sorte di intellettuale vagante, coraggioso fustigatore dei vizi che compromettono una buona formazione artistica, buon giudice di poesia e non privo di cultura; tuttavia, la sua perversione morale e sessuale, nonché la sua insanabile gelosia nei confronti di Gitone, spesso lo portano ad atteggiamenti riprovevoli. E’ forse, di tutto il romanzo, il vero alterego di P. .

Ascilto. E’ un bravaccione grossolano e violento, puro istinto, ignaro di cose belle e di letteratura, che vuol risolvere tutto coi pugni e la spada.

Gitone. E’ un sedicenne giovinetto dall’aspetto e dall’atteggiamento femminei e impudichi, e dall’animo ipocrita: amasio (interessato) ora di Encolpio, ora di Ascilto, insomma di chi, sul momento, gli dia maggiori sicurezze.

Trimalchione. E’ il villano rifatto per eccellenza, perciò in tutte le sue manifestazioni tradisce la bassezza della sua origine, la volgarità della sua educazione, la grossolanità dei suoi gusti: qualcuno ha voluto vedere in lui la personificazione di Nerone, ma è piuttosto da vedere la satira feroce di tutti quei liberti imperiali, i quali, strisciando come vermi e sfruttando l’infame consuetudine della delazione, erano riusciti ad ammassare ricchezze favolose. Eppure, Trimalchione è uomo che ha le sue particolari “qualità”: ha l’arte di condurre in porto gli affari (anche quelli meno limpidi), conosce il mondo, e soprattutto è ottimista ad oltranza e, come tutti i grandi affaristi, mai si lascia scoraggiare dai rovesci della sorte. Tenace, costante, bonario, a differenza dei suoi simili ci tiene a ricordare le sue basse e crasse origini, e nei confronti di alcuni schiavi sa mostrare simpatia e partecipazione. E pur se immerso nel più plateale edonismo, ha le sue paure: gli astri e le arti magiche, così come si intenerisce davanti al pensiero della sua morte.

Ermerote. Uno degli invitati della cena, puntiglioso, permaloso e saccente.

Echione. Il convitato ignorante, che tuttavia ci tiene che il figlio studi.

Seleuco. Altro convitato, parco nel lavarsi, ma che pure lascia andarsi ad amare considerazioni sulla vita e sulla morte.

Ganimede. Convitato, nostalgico del buon tempo antico.

Abinna. Intimo amico di Trimalchione, marmista (ha il compito di realizzare il monumento sepolcrale dell’amico) che si dà arie di alto magistrato.

Eumolpo. E’ un vecchio squattrinato lussurioso e gaudente, che non indietreggia davanti a nulla pur di raggiungere l’oggetto della sua passione; eppure, in lui vi è il vero temperamento di un poeta, un grande amore per l’arte, un sincero entusiasmo per la poesia, di cui anzi è ammalato, tanto da non poter fare a meno di recitare versi ovunque, in viaggio, nei bagni, nei teatri, rischiando talvolta le sassate di coloro che lo ritengono un importuno: è, insomma, un uomo navigato, che della vita accetta e giustifica tutto.

Femminili. Tra i personaggi femminili non ve n’è uno che mostri delicatezza: per P., la donna è semplicemente strumento di vizio e di depravazione.

Quartilla. La donna dei riti orgiastici priapei è una figura disgustosa, che non sa immaginare altro che atti libidinosi e nauseabondi.

Fortunata. Moglie di Trimalchione, esemplare tipico delle mogli degli arricchiti, è sì premurosa della casa e specialmente del suo vizioso marito, ma è grossolana e volgarissima in tutti i suoi gesti (ad es., l’affettuosità con l’amica Scintilla).

Scintilla. Stupidotta e boriosa moglie di Abinna.

Trifena. Moglie di Lica, è galante, frivola, corrotta, smaniosa sempre di nuove avventure.

Circe. La bellissima dama crotonese, innamorata di Encolpio, è tutta presa dalla sua furia di godimento e non vede nulla al di là della lussuria.

**Considerazioni. Il senso della vita. Il “Satyricon”, come vedremo, deve molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale: ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Il tratto più originale della poetica di P. è forse la forte carica realistica, evidente soprattutto nel capitolo 15, dove diventa anche un fenomeno linguistico. Nel vorticoso avvicendarsi di disavventure luoghi e personaggi, al di là dell’intento di divertire il lettore e di divertirsi raccontando, sembra emergere – d’altra parte – un senso di precarietà e d’insicurezza, una visione della vita multiforme e frantumata, dominata da una fortuna imprevedibile e capricciosa, e oscurata dal pensiero sempre incombente della morte (si pensi, ad es., alla considerazione di Trimalchione sulla durata del vino, che vive più a lungo dell’uomo, e al suo commuoversi al pensiero della propria morte; nonché alla legge della vita, che prevale sempre sulla dura realtà della morte, nella novella della matrona di Efeso).

Il realismo e il distacco. P., dunque, presenta e ritrae un mondo corrotto, popolato da personaggi squallidi e anonimi, che traggono soddisfazione solo dai piaceri più essenziali ed immediati. Insomma, egli raffigura una fascia sociale che non sembra animata da alcuna ispirazione/aspirazione ideale e che nella cultura del tempo non trovava evidentemente spazio. Eppure, P. fa ciò senza compiacimento, anzi quasi con distacco, prendendo le dovute distanze, ma non senza ironia e malizia: egli, cioè, non offre ai suoi lettori nessun strumento di giudizio, e non potrebbe essere altrimenti, in una narrazione condotta in prima persona da un personaggio che è dentro fino al collo in quel mondo sregolato. L’originalità del realismo di P. sta così non tanto nell’offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell’offrirci una visione del reale che è critica quanto spregiudicata e disincantata: ma di una critica, come detto, “estetica”, e non di natura sociale e/o politica, senza le stilizzazioni e le convenzioni tipiche della commedia e senza i filtri moralistici propri della satira: ciò che egli veramente disapprova è soltanto il cattivo gusto.

La critica ai filosofi. Semmai, più evidente è l’attacco nei confronti dei filosofi contemporanei, primo fra tutti Seneca: essi vengono ridicolizzati nella loro ansia di rinnovamento, nel loro predicare la virtù e sognare un mondo migliore; e ad essi, P. contrappone realisticamente quell’umanità bassa e desolata, ch’è – se vogliamo – la vera protagonista del romanzo.

La discussione letteraria. Accanto alla rappresentazione di situazioni licenziose, trova inoltre posto nel romanzo la discussione letteraria: le lettere e le arti sono decadute per l’eccessivo attaccamento al denaro, per l’amore sfrenato dei piaceri e del lusso.

Testimonianza di ciò sono:

– per la decadenza dell’eloquenza, il colloquio tra Encolpio e il retore Agamennone (capp. 1-4);

– per la poesia epica, la declamazione sulla presa di Troia (cap. 89); l’affermazione originale del cap. 90, secondo il quale il poeta, nel momento in cui è preso dall’estro poetico, è un essere fuori del normale (la poesia, sembra affermare P., non è un artificio, ma spontaneità); infine, la recita dei 295 esametri sull’argomento “De bello civili” e l’affermazione che soli veri poeti presso i Romani furono Virgilio e Orazio (capp. 118-124).

[Partendo dai brani poetici suddetti, alcuni hanno voluto vedere nella “Presa di Troia” una parodia di un’opera omonima di Nerone, e negli esametri del “De bello civili” una parodia alla “Farsaglia” di Lucano: in realtà, nel primo caso, c’è semplicemente il desiderio (come detto) di affermare che la poesia è spontaneità, e ciò forse era contro Nerone, che si atteggiava a poeta; nel secondo caso, vi è una condanna alla poetica stoica applicata alla poesia epica, e l’impegno di dimostrare che si poteva fare vera poesia epica anche ispirandosi alla tradizione di Virgilio.]

La lingua e lo stile. Anche la lingua di P. è un fatto composito: l’autore sa servirsi, a seconda delle situazioni e delle sue intenzioni parodiche o ironiche, di tutti i registri linguistici, sa piegare l’espressione ai modi e alle necessità dell’epica, è capace di ricreare la prosa ciceroniana o il classicismo di Virgilio, ma quella che prevale nell’opera è una lingua nuova, moderna, assai più vicina ad una forma parlata, che egli consapevolmente immette nella lingua letteraria. Il linguaggio e lo stile sono, insomma, straordinariamente duttili e “mimetici”, e divengono il mezzo principale di caratterizzazione degli ambienti e, soprattutto, dei personaggi: dallo stile generalmente piano colloquiale e disinvolto del narratore, si passa al “sermo vulgaris” di Trimalchione, alla magniloquenza di personaggi come Agamennone ed Eumolpo, solo per citare alcuni esempi; in certi casi, poi, il linguaggio del narratore e dei personaggi colti si eleva notevolmente, facendosi eccessivamente elaborato ed enfatico, con intenti – è evidente – ironici e parodistici.

I lettori. Infine, è da dire che il livello culturale dei lettori a cui il “Satyricon” si rivolgeva era sicuramente alto, come notava già Auerbach quando scriveva: “P. attende lettori di tale levatura sociale e cultura letteraria da poter subito intendere tutte le sfumature del mal comportamento sociale e dell’abbassamento della lingua e del gusto … un’élite sociale e letteraria che riguarda le cose dall’alto … anche P. dunque scrive dall’alto, e per il ceto delle persone dotte”. Dunque, il pubblico di P. doveva essere costituito senz’altro dagli aristocratici di Roma, e, molto probabilmente, dai cortigiani e dallo stesso Nerone.

I rapporti col romanzo antico. E’ noto che il “Satyricon” costituisce, insieme alle “Metamorfosi” di Apuleio, l’unico testo della letteratura latina appartenente al genere del romanzo. E’ interessante, a tal proposito, tracciare dei parallelismi con altre opere dell’antichità appartenenti allo stesso genere.

Riguardo il romanzo antico, è possibile distinguere tre tipologie differenti:

– il romanzo “di avventure e di prove”, rappresentato eminentemente dal cosiddetto “romanzo greco” o “sofistico”: le “Etiopiche” di Eliodoro, Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, “Le avventure di Cherea e Calliroe” di Caritone, “Abrocome e Anzia” o “Racconti Efesii” di Senofonte Efesio, e “Le avventure pastorali di Dafni e Cloe” di Longo Sofista.

– il romanzo “biografico”, al quale sono ricondotti l’ “Apologia di Socrate” e il “Fedone” di Platone, oltre alle biografie retoriche che hanno origine dagli encomi, a loro volta discendenti dagli antichi “threnoi” o, in ambiente latino, dalle “laudationes funebres”; ne sono un esempio le “Retractationes” di Agostino; all’interno di questa tipologia Bachtin distingue poi la biografia “energetica”, rappresentata dalle “Vite” di Plutarco, che porta ad una progressiva rivelazione del carattere del protagonista, dalla biografia “analitica”, il cui autore più tipico è Svetonio;

– il romanzo “di avventure e di costume”, rappresentato in senso stretto solo, e appunto, dalle “Metamorfosi” e dal Satyricon, che Bachtin avvicina al romanzo “picaresco” europeo moderno, in quanto in entrambi quello che egli definisce “tempo di avventura” si intreccia strettamente nella narrazione al “tempo quotidiano”.

Al contrario dei romanzi latini, questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di tratti distintivi. La trama è quasi invariabile: si tratta delle traversie di una coppia di innamorati che vengono separati e che devono affrontare mille pericoli prima di potersi riabbracciare. Il tono è quasi sempre serio, lo scenario è invece variabile e spazia nei paesi del Mediterraneo. L’amore è trattato con pudicizia, come una passione seria ed esclusiva: l’eroina riesce sempre ad arrivare alla fine del romanzo ancora casta.

Nel romanzo di P., invece, l’amore è visto in modo ben diverso. Non c’è spazio per la castità, e nessun personaggio è un serio portavoce di valori morali. Il protagonista è sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo, e il suo partner preferito è maschile. Il rapporto omosessuale tra Encolpio e Gitone diventa, così, quasi una parodia dell’amore romantico che lega gli innamorati dei romanzi greci. Ci sono d’altra parte studiosi che, come Sullivan, non condividono appieno questa ipotesi, e sostengono invece che sia il “Satyricon” sia i romanzi greci si rifarebbero al comune modello dell’epos, e che quindi le analogie strutturali che si riscontrano tra il romanzo latino e quelli greci sarebbero giustificate da questa comune ascendenza.

A partire dal I secolo d.C., poi, ha grande fortuna una letteratura novellistica, caratterizzata da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali. Un filone importante è quello che gli antichi spesso etichettano come “fabula Milesia“; sappiamo con certezza che P. utilizzò ampiamente questo filone di narrativa (una tipica storia milesia è quella raccontata da Eumolpo): i temi tipici di questa novellistica si oppongono a qualsiasi idealizzazione della realtà: gli uomini sono sciocchi e le donne pronte a cedere.

La “pluridiscorsività”. Tuttavia, nessun testo narrativo classico si avvicina anche lontanamente alla complessità letteraria di P.: se la trama del romanzo si presenta molto complessa, ancora più complessa è la sua forma (e a ragione, si è parlato [Bachtin] di una sua “pluridiscorsività” e “intertestualità”). La prosa narrativa è interrotta frequentemente con inserti poetici: alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi diretti del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona le relazioni con gli eventi esterni e si abbandona a commenti che hanno funzione ironica. La presenza di un narratore passivo che subisce i capricci della fortuna è tipica di P., come del romanzo di Apuleio, ma l’uso libero e ricorrente di inserti poetici allontana quest’opera dalla tradizione del romanzo e la avvicina agli altri generi letterari. Il punto di riferimento più vicino al “Satyricon” è, così, propriamente, la “satira menippea“: questo tipo di satira si configurava infatti come un contenitore aperto, molto vario per contenuti e per forma, e che alternava momenti seri a situazioni giocose, il tutto però sorvegliato da un’abile tecnica di composizione.

A tal proposito, e a mo’ di esempio, sono stati oggetto di indagine i riferimenti che P. dissemina nella sua opera ad autori latini, in particolare a Virgilio, la cui opera sarebbe parodiata e/o imitata nel cosiddetto “Bellum civile”, cioè quella sezione in versi che Eumolpo recita nella parte iniziale del testo (che, come è noto, è un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e versi) [anche su questo argomento però i pareri sono discordi, dal momento che secondo altri qui P. intenderebbe parodiare il poema epico di Lucano, più che quello di Virgilio].

Suggestioni “odissiache”? Molto nota, invece, e sicuramente più fondata, è l’individuazione nel “Satyricon” di un intento parodistico dell’Odissea, individuato e descritto (tra gli altri) da Courtney, Klebs e Fedeli. I punti a sostegno di questa tesi sono molti, e probanti: si tratta non tanto della ripresa dell’ira di Poseidon che perseguita Odisseo nel poema, parodisticamente adombrata da P. nella persecuzione del dio Priapo nei confronti del protagonista Encolpio; né solo della struttura “odissiaca” (incentrata cioè sulle peripezie di viaggio) delle avventure narrate nel romanzo; quanto piuttosto di elementi di dettaglio, ma perciò stesso assai più significativi, che depongono a favore di questa tesi. Ad es. è indicativo che il già nominato Encolpio assuma, in una avventura di seduzione di una matrona, il nome di Polieno (nell’Odissea “polyainos” è un epiteto che viene attribuito da Omero al solo Odisseo); analogie evidenti presentano poi alcuni episodi, come quello in cui il protagonista del romanzo, per sottrarsi ai suoi inseguitori, si attacca sotto ad un letto, con una palese ripresa dell’espediente con cui Odisseo fugge dalla caverna del Ciclope attaccandosi sotto il ventre dell’ariete avviato al pascolo.

Allusioni alla cultura ebraica e cristiana? Invece, è solo in tempi più recenti che sono stati messi in luce alcuni riferimenti (oggetto ancora di parodia o di semplice allusione) alla cultura ebraica, che sarebbe possibile riscontrare nel romanzo: uno studioso in particolare, J. Clarke, ha rilevato – nell’episodio centrale della parte superstite del Satyricon (ovvero la cena di Trimalcione) – alcuni riferimenti all’ebraismo. Sull’esempio di questo studioso, le ricerche di echi e riprese di elementi della cultura giudaica nel Satyricon si sono moltiplicati, estendendosi anche all’ambito dell’onomastica. In questo settore, già da tempo è stato osservato che i nomi dei personaggi sono assegnati da P. con intenzione allusiva a personaggi o vicende del mito: Labate ad es. osservava che Corace (nome del servo che rivela agli “ereditieri” l’inganno di Encolpio ed Eumolpo nell’avventura di Crotone) è con ogni evidenza ripreso dal mito della cornacchia (“korax“) punita da Apollo per la sua attività di delazione di cui parla Callimaco in un suo inno. Estendendo l’indagine anche all’area linguistica semitica alla ricerca di analoghe allusioni, Bauer ha interpretato il nome di Trimalcione come composto da un prefisso “tri-“, di significato intensivo, associato alla radice semitica “mlk“, portatrice dell’idea di regalità. Trimalcione sarebbe quindi il “tre volte re“, titolo certo adatto alla sua smania di esibizionismo e alla volontà di autocelebrazione, che lo contraddistinguono come parvenu desideroso di ostentare la propria smisurata ricchezza.

Non si sa, infine, se nella descrizione del banchetto funebre a base di carne umana – ch’è contenuto nel fantomatico e lugubre testamento di Eumolpo – si debba scorgere una parodia delle “agapi” cristiane, così come esse venivano alterate e mistificate da parte dei pagani (i quali credevano che realmente i Cristiani si cibassero della carne del Cristo); ma è forse significativo, comunque, che questo romanzo, documento della corruzione pagana dell’impero romano, si concluda proprio con accostamento, sia pure empio e sacrilego, al sacramento dell’eucarestia, perché due mondi, l’uno in sfacelo l’altro appena sorgente, si oppongono come due contrarie forme di vita.

(fonte internet)

Seneca (4 a. C. ca- 65 d.C.)

— a cura di Diego Fusaro —

Già dal 155 a.C., allorché a Roma erano venuti, quali ambasciatori dei Greci, il peripatetico Critolao, l’accademico Carneade e lo stoico Diogene il Babilonese, le dottrine delle principali correnti di pensiero greche si erano introdotte nell’Urbe trovando, col tempo, esegeti in Cicerone, Amafinio, Rabirio, Cazio, M. Giunio Bruto, Nigidio Figulo, anche se fu l’Arpinate, con i suoi scritti pervenuti fino a noi, e lo abbiamo visto, ad illustrarle criticamente e, favorito dalla sua posizione eclettica, a dare un deciso impulso alla loro diffusione.

Sulla scia di Cicerone sembra muoversi Seneca, specie quando afferma di voler prendere la parte migliore delle varie scuole, ma, pur manifestando una certa indipendenza e libertà nell’orientare il proprio pensiero, alla base del suo filosofare c’è lo Stoicismo: non quello di Zenone, Cleante, Aristone, Erillo, Crisippo oppure l’altro di Panezio, ma una dottrina temperata da Seneca stesso, pure giudicato da Lattanzio «omnium Stoicorum doctissimus», a tal punto da convivere con il suo opposto, l’Epicureismo.

Prima di inoltrarci in ulteriori considerazioni sul pensiero di Seneca, ci sembra doveroso riassumere brevemente e schematicamente le idee principali di queste due correnti ed i motivi di divergenza tra le stesse.

Per lo Stoicismo, come per l’Epicureismo, la conoscenza ha inizio dai sensi, ma esistono anche le «nozioni comuni», nozioni che tutti gli uomini possono formarsi con il contributo del linguaggio.

Strumento della logica è il sillogismo il quale ci fornisce il criterio della verità, che per gli epicurei era la sensazione, per gli stoici l’assenso, l’evidenza (catalessi).

La fisica epicurea si rifaceva a Democrito, quella stoica ad Eraclito: il fuoco è la divinità (Logos) immanente nel mondo da cui s’originano, come da un seme (ragioni seminali), gli esseri materiali.

Secondo gli stoici il Grande Anno è l’epoca nella quale si avrà la distruzione del mondo (epirosi) e la ricostituzione di un mondo nuovo (apocatastasi): questo processo durerà in eterno; ad ogni fine succederà un nuovo inizio.

La divinità impone all’universo Fato e Provvidenza e quello che noi chiamiamo «male» è relativo, in quanto è «male» per chi lo subisce, ma «bene» per l’ordine generale delle cose («l’ingiustizia permette la manifestazione della giustizia»).

L’anima umana è una sostanza eterna staccatasi dal fuoco divino e, dopo la morte, si ricongiunge ad esso perdendo la propria personalità.

La felicità consiste nell’annullamento delle passioni (apatia) e la si ottiene vivendo secondo natura; la libertà dello spirito consiste nel liberarsi dalle passioni col sopportare il male che non possiamo evitare, con l’astenerci da ciò che non ci appartiene e con l’accettare spontaneamente il Fato.

Queste idee, alla base della corrente di pensiero stoica e tanto seguite da influire fortemente anche sui pensatori cristiani, acquistano particolare intensità in Lucio Anneo Seneca.

Vita e opere. S. nacque a Cordova (nella Spagna Betica) da una famiglia del rango equestre che aveva per costume l’attività dell’intelletto (figlio di S. il Vecchio). Venne presto a Roma dove si dedicò agli studi filosofici (suoi maestri lo stoico Attalo e P. Fabiano). Nella carriera forense rivelò straordinarie qualità oratorie e, ottenuta la questura, entrò nel senato dove la sua eloquenza durante il regno di Caligola gli valse il senato e gli accrebbe onori, reputazioni e pericoli. Tuttavia, nel 41 la principessa Giulia Livilla, sorella di Caligola, venne accusata dalla gelosa Messalina, e la rovina della principessa travolse anche S. (non si sa per quali pretesti di complicità): fu relegato nella solitudine aspra della Corsica e soltanto nel 49, dopo 8 anni di esilio, per intercessione di Agrippina, nuova imperatrice, poteva tornare a Roma come maestro del giovane Nerone, divenuto, per l’adozione di Claudio, il designato successore dell’impero.
Nell’ott. 54, Claudio (zio di Caligola, principato dal 41 al 54) muore avvelenato (pare da Agrippina) e Nerone sale al trono. Dunque morto Claudio, S. restò il più autorevole e ascoltato consigliere del principe, e pur senza assumere cariche pubbliche, fu in realtà il vero regolatore della politica imperiale (molti atti del principato neroniano per circa 7 anni fanno sentire il nobile e benefico influsso di S.: è il cosiddetto periodo del “buon governo”). Ma Nerone volle forzare ben presto le tappe verso un governo autocratico: ne pagarono le conseguenze Britannico, la stessa Agrippina e S. appunto, il quale – dopo la morte del prefetto del pretorio Afranio Burro (62) – pensò bene di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi completamente alla meditazione. Ma il destino era segnato: nel 65 fu scoperta la congiura contro Nerone che aveva a capo un grande signore romano, Calpurnio Pisone. La congiura comprendeva personaggi civili e militari e ufficiali delle milizie pretoriane. Non si sa quanto sia stata fondata l’accusa di complicità nei riguardi di S., ma Nerone colse con gioia l’occasione di sbarazzarsi del suo vecchio e odioso consigliere. S., ricevuto l’ordine di morire, dimostrò effettivamente nel suo ultimo giorno di saper sfidare quella morte che egli aveva dichiarato di attendere con serenità in tutti i giorni della sua vita.

Opere: temi e considerazioni. Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell’uomo.

Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di “Dialogi” su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch’è quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (“scuola di mezzo”):

De providentia (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell’ordine cosmico, accettandolo serenamente.
De brevitate vitae: vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l’essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.

De ira libri III (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle.

De consolatione (posteriore al 37 d.C.).

De vita beata (58 d.C.?): esamina il problema della ricchezza e dei piaceri (nei quali non si trova l’essenza della felicità), ma se è vero che il saggio sa vivere secondo natura, saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (“nessuno ha condannato la saggezza alla povertà”): l’importante non è non possedere ricchezze, ma non farsi possedere da esse. Così, S. legittima l’uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù.

De constantia sapientis,

De otio (62 d.C. ?)

De tranquillitate animi (62 d.C.?): in questa trilogia, dedicata all’amico Sereno, S. cerca una mediazione tra l’otium contemplativo e l’impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell’intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa.

In effetti, più specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l’imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l’obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità d’animo capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e con la parola.

Sempre di filosofia trattano:

De beneficiis (7 libri): si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest’opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata.

De clementia, 3 libri dedicati a Nerone: riguarda l’amministrazione della giustizia e il governo dello stato; è, cioè, un’indicazione al giovane imperatore per un programma politico di equità e moderazione (S. non mette, però, in discussione le forme apertamente monarchiche del governo). Il problema è in sostanza quello di avere un buon sovrano, che in un regime di potere assoluto potrà far leva soltanto sulla sua stessa coscienza per non far sfociare nella tirannide il proprio governo. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi, solo con essa sarà in grado di ottenere la loro benevolenza e il loro appoggio. E’ evidente in una concezione di principato illuminato l’importanza che acquista l’educazione del principe, e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. Alla filosofia spetta dunque il ruolo di promuovere la formazione morale del sovrano e dell’élite politica.

Tra i dialogi abbiamo due lettere (ad Helviam matrem e ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall’antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l’imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.

Quindi abbiamo:

124 Epistulae morales ad Lucilium (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L’opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicureo: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale.

Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un’unione con l’amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, “parenetica”). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquim, S. propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene.

La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico.

Di carattere scientifico sono:

i 7 libri delle Naturales quaestiones, dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali S. analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante della filosofia – non è “gratuito”, ma è legato ad una profonda istanza morale: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori.

Ci sono poi:

9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetus. Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo verbale, della “tragedia retorica”. Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l’ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l’azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico.

Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell’autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae, che narra del tragico destino di Èdipo e dell’odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Èdipo è presente anche nell’Oedipus: causa inconsapevole dell’uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.

Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall’altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe disgressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica.

Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell’autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all’interno dell’animo, nell’opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarî d’orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all’interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com’è dalla paura e dall’angoscia, nel suo eterno problema del potere.

A parte va considerata l’Octavia, una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e l’unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con le precedenti tragedie.

L’Apokolokýntosis o Ludus de morte Claudii, una satira menippea sull’apoteosi dell’imperatore: Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco dell’opera e significherebbe “deificazione di una zucca”, con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un’opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell’imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità.

Si attribuisce infine a S. una raccolta di ca 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.

Lo stile. Se il fine della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare all’utilità delle parole, e non alla loro elaboratezza. S. rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che nella sua disposizione organizzava anche la gerarchia interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che frantuma l’impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione: continua è la ricerca dell’effetto, dell’espressione appunto epigrammatica, quasi a voler riprodurre il “sermo familiaris”, e il tono oscilla ben volentieri tra quello di una rigorosa analisi interiore e quello di una sapiente predica ad intelligenti ascoltatori. S., insomma, fa uso di questo stile (che affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione cinica) come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene.

Marco Anneo Lucano

— Cordova 39 – Roma 65 d.C. —

Trova nuovo vigore in età imperiale questo genere letterario che, sulla base di un secolare successo protrattosi nel tempo, dalle opere omeriche all’«Eneide» virgiliana, vede, nei momenti meno bui dei periodi neroniano e domizianeo con Lucano, Silio Italico e Papinio Stazio, in quelli più felici di Vespasiano e Tito con Valerio Fiacco, l’occasione per emergere, calcando orme antitradizionaliste con il primo, immettendosi nei canoni con gli altri, ma risultando, ormai, nel complesso, poesia d’accatto, in parte priva di connotati originali, ultimo riflesso di un bagliore ormai spento.

Marco Anneo Lucano

Notizie su Lucano a noi provengono, tralasciando una terza anonima biografia largamente erronea, da due vite: una, pseudo-svetoniana, mutila all’inizio e poco favorevole al poeta; l’altra, attribuita al grammatico Vacca del V-VI secolo, di tenore apologetico.

Nacque a Cordova nella Spagna Retica il 3 novembre del 39 d.C., nipote paterno del filosofo Seneca, da M. Anneo Mela e da Acilia.

L’autore trasse il nome dal nonno materno Acilio Lucano, famoso oratore della città spagnola.

A soli otto mesi fu condotto dal padre a Roma e qui visse la sua infanzia ed alimentò i suoi studi specie di oratoria, arrivando a declamare, all’età di quattordici anni, sia in latino che in greco.

Discepolo del filosofo stoico Anneo Cornuto, tra il 50 ed il 55 d.C., entrò in amicizia con il compagno di studi, Persio, di cui fu un fervido ammiratore.

A sedici anni, al fine di completare gli studi, compì un viaggio ad Atene e vi si trattenne per due anni, fino a quando non venne richiamato da Nerone, che gli offrì dapprima la questura (di certo senza che egli avesse l’età legale che era da porsi intorno ai venticinque anni) e poi lo ascrisse al collegio degli Auguri.

I rapporti tra Lucano ed il «Princeps», intorno al 60-61 d.C., iniziarono, però, a mutare.

Pur non conoscendosi con sicurezza le motivazioni, è certo che al poeta fu vietato di recitare versi, di trattar cause, di far parte della «cohors amicorum».

I provvedimenti adottati non fecero che acuire l’odio del poeta contro Nerone e di certo ebbero la loro parte nella sua adesione alla congiura pisoniana.

Quando fu scoperto il complotto, secondo Tacito, Lucano, da poco sposatosi con Polla Argentaria, celebrata per le sue virtù anche da Papinio Stazio, restò a lungo senza confessare, prima di essere costretto con la forza a farlo.

Morì, infatti, il 30 aprile del 65 d.C. da fedele stoico, recidendosi le vene e attendendo la fine della vita recitando versi della sua opera in cui si cantano gli ultimi momenti di un soldato ferito.

II «Quinquennium Neronis»

A dimostrazione che Nerone non sia stato sempre una figura negativa c’è il periodo del cosiddetto «Quinquennium felix», cioè del primo quinquennio del suo principato (dal 54 d.C. al 59 d.C.), in cui l’azione del «Princeps», sotto la guida illuminata di Seneca, ebbe aspetti prevalentemente positivi.

Nerone letterato

II principe, infatti, sappiamo che curò una propria produzione letteraria, pensando addirittura di mettere in versi l’intera storia di Roma (da ciò fu, poi, dissuaso), che cantava come citaredo, che la citazione da parte di Seneca, suo precettore, di un verso a lui attribuito ci testimonia come fosse autore non disprezzabile, anzi conosciuto; siamo a conoscenza, inoltre, che scrisse una storia di Troia, «Troica», un poema forse composto per gareggiare con Lucano che già aveva trattato lo stesso soggetto, in cui come simbolo degli ideali troiani pose Paride, non più Ettore: di tutta questa sua produzione, però, a parte il verso tradito da Seneca, non abbiamo altre notizie.

Le opere minori di Lucano

Dello Spagnolo si ricordano (ma non ci sono pervenute), le seguenti opere da collocare nel periodo indicato:

«Iliacon», un poema dal titolo greco sulla guerra di Troia scritto in gara, forse, con Nerone;

«Catachthonion» o «Discesa agli Inferi»;

– «Orpheus», un epillio;

«Laudes Neronis», un carme elogiativo premiato durante i «Neronia» del 60 d.C.;

«Silvae», carmi in dieci libri;

«Medea», una tragedia, incompiuta;

«Fabulae salticae», quattordici monologhi lirici per canti corali nelle azioni pantomimiche;

-un «famosum carmen», un carme «infamante» contro Nerone e, quindi, da collocare intorno al 62 d.C.;

– alcune lettere in prosa dalla Campania.

Le altre opere del periodo

A prescindere dalle opere dei «diretti interessati», a cui si è accennato, noi possediamo anche altre composizioni che celebrano il «Quinquennium Neronis»: un periodo positivo, dunque, se Seneca accetta di essere il precettore di Nerone (ma ancora non ci sono sintomi chiari e premonitori di quello che accadrà), anche per gratitudine verso Agrippina che lo ha fatto ritornare dall’esilio, con l’intenzione di renderlo simbolo dei suoi ideali filosofici e artefice di un «dispotismo illuminato» (come affermerà, poi, nel «De clementia»).

Questa positività del periodo è testimoniata da due «Carmina» o «Bucolica» anonimi, detti «Einsidlensia», ritrovati in Svizzera a fine Ottocento ed attribuiti da alcuni a Lucano, da altri a Pisone.

Nel primo si esalta Nerone per i suoi meriti artistici come citaredo, nel secondo si afferma che con lui si ha un ritorno all’età dell’oro, a dimostrazione della bontà della prima fase del principato neroniano, bontà che ci è testimoniata anche da sette ecloghe in esametri attribuite a Tito Calpurnio Siculo.

Tito Calpurnio Siculo

Autore di grande interesse per il periodo. L’Antologia dei bucolici latini fa passare sotto il suo nome anche le quattro ecloghe dell’africano Olimpio Nemesiano, ad attestazione, dunque, della notevole importanza da lui acquisita nel tempo.

Il «cognomen» «Siculus», ad un’analisi superficiale, potrebbe far giungere alla conclusione che Tito Calpurnio fosse siciliano, ma, in effetti, non è così: Siculo, infatti, nella prima e nella quarta ecloga, riprendendo nomi virgiliani pastorali con funzioni allegoriche, si presenta sotto il nome di Coridone, chiedendo l’intercessione di Seneca per poter essere ammesso a corte.

Noi sappiamo, inoltre, che, negli ultimi componimenti, sul circo, l’autore dice di non aver potuto vedere il suo imperatore a causa della toga «vilior», il che lo portò, quindi, a seguire lo spettacolo dagli ultimi posti e a non poter avvicinarsi al suo «dio».

Non essendo assolutamente pari, come condizione sociale, a Seneca, si rivolse a lui in nome della comune origine spagnola: quindi, Siculo è spagnolo, ed il «cognomen» «Siculus» deriva dal fatto che la Sicilia è patria della poesia pastorale, come attesta Virgilio nella quarta ecloga («Sicelides Musae, paulo maiora canamus»).

La «Laus Pisonis»

L’opera, un panegirico in duecentosessantuno esametri del promotore dell’omonima congiura del 65 d.C., attribuita da numerosi studiosi a Calpurnio Siculo per alcune sue affinità con la quarta ecloga di questo poeta, riscontrabili sia nella giovane età di entrambi gli autori (nella «Laus», al v. 249, il poeta afferma di avere meno di venti anni), sia nella protezione e nell’aiuto che tutti e due chiedono per raggiungere la gloria, è logicamente da collocare quando i rapporti di Pisone con Nerone erano ancora buoni e, quindi, ben prima della data suindicata.

La sua fortuna

Come e certamente più di Calpurnio Siculo (gradito al Fontenelle ed imitato da Rousseau), Lucano ebbe un notevole seguito nei secoli: anteposto ad Ennio, a Lucrezio e ad Ovidio da Stazio, ricordato insieme ad Orazio e a Virgilio da Tacito, è posto da Dante nel Limbo accanto a Omero, Orazio ed Ovidio; nel tempo a lui vanno i favori di Corneille, Petrarca («Africa»), Goethe («Faust»), Alfieri («Misogallo»), Foscolo («Sepolcri»), Leopardi («Bruto minore»), mentre per il Pope Lucano fu «the best versifier, next Virgil», «il miglior versificatore dopo Virgilio».

Della sua produzione abbiamo solo il «Bellum civile», un poema epico sulla guerra tra Cesare e Pompeo, che la tradizione ha affidato ai secoli con il nome di «Pharsalia» (come il termine appare al verso 985 del libro nono: «Pharsalia nostra vivet»).

E composto da ottomila esametri complessivi per una suddivisione in dieci libri, interrotti al v. 546 del l. X (con il pericolo corso da Cesare per la rivolta scoppiata ad Alessandria nel 48 a.C.), su un disegno iniziale che ne prevedeva dodici (forse, fino alla morte di Cesare). I primi tre, favorevoli a Nerone, furono pubblicati quando il poeta era in vita; gli ultimi sette, antineroniani, postumi.

La struttura

Libro I: le cause della guerra civile / Cesare supera il Rubicone e marcia verso Roma / sinistri presagi;

Libro II: Pompeo si rifugia a Brindisi / Cesare lo assedia e lo costringe ad abbandonare l’Italia;

Libro III: Giulia appare a Pompeo e gli predice un avvenire funesto / Cesare dapprima assedia Marsiglia, poi attacca i pompeiani in Spagna;

Libro IV: successi dei cesariani ad Ilerda, in Illiria e in Africa;

Libro V: il comando supremo è affidato dal Senato a Pompeo / Cesare è nominato dittatore e console / Cesare passa in Epiro / la moglie di Pompeo è costretta a rifugiarsi a Lesbo;

Libro VI: Cesare assedia Pompeo a Durazzo / Pompeo insegue Cesare in Tes-saglia / la maga Erittone da voce ad un cadavere che prediccele sventure imminenti di Roma;

Libro VII: Cicerone incita i pompeiani a scontrarsi con Cesare / la battaglia di Parsalo / Pompeo, sconfitto, fugge a Larissa;

vv. 491-510

All’odio della guerra civile basta soltanto la spada che spinge la destra nelle viscere romane. I soldati di Pompeo, addensati in fitti manipoli, avevano serrato le file allacciando scudo a scudo; stando fermi, avevano a stento lo spazio per muovere le braccia e le armi, e, così stretti dovevano temere le loro stesse spade. A corsa precipitosa lo stuolo di Cesare si porta furiosamente contro i fitti manipoli dei Pompeiani e cerca di farsi strada fra gli armati nemici, per dove la pesante lorica oppone le attorte sue maglie, e il petto sta nascosto sotto la sicura protezione; malgrado tale difesa si raggiunge il cuore e il colpo che ciascuno vibra è mortale. L’uno degli eserciti soffre la guerra civile, l’altro la porta; da una parte sta fredda la spada, dall’altra il ferro ostile è caldo di sangue. E la Fortuna, non volendo indugiare a lungo in eventi di così gran peso, lasciò che il fato travolgesse tutto nell’immensa rovina. Non appena la cavalleria di Pompeo spiega le sue ali per tutto il campo, e si sparge attraverso le ultime linee di combattimento, gli armati alla leggera, sparpagliati per le file estreme, la seguono e assalgono ferocemente il nemico. (tr carelli)

Libro VIII: Pompeo con la moglie da Lesbo raggiunge l’Egitto / al momento dello sbarco il re Tolomeo fa uccidere Pompeo;

Libro IX: sbarco di Catone in Africa / la moglie ed il figlio di Pompeo lo raggiungono / esequie di Pompeo / l’attraversamento del deserto libico / i serpenti / Cesare giunge in Egitto / gli si offre il cranio del genero;

Libro X: Cesare è sedotto da Cleopatra che sposa il fratello / gli assassini di Pompeo tendono un’insidia a Cesare nel corso delle nozze / loro sconfitta / il combattimento riprende presso Faro / + (v. 546).

L’autenticità del proemio

Molti sono dell’opinione che i primi sette versi dell’opera siano spuri e portano a sostegno di questa teoria varie ipotesi, una delle quali vuole che, per porre rimedio all’improvviso inizio dell’ottavo verso («Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri?»), si sia effettuata l’aggiunta dei sette versi «incriminati» che espongono l’argomento dell’intera opera.

Altri, e per tutti la Malcovati, hanno avanzato, a giustificazione dell’originalità dei sette versi iniziali, la proposta di una attenta analisi della struttura compositiva del proemio, accostando l’introduzione lucanea a quella di Virgilio e trovando lo stesso movimento iniziale basato sull’«interrogatio» anche nell’«Iliade».

Ma il proemio per la sua ambiguità si presta a diverse interpretazioni: anche se non mancano voci attestanti il contrario (quale, ad esempio, quella del Perelli), i versi introduttivi, infatti, sembrano dimostrare l’esistenza di un valido rapporto tra Lucano e Nerone in quanto, se, da un lato, sono deprecate le guerre civili per il troppo sangue versato in lotte fratricide, dall’altro, vengono giustificate quale unica via per arrivare al principato di Nerone, e questo carattere elogiativo riconduce di certo il proemio in età precedente al 62 d.C..

Tra tradizione repubblicana ed anti-imperialismo

Lucano, nato in ambiente repubblicano per tradizione, in un primo momento ne rifiuta l’ideologia, ma, poi, dissente violentemente anche nei confronti del sistema imperiale.

II cambiamento è fin troppo radicale ed improvviso: se nei primi tre libri il poeta si mostra del tutto lontano non solo dalle posizioni cesariane, ma anche da quelle pompeiane e catoniane, negli altri viene quasi «demonizzata» la figura di Giulio Cesare (nel l. IX, ad esempio, quando gli viene presentata la testa di Pompeo, il condottiero, simulando cinicamente i suoi reali sentimenti, piange ipocritamente, pur riconoscendosi in cuor suo debitore verso gli Egizi che lo hanno liberato di un ben tenace nemico) e l’autore si sofferma ad esaltare, più che Pompeo, destinato fin dai primi versi ad un triste destino di morte, l’immagine di Catone Uticense, vero emblema morale della lotta per la libertà, al punto che Dante lo eleggerà custode del Purgatorio.

La figura di Catone

Catone è personaggio gigantesco anche nelle situazioni più rischiose ed è visto come il supremo custode dei valori della libera «res publica», la personificazione della «virtus» romana, l’incarnazione dello stoico che fa della sua dottrina filosofica l’arma per le sue battaglie, il punto di forza delle sue lotte contro il dispotismo.

Questa figura, specie sotto Nerone, afferma il Monaco, diviene «un punto di riferimento luminoso per tutti gli intellettuali che avversano il principato e le sue coercizioni».

Una spietata analisi del tempo

II Senato, dice Lucano, corrotto ed adulante, non può neppure essere paragonato alla lontana a quello libero ed operante in uno Stato libero, baluardo e difesa di liberi valori, del periodo repubblicano; la «plebs», da tempo tesa ad una cruenta scalata sociale, sta mettendo sempre più in difficoltà il patriziato, in cui un tempo albergava l’antica virtù italica; la gloriosa Roma è ormai invasa da «genti barbare» tra le quali regna solo la corruzione: è evidente la polemica contro la degenerazione del sistema politico, in cui la lotta per il potere non esita a calpestare i principi che avevano sorretto la «res publica».

Un «opus oratorium»

La sentenziosità ed il tono tribunizio di molte parti hanno certo nociuto alla narrazione dei fatti ed alla caratterizzazione dei personaggi, di cui troppo spesso il poeta non ha saputo cogliere il dramma interiore, emettendo su di essi note stonate nel contesto del filone narrativo e delineando, neppure molto felicemente, la sola psicologia di Pompeo, i cui cambiamenti d’umore, peraltro, sono, per alcuni studiosi (tra cui il Canali), da ritenersi inattendibili, tanto indeciso ed inquieto è descritto il condottiero romano.

L’orrido, il macabro

La predilezione per gli accenti cupi e tragici certamente deriva dalla concezione che del mondo ha l’autore il quale, sovvertendo completamente i canoni dell’epica classica, abolisce dalla sua narrazione gli dei e sostituisce la loro presenza con una forza oscura, il Fato o la Fortuna, da alcuni accostata alla «provvidenza» degli stoici.

Di certo Lucano ha risentito degli influssi dello stoicismo, ma il suo fato è un qualcosa di vago, che, contrariamente a quanto si prefigge la dottrina stoica, accentua l’angoscia della vita, invece di affievolirla: da questo concetto consegue che alla razionalità immanente si sostituisce una forte irrazionalità storica (destinata a travolgere tutti i personaggi, tranne, naturalmente, Catone, saldo nella sua saggezza stoica); da questo concetto discende il tono uniformemente cupo e tragico, nonché l’interesse per le descrizioni macabre, alcune davvero raccapriccianti.

Questo gusto per l’orrido è considerato da molti di derivazione senecana (anche nelle tragedie di Seneca non appare il mondo degli dei), ma è da vedere se queste descrizioni orripilanti, quasi al limite del cattivo gusto, derivino da un’eccessiva potenza fantastica o, piuttosto, non siano una concessione all’asianesimo, alla moda letteraria del tempo o, meglio, a qualche sua degenerazione.

Un ritorno alle origini

Non si può negare che Lucano si distacchi sia dagli antichi epici che da Virgilio, a lui molto vicino in ordine di tempo.

Ritorna, infatti, a percorrere la «pericolosa» strada della storia (cosa che Virgilio non aveva fatto incentrando il suo poema sulle mitiche origini di Roma) ed a riprendere, dunque, le usanze dell’antica epica, quella di Nevio, il celebratore dei fasti romani nella prima guerra punica, e di Ennio, che aveva cantato la storia dell’Urbe dalle origini fino ai suoi tempi; ma non può più, e certo ne soffre, esaltare le nobili gesta dei Romani, in quanto la storia che egli si trova a narrare è quella tragica di una funesta guerra civile. In tal senso l’opzione per le tonalità cupe e le tinte forti appare coerente con lo spirito dei fatti narrati.

Ancora su Lucano

Vita.

La formazione e l’ingresso nella corte di Nerone. Nipote di Seneca (figlio del fratello di questi, Anneo Mela), già nel 40 L. si trasferisce con la famiglia a Roma, dove compie i suoi primi studi, sotto la guida di ottimi maestri e del filosofo stoico Cornuto. Tramite lo zio, entra ben presto nella corte di Nerone, anzi fra i suoi intimi, e proprio per volontà dell’imperatore diviene questore prima dell’età minima prevista, entrando poi a far parte del “collegio degli àuguri”. Nel 60, L. recita le “Laudes” del principe, in occasione delle sue feste (e ciò gli valse l’incoronazione di poeta), e pubblica i primi 3 libri della “Pharsalia”, che a lui enfaticamente dedica.

La rottura con Nerone, la congiura di Pisone e la morte. Subentra però una brusca rottura, causata – secondo la tradizione – dalla gelosia letteraria che Nerone provava nei suoi confronti o, più probabilmente, dal rovescio politico di Seneca e dal fatto che L. stesso s’andasse accostando sempre più alle posizioni della propaganda stoica anticesariana, e quindi avesse idee troppo marcatamente improntate a un nostalgico repubblicanesimo (come apparirà evidente dal tono dei successivi libri del suo capolavoro).

Il nostro autore finì con l’aderire alla congiura di Pisone e, una volta scoperto il complotto, ricevette l’ordine di darsi la morte: obbedì stoicamente (aveva meno di 26 anni), ma non senza aver cercato di salvarsi con delazioni (si racconta, addirittura, contro la madre!).

Opere.

Opere minori. Tra le opere perdute di L. ricordiamo un “Iliacon” (componimento in versi sulla guerra di Troia); un “Catachtonion” (carme sulla discesa negli inferi); i 10 libri di “Silvae”, raccolta di poesie di vario genere; la tragedia incompleta “Medea”; epigrammi e 14 “fabulae salticae” (libretti per pantomime).

Il numero e la varietà delle composizioni di cui si ha notizia indicano un’eccezionale precocità artistica, unita ad una notevole versatilità; da queste opere, poi, sembra di poter cogliere una totale adesione ai gusti neroniani: l’ “Iliacon” veniva incontro alla passione del principe per le antichità troiane, mentre “Silvae” e libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro generale della poesia cortigiana d’intrattenimento, tipica del tempo.

Bellum civile. Ma il suo capolavoro, e tra l’altro l’unica sua opera pervenutaci, è ovviamente il poema epico sulla guerra civile – “Bellum civile” o “Pharsalia”- in 10 libri, incompiuto (il libro X infatti s’interrompe bruscamente per la sopravvenuta morte: forse il piano originario dell’opera prevedeva 12 libri, come quelli dell’ “antimodello”, l’ “Eneide”, per cui vd. oltre).

Contenuti e caratteri della “Farsaglia”.

Argomento. L’ambizioso progetto di L. consisteva nel tentativo di contrapporre all’ “Eneide” un poema epico con radici profonde nella storia di Roma, e tuttavia non legato a fatti remoti e leggendari: come detto, l’opera tratta della guerra civile (come recita il primo titolo) tra Cesare e Pompeo, dal Rubicone fino ad Alessandria, passando per la decisiva battaglia di Farsàlo (da cui la “variante” al titolo), dove a scontrarsi non furono solo due eserciti, quanto piuttosto due opposte concezioni e schieramenti politici.

L. “anti-Virgilio”. Tuttavia, la polemica “antivirgiliana” non è legata soltanto ad una mera questione di “poetica”, bensì ha profonde e vive motivazioni scopertamente ideologiche: infatti, se il poema epico, fin allora, era stato celebrazione solenne delle glorie dello stato romano e dei suoi eserciti, nelle mani di L. esso diventa invece denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell’avvento di un’era d’ingiustizia, profilandosi come un vero e proprio “anti-mito” di Roma.

Secondo L., insomma, Virgilio avrebbe coperto, con un velo di mistificazioni, la trasformazione dell’antica repubblica in tirannide; e come visto, la via che il nostro autore sceglie per sconfessare il mantovano consiste innanzitutto nel mutare l’oggetto: allora, non si tratta, per lui, di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà (quando la stessa “verità” non venga sacrificata per fini ideologici), una storia relativamente recente e dalle nefaste conseguenze, ben documentata e soprattutto universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà al vero spiega anche la rinuncia agli interventi divini nel poema, rinuncia che tanto scandalizzò la critica antica (di contro, sono presenti in esso molte “profezie” – quasi un contraltare di quelle “positive” contenute nell’ “Eneide” – che rivelano la rovina che attende Roma: si veda, in particolare, quella costituita dalla negromanzia nel VI libro, con un’evidente posizione-chiave nell’economia del poema).

L’anticesarismo. Come già accennato, nella sua prima “versione”, l’opera fu tutta tesa a magnificare il “cesarismo”, ma – mutate le circostanze personali e politiche – anche il “piano” originario mutò, finendo col risolversi, praticamente e progressivamente, in un’esaltazione dell’antica libertà repubblicana e in una feroce condanna del regime imperiale (rimarrà l’elogio iniziale al principe, ma come nota stridente, rispetto al resto, e quasi parodistica).

I personaggi. Questo motivo “anticesariano” si riscontra soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi: in effetti, la “Pharsalia” non ha un vero e proprio protagonista, ma ruota sostanzialmente attorno alle personalità di Cesare, Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena, con la sua malefica grandezza e la sua forsennata brama di potere, incarnazione del “furor” che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. In alcuni punti, il poeta sembra quasi soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale in fondo rappresenta il trionfo proprio di quelle forze irrazionali che nell’ “Eneide” venivano dominate e sconfitte: il “furor” appunto, l’ira e l’impazienza (altro spunto antivirgiliano, quindi); il dittatore è anche spogliato del suo attributo principale, la “clementia” verso i vinti, esempio palese – questo – della suddetta deformazione ideologica operata da L. ai danni della verità storica.

Alla frenetica energia di Cesare si contrappone, invece, una relativa passività da parte di Pompeo (ma questo espediente di caratterizzazione serve forse a limitare, ideologicamente, le responsabilità di questi nella rovina di Roma verso la tirannide): Pompeo diviene, nella concezione del poeta, una sorte di Enea dal destino ineluttabilmente avverso; in questo senso, la sua figura è l’unica che nello svolgimento del poema subisce una vera trasformazione psicologica: egli andrà incontro a una sorta di purificazione, divenendo consapevole della malvagità dei fati e comprendendo finalmente che la morte, in nome di una giusta causa, costituisce l’unica via di riscatto morale.

Questa consapevolezza costituisce, invece, per Catone un solido possesso fin dalla sua prima apparizione sulla scena. Lo sfondo filosofico dell’opera è senza dubbio di natura stoica, ma proprio in questo personaggio si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale, o – meglio – della sua concezione provvidenzialistica, mortificata in nome dei terribili principi della “virtù” e della “fortuna” (tra l’altro, stoici anch’essi). Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la distruzione di Roma, dunque, diviene impossibile per Catone l’adesione partecipe alla volontà del destino; egli matura, piuttosto, la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: ovvero, esso, d’ora in poi, risiederà unicamente nella coscienza del saggio, che si fa, così, davvero pari agli dei (“titanismo”).

Stile. Già gli antichi mossero al poema di L. una serie di critiche, in parte tuttora valide: l’uso e l’abuso delle “sententiae” concettistiche (che ne avvicinerebbero troppo lo stile a quello oratorio); la rinuncia agli interventi divini; un ordine della narrazione quasi annalistico (tipico più delle opere storiche – vedi Nevio ed Ennio – che di quelle poetiche): numerosi critici moderni hanno poi rilevato, a tal proposito, che molti passi del poema sono quasi una versificazione letterale di quelle opere storiche (soprattutto di Livio, una delle sue fonti preferite), tal che sono giunti a dire – ma evidentemente è un paradosso – che L. si mostra davvero poeta soltanto in occasione delle orazioni ch’egli mette in bocca ai suoi personaggi, orazioni disseminate qua e là nel magmatico contenuto dell’opera. Famosa, poi, la notazione di Quintiliano, che definì quello stile “ardente e concitato”, riferendosi probabilmente all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell’esametro (enjambement).

In effetti, il “Bellum civile” riflette proprio nello stile – drammatico ed esasperato, “anticlassico”, talora piegato a descrizioni davvero macabre o patetiche (che molto ricordano il Seneca “tragico”) – il proprio tono di cupo pessimismo e di altrettanto drammatica constatazione del reale; a ciò, si aggiunga il fatto che l’io del poeta è praticamente onnipresente per giudicare e spesso condannare in tono indignato.

La presenza di un’ideologia marcatamente politica e “moralista”, dunque, si fa in L. man mano ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce infine a retorica: una retorica, però, a ben vedere, che (il più delle volte) non è vana artificiosità ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità e di una tormentata fedeltà al genuino messaggio del disperato credo politico ed esistenziale dell’autore stesso.

(fonte internet)

Caio Valerio Flacco Balbo Setino

— n. Setia?, od. Sezze, nel Lazio – m. 93 ? d.C. —

Poco o nulla sappiano di Caio Valerio Flacco, altro esponente del genere epico.

Nacque probabilmente a Sezze, nel basso Lazio, e dovette vivere tra il principato neroniano e quello di Domiziano, tenendo conto della frase di Quintiliano: «Multum in Valerio Flacco nuper amisimus», in cui è implicita anche un’attestazione di stima.

Di lui ci sono pervenute le «Argonautiche» in otto libri, bruscamente interrotte, tanto da lasciar pensare che il poema mitologico romano, modellato su quello di Apollonio Rodio dall’omonimo titolo per un’estensione di soli quattro libri, ne dovesse avere nel disegno originale dieci oppure dodici. Fiacco infatti riservò uno spazio maggiore alla fantasia nel riportare miti solo sfiorati nell’originale, si dilungò nelle descrizioni di luoghi e di viaggi, si abbandonò con compiacimento maggiore all’erudiziene, scolpì con efficacia più evidente un personaggio quale Medea: tutti elementi, questi, d’altronde chiaramente visibili nelle testimonianze in nostro possesso.

VII, 103-120

E trepida e abbandonata in mezzo ai genitori la vergine tace e per un poco non può fissare gli occhi al suolo né piegare il mesto volto, e riguarda la porta ancora vede lui [Giasone] che va via; ed ahimè! ora l’ospite che se ne va appare più bello alla misera amante; tali spalle ha egli e tale dorso. La fanciulla per un pò desidera che la casa e le porte stesse avanzino e di qua della soglia frena i passi ardenti. Come quando Io vagabonda sente l’estremità dell’arena, e avanza il piede e lo ritrae, e l’Erinni la costringe ad andare nel mare gonfio e le madri furie la chiamano di là dalle acque: non altrimenti s’aggira e s’indugia alle porte aperte, se mai il padre, fatto più mite, richiami i Minii; e, cercando il volto dell’ospite, s’abbandona a piangere nel letto deserto o viene a rifugiarsi in grembo alla cara sorella e, dopo aver tentato di parlare tace, e, di nuovo ritornando, indaga come l’ospite Frisso si sia fermato alle spiagge e quando gli alati draghi rapirono Circe.     (tr. Carelli)

La trama

Dedicato all’imperatore Vespasiano, il poema, interrotto (forse per la morte dell’autore) al v. 467 dell’ottavo libro, narra le vicende degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro (il vello dell’ariete che aveva permesso a Frisso ed Elle, i figli di Atamante, di evitare di essere sacrificati dal padre e che era stato donato da Frisso al re della Colchide, Eeta, ospitale nei suoi confronti); l’amore tra Giasone (il figlio di Esone andato alla ricerca del trofeo per la promessa fattagli da Pelia, re di lolco, di restituirgli il trono usurpato) e Medea (figlia di Eeta); la conquista del vello; la parte iniziale del ritorno dell’eroe.

Lo stile

L’opera, che ripropone il mito greco già messo al bando da Lucano, ha qualche pregio nella determinazione dei caratteri, nonché nei versi fluidi ed eleganti, nella lingua corretta (ma con qualche ricercato arcaismo), nella limitazione data all’orrido, «così comune», afferma l’Arnaldi, «nel Seneca tragico, in Lucano e in Stazio, e con notevoli precedenti euripidei».

Nel complesso, tuttavia, predominano l’aridità e la monotonia, solo raramente ravvivata da un soffio poetico, per cui è improponibile il confronto col grande modello costituito dal poema di Apollonio Rodio.

Ancora su Valerio Flacco

Vita.

Nulla si sa di lui, tranne che fu dei “quidecemviri sacris faciundis”, preposto cioè all’organizzazione dei ludi secolari e all’interpretazione dei libri sibillini. La sua attività si compie, comunque, sotto l’impero di Domiziano, secondo la testimonianza di Quintiliano. Non visse abbastanza a lungo per portare a termine il suo capolavoro.

Opera e considerazioni.

In tacita polemica con Lucano, che aveva trattato un tema d’attualità, F. tornò al mito e scrisse un poema epico mitologico in esametri, dedicato a Vespasiano: “Argonautica” (“Storie degli Argonauti”), iniziato verso l’80, ma interrotto bruscamente al libro VIII.

La materia, derivata liberamente dall’omonimo poema di Apollonio Rodio, racconta la conquista del vello d’oro (e nell’enfasi sul dominio del mare, contenuta soprattutto nel proemio, c’è forse un riferimento all’ideologia vespasiana) e la passione di Medea per Giàsone; nella seconda parte del poema, poi, F. – distaccandosi dal mito – inserisce una vicenda bellica (guerra contro Perse): la struttura narrativa dell’opera viene così a riprodurre sostanzialmente quella bipartita dell’ “Eneide”: alla narrazione del viaggio segue quella della guerra e delle altre vicende in Colchide.

Proprio questa sottesa “ispirazione” virgiliana spinge il nostro ad una poetica, come dire, “reazionaria”, nell’apparato mitologico e divino e nell’impostazione edificante. Nei punti, invece, in cui egli segue da vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell’effetto, per ottenere il coinvolgimento emotivo del lettore.

L’elemento romano è rappresentato, se vogliamo, dal tentativo del poeta di comparare l’impresa degli Argonauti a quella di Vespasiano che esplora i mari intorno alla Bretagna. Più sensibilmente stoica di quanto non fosse già in Virgilio, è poi la presenza di Giove come provvidenza, aspetto per il quale F. subiva l’influenza del pensiero contemporaneo. E’ evidente, inoltre, che il poeta ha conosciuto e apprezzato le tragedie romane, in modo particolare, forse, quelle di Seneca. Come quest’ultimo, si mostra sensibile alla poesia “cosmica” (le evocazioni del cielo stellato, dei venti, del mare sono introdotte non tanto come forme spettacolari, quanto come presenze di forze naturali).

Discepolo dei poeti tragici, F. lo è pure nelle sue motivazioni “soggettive” e psicologiche (il che fa pensare anche a Lucano), e nel dar valore all’eroe (Giàsone, ma anche Medea, ecc.) quale eroe “universale”, mentre nell’ “Eneide” esso era collegato maggiormente al suo contesto religioso e sociale.

Questa poesia “riflessa” ed elaborata – talora “manieristica” – rischia a volte di disperdersi sotto tali molteplici spinte, non sempre armonizzate: ma se F. fallisce spesso nella creazione di strutture narrative articolate, al contrario riesce elegante e raffinato nel particolare, nel dettaglio descrittivo, nella notazione appunto psicologica. Da tutto ciò, risulta un testo narrativo assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come estremamente dotto anche per quanto riguarda la sua destinazione di pubblico.

(fonte internet)

Tiberio Cazio Asconio Silio Italico

— Padova?, 25 ca – Campania 101 d.C. —

Tiberio Cazio Silio, che assunse il nome di «Italico», forse, da «Italica» dei Peligni (non certo da «Italica» della Spagna Betica, perché Marziale, di cui fu amico, non lo presenta mai quale suo compatriota), nacque intorno al 25 d.C. sotto Tiberio, ma quasi nulla conosciamo dei suoi anni giovanili.

Favorito dal possesso di grandi ricchezze e di una rara cultura, abile avvocato (ma non si fece scrupoli a divenire delatore del «Princeps»), Silio trascorse gran parte della sua vita alla corte di Nerone (da cui era benvoluto) che, nel 68 d.C., lo nominò console.

Il suo «cursus honorum», bloccatosi con la morte di Nerone ed al tempo di Vitellio, sotto Vespasiano, nel 77 d.C., lo vide divenire proconsole d’Asia, ma questa fu anche la sua ultima carica perché preferì trascorrere la parte restante della sua vita (una vita fortunata, se si eccettua il dolore per la perdita del figlio minore Severo) in Campania, in una delle sue bellissime ville.

Amico di Plinio il Giovane e del filosofo Cornuto, a settantacinque anni (nel 101), colpito da un male inguaribile, si procurò la morte alla maniera stoica nella villa di Napoli, astenendosi con grande fermezza dal cibo.

Negli ozi napoletani, nell’88 d.C, Italico si diede alla composizione di «Punicorum libri» o «Punica»: dodicimiladuento esametri complessivi sui fatti della seconda guerra punica, dal 219 al 202 a.C, ripartiti in diciassette libri a loro volta suddivisi in tre esadi (1-6, 7-12, 13-17), con il naturale sospetto (avallato dalla trascuratezza dell’ultimo libro e dalla impostazione complessiva dell’opera) che la stessa non sia stata portata a compimento e che fosse stata progettata in diciotto libri, disegno questo non ultimato per il sopraggiungere del male.

La struttura

Prima esade: vi si riportano, dopo un proemio sulle motivazioni della guerra, gli avvenimenti dall’assedio e dalla presa di Sagunto fino alla marcia di Annibale verso la Campania successivamente alla battaglia del Trasimeno.

Seconda esade: si estende nella narrazione sino alla sconfitta di Annibale a Noia da parte di M. Claudio Marcelle a partire dalla guerra di posizione tra il Cartaginese e Quinto Fabio Massimo prima dello scontro di Canne.

Terza esade: si attarda a descrivere, con toni favolistici (per la discesa di Scipione… all’Ade e per il frequente intervento decisionale degli dei), i fatti accaduti dalla caduta di Capua allo scontro conclusivo di Zama.

Le fonti, i modelli

Anche se le fonti risultano essere numerose, da Nevio ad Ennio, da Timeo a Polibio, da Catone a Livio (e significative per un confronto con quest’ultimo sono le parti descriventi il passaggio delle Alpi da parte di Annibale…

IlI, 501-518

Ferman le schiere dubitose il passo a cotal vista, quasi che la guerra contro que’ sacri limiti a mal grado portino di natura e de’ celesti. Ma né l’Alpe né l’aspro orrido loco metton terror nel condottier; gli spirti all’orrendo spettacolo turbati egli rinfranca, e in cotai detti incora: – È questo il vostro onor? Carchi d’allori la seconda fortuna e il ciclo amico vi ha fiacchi sì, da volgere le spalle a nevose montagne, e da vigliacchi darvi per vinti a’ sassi? Or, o compagni, or, me credete, noi saliam le mura della superba Roma e il Campidoglio. Ecco il travaglio onde fia schiava il Tebro, e nostra Italia. – Dice, e su per l’erta traesi dietro l’esercito commosso alle larghe promesse, e gli comanda si lasci andar dell’immortale Alcide la traccia nota, e ove più inaspra il loco inoltri e segni suo cammin. Si schiude varchi inaccessi, valica primiero le somme rocce, e là dai borni chiama a gran voce le turbe. (tr. Occioni)

… o il colloquio tra Lentulo e Paolo Emilio a Canne o, ancora, quello tra Annibale e Scipione a Zama), modelli principali di Italico, che gli hanno permesso di situarsi in una «mediocritas» niente affatto «aurea» per precisione e per capacità, sono da considerare senz’altro Omero e, più ancora, Virgilio.

Italico, Omero, Virgilio

Mentre infatti al primo si rifa in II 395 sgg. (descrizione dello scudo di Annibale), III 62 sgg. (colloquio di Annibale con Imilce), III 129 sgg. (la rassegna dell’esercito), X 331 sgg. (Giunone manda il dio Sonno a distogliere Annibale dal recarsi a Roma), XI 434 sgg. (la figura dell’aedo Teutra), XI 744 sgg. (il comportamento dei Romani nel campo cartaginese), XIII 400 sgg. (la discesa agli Inferi), XVI 285 sgg. (i giucchi funebri), XVII 237 sgg. (lo scoppio della tempesta), ed in altri ancora, il ricorso al Mantovano è quasi costante: in II 56 sgg. (la vergine Asbite = Camilla), II 276 sgg. (Annone nemico di Annibale = Drance), II 526 sgg. (Tisifone assume l’aspetto di Tiburna, la vedova di Murro = Alletto), II 580 sgg. (una serpe esce dalla tomba di Èrcole = una serpe esce dal tumulo di Anchise), III 32 sgg. (Annibale ammira le sculture sul tempio di Cadice = l’Enea del sesto e dell’ottavo libro), III 557 sgg. (Venere ricorre a Giove), III 570 sgg. (i vaticini di Giove), IV 131 sgg. (l’indovino Bogo = Tolumnio), IV 163 sgg. (i rimproveri di Mercurio), IV 725 sgg. (Giunone assume le sembianze del dio Trasimeno = il dio Tiberino), VI 653 sgg. (Annibale ammira le pitture del tempio di Literno = l’Enea del sesto e dell’ottavo libro), VII 409 sgg. (il vaticinio di Proteo = Anchise), IX 451 sgg. (Giunone chiede soccorso ad Eolo), XII 701 sgg. (Giunone distoglie una seconda volta Annibale dall’assalire Roma = Aen. II589 sgg.), XIII173 sgg. (Claudio entra in Capua = Turno), XVII523 sgg. (a Zama Annibale insegue un fantoccio che somiglia a Scipione = Aen. X 611 sgg.).

Un giudizio

Un giudizio non esaltante…, ma obiettivo, lo fornisce il Frassinetti: «Silio fu vittima dell’equivoco denunciato parlando di Lucano: credette, cioè, che bastassero gli ingredienti mitici a dare sublimazione poetica ai fatti storici. Ma questo miracolo può farlo solo l’animo perturbato e commosso del poeta, mentre Silio è solo un letterato ed un amatore d’arte, senza veri interessi umani per ciò che descrive: il suo poema è riuscito perciò solo un’opera di abile versificazione, quasi mai ravvivata dal sorriso della poesia».

La sua fortuna

Dell’autore nessuna notizia è pervenuta a noi, dopo il giudizio interessato di Marziale e quello non del tutto positivo di Plinio il Giovane, fino al sec. V d.C., come attesta un riferimento a questo ed alla sua opera da parte appunto di Sidonio Apollinare.

I «Punica», ignorati per tutto il Medioevo e sconosciuti al Petrarca (che avrebbe potuto servirsene per il “De Africa”), furono scoperti da Poggio Bracciolini nel 1417 forse a Fulda; a questo esemplare se ne aggiunse un secondo, ritrovato nel Duomo della città di Colonia nel 1564 da Ludovico Carrion, ma ora perduto.

Un’opera giovanile

La tradizione ha attribuito a Silio nel periodo medioevale l’appellativo di «Homerus latinus» ritenendolo autore di un riassunto dell’ «Iliade», probabilmente di chiara destinazione scolastica, dal titolo di «Homerus de bello troiano» (o di «Pindarus Thebanus» [?]), in millesettanta esametri, di cui è giunta solo una metà.

Ancora su Silio Italico

Vita.

Senatore, cortigiano di Nerone, console nel 68, noto durante i periodi più cupi della tirannide come delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d’Asia. Coltivò la poesia nella vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male incurabile, si lasciò morire di fame.

Opera e considerazioni.

La sua opera maggiore è un lungo poema epico sulla II guerra punica – “Punica”- in 17 libri, ricostruzione della guerra di Roma contro Annibale, dalla spedizione di questi in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. L’opera, forse originariamente in 18 libri, risulta nell’ultima parte più sintetica e frettolosa, mentre i primi avvenimenti sono narrati con ampiezza di particolari e ricchezza di pathos; in essa, inoltre, manca un vero e proprio nucleo narrativo dominante ed unificante: gli episodi si succedono in ordine cronologico, senza dare vita ad una narrazione, ad es., incentrata su una figura di eroe, che faccia da filo conduttore e che svolga un ruolo provvidenziale di “fondatore” della patria.

Il tema punico, già trattato da Ennio, e preannunciato in qualche modo dal “Bellum Punicum” di Nevio, viene questa volta ripresentato in stile virgiliano. S. vuole imitare il grande maestro nello stile, nella lingua, nelle immagini, nell’apparato mitologico-divino, ma la sua emulazione si limita decisamente all’aspetto formale, nell’adozione soprattutto dei “topoi” propri della poesia epica. D’altro canto, anche la presenza sensibile dell’epopea “annalistica” permane: S. non ha saputo liberarsi dai quadri storici, e ciò produce una specie di miscela di due estetiche, che mette allo scoperto per intero l’apparato del “meraviglioso” di tipo (anche) “omerico” come un complesso di artifici ormai sorpassati.

Seppure la disposizione è “annalistica”, non si può ridurre tuttavia l’opera ad una semplice versificazione del materiale storico raccolto ed esposto da Livio nella III decade, la sua maggiore fonte storica.

Altre fonti, infatti, furono Marrone, Posidonio, Igino; fra le poetiche Ennio (essenzialmente per la già detta disposizione “annalistica”), appunto Virgilio (nei termini già accennati) e Lucano (per la scelta di un argomento di “epica storica” e per le consonanze di taluni “colores” stilistici): e, in effetti, il poema di S. può idealmente essere inserito in una posizione intermedia proprio tra questi due ultimi autori.

L’opera – che nel suo complesso s’innesta, dunque, senza aggiungere molto di nuovo, nel ricco filone della letteratura patriottica romana – è stata severamente giudicata dalla critica moderna per la sua “macchinosità”, per l’eccesso di discorsi retorici, per la scarsa poeticità (ma già Plinio il Giovane la disse scritta “più con scrupolo che non ingegno”): in verità, e in ultima analisi, il suo maggior pregio sembra consistere nella quantità di informazioni etnografiche, mitologiche, storiche che vi compaiono.

(fonte internet)

Publio Papinio Stazio

— Napoli 45 ca – 96 d.C. —

Nacque nel 54 d.C. a Napoli (erroneamente fu in epoca medioevale, ed anche da Dante, ritenuto di Tolosa essendo stato confuso con il maestro di retorica L. Stazio Ursulo Tolosano, vissuto in Gallia sotto Nerone) da un modesto «litterator», trasferitosi nella città campana dalla natia Velia: e fu proprio il padre, che come poeta epico aveva anche partecipato agli Augustali in un anno compreso tra il 20 ed il 40 d.C., ad impartirgli i primi rudimenti letterari, nonché il gusto del poetare.

La prima vittoria in una gara poetica l’ottenne proprio a Napoli tra il 74 ed il 78 d.C. nel corso degli Augustali, circa sette anni dopo che il padre aveva composto un poemetto sulla lotta tra Vitellio e Vespasiano letto pubblicamente a Napoli ai propri alunni ed ai loro genitori.

Nel 79 d.C., anno della morte del padre e dell’eruzione del Vesuvio, Papinio dette inizio alla «Tebaide». I dieci anni successivi, sia per il matrimonio con Claudia, una romana, sia per l’acquisto di un podere con una villetta ad Alba, lo videro avvicinarsi sempre più alla «Città eterna».

La sua seconda vittoria, infatti, la ottenne lontano da Napoli, nei ludi Albani del 90 d.C., con un’opera che inneggiava a Domiziano, promotore dei Giochi e vincitore sul Reno, anche se nell’estate di quello stesso anno tornò a soggiornare nella città campana, ispiratrice di tanti suoi versi.

La sconfitta subita nell’agosto del 94 d.C. nel corso dei ludi Capitolini accentuò una certa nostalgia di Napoli, già manifestatasi quattro anni addietro, e, fatto ritorno nella terra di Partenope (come lascia intendere nella lettera all’amico Marcello al quale dedicò il quarto libro delle «Silvae»), nell’estate dell’anno successivo indirizzò il terzo libro dell’opera predetta, già ultimato, con una lettera in prosa ad un altro amico: Pollio di Sorrento.

Nel 96 d.C. Stazio si spegneva nella sua città natale, confortato dall’affetto di Claudia e di una figlia di questa, avuta in un precedente matrimonio.

Napoli e Stazio

«Per la vita intellettuale di Napoli durante la seconda metà del primo secolo d.C.», leggiamo in un saggio dello Sbordone, «Stazio rappresenta il testimone più copioso e più significativo. Ed è evidente, malgrado il suo grande amore per la città nativa, che quella vita era andata decadendo, in guisa da non poter sostenere il confronto coi bei tempi dei poeti augustei, formati alle scuole di Sirone e di Filodemo.

Oramai la speculazione filosofica dei cenacoli epicurei era venuta meno per sempre: ne è buon testimone anche Seneca, che lamenta la futura prevalenza della vita di teatro su quella del pensiero. Eppure l’incanto naturale di Napoli restava fonte viva di poesia: Stazio che seppe coglierne la più viva e spontanea ispirazione è il legittimo progenitore dei poeti, che, attraverso i secoli, ne decanteranno le bellezze».

La sua fortuna

Famoso nel Medioevo soprattutto come poeta epico, è posto accanto a Virgilio e considerato il discepolo di un «convertito» (vedere la virgiliana quarta ecloga): Dante, quindi, può collocarlo nel Purgatorio.

Il periodo rinascimentale tiene in gran conto la poesia di Stazio.

In particolare tracce evidenti delle opere maggiori sono in Dante, che nel canto XIV dell’Inferno si rifà alla «Tebaide» per l’episodio di Capaneo e a Tideo e Melanippo per l’episodio del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggeri (ma anche in Conv. IlI, 8; IV, 25; Inf. XVIII, XX, XXV, XXVI, XXXII; Purg. XXII, XXVI; …); in Boiardo ed in Ariosto, per l’evidente analogia tra la figura di Rodomonte ed il Capaneo di Stazio; in Tasso, nella cui «Gerusalemme» la lotta tra Tancredi ed Argante somiglia a quella tra Alcidamante e Capaneo, il personaggio di Erminia si avvicina moltissimo ad Antigone che passa in rassegna l’esercito nemico, mentre quello di Rinaldo ci fa tornare di nuovo alla memoria il Capaneo del decimo libro.

Nel 1700 si assiste, invece, ad un totale oblio dell’autore e della sua opera e solo con il D’Annunzio la poesia di Stazio ritrova nuovo successo, giacché il Pescarese avverte nella figura di Capaneo precorrimenti nietzschiani e si ispira ad essa per la composizione ditirambica sull’episodio di Icaro nell’«Alcyone» e per la rievocazione dell’eroe nella «Fedra».

Le opere perdute

II poemetto «Agave» (ricordato da Giovenale e venduto per necessità da Stazio al potentissimo pantomimo di corte Paride) parlava dell’orrenda uccisione di Penteo ad opera della madre punita da Dioniso per la sua invidia nei confronti della sorella Semele; il «De bello Germanico» verteva sulle campagne di Domiziano nelle terre attraversate da Reno e Danubio. Di queste opere c’è pervenuto solo un piccolo frammento leggibile ancora in Giovenale, mentre siamo in possesso, in parte o totalmente, delle altre opere di maggior prestigio: Tebaide, Achilleide, Selve.

La «Tebaide»

«Thebais» I Tebaide: traboccante di influssi della mitologia e della tragedia greca e latina, è l’opera a cui Stazio dedicò il suo maggiore impegno, in un’ideale gara di emulazione nei confronti dei più illustri campioni del genere epico.

La struttura

Distribuito in dodici libri, secondo il modello virgiliano, e scritto tra l’80 ed il 92 d.C, dedicato a Domiziano, il poema, che riecheggia il tono solenne tipico del primo proemio filo-neroniano di Lucano, tratta della vicenda dei sette a Tebe, della guerra tra i figli di Edipo Polinice ed Eteocle.

I,1-17

Le lotte fraterne e i regni alterni contesi con odi scellerati, e Tebe colpevole, ardore pierio m’ispira a narrare. Da dove volete, dee, ch’io cominci? Dovrò cantare l’origine prima della stirpe maledetta, i ratti sidonii e l’inflessibile patto imposto da Agenore e le ricerche di Cadmo attraverso i mari? Troppo lungo e remoto racconto se dovessi descriverlo, quell’agricoltore, nell’atto di riporre nei solchi maledetti, atterrito, i semi di una lotta nascosta, e per intero narrassi per virtù di qual canto Anfione impose ai monti di Tiro di sovrapporsi a formare le mura, o da dove ebbe origine l’ira funesta contro la città parente di Bacco e qual fu l’opera di Giunone crudele; contro chi, sciagurato, prese l’arco Ataman-te e perché non temette l’immensità dello Ionio la madre di Palemone, nell’atto di precipitarvisi col figlio. Perciò lascerò ormai da parte le sventure e le gioie di Cadmo, e limiterò il mio canto alla casa sconvolta di Edipo.                (tr. Aricò)

Essa può essere divisa in due esadi:

– i ll. 1-6 si dilungano dalla primitiva infrazione di Eteocle al patto stipulato col fratello di regnare ad anni alterni su Tebe, alla sosta forzata presso quella città dell’esercito raccolto da Polinice, per mancanza di acqua;

– i ll. 7-12 trattano dei vari scontri intorno a Tebe dei contendenti fino al duello finale, fatale per entrambi i fratelli, tra Eteocle e Polinice, fino alla vendetta di Teseo che uccide Creonte, resosi colpevole di non aver permesso la sepoltura dei morti tra gli Argivi, da cui era costituito l’esercito di Polinice.

I modelli

Tributario dei tragici greci per la materia del suo poetare, Stazio si rivela solo un erudito capace di ricomporre più che di inventare, di imitare più che di ispirarsi, incline ad una certa intemperanza descrittiva e ad un tono decisamente enfatico, in una ricerca della teatralità di gusto decisamente barocco.

Anche se non mancano episodi interessanti nel poema, il Napoletano mostra di seguire, tra i Romani, Virgilio, con il quale ha in comune la tendenza all’introspezione e la tecnica formale del verso, ma, preso dalla voglia di meravigliare, di stupire, spesso scade di livello nella ricerca degli effetti e non riesce nemmeno a sfiorare la suprema armonia della creazione virgiliana.

Stazio e Virgilio

«I valori negativi del poema virgiliano», afferma l’Aricò, «divengono gli elementi positivi della realtà. Al poema della “pietas” fa riscontro quello del “furor”, al poema dell’amore paterno e filiale quello della maledizione paterna, dell’odio accanito, fino alla morte, dei due fratelli. I sentimenti che contraddistinguono l’antagonista di Enea – il “furor”‘, la presunzione – e lo conducono alla rovina, caratterizzano tutti i protagonisti della vicenda della “Tebaide” e li spingono alla distruzione, né vengono infine domati da una legge di giustizia trionfatrice. Significativo il confronto dei duelli finali dei due poemi: se in quello dell’ “Eneide” è da vedere la vittoria dell’uomo giusto, esecutore del cenno divino che mira a un fine di giustizia, in quello della “Tebaide” invece è da scorgere, infranto ogni vincolo etico umano, il cozzo delle cieche passioni e degli odi feroci degli individui, spinti da orgoglio disumano e brama di potere».

Le «Silvae>

Selve: trentadue componimenti, quasi tutti in esametri (ma anche in metro alcaico, saffico ed in faleci) e di carattere vario, in cinque libri, di cui l’ultimo pubblicato postumo, formano quest’opera che rappresenta la produzione lirica di Papinio ed il cui titolo sta proprio ad indicare da parte del poeta lo sgorgare spontaneo in lui della vena poetica così come i fiori spontaneamente sbocciano nei prati (o forse anche l’eterogeneità dei temi trattati).

Le «praefationes»

Ogni libro delle “Silvae” è fornito di una «praefatio» in prosa rivolta ad un personaggio storico: il primo a Lucio Arrunzio Stella (a cui ha dedicato anche un epitalamio per le sue nozze con la vedova napoletana Violentilla); il secondo ad Atedio Meliore (per il quale ha composto pure un epicedio per la morte del passero, tematica questa già sfruttata da Catullo e da Ovidio); il terzo all’amico sorrentino Pollio Felice; il quarto a Vitorio Marcelle (dedicatario anche dell’«Institutio oratoria» quintilianea); il quinto, infine, è dedicato ad Abascanto, segretario di Domiziano, sul tema della morte, per la scomparsa, a soli diciannove anni, della moglie di quest’ultimo, Priscilla.

La varietà dei temi

II carattere occasionale dei componimenti e la volontà da parte di Papinio di sfoggiare il suo sapere e di farsi conoscere quale letterato di mestiere, se da una parte ci offrono la possibilità, per il loro carattere soggettivo, di ricostruire la sua vita, dall’altra rivelano eccessiva erudizione, troppa eredità scolastica, anche se non mancano sprazzi di vera poesia: citiamo le lodi del cavallo per la statua equestre del «Princeps» nel Foro e del leone di Domiziano, del pappagallo e del platano di Meliore, dei capelli consacrati da Flavio Earino ad Esculapio, l’epicedio del padre e del figlio adottivo, l’invito a Claudia a seguirlo a Napoli, l’epitalamio per Stella e Violentilla. Nonostante questi sprazzi di poesia, nuoce alla raccolta il tono costantemente ossequioso verso il potere. Sconosciute al Medioevo, le «Silvae» furono tra le tante opere riscoperte da Poggio Bracciolini nel XV secolo.

IlI, 5, 72-88

La cima del Vesuvio e la tempesta infuocata del monte non han fatto le trepide città prive di uomini: ancora in piedi vivono di gente. Ivi il tempio di Apollo ammirerai e il porto di Pozzuoli e le sue rive ospitali e le mura che di teucri esuli Capi fece colme, e sono simili a quelle della grande Roma. Piena di cittadini e di coloni è la cara Partenope, che giunta dal mare vide il mite suolo splendere a lei da Febo stesso rivelato col volo di colomba sacra a Venere. A queste sedi (e patria non mi fu né la barbara Tracia né la Libia) desidero con-durti: dove sempre dolce è l’inverno e mai arsa l’estate, terra che lambe d’onde lente il mare. Ivi sicura pace regna e l’ozio di una vita felice, ivi la quiete di lunghi sonni non è mai turbata: ivi non ira, non discordia come nel Foro o leggi come spade nude; ma il diritto è un costume e non si vede mai armata di fasci la giustizia. (tr. Cetrangolo)

L’«Achilleis»

Achilleide: il poemetto, iniziato intorno al 95 d.C. e dedicato a Domiziano, destinato a darci, a differenza di Omero, una visione completa della vita di Achille, si interrompe al v. 1127 del secondo libro. Data la vivacità dell’espressione e il tono più disteso e meno «teatrale» rispetto alla «Tebaide» (almeno a giudicare dalla parte che è stata composta), si ha l’impressione che con questo secondo poema epico Stazio avrebbe potuto fornire prova migliore delle proprie capacità, anche se l’ambizioso disegno lo avrebbe inevitabilmente portato a confrontarsi con i «mostri sacri» dell’epica, Omero e Virgilio.

Ancora su Papinio Stazio

Vita.

Figlio di un maestro di retorica (elemento non trascurabile, questo, nella sua formazione poetica), S. incarna – forse più di altri – la figura del poeta “professionista”. Si trasferì a Roma per tentare la fortuna durante l’impero di Domiziano e, in breve tempo, effettivamente si guadagnò – nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche – il favore del pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi protettori.

D’ingegno duttile e versatile, in questo primo periodo compose libretti per mimi e, oltre al suo primo poema epico, la “Tebaide”, alcune “Silvae”, componimenti lirici di circostanza in uno stile facile ed elegante. Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante le preghiere insistenti della moglie Claudia, una musicista, decise di abbandonare la città per far ritorno in Campania. Vi condusse lo stesso genere di esistenza di poeta mondano al servizio dei nobili romani, che in quella regione approdavano in massa per i loro soggiorni primaverili ed estivi.

In questo periodo della sua attività, scrisse altre “Silvae” e una seconda epopea, l’ “Achilleide”, che non gli fu però possibile portare a termine.

Opere e considerazioni.

“Tebaide” (pubbl. nel 92). E’ in 12 libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle e Polinice per la successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è mitologico, dotato di un complesso apparato divino, la vera sostanza del contenuto riporta irresistibilmente verso la “Farsaglia” di Lucano).

In un insolito epilogo programmatico, S. dichiara poi di avere un modello altissimo, anche se preso coi dovuti rispetti: l “Eneide”, di cui le due esadi riproducono fedelmente la metà iliadica di preparazione e quella odisseica.

In verità, i modelli poetici sono legione: S. dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Antimaco di Colofone e Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici o di loro riassunti. Talora (oltre che l’Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti: Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco (e gli alessandrini in genere); infine, lo stile narrativo e la metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del mondo dell’influsso di Seneca, da cui mutua anche, volendo, il gusto dell’orrido e la tendenza al patetico (caratteristiche comunque comuni alla letteratura del tempo).

Insomma, proprio qui – ovvero nel contrasto tra fedeltà alla tradizione virgiliana e le inquietudini modernizzanti – sta il vero centro dell’ispirazione epica di S. . Tuttavia, nonostante tale costellazione di influssi, e nonostante l’abbondanza di episodi minuti e di “miniature” sentimentali o pittoresche, l’opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico sono piuttosto gli ossessivi “corsi e ricorsi” a motivi e atmosfere: tutta la storia risulta, ad es., dominata da una ferrea “necessità universale” (la cui funzione è enfatizzata in un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le cose, gli uomini e le stesse divinità (è qui che S. si avvicina invece più a Lucano).

“Achilleide” (interrotta all’inizio del II libro per la morte del poeta). Poema epico sull’educazione e le vicende della vita di Achille: ma la narrazione giunge fino alla partenza dell’eroe per Troia. Il tono è più disteso ed idillico che nella barocca “Tebaide”, benché nell’opera tutta si evidenzi una forte accentuazione della componente etica.

“Silvae” (“schizzi”, ovvero materiale grezzo necessitante di rifinitura; ma in realtà l’opera risulta, a suo modo, già elaborata e perfetta: dunque, il titolo va forse più propriamente riferito al carattere “occasionale”, estemporaneo, dei componimenti). E’ una raccolta di 32 poesie, scritte tra l’85 e il 95 d.C., in 5 libri di metro vario (dall’esametro ai versi lirici), di temi appunto occasionali (epitalami, descrizioni di ville e di terme, di statue e di altri oggetti artistici, epicedi, epistole poetiche, invocazioni…) e di tono molto spigliato e spontaneo, nonostante la ricchezza di “topoi” retorici. Esse ci hanno conservato preziose immagini dell’alta società romana del tempo (della sua “mentalità”) e dell’ambiente di corte: il poeta si propone quasi quale “supervisore” sistematico dei pubblici sentimenti o si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità (deriva da ciò la patina cortigiana e conformistica di tutto l’insieme).

E’ forse proprio qui, quindi, che S. dà prova d’essere veramente un poeta erudito, un cantore della poesia sentimentale e preziosa, addirittura “estetizzante” (a suo riguardo, qualche critico ha parlato di “retorica della dolcezza”).

(fonte internet)

Gaio Plinio Secondo, detto “il Vecchio”

— Como, 23-24 d.C – Stabile, odierna Castellammare, 79 d.C. —

Può essere considerato in età imperiale il massimo esponente dell’enciclopedismo praticistico-scientifico (peraltro diverso da quello antiquario di Varrone).

C. Plinio Secondo, detto «il Vecchio» per distinguerlo dal figlio della sorella, nacque nel 23 d.C. a Como, anche se alcuni codici lo ritengono di Verona giacché egli parla di Catullo, originario di quella città, come di un suo conterraneo: ma la conterraneità sembra riferirsi solo in generale alla zona del Po e, quindi, anche a Como, che a buona ragione può definirsi la sua città natale.

Plinio, insieme a Quintiliano e più di altri, può essere ritenuto lo scrittore rappresentativo dell’epoca dei Flavi, anche per gli sviluppi della sua carriera .

Dapprima avvocato a Roma, divenne comandante di una squadra di cavalleria in Germania e, poi, sotto Vespasiano, procuratore imperiale nella Gallia Narbonese e nella Spagna Tarragonese e, quindi, collaboratore del «Princeps» per l’amministrazione delle finanze e della marina.

Comandante della flotta stanziata a Capo Miseno, spinto per umanità e per amore di scienza dalle richieste di aiuto ricevute dagli abitanti delle zone colpite, restò vittima dell’eruzione del Vesuvio che il 24 agosto del 79 d.C. seppellì Stabia, Pompei ed Ercolano: la notizia la desumiamo da una lettera del nipote Plinio il Giovane a Tacito, che gli aveva chiesto particolari sulla morte dello zio: nella lettera il nipote dice di voler saldare un debito di gratitudine verso chi l’aveva adottato dopo la perdita del padre.

In quello stesso documento letterario Plinio il Giovane lo presenta come un uomo di scienza e di cultura, ricco di «humanitas», sempre pronto ad arricchire le proprie conoscenze e a non trascurare alcun momento della giornata per leggere, annotare, approfondire questo o quell’argomento, essendo dell’idea che «non c’era alcun libro, per quanto cattivo, che non potesse giovare in qualche sua parte».

Le opere perdute

Un elenco delle opere lo compila ancora il nipote scrivendo all’amico Bebio Macro:

«Bellum Germanicum», in dieci libri dedicati a Tito;

«Historiae», dalla morte di Aufidio Basso in trentuno libri;

«Studiosi libri tres»;

– «Dubii sermones libri octo», in cui fa il punto sulle questioni grammaticali fino al suo tempo;

.. .e, unica pervenutaci…

…la «Naturalis historia», tramandataci, però, con il titolo di «Naturae historia», dove «historia» sta per «ricerca» sulle cause naturali; la sua prima edizione risale al 77d.C..

Un’opera enciclopedica

È divisa in trentasette libri, ma il primo è una specie di catalogo dei quattrocentosettantatré autori greci e latini consultati (ed anche prova che Plinio il Giovane alterò la struttura originaria dell’opera, poiché, mentre ora è l’unico visibile come indice generale, lo zio nella dedica a Tito parla di indici presenti all’inizio di ogni libro). Un’opera, quindi, con spiccate finalità enciclopediche: un po’ il compendio degli oltre duemila volumi cui l’autore afferma di essersi rifatto.

Il suo metodo

In nessun passo della «Naturalis historia» Plinio esprime un parere personale: suo fine ultimo è quello di mettere a disposizione di altri uomini le conoscenze acquisite in tutte le numerosissime materie trattate (dalla zoologia alla botanica, dalla medicina all’antropologia, dalla cosmografia alla mineralogia, alla storia dell’arte), citando scrupolosamente le fonti e le tradizioni cui attinge.

E questa sua linea programmatica egli la espone subito nella «praefatio» dedicata a Tito, in cui ribadisce che i metodi della sua ricerca escludono ogni digressione sull’argomento ed ogni piacevolezza di narrazione, avendo l’unico scopo di «giovare» e non di «piacere», di fare opera di cultura e non già opera d’arte.

Si tratta dunque di un’opera compilatoria e assolutamente acritica, che non ha nulla di «scientifico» in senso moderno, ma testimonia almeno la «curiositas» di un uomo del primo secolo verso tutto ciò che è oggetto di conoscenza.

La struttura

l. I = elenco degli autori

II. II-VI = cosmografia, geografia

ll. VII-XVI = osservazione della natura

ll. XVII-XIX = l’agricoltura

ll. XX-XXXII = la medicina

ll. XXXIII-XXXVII = i minerali e la loro applicazione alla ceramica, alla pittura e alla scultura, con una storia di artisti e delle loro opere.

Lo stile

Plinio il Vecchio è autore senza velleità artistiche, teso essenzialmente alla divulgazione del sapere; il suo stile sembra essere quello sbrigativo della cancelleria; eppure quello stile, ordinario e rozzo, alcune volte acquista bellezza, vivacità, eleganza come in II 63 154-159 (la descrizione della terra), VII 1 1-7 (la misera condizione dell’uomo), VII 30 116-117 (elogio di Cicerone), VII 36 127 (esempio di pietà filiale), VII 50 167-168 (sulla brevità della vita), IX 58 117-118 (le perle di Lollia Paolina), X 43 81-83 (gli usignoli), XI 24 80-84 (i ragni), XI 36 108-110 (le formiche), XVIII 8 41-43 (le magie di C. Furio Cresimo), XXXIV 14 138 (il ferro), XXXV 10-17 (Apelle), XXXVI 13 84-93 (i labirinti).

Ancora su Plinio il Vecchio

Vita.

P. apparteneva all’ordine equestre romano e comandò a lungo uno squadrone di cavalleria sul Reno. Vero modello di funzionario imperiale, ricoprì anche importanti incarichi amministrativi durante i regni di vari imperatori (Vespasiano e Tito). Prefetto, infine, della flotta di Capo Miseno durante il regno di Tito, egli esercitava ancora questo comando quando trovò la morte, inghiottito dall’eruzione del Vesuvio che seppellì le città campane nel 79 d.C. . Una buona parte delle nostre informazioni su di lui – sulla vita, sul catalogo delle opere, sul suo metodo di lavoro – ci provengono dalla corrispondenza di suo nipote e figlio adottivo, Plinio “il Giovane”.

Opere e considerazioni.

P. fu autore, come ci testimonia il nipote nel suo elenco, di saggi storici molto stimati, di cui però purtroppo nulla possediamo: 20 libri su “Le guerre di Germania” (ispirati alle sue campagne), e 31 “Dalla fine di Aufidio Basso”, che riprendevano il filo degli eventi dal punto in cui si era fermata (gli ultimi anni dell’impero di Tiberio) l’opera dello storico A. Basso, egli stesso continuatore di Tito Livio. Questi libri di P. furono una delle fonti di Tacito. Dovrebbe, infine, aver scritto anche un “Dubius sermo”, ovvero un manuale su problemi linguistici.

Tuttavia, per noi, P. è soprattutto un “enciclopedista”, le cui straordinarie conoscenze si trovano compendiate nei 37 libri della sua “Naturalis historia”(“Storia naturale”), vasta indagine (finita nel 77-78) su tutto ciò che esiste in natura, partendo dalla “centralità” dell’essere umano, e su argomenti che spaziano dall’arte alla medicina: una vera e propria “summa“, quindi, del sapere reperibile fino a quel momento, in autori greci (soprattutto) ma anche latini.

L’opera, aperta da un’epistola dedicatoria e illustrativa rivolta al futuro imperatore Tito, inizia con una prefazione e una “bibliografia” (una vera novità, questa, nel mondo classico), e continua con la trattazione dell’astronomia e della geografia (libri II-VI), dell’uomo e degli animali (VII-IX), della botanica (XII-XIX), della medicina (XX-XXXII), della metallurgia e mineralogia, con ampi excursus sulla storia dell’arte, con particolare riguardo per la scultura e la pittura (XXXIII-XXXVII).

P. si colloca sulla linea di Varrone, ma senza l’ampiezza analitica di quest’ultimo. In realtà, il suo è un interesse che non si può definire propriamente “scientifico” (non si preoccupa, ad es., di sottoporre le notizie ad un’adeguata e rigorosa verifica, né sente l’esigenza di proporre un lavoro originale e metodologicamente impostato): egli è piuttosto un avido collezionista, mosso da una forte curiosità “compilatoria”, che appunto uno scienziato o un pensatore. Le sue stesse idee filosofiche e religiose, impregnate di stoicismo, non superano i luoghi comuni abituali del suo tempo, e anzi proprio la mentalità enciclopedica è per lui un accomodante eclettismo.

Comunque, mescolando esperienze personali e testimonianze di fonti antiche in uno stile manierato e talvolta tortuoso (ma giustificato dalla mole e dall’intento divulgativo dell’opera), P. ci dà – oltre a innumerevoli, precise e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del tempo – un esempio unico del profondo umanesimo e della vastità d’interessi della cultura latina del I sec. d.C., nonché una lampante testimonianza della diffusione e dell’ascesa dei ceti “tecnici” e “professionali”, con la conseguente “domanda” di cognizioni specifiche ai relativi settori.

(fonte internet)

Marco Fabio Quintiliano

— Calahorra, Spagna 35 ca – Roma 95 ca d.C. —

La Spagna, che nel primo secolo dopo la nascita di Cristo generò il maggiore poeta epico, Anneo Lucano, ed un retore tra i più famosi, Anneo Seneca, padre del filosofo, diede pure i natali ad uno dei più insigni maestri dell’arte oratoria, Marco Fabio Quintiliano.

La fama di questo scrittore è stata, tuttavia, più legata alla storia della pedagogia che a quella dell’oratoria, anche se la sua opera principale, la «Institutio oratoria», ossia «L’educazione dell’oratore», è essenzialmente destinata ai problemi dell’eloquenza.

La spiegazione di ciò risiede nella vita stessa dell’autore: Quintiliano fu soprattutto un grande maestro, in secondo luogo, un avvocato ed un oratore.

Nato a Calagurris (Calahorra) nella Spagna Tarragonese nel 35 d.C….

«Quintilianus ex Hispania Callagurritanus primus Romae publicam scholam et salarium e fisco accepit et claruit».

«Quintiliano proveniente da Calagurris in Spagna per primo a Roma aprì una scuola pubblica e ricevette uno stipendio dallo Stato».

…(ma Valla erroneamente lo fa nascere a Roma), fu, ancora giovanetto, condotto dal padre, maestro di retorica, a Roma.

Qui completò l’educazione, molto probabilmente iniziata dal genitore, frequentando uomini assai celebri ed oratori rinomati a quell’epoca quali il gallo Giulio Africano, M. Galerio Tracalo, Servilio Nomano, l’intimo amico Giulio Secondo (difensore dell’eloquenza repubblicana con Messalla e con Materno, nel dialogo di Tacito, contro il «modernista» M. Apro), il grammatico Remmio Palemone ed il retore Domizio Afro di Nimes nella Gallia Narbonese, quest’ultimo da Quintiliano stesso stimato il più valente degli oratori da lui conosciuti.

Dopo la morte di Domizio Afro, verso il 68, ritornò con Servilio Galba, nominato governatore della Tarragonese, in Spagna, dove si dedicò all’insegnamento con tale passione da meritare la stima del futuro imperatore.

Ai legami di amicizia che si instaurarono tra i due è dovuto il suo ritorno a Roma.

«Fabius Quintilianus Romam a Galba perducitur».

«Fabio Quintiliano è ricondotto a Roma da Galba».

Qui esercitò l’avvocatura, evitando, tuttavia, a quanto sembra, di fungere da accusatore e limitandosi solo all’incarico di avvocato difensore.

Egli stesso ricorda i tre processi ai quali prese parte: uno per la regina Berenice (l’amante di Tito), un altro per uxoricidio, un terzo per una questione di eredità.

Più che quale oratore, tuttavia, Quintiliano acquistò grande reputazione come maestro di retorica…

«E ciò ho intrapreso con maggiore entusiasmo perché già due libri venivano presentati sotto mio nome con quello di arte retorica… uno, tenuta lezione per due giorni, lo avevano trascritto i ragazzi, per i quali era preparato, l’altro raccolto certamente in più giorni… lo avevano divulgato dei bravi allievi con lo sconsiderato onore della pubblicazione, perché troppo miei ammiratori».

…tanto è vero che per venti anni, forse primo maestro pubblicamente stipendiato, tenne la cattedra pubblica di eloquenza conferitagli da Vespasiano.

«Primus e fisco Latinis Graecisque rhetoribus annua centena constituit».

«Per primo assegnò sul fisco imperiale ai retori greci e latini uno stipendio annuo di centomila sesterzi»

Da questo insegnamento, raramente alternato all’esercizio reale dell’eloquenza, Quintiliano ricavò fama e fortuna (riceverà da Flavio Clemente, cugino di Domiziano, la dignità consolare), nonché la soddisfazione di formare alunni che sarebbero, poi, divenuti famosi, come Plinio e, forse, Tacito e Giovenale.

Egli fu, soprattutto, dunque, un maestro, e, non per sola deferenza, era sommamente considerato da Marziale.

«Quintiliane, vagae moderator summe iuventae, / gloria Romanae, Quintiliane, togae».

«Quintiliano, sommo moderatore dell’irrequieta gioventù, / o Quintiliano, gloria della toga romana»

Ritiratosi dall’ufficio magistrale e dall’esercizio forense, si accinse, per fare cosa gradita agli amici, a scrivere un’opera che fosse quasi una sintesi dell’insegnamento da lui impartito con vero amore: l’«Institutio oratoria», i cui dodici libri esprimono anche i principi pedagogici dell’autore.

Benché, infatti, il fine ultimo del trattato fosse la formazione del buon oratore, egli trattò della necessaria educazione preparatoria, parlando a lungo e con rara perizia della problematica legata all’educazione dei fanciulli e degli adolescenti, spesso con soluzioni sorprendentemente «moderne».

La dottrina educativa di Quintiliano è in gran parte racchiusa nei primi due libri, ma non mancano pensieri prettamente pedagogici in altri luoghi della famosa opera, elaborata intorno al 90, portata a compimento tra il 92 ed il 93 e pubblicata verso il 96.

È da pensare che l’autore avesse preparato nel suo lungo periodo di insegnamento appunti o addirittura steso alcune parti dell’opera, giacché è impossibile pensare che abbia potuto comporre i dodici libri, di cui è costituito l’«opus», in così breve tempo. È certo, comunque, che, una volta svanito l’entusiasmo della prima stesura, egli aveva intenzione di rivedere la «Institutio»: fedele, in questo, al precetto graziano

«… nonumque prematur in annum».

«… si tenga da parte un’opera fino al nono anno».

Nel pieno dell’operosa fatica, tuttavia, fu colpito da un gravissimo lutto che ad altri si aggiungeva: gli moriva il figlio decenne che tanto bene aveva fatto sperare di sé, e, precedentemente, aveva perduto un altro figlio di cinque anni e la fedele e giovane moglie non ancora diciannovenne.

Durante la stesura dell’ultima parte dell’opera, l’imperatore Domiziano gli affidò un compito di grande responsabilità: l’educazione dei figli della sorella Flavia Domitilla, destinati, forse, a succedergli. Egli accettò l’incarico, né d’altra parte poteva rifiutare qualcosa al «Princeps», da cui aveva ricevuto la dignità consolare, per quanto questa, nell’età imperiale, fosse ridotta a carica meramente onorifica.

In verità Quintiliano, molto amato e stimato dall’imperatore, non si trattenne, in diversi passi della sua opera, dal tributargli lodi talvolta eccessive. Esalta di lui il sentimento religioso, la cultura, la virtù poetica, l’amore per i buoni costumi, giunge perfino a dire che non c’è un dio più di lui propizio agli studi.

Ci si sarebbe aspettato, invero, un comportamento diverso dal Tarragonese nei confronti di un imperatore che, soprattutto negli ultimi anni di regno, espulse da Roma i filosofi ed istituì una tirannide, che Tacito, nell’«Agricola», presenta con tinte fosche; ma non bisogna dimenticare che il terzo imperatore della casa Flavia dovette rappresentare per l’autore la ripresa degli studi e la gloria delle lettere, né d’altra parte per lui poteva costituire una meraviglia la cacciata dei filosofi da Roma dal momento che questi ultimi, a suo dire, avevano invaso indebitamente il campo della retorica ed erano, per di più, turbatori della gioventù.

Il retore spagnolo non sopravvisse di molto alla pubblicazione dell’opera: morì, infatti, nel 96 d.C., anno in cui veniva ucciso, in una congiura, il «Princeps».

Le opere perdute

L’«opus» letterario di Quintiliano, alquanto modesto, o è di dubbia autenticità (quali le diciannove «Declamationes Maiores» e le centoquarantacinque «Declamationes Minores») o in gran parte è andato perduto (come la «De causis corruptae eloquentiae» che pure è da attribuirgli per averla egli stesso menzionata come propria).

L’«Institutio oratoria»

L’unica sua opera pervenuta integra è proprio la «Institutio oratoria», composta quando già aveva lasciato l’insegnamento, sollecitato da editori ed uomini in vista del mondo culturale romano, i quali gli consigliavano di raccogliere in uno scritto il frutto dei suoi studi e, soprattutto, delle sue esperienze di maestro.

Preceduta da una lettera all’editore ed amico Trifone, l’opera si apre con un proemio e con una dedica a Marcello Vitorio, alto funzionario imperiale il cui figlio era destinato alla carriera dell’oratore.

I, Proem. 6-8

Quest’opera dedico a te … sia perché tu mi sei molto amico, sia perché ardente per un grande amore per le lettere … mi sembrava che questi libri sarebbero stati non inutili all’istruzione di tuo figlio Geta, la cui prima età mostra una chiara inclinazione verso la luce dell’ingegno. (tr. Andria)

Questo è lo scopo dichiarato dell’«Institutio» che doveva servire, in origine, anche alla formazione del figlio maggiore dell’autore stesso ed al quale il padre sperava, se non fosse scomparso prematuramente, di poter lasciare in eredità l’opera, come guida preziosa per la carriera.

VI, proem. 1-7

Quel figlio, nel quale avevo posto tutte le mie aspettative ed in cui riponevo l’unica speranza della mia vecchiaia, io ho perduto aggiungendosi questa perdita alle altre. Che dovrei ora fare? (tr. Andria)

II Tarragonese a stento riuscì a superare la grave crisi di sconforto che gli aveva fatto perfino considerare la possibilità di dare alle fiamme i suoi scritti, divenuti per lui, ormai, privi di valore e di scopo.

Il contenuto

Nei dodici libri che compongono I’«Institutio» tutto ciò che è indispensabile all’educazione del perfetto oratore, cioè del «vir bonus dicendi peritus», di catoniana memoria, trova un’esauriente trattazione.

L’allievo è seguito fin dagli inizi della sua educazione e visto con l’occhio premuroso del maestro non come mero oggetto, ma quale soggetto dell’insegnamento, con una visione che oggi si direbbe «puerocentrica», che ha tutto il carattere di un approccio metodologico.

I primi due libri trattano di questioni attinenti alla prima educazione domestica e scolastica: quest’ultima, dice Quintiliano, deve di preferenza essere compiuta nella scuola pubblica. Vengono poi messi a fuoco la figura dell’educatore, i doveri dell’alunno e le materie di apprendimento.

Nei libri dal terzo al settimo il problema viene affrontato da un punto di vista propriamente tecnico: in essi, infatti, si discute dell’«inventio» e dell’«ordo», vale a dire della scelta degli argomenti in relazione ai tre tipi fondamentali dell’eloquenza (celebrativa o epidittica, deliberativa e giudiziale) e della loro distribuzione nell’economia del discorso in «proemium», «narratio», «probatio» (dimostrazione della tesi sostenuta), «refutatio» (demolizione delle tesi avversarie), «peroratio» (riepilogo e mozione affettiva).

Nei libri ottavo e nono si svolge la parte dell’«ars rhetorica» più impegnata in senso letterario: l’«elocutio», ovvero lo stile, che può essere «subtile, medium, grande»; all’«oratio perfecta» si giunge con «la chiarezza, la proprietà, la corretta espressione … la volontà che nulla manchi, nulla passi la misura».

Con il libro decimo viene tracciato un sommario di letteratura comparata greco-latina, da Omero a Seneca, programma questo altamente formativo giacché, con la presentazione valutativa di autori greci e latini, si tende ad ampliare l’orizzonte culturale del discepolo e ad indicare le fonti immediate per una compiuta educazione retorica.

II libro undicesimo tratta largamente della memoria e della pronunzia, sussidi indispensabili al successo della persuasione.

Il dodicesimo conclude l’«opus» con il delineare la figura dell’oratore ideale: un uomo di grande ingegno, di profonda cultura e di integra moralità, perché l’eloquenza è uno studio tra i più elevati e, perciò, richiede semplicità di vita, nobile amore della lode ed onestà di sentimenti.

Il modello ciceroniano e lo stile

In una realtà culturale ancora dominata dal «barocchismo» senecano, Quintiliano opta per un deciso ritorno al classicismo, additando il modello ciceroniano, giudicato insuperabile.

Ciò non toglie che il suo stile, pur rifuggendo dalla teatralità senecana, non si riduca a una riproposta dello stile dell’Arpinate, ma si serva di quello come di un punto di riferimento da cui partire per la costruzione di un discorso proprio, capace di sposare all’armonia ciceroniana echi e suggestioni «moderne» che vivacizzano la pagina.

La fortuna dell’opera

L’«Institutio», riscoperta dal Bracciolini ai primi del Quattrocento, ha suscitato sempre moltissimo interesse non solo dal punto di vista dottrinario, ma anche, e soprattutto, pedagogico, ed ha offerto schemi e materia alle diverse «Artes rhetoricae» dall’Umanesimo fino al Vico.

Ancora su Quintiliano

Vita.

Maestro di retorica pagato dal fisco imperiale. Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e l’avvocatura con notevole successo, finché fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove esercitò l’avvocatura e (soprattutto) incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto: l’imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così riconoscimento all’importanza dell’arte retorica nella formazione della gioventù e soprattutto mostrando (discorso, questo, valido del resto per tutti i Flavi) d’aver ben capito l’importanza della retorica come strumento per la formazione del futuro “ceto dirigente” e per l’adesione delle coscienze (e quindi per la creazione del consenso).

Ma se la vita pubblica di Q. fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche: la morte della moglie giovanissima e di due figli che da lei aveva avuto. Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli “ornamenta consolatoria“. Nell’88 si ritirò da tutto per darsi completamente agli studi, in specie al suo capolavoro.

Opere.

Opere minori. Di Q. è andato perduto un trattato “De causis corruptae eloquentiae”, così come le “Artes rethoricae”, sorta di dispense. Spurie le due raccolte di “declamazioni” (“maiores” e “minores”). Dovette, anche per la professione d’avvocato, scrivere anche delle orazioni, perdute: un peccato, perché – a sentire i suoi contemporanei – dovevano essere abbastanza belle e ben fatte.

Institutio oratoria. Ma il suo capolavoro – dedicato a Vittorio Marcello per l’educazione del figlio Geta – è ovviamente l’ “Institutio oratoria” (93-96 d.C.), “La formazione dell’oratore”, che compendia l’esperienza di un insegnamento che durò vent’anni (dal 70 al 90 ca). Il titolo dell’opera proviene dallo stesso autore, da un’espressione contenuta in una lettera al suo editore Trifone, e posta a premessa dell’opera. Si tratta di un vero e proprio manuale sistematico di pedagogia e di retorica, in 12 libri e pervenutoci integro.

Il I libro fa parte a sé, e tratta di problemi vari di pedagogia relativi all’istruzione “elementare” (una novità assoluta nel panorama culturale antico): dalla scelta del maestro, al modo di insegnare i primi elementi di scrittura e lettura, dalla questione se sia più utile l’istruzione pubblica o privata, al modo di riconoscere e invogliare le capacità dei singoli discepoli, e così via. Il II, invece, chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori “optimi“, né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro declamazioni attinenti alla vita reale (e che puntassero comunque alla “sostanza delle cose”), con un linguaggio semplice ed appropriato. I libri dal III al VII trattano dell’ “inventio” e della “dispositio“, cioè lo studio degli argomenti da inserire nelle cause e l’arte di distribuirli; i libri dall’VIII al X, dell’ “elocutio“, ovvero della scelta dello stile e dell’orazione. Il X libro insegna i modi di acquisire la “facilitas“, cioè la disinvoltura nell’espressione (prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Q. inserisce qui un famoso excursus storico-letterario sugli scrittori greci e latini – di uguali meriti – preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità: ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico). L’XI libro parla della “memoria” e dell’ “actio“, cioè dell’arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli. Il XII (la parte “longe gravissimam“, “di gran lunga più impegnativa” dell’opera) presenta, infine, la figura dell’oratore ideale: le sue qualità morali, i princìpi del suo agire, i criteri da osservare.

Considerazioni.

Il progetto educativo. L’ “Institutio oratoria” si delinea, dunque, come un programma complessivo di formazione culturale e morale, scolastica ed intellettuale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente, dall’infanzia fino al momento in cui avrà acquistato qualità e mezzi per affrontare un uditorio (il termine “institutio” sta ad indicare, propriamente, “insegnamento, educazione, istruzione”, tal che potremmo renderlo anche col profondo termine greco di “paidèia“): e ciò, in risposta alla corruzione contemporanea dell’eloquenza, che Q. vede in temi moralistici, e per la quale addita come rimedi il risanamento dei costumi e la rifondazione delle scuole. Ma, soprattutto, propugnò il criterio di ritornare all’antico, alle fonti della grande eloquenza romana, i cui onesti principi erano stati sanciti dall’oratoria di Catone e la cui perfezione era stata toccata da Cicerone. Le fonti dell’opera furono, quasi certamente, la “Retorica” d’Aristotele e proprio gli scritti retorici dell’Arpinate, anche se, a differenza di quest’ultimo, egli intende formare non tanto l’uomo di stato, guida del popolo, ma semplicemente e principalmente l’ “uomo”; e, di conseguenza, mentre le analisi di quello s’incentravano nell’ambito strettamente letterario e larvatamente “politico”, egli affronta le varie questioni con un’ampiezza tale di orizzonti culturali e di motivazioni “pedagogiche” – da proporsi decisamente come un unicum nella storia letteraria latina.

L’utopia dell’oratore “totale”. Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato, Q. ripropone così il modello di oratore di età repubblicana, di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell’oratoria per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Q., in cui si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e tacciata – così ingiustamente – di servilismo: ma non si dimentichi, a tal proposito, che egli doveva effettivamente molto alla dinastia Flavia (in particolare a Domiziano, addirittura osannato come sommo poeta) e che poi apparteneva a quel mondo di “provinciali” che avevano un vero e proprio culto per l’imperatore, simbolo per loro dell’ordine e del benessere.

Insomma, l’oratore perfetto deve avere, secondo il nostro autore, una conoscenza a dir poco “enciclopedica” (filosofia, scienza, diritto, storia), ma dev’essere – oltre che un “tuttologo” – anche un uomo onesto, “optima sentiens optimeque dicens” [XII, 1, 25], o – come disse già Catone – “vir bonus dicendi peritus“.

Tuttavia, nel predicare questo ritorno a Cicerone, Q. non realizzava che ciò esigeva anche il ritorno alle condizioni di libertà politica di quel tempo: in ciò, sta il segno più evidente del carattere antistorico (se non “utopistico”) del classicismo vagheggiato dal nostro.

Stile. Nel suo tentativo particolare di “recupero formale” della retorica, poi, Q. si oppone da un lato agli eccessi del “Nuovo Stile”, cioè della nuova prosa di tipo senecano (Seneca è uno dei suoi bersagli preferiti) e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a “movere” più che a “docere“), dall’altro al troppo scarno gusto arcaico: e propone anche qui – come altrove – il modello di Cicerone (modello di sanità di espressione ch’è insieme sintomo di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza appunto fra asciuttezza e ampollosità, ovvero di un equilibrato contemperamento dei tre stili “subtile“, “medium” e “grande“. L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto nella pratica della sua prosa, testimonia concessioni al nuovo gusto per l’irregolarità e per il colore vivace.

(fonte internet)

Marco Valerio Marziale

— Bilbilis, Spagna Terragonese 40 d.C. ca – 104 ca —

L’epigramma, anticamente inteso come «iscrizione funebre» e, quindi, posto su tombe o tendente anche a celebrare avvenimenti importanti, lo troviamo già nella letteratura greca quale genere a sé stante, non più connesso con le iscrizioni funebri, di cui mantiene solo la brevità.

In Grecia diventa strumento della fantasia, un abile esercizio poetico, su temi molteplici: dalla istantanea battuta di spirito al capriccio di un momento, dal quadretto fatto a rasoiate dell’odiato vicino a quello ricamato con le parole per l’amata, dalla satira pungente all’allusione sensuale.

La diffusione dell’epigramma ci è attestata anche a Roma, in parte echeggiato da Catullo ed Orazio, ma è con Marziale, con i suoi componimenti pregni di mordacità e spregiudicati, vividi e pittoreschi, che in esso si arriva a identificare un genere letterario a sé stante.

M. Valerio Marziale nacque a Bilbilis, centro dei Celtiberi nella Spagna Tarraconese, nel 40 d.C..

Effettuati i primi studi in patria, appena ventenne si recò a Roma, la città dove sarebbe rimasto, eccettuati brevi periodi trascorsi in viaggi, per ben trentaquattro anni.

Stabilitosi, dunque, nell’Urbe, la sua buona educazione e la sua simpatia molto contribuirono a che gli si aprissero le case di molti conterranei emigrati in Italia e quelle di numerose, nobili famiglie romane.

Questa, però, non fu che una breve parentesi della sua vita: presto, infatti, per la congiura pisoniana, crollò tutto il suo felice mondo; gli ambienti intellettuali, anche se estranei alla congiura, furono giudicati sospetti e allontanati dai centri del potere. Marziale così si trovò solo a combattere le dure battaglie della vita e fu allora che divenne poeta «cliens».

Domiziano non era Augusto; la poesia non era più considerata manifestazione di una linea programmatica, ma soltanto un modo di compiacere i potenti, e per di più mal remunerato, se Marziale, a stento ripresosi dalla condizione di povertà, arrivò a riconoscere che in quell’età per far fortuna si doveva essere, non poeti, ma architetti, avvocati, citaredi, spie.

E, in effetti, lo Spagnolo dalla sua presenza a corte non dovette ricavare molto e, tranne una piccola casa sul Quirinale ed una villetta presso Nomento, da Domiziano non ricevette che cariche, come quella di tribuno militare, e da Tito la conferma dello «ius trium liberorum» per il «liber» composto in occasione della inaugurazione del Colosseo: quest’ultima annotazione farebbe anche pensare che Marziale dovette essere, almeno temporaneamente, ammogliato.

Infastidito per il poco credito di cui godeva negli ambienti di corte, lasciò temporaneamente Roma nell’88 d.C. per recarsi a Padova, Aquileia, soggiornare per qualche tempo a Ravenna e, poi, ad Imola, da dove inviò il terzo libro dei suoi epigrammi.

Dopo la morte di Domiziano (96 d.C.) cercò di rinnovare la sua presenza a corte con esito più felice della precedente esperienza, ma prima Nerva, poi Traiano, preferirono, nonostante le sue adulazioni, ignorarlo: deciso a tornare, quindi, in patria, attuò la sua decisione nel 98 d.C. (?) approfittando dell’offerta fattagli da Plinio il Giovane di procurargli la somma per il viaggio.

A Bilbilis, sebbene colmato di affetto da una sua «ammiratrice», Marcella, avvertì la noia del piccolo centro, abituato com’era alla vita tumultuosa di Roma, e lì morì nel 104 d.C..

Suo grande merito è stato quello di aver compreso lo spirito dei tempi e le esigenze del nuovo ambiente sociale e culturale che, alle pesanti forme della satira e dell’epica, preferiva il carattere più spigliato dell’epigramma.

La produzione

La sua produzione comprende:

– versi giovanili, che non ci sono pervenuti;

– un «Liber de spectaculis», (definizione non data dall’autore ma dal De Gruytere nel 1602): dedicato al «Princeps» e pervenutoci attraverso un estratto comprendente trentatré epigrammi, venne pubblicato nell’80 d.C., anno in cui Tito inaugurò con giochi e spettacoli il Colosseo, o Anfiteatro Flavio, iniziato sotto Vespasiano; per il «Liber» composto per quella circostanza Marziale ricevette in ricompensa lo «ius trium liberorum», cioè una serie di privilegi in genere concessa ai coniugati con tre figli, confermatogli, poi, da Domiziano;

– un libro di «Xenia» con centoventisette epigrammi: i primi tre di introduzione; gli altri, ciascuno di un distico, destinati ad accompagnare i regali, tutti mangerecci (ad eccezione di quattro), che si era soliti inviare ad amici o parenti in occasione dei Saturnali, per la cui solennità era tradizione invitare a pranzo i più intimi e, a quelli che non potevano partecipare, inviare doni, detti alla greca «xenia», accompagnandoli spesso con un bigliettino o con una poesiola di pochi versi (col tempo, per estensione furono chiamati in tal modo sia i regali, sia i componimenti che li accompagnavano);

-un libro di «Apophoreta», edito con quello degli «Xenia» tra l’83 e l’86 d.C. e sempre con il libro suddetto destinato a costituire rispettivamente il tredicesimo ed il quattordicesimo libro dell’intera produzione, formato di oltre duecento distici disposti a coppie, uno per il dono povero, l’altro per quello ricco, dal momento che «apophoreta» erano «i doni che gli ospiti estraevano a sorte e portavano via»;

dodici libri di epigrammi, alla cui composizione e pubblicazione Marziale attese nel giro di poco più di un quindicennio, dall’85 al 101 d.C., anno quest’ultimo in cui preparò nella natia Bilbilis la prima edizione dell’ultimo libro (ma gli ultimi due, il X e l’XI, a leggere il poeta, vennero ritoccati ed ebbero una seconda edizione).

A Roma, invece, compose i primi undici libri, ad eccezione, come abbiamo visto, del terzo elaborato a «Forum Cornelii» (Imola); da notare ancora che cinque di essi (I, II, VIII, IX e XII) presentano la caratteristica di avere prefazioni in prosa nelle quali l’autore da conto del proprio stato d’animo, dei motivi ispiratori, oppure elogia il principe.

Tutta la raccolta è caratterizzata da una varietà, oltre che di temi, anche di metri, passando l’autore con grande mestiere da un sistema all’altro.

Il suo anticonformismo

Marziale è l’unica voce che potremmo considerare anticonformista nel panorama letterario dell’età flavia per la sottile vena umoristica con cui tratta tematiche della vita del suo tempo, anche se, ad una lettura più approfondita, questa sua modernità «ante litteram» appare di maniera e determinata prevalentemente da fini, per così dire, pratici.

E di maniera, retorico nel gusto, diviene spesso anche il suo umorismo, in quanto, nonostante egli tenga a precisare che la sua pagina ha sapore di uomo («hominem pagina nostra sapit»), si avverte chiaramente, nella lettura di alcuni suoi epigrammi, la mancanza di un’autentica profondità spirituale.

Egli si pone in netta contrapposizione con la poesia epica, classicheggiante e solenne, tanto di moda ai suoi tempi, ma, pur ostentando realismo e disprezzo delle convenzioni letterarie, risente del clima di conformismo e di assuefazione della sua epoca, del diffuso servilismo ai potenti, dell’assenza di un vero impegno morale e civile, e si adatta, questa la sua colpa più grave, al raggiungimento di un fine prettamente utilitaristico e consumistico.

La molteplicità delle tematiche

Diverse e varie le tematiche inquadrate dallo Spagnolo: ora è l’argomento politico ed adulatorio a divenire materia del suo poetare, ora mette alla berlina il mestiere di poeta che considera ben poco remunerato rispetto a quelli del citaredo o del flautista, ora si lamenta della travagliata giornata di un «cliens» alla continua ricerca di un «patronus» a cui offrire la propria disinteressata amicizia in cambio di una… «sportula», altra volta indulge alla polemica letteraria contrapponendo alla pesantezza dell’argomento della poesia mitologica la leggerezza dei suoi versi, …

IX, 50

Gauro, tu provi che il mio è un ingegno minuscolo, in quanto carmi compongo, di cui gustano la brevità. Bene. Sta bene. Ma tu, che il re Priamo in dodici libri canti e la guerra di Troia, grande sei forse per ciò? Noi non si fa che fanciulli, che statue piccine: ma vive! Grande, un gigante tu fai ch’altro che creta non è. (tr. pascoli)

… altre volte ancora (e sono i componimenti in cui si mostra più sincero), si commuove alla morte prematura della tenera piccola Erotion, strappata alla vita quando non ha compiuto nemmeno sei anni, …

V,34

A te, Frontone suo padre, a te, Flacilla sua madre, questa bimba, boccuccia e delizia mia, io affido, perché la piccola Erotion non tema le nere ombre e il ceffo mostruoso del tartareo cane. Stava per compiere testé il sesto inverno brumoso, se altrettanti giorni fosse vissuta ancora! Fra gli antichi custodi ella gaia giuochi e il nome mio mormori con la boccuccia blesa. Le sue molli ossa la dura zolla non copra, né a lei, o terra, tu sia grave: non lo fu essa a te. (tr. manna)

… od a quella di Canace, condannata a morire a sette anni da un male che le ha corroso il volto, oppure all’infelice destino di Demetrio, il suo affezionato segretario, scomparso a diciannove anni.

Il tema satirico

Una notevole parte di epigrammi, comunque, presenta un carattere eminentemente satirico ed è in essi che si rivela a noi il Marziale sanguigno, il Marziale che con studiato realismo si diverte a creare un’infinita tipologia di personaggi desunti dalla vita e dalla società del tempo; il Marziale caricaturista nell’alterazione delle fisionomie, nell’evidenza data non alle persone, ma ai loro difetti, seguendo peraltro un proprio credo etico («parcere personis, dicere de vitiis») nel non offendere nessuno grazie all’uso di pseudonimi, e cercando di concentrare l’attenzione sul vizio, non sull’uomo.

È in essi che lo Spagnolo si palesa osservatore acuto ed intelligente, abile nel cogliere il motivo comico e nel fissarlo nel breve ambito dei versi, creando in tal modo infinite scene in cui si stagliano personaggi tipici della Roma imperiale e che ci illuminano sulla società in generale o su determinati aspetti del mondo romano del primo secolo.

L’oscenità di certi epigrammi

Circa centocinquanta sono gli epigrammi, e quasi tutti di tono satirico. Alcuni furono accusati di oscenità anche da parte dei contemporanei.

Egli si difende affermando che la caratteristica dell’oscenità, della provocazione, della sfacciataggine, è insita nello stesso genere letterario e, a parziale giustificazione del suo comportamento, produce gli esempi di Catullo, Marso, Albinovano, Augusto, Lucano, autori di carmi licenziosi e lascivi quanto i suoi; inoltre protesta la propria innocenza, precisando che «lasciva est nobis pagina, vita proba», a garantire che la licenziosità di certi componimenti non intacca l’onestà e la purezza della sua vita.

Le prove addotte, a dire il vero, non è che possano garantirgli l’immunità, sia per un certo visibile compiacimento nell’analizzare minutamente ed insistentemente alcune situazioni scabrose, sia perché gli autori citati a tutela del proprio comportamento hanno una dote che difetta al Nostro: la signorilità.

Il tema della povertà

Un altro tema ricorrente nella poesia di Marziale, per tralasciare volutamente quelli che trattano l’amicizia (esaltata in tutto il suo eterno valore), la campagna (intesa come godimento dei piaceri della vita), la caducità del vivere, e numerosi altri ancora, è la rappresentazione della povertà espressa spesso nelle sue forme più estreme, realistiche, addirittura morbose, portata all’esasperazione anche rispetto al modello della poesia realistica greca.

Anche in confronto a Giovenale, in Marziale la protesta sociale contro la povertà del «cliens», del letterato, è solo accennata timidamente: la povertà, per lo Spagnolo, è una condizione grottesca, ridicola, oggetto di solo riso; per lui esiste e resta insuperabile la barriera che divide i ricchi dai poveri.

V, 62

O ospite, puoi benissimo fermarti nel mio giardino, se te la senti di adagiarti sul nudo terreno o se ti porti con te un’abbondante suppellettile: la mia infatti ha già chiesto pietà agli ospiti. Nessun cuscino – neppure uno privo di imbottitura – copre i divani sgangherati; le cinghie dei divani logore e con le cordicelle rotte giacciono a terra. Ci accolga tuttavia entrambi questo luogo ospitale; io ho comprato il giardino: è la spesa maggiore; tu arredalo: è la spesa minore. (tr. norcio)

La sua fortuna

Notevole il suo influsso su Claudiano ed Ausonio, anche se il Medioevo lo apprezza specialmente attraverso i florilegi di passi per lo più moraleggianti.

Il Rinascimento accentua un apprezzamento che ha le sue radici in Boccaccio, per un poeta considerato esempio di disinvolta mordacità.

Pontano e Sannazaro lo imitano, ma lo Spagnolo, pur famoso anche nei secoli dal XVI al XVIII, trova il suo più «vicino» imitatore nel romano G. G. Belli.

Ancora su Marziale

Vita

L’esperienza di Roma e la vita disagiata. Dopo essere stato educato in patria, M. giunse a Roma nel 64, e lì – fino a quando non uscirono di scena in seguito alla congiura dei Pisoni – godette dell’appoggio e dell’amicizia di Seneca e Lucano, suoi compatrioti. Si dedicò all’attività forense, sperando di trarne rapidi e consistenti vantaggi economici: le cose, però, andarono in ben altro modo, e il nostro poeta si ritrovò a percorrere la difficile strada del “cliens“. I suoi patroni furono certo poco munifici: M., a corto di soldi, visse a lungo in una brutta e alta dimora. L’attività poetica gli consentì, comunque, sotto Tito (80 d.C.), di ottenere da parte dell’imperatore il titolo onorario di “tribuno militare”, il rango equestre e benefici economici di varia natura, in cambio di una raccolta di epigrammi (il “Liber de spectaculis”) volta a celebrare l’inaugurazione in quell’anno del Colosseo.

Il successo letterario. Ma il vero, tanto sospirato, successo letterario (senza tuttavia – almeno per quanto egli stesso lamenta – l’altrettanto sospirato miglioramento economico) venne a M. solo dopo l’84-85, con la pubblicazione ininterrotta dei suoi epigrammi; essa durò fino al 98: <<se per gli altri l’epigramma era stato un gioco letterario, per lui divenne ragione della sua vita, moneta spicciola di ogni giorno, mestiere, mezzo infallibile per procacciarsi il cibo>> [F. Della Corte].

Il ritorno in patria e la morte. Sotto l’imperatore Nerva, lasciò Roma per ritornare in patria (le spese del viaggio gli furono pagate Plinio il Giovane). In Spagna, nella sua Bilbilis, si godette un podere donatogli da una ricca vedova e devota ammiratrice, Marcella. Il poeta si attendeva di trovare, al suo ritorno, il mondo e gli amici della giovinezza, ma, senza più questi, e dopo anni trascorsi nella turbolenta, ma vivace vita romana, Bilbilis e il suo meschino ambiente di provincia finirono ben presto per stancarlo. Pubblicò nel 101 il suo ultimo libro di epigrammi, ma continuò a rimpiangere Roma, fino alla morte.

Opere

Di M. ci resta una raccolta di “Epigrammi” , distribuiti in 12 libri composti e via via pubblicati fra l’86 e il 102. Tale corpo centrale è preceduto da un altro libro a sé di una trentina di epigrammi, il “Liber Spectaculorum”, e seguito da altri 2 libri (84 – 85 d.C.) anch’essi autonomi, lo “Xenia” (distici destinati ad accompagnare i “doni per amici e parenti” nelle feste dei Saturnali) e gli “Apophoreta” (coppie di distici di accompagnamento agli omaggi offerti nei banchetti e “portati via” dai convitati). Nell’ordinare gli epigrammi (più di 1500, per un totale di 10000 versi ca), l’autore li ha distribuiti in modo equilibrato, secondo il metro e l’estensione, seguendo il topos della “varietas“. Comunque, la disposizione attuale dell’intera raccolta riproduce probabilmente quella di un’edizione antica postuma.

Considerazioni sugli epigrammi: antecedenti, contenuti, caratteri, struttura.

Le origini del genere. In realtà, nell’ambito della poesia latina, prima di M., non abbiamo una vera “tradizione” che riguardi gli epigrammi: praticamente, solo Catullo svolse una funzione importante di mediazione fra cultura greca e latina nella storia di questo genere letterario, piegandolo ad espressione di sentimenti, gusti, passioni (cioè a temi della vita individuale) nonché a strumento di vivace aggressione polemica; quasi nulla, invece, sappiamo di quei poeti che M. indica come suoi “auctores“, tranne forse di Lucillio, epigrammatista dell’età di Nerone: dal primo, il nostro poeta mutuerà sostanzialmente l’aggressiva vivacità, dal secondo la rappresentazione comica di difetti fisici, di tipi e caratteri sociali, nonché la tecnica della “trovata finale”; caratteri – questi – che egli svilupperà in senso fortemente comico-satirico a sfondo sociale (allineandosi, in tal modo, anche alla tradizione satirica tipicamente romana).

La nascita dell’epigramma risale, quindi, come il nome stesso (“epigramma“, lett. “scritto sopra”), propriamente all’età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa (era inciso, ad es., su pietre tombali o su offerte votive): il padre di questo genere, nella sua forma artistica più evoluta, fu leggendariamente indicato in Omero, ma prime vere testimonianze ne abbiamo solo con Archiloco (VII sec. a.C.), con Anacreonte di Ceo e soprattutto Simonide di Ceo (VI sec.); in età ellenistica, però, esso – pur conservando la sua caratteristica brevità – mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica, presentandosi come un tipo di componimento adatto alla poesia d’occasione, a fissare – nel giro di pochi versi – l’impressione di un momento: un componimento cui non si sottrassero nemmeno Callimaco e Teocrito. I temi erano di tipo leggero: erotico, satirico, parodistico, accanto a quelli più tradizionali, ad es. di carattere funebre. M. ne mutuerà, accanto agli stessi temi, decisamente l’arguzia e la fine ironia.

Il “testimone” di M. M. fa, dunque, dell’epigramma il suo genere esclusivo, l’unica forma della propria poesia, apprezzandone soprattutto la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. Questi sono i pregi che egli contrappone ai generi più illustri, ovvero all’epos e alla tragedia (i preferiti nel clima di restaurazione morale tipico dell’età flavia), coi loro toni seriosi e i loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche tanto lontane dalla viva e palpitante quotidianità. Invece, è proprio il realismo (anche se volentieri generico e di “maniera”), l’aderenza alla vita concreta (<<con particolare riferimento ai bisogni e alle attività più elementari e con voluta insistenza sui particolari più corposamente concreti e sui dati più crudamente fisici>> [Cecchin]) che M. rivendica come tratti caratteristici della propria poesia (“Hominem pagina nostra sapit“: “La nostra pagina ha sapore di uomo”), una poesia che coniuga fruibilità pratica e divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo della realtà quotidiana di Roma, con le sue contraddizioni e i suoi paradossi.

Schema dei motivi, dei caratteri e dei contenuti. Di questo “esito” dell’epigramma in M., dato il carattere magmatico dei contenuti e delle espressioni, è utile e possibile, schematizzando, enucleare le seguenti caratteristiche [ovviamente, lo schema immiserisce, e chiedo scusa per questo]:

1. i temi sono vari: accanto a quelli più radicati nella tradizione, altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta o – come detto – il costume della società del tempo. <<Costretto a chiedere sovvenzioni ai suoi patroni, [… M.] evitò d’infamare i signori e, con nomi finti e inventati, colpì i miserabili della società, miserabili anche se affogavano nel denaro>> [F. Della Corte]. Il nostro autore li aggredisce e li irride con <<spirito impietoso, disumano e crudele […] che non risparmia neppure la malattia, la vecchiaia e la miseria>> [Perelli]: ma il poeta si limita alla presa in giro, senza mai analizzare veramente e profondamente il vizio, e senza mai definitivamente condannarlo: <<egli si giustifica dell’immoralità della sua poesia dicendo “Lasciva est nobis pagina, vita proba“: ma ciò non toglie che egli si mostri indifferente di fronte al vizio>> [Perelli]. Eppure, in lui <<coesistono quasi due volti diversi: accanto al poeta mordace, scanzonato, talvolta volgare e disumano, che è il volto più diffuso e più noto, vi è un M. più intimo, che lascia parlare il cuore; in questi carmi più schietti, che sono dispersi nella grande massa degli epigrammi convenzionali, egli raggiunge la vera poesia>> [Perelli]: questo, soprattutto, negli epicedi, spesso per la morte di bambini e ragazzi (M. s’intenerisce molto, e sinceramente, quando parla della gioventù violata o infranta);

2. il poeta spesso si rivolge alla vittima dell’epigramma (di regola persona fittizia o comunque non individuabile) o a una terza persona (che può essere reale o fittizia), cui addita la figura o il comportamento del personaggio colpito;

3. si riscontrano sempre le stesse, generiche, tipologie di personaggi: i parassiti, i ladri, gli spilorci, gli imbroglioni, i medici pericolosi, gli odiatissimi plagiari (tanto più numerosi quanto più aumentava il suo successo letterario), e così via; tali deformazioni grottesche sono frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza singoli personaggi negando loro uno sfondo, un contorno, come se, per meglio mostrarli, fossero strappati al contesto e sospesi quasi nel vuoto (l’atteggiamento del poeta è perciò, come visto, volentieri quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato);

4. l’epigramma è solitamente breve: molto raramente di un solo verso, solitamente da 2 a 10 versi (ma vi sono anche numerosi epigrammi di più di 20 versi, fino ad un massimo di 51 versi);

5. i metri utilizzati sono vari: accanto al distico elegiaco, sono frequenti anche falecio e scazonte, ma non ne mancano di altri diversi;

6. compaiono quasi sempre apostrofi, interrogazioni, movimenti di dialogo che devono dare l’impressione di un intervento diretto del poeta in una certa situazione, davanti a un interlocutore; il tono, molto spesso, è quello di un umorismo, come dire, “commerciale”, che per certi versi ricorda molto da vicino la nostra “barzelletta”: insomma, M. scriveva innanzitutto per farsi apprezzare e (soprattutto) acquistare dal pubblico, e molti dei suoi versi rispondevano quasi esclusivamente all’utilitaristica legge della domanda-offerta;

7. nonostante le forme composite siano svariate, è possibile tuttavia individuare uno “schema-tipo”, già rilevato e analizzato a suo tempo dal Lessing: uno schema bipartito nei due momenti di “attesa”/”spiegazione conclusiva”: nella prima parte, il poeta – attraverso la rappresentazione di una situazione o la descrizione di un personaggio – crea nel lettore un’aspettativa, la quale viene soddisfatta dalla battuta conclusiva;

8. la sinteticità caratterizza l’iniziale delineazione della situazione o del tipo. Altre volte ci sono quadri più ampi, di notevole impegno e complessità, in cui M. dà – tra l’altro – prova di grandi capacità di rappresentazione realistica (ma coi limiti, spesso, del suddetto realismo “letterario”);

9. M. ottiene effetti particolarmente felici nel finale, ch’è poi l’essenza di tutto l’epigramma, l’ “aculeus“, l’ “aliquid luminis” (oggi diremmo: la “freddura”); finale che a volte riassume i termini di una situazione in una formulazione estremamente incisiva e pregnante, altre volte li porta a una comica iperbole, altre volte li costringe a un esito assurdo o a un paradosso, altre volte li pone all’improvviso sotto una luce diversa e rivelatrice (è l’ “effetto-sorpresa”); ovviamente, la battuta conclusiva risulterà tanto più efficace quanto più lontana dalla previsione del lettore;

10. il pubblico, infine, da parte sua, ritrovava negli epigrammi la propria esperienza quotidiana filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata appunto di agilità e pregnanza espressiva (“brevitas“), aperta alla vivacità dei modo colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano (a volte degenerante, come visto, in un vero e proprio “realismo osceno”), ma capace anche – all’occorrenza – di limpida sobrietà, raffinata ed essenziale. Fu questo, in ultima analisi, a ben vedere, il vero segreto del successo di M..

(fonte internet)

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto “il Giovane”

— Como 61/62 – 112/3 d.C. —

Nacque nel 62 d.C. a Como Caio Plinio Cecilio Secondo Juniore (così chiamato per distinguerlo dallo zio Caio Plinio Cecilio Secondo Seniore), di cui abbiamo ampie notizie anche perché nella raccolta di lettere a lui attribuita ama parlare di sé e del suo mondo aristocratico (proveniva, infatti, da famiglia appartenente al ceto equestre).

Rimasto orfano dei genitori, fu allevato dallo zio materno, come ricaviamo da una delle quattro lettere a Tacito in cui, fornendo allo storico notizie sulla morte dello zio, dice di voler soddisfare in tal modo le richieste dell’amico che gli aveva domandato notizie del suo «avunculus».

Di famiglia agiata ed appartenente ad una società colta, Plinio, sotto la guida del suo tutore Virginio Rufo, si formò sia alla scuola di Quintiliano, frequentata dai giovani delle classi più elevate (e lì, appunto, divenne, forse, condiscepolo di Tacito), sia a quella del retore asiano Nicete di Smirne.

Tra Quintiliano, esponente dell’oratoria ciceroniana, e Nicete, rappresentante dell’asianesimo, volle mantenere una posizione intermedia, evitando gli eccessi dell’uno e dell’altro, ma apprendendo sia il periodare complesso del primo, sia quello fluido e scorrevole del secondo. Nel campo filosofico fu allievo dello stoico Musonio.

Sostanzialmente Plinio fu un avvocato e, nelle lettere, ricorda alcune delle sue più brillanti orazioni in importanti processi, come quello sostenuto, insieme all’amico Erennio Senecione, contro Bebio Massa accusato di concussione, o l’orazione per Azia Viriola o, a dimostrazione della sua amicizia con Tacito, l’altra ancora nell’accusa, sempre per concussione, contro Mario Prisco, proconsole in Africa.

Dalle numerose notizie sulla sua vita che ci giungono dall’epistolario apprendiamo anche che era ricchissimo non solo per beni propri, ma anche per lasciti altrui: possedeva ville in ogni parte d’Italia e, tra esse, due sul lago di Como ed altre due, che ci descrive nei minimi particolari, il «Laurentinum» e quella «in Tuscis».

Prodigo e liberale, Plinio ebbe modo di manifestare la sua grande generosità in forme diverse, e così non nega nelle «epistulae» di aver dato una somma a Marziale per favorirne il ritorno a Bilbilis; ricorda in un’altra di essersi recato, con grave rischio personale, a soccorrere il suo amico filosofo Artemidoro per permettergli di ritornare in patria in occasione della espulsione dei filosofi da Roma ordinata da Domiziano; apprendiamo inoltre da un’iscrizione nella chiesa di S. Ambrogio a Milano che tenne in alta considerazione la sua città d’origine facendovi costruire una scuola, delle terme e fissando un lascito di cinquecentomila sesterzi per educare i fanciulli della plebe urbana.

La sua posizione sociale elevata gli aprì le porte della carriera politica e gli permise il vanto di un «cursus honorum» notevole: presidente di una sezione del tribunale dei «centumviri», comandante delle legioni in Siria, pretore, lettore in Senato dei «rescripta» imperiali, console nel 100 d.C., sovraintendente ai lavori di manutenzione delle rive del Tevere, governatore, infine, nel 112 in Bitinia, mentre Tacito, in quello stesso anno, diveniva governatore d’Asia.

Ebbe tre mogli, ma solo verso l’ultima, la diciannovenne Calpurnia, mostrò particolare affetto, ricordandola nelle sue lettere e sottolineando il grande amore della giovane nei suoi confronti, un amore soprattutto per la sua cultura, il suo ingegno, il suo successo.

Morì nel 113 d.C.

Le opere perdute

Non ci sono pervenute opere facenti parte della sua produzione poetica, che lo stesso autore attesta di aver composto:

– una tragedia greca;

– una raccolta di endecasillabi;

– versi erotici;

– alcuni componimenti sia in esametri che in distici.

L’epistolario

Composto di dieci libri, per un totale di duecentoquarantasette lettere rivolte a centocinque destinatari, di essi i primi nove li scrisse per pubblicarli (il 1. I lo fu nel 100), mentre il decimo, postumo, risulta formato da centoventidue lettere di cui settantadue indirizzate da Plinio a Traiano, le altre da Traiano in risposta a Plinio, e si discosta dagli altri in quanto raccoglie solo la corrispondenza con il «Princeps».

In Bitinia, infatti, Plinio venne a contatto con i cristiani ed in queste ultime lettere chiede a Traiano come comportarsi con essi, descrivendo minuziosamente, da funzionario statale, il procedimento di indagine adottato nei loro confronti: «In eos qui ad me tamquam christiani deferebantur hunc secutus modum», «Nei confronti di quelli che venivano condotti alla mia presenza come cristiani io ho seguito questo procedimento», ma si limitò a sottoporre a Traiano solo denunce anonime a cui il «Princeps» non dette alcun peso.

Nella prima breve lettera premessa all’epistolario e dedicata all’amico comandante delle guardie imperiali C. Setticio Claro, l’autore dice di aver raccolto le lettere non per pubblicarle, ma così come capitava, senza ordine: in realtà esse furono chiaramente messe insieme per essere edite in quanto risultano molto curate nella forma, segno di un evidente e costante «labor limae».

Il

Tu mi hai spesso esortato a raccogliere ed a pubblicare quelle lettere che io avessi scritto con un impegno che superasse un poco quello ordinario. Ecco che le ho raccolte, senza però attenermi alla successione cronologica (non componevo infatti una trattazione storica), ma a seconda che ciascuna mi capitava in mano. Adesso rimane solo che tu non abbia da pentirti del tuo invito ed io della mia ossequenza. Se le cose andranno davvero così, ricercherò quelle che si trovano ancora trascurate qua e là e, se ne redigerò delle nuove, non le cestinerò. Stammi bene. (tr. trisoglio)

Plinio e Cicerone

Non si può istituire un confronto tra l’epistolario di Plinio e quello di Cicerone per ammissione dello stesso Plinio: in una lettera ad un amico il Comasco afferma appunto di non avere né i mezzi né le capacità dell’Arpinate.

Diversa la tempra dell’uomo, diverse le situazioni ambientali storico-politiche, diversa, dunque, la «statura» letteraria.

Egli, pur riprendendo nella sua raccolta alcuni dei temi ricorrenti in Cicerone, attesta i suoi limiti rispetto al grande modello: lettere di raccomandazione, ringraziamenti per richieste da parte di amici di suoi scritti, complimenti per i suoi successi oratori, inviti calorosi a portare a termine opere da questi iniziate, affettuose attestazioni di premura nei confronti della moglie, la giovanissima e diletta Calpurnia, che richiamano analoghi atteggiamenti ciceroniani verso Terenzia prima della negativa conclusione del loro rapporto, e, infine, anche una lettera abbastanza lunga, contenente consigli ad un amico inviato al governo della provincia d’Acaia e nella quale appaiono evidenti numerose analogie con la prima epistola ciceroniana inclusa nella raccolta «Ad Quintum fratrem» .

IX, 2, 8-10

… io non mi trovo infatti nella stessa situazione di M. Tullio al cui esempio pure mi richiami. Quello infatti era dotato per natura di una fecondissima capacità e di una molteplicità e grandezza di avvenimenti pari alla sua naturale inclinazione, che gli fornivano materiale nella misura più ampia. (tr. andria)

Eppure non mancano alcune osservazioni che ravvivano la monotonia dell’epistolario pliniano e riscattano l’autore dall’accusa di superficialità mossagli quasi concordemente: «esiste, infatti, anche un certo diletto che si ricava dal dolore, soprattutto se si possa piangere tra le braccia di un amico presso il quale sia pronto per le tue lacrime o un consenso o una giustificazione».

Il valore documentaristico

Le lettere di Plinio sono documenti della società del tempo, come del resto anche quelle di Cicerone; però, mentre l’Arpinate vive nel periodo turbolento delle guerre civili e si abbandona allo sconforto rivelando l’uomo, e non l’oratore oppure il filosofo, con tutte le sue incertezze e le sue contraddizioni, Plinio vive nel «felicissimo principato» di Nerva e Traiano e, quindi, esprime impersonalmente e senza partecipazione una realtà a senso unico, senza mai un lampo di vera originalità, senza smettere mai di lodare i suoi amici, nobili come lui, senza dare giudizi sulla sua epoca e senza discutere la decadenza letteraria, tutt’al più ammettendo solo una decadenza di pubblico (né, come funzionario statale, poteva collegare il declino letterario a motivi politici).

Attraverso Plinio, dunque, cogliamo un quadro della società del tempo visto da un uomo socialmente elevato ed integrato in quella, da un letterato, da un erudito, da un nobile: una visione «rosea» che va a bilanciare la valutazione assolutamente negativa che di quella stessa società davano Giovenale e Marziale; in Plinio, quindi, non possiamo ricercare una profondità di giudizi, una particolare visione della storia, anche se, in alcune sue lettere, si può cogliere una certa pensosità, una larvata tendenza gnomica.

L’amicizia

Oltre che la «vanitas», simile a quella ciceroniana, che lo vede mettere in evidenza tutto quanto riesca ad esaltarlo, ricorrente nelle lettere è anche la tematica dell’amicizia, soprattutto quella con Tacito: e così in una epistola ricorda l’abitudine, frequente, di scambiarsi opere per segnalarne i difetti o formulare giudizi su di esse, ad attestare, se ce ne fosse ancora bisogno, il grande affetto e l’enorme stima tra i due autori; in un’altra, poi, è Plinio a compiacersi del fatto che i posteri, nel parlare dell’uno, non potranno fare a meno di ricordare anche l’altro.

La varietà delle tematiche

Ma non si possono far passare sotto silenzio altre lettere che, pur non corrispondendo a questo o a quel nostro spunto di conversazione, eccellono per l’interesse che suscitano nei lettori o per lo stile sempre curato o per la curiosità che sanno destare nella conoscenza di un qualcosa altrove solo intravisto… come quelle a Massimo sui doveri di un governatore di provincia; a Bebio Macro sulla figura dello zio; al prosuocero Fabato, sulla sua vita felice con Calpurnia; oppure quelle sull’eruzione del Vesuvio, su Arria, sui processi ai cristiani, sulle fonti del Clitumno, sulla fonte intermittente, sulle ville di Laurento e in Toscana, sul teatro per Nicea, sulla morte di Corellio Rufo, sul rapporto con gli schiavi, …

VI, 30, 2-4

La villa Camilliana, che tu possiedi in Campania, è stata senz’altro malridotta dall’età; tuttavia gli elementi di maggior pregio sono rimasti indenni o hanno subito solo dei deterioramenti lievissimi. Ci impegniamo pertanto a rimetterli in ordine nella maniera più vantaggiosa. Si direbbe che io abbia molti amici, ma non ne ho pressoché nessuno fornito di quelle competenze che tu ricerchi e che l’incombenza esige. È tutta gente infatti che veste sempre la toga e che non lascia la città; invece l’amministrazione di tenute agricole richiede un individuo resistente e che sia sempre vissuto in mezzo ai campi, il quale non consideri come pesante quella fatica, come meschino quell’impiego e come op-primente la solitudine. (tr. trisoglio)

IL <<Panegyricus Traiani>>

È documento di grande importanza, l’unico pervenutoci sui rapporti tra Traiano e la nobiltà, e, quindi, sola testimonianza della riacquistata «concordia ordinum».

Plinio lo scrisse nel 100, in occasione della nomina consolare, per, poi, trasformarlo in «laudatio»: l’autore, che aveva svolto il suo «cursus honorum» sotto Domiziano, si giustificava dicendo che aveva accettato incarichi politici da quello perché non ancora divenuto ostile ai nobili, ma è con Traiano che si ristabilisce il buon rapporto tra imperatore e Senato.

Il «Panegyricus» è caratterizzato, nei suoi novantaquattro capitoletti, da toni encomiastici con i quali l’autore celebra Traiano, il suo senso di equilibrio, il fatto che questo aveva ristabilito corretti rapporti con il ceto equestre e con i nobili, per concludere con la celebrazione della moglie dell’imperatore Plotina e di sua sorella Marciana.

Il valore storico

«Sì è ormai d’accordo», dice il Bellardi, «che il valore dell’opera è assai grande, poiché, sfrondate di tutti gli orpelli encomiastici e stilistici, le notizie che Plinio ci da sono sostanzialmente vere. Del resto, del regno di Traiano non abbiamo che le notizie fornite dalle fonti epigrafiche, archeologiche e numismatiche, nonché da frammenti di opere tarde, da compendi ed epitomi posteriori; sicché il “Panegirico” getta viva luce sui primi anni del regno di Traiano con notevoli richiami a quelli di Do-miziano e di Nerva, sul funzionamento del senato e di altre magistrature, sull’elezione dei consoli, sull’amministrazione finanziaria, sugli spettacoli, sulle opere pubbliche: in conclusione, sulla vita nell’impero e soprattutto a Roma alla fine del primo secolo d.C.».

Lo stile

L’opera, di solenne esaltazione è pertanto di ispirazione ciceroniana, ma stilisticamente non raggiunge l’equilibrio, che pure Plinio aveva precedentemente realizzato, tra l’asianesimo e lo stile dell’Arpinate: ritenendo che l’oratore debba ampliare gli argomenti perché «una cosa bella è ancora più bella se è più grande», Plinio in questa sostituisce il principio del «recte scribere», sostenuto dal suo modello Cicerone, con quello del «multum scribere», con effetti non sempre apprezzabili.

La fortuna

La conoscenza dell’opera pliniana è, in periodo medievale, riconducibile all’età carolingia: infatti l’epistolario, come attesta il vescovo Raterio, fu noto inizialmente per libri isolati e soltanto nel 1474 si ebbe la pubblicazione a Roma del «corpus» completo in nove libri, mentre nel 1508 si giunse, con l’aggiunta del decimo libro, ad una sua edizione integrale.

Ancora su Plinio il Giovane

Vita

Orfano di padre, P. venne adottato da Plinio il Vecchio, suo zio materno (da cui il nome); a Roma, studiò retorica, sotto la guida di Quintiliano e di N. Sacerdote.

Incominciò presto la carriera forense, con notevoli successi: il suo “cursus honorum” culminò nella nomina a “prefetto dell’erario” (98) e “consul suffectus“, sotto Traiano. Questi, inoltre, lo nominò suo legato in Bitinia (111).

Opere e considerazioni

Panegyricus. Considerato dai contemporanei – e ancor più da se stesso – un oratore di primo piano, P. pronunciò (nell’anno 100) il “Panegyricus” ufficiale dell’imperatore Traiano, e questo “saggio”, di cui disponiamo, ci permette di giudicare delle sue qualità nell’eloquenza ufficiale.

La sua frase è ampia, lunga e sinuosa; il pensiero aggrovigliato e, per lo più, “banale”. Ma bisogna mitigare questa impressione sfavorevole, tenendo conto che il genere aveva le sue esigenze, la prima delle quali era che l’allusione dovesse prevalere sulle affermazioni, perché era piuttosto pericoloso parlare troppo e chiaro. Sotto questo rispetto, quindi, P. ci appare come un vero maestro: dalle sue parole emerge, ad es., un’immagine dell’imperatore che corrisponde esattamente al modo in cui Traiano desiderava proporsi agli occhi del suo popolo. Insomma, con P., l’eloquenza diventa una specie di lavoro poetico, esattamente ciò che Platone, in passato, temeva che potesse divenire: maestra di illusione e di menzogna (ma questo, come detto, è tratto comune dell’eloquenza del tempo).

Il “panegirico”, comunque, risulta interessante – oltre che per essere l’unico esempio di oratoria romana nella I età imperiale e il punto d’inizio di un genere effettivamente nuovo ed originale nella letteratura latina – quanto meno per l’importante auspicio, in esso contenuto, di un periodo di rinnovata e costruttiva collaborazione tra imperatore, senato e ceto equestre (con qualche ingenuità, P. sembra rivendicare per sé una sorta di funzione “pedagogica” nei confronti del Principe).

Epistulae. E’ probabile però che l’eloquenza giudiziaria di P. (fu, tra l’altro, un avvocato di grido) fosse di diversa qualità, giacché egli ci appare nelle sue “Epistulae” (parte fondamentale della sua opera) un onest’uomo, anche piuttosto scrupoloso (perlomeno quando scrive a Traiano, durante l’esercizio della carica di governo in Bitinia, per chiedergli consigli sul comportamento da adottare nei confronti dei suoi amministrati).

Le “Lettere” sono in 10 libri: i primi 9, raccolti e ordinati dallo stesso P. per consiglio dell’amico Setticio, contengono lettere di indole privata (“Ad familiares“), indirizzate ad amici e (meno) a parenti. Si presentano come veri e propri saggi, per lo più brevi, di cronaca sulla vita mondana, intellettuale (vi compaiono, tra gli altri, Marziale e Tacito, cui del resto P. fu molto legato) e civile (di cui, visto il suo “status“, egli è osservatore privilegiato): lo spunto per l’impostazione di fondo, etico-didascalica, gli viene certamente da Seneca (si ricordino le lettere di questi a Lucilio). Il X libro, pubblicato postumo, è riservato invece al carteggio ufficiale intercorso, come detto, con Traiano.

I libri su citati, non meno di quest’ultimo, rivelano nella forma (il modello stavolta è Cicerone, ma con accenni di “maniera”) una ricercatezza e una lisciatura che direbbero da sole – quand’anche l’autore stesso non lo avvertisse col suo “paulo maiore cura” – che esse sono state rivedute per affrontare il giudizio del pubblico: ben lo testimonia l’ordinamento interno, attento alla “variatio” degli argomenti.

Il nostro mostra notevoli interessi verso le cose intellettuali, in particolare per la filosofia e per la scienza naturale, ma più con lo spirito del “dilettante” che con quello del vero pensatore o scienziato. Inoltre, ci offre un esempio esauriente della cultura “umanistica”, così come era concepita al suo tempo; nonché – come detto – un ampio, suggestivo e dettagliato monitoraggio sulla vita dell’Impero. E’ possibile, infine, al di là delle differenti personalità dei due autori e dei loro differenti ruoli politici e contesti storico-culturali, valutare ciò che la perdita della libertà ha potuto produrre nello spirito romano, se si paragonano queste “Lettere” di P. proprio con l’ “Epistolario” di Cicerone.

(fonte internet)

Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito

— 55 d.C.? ca – 120 ca —

Vita.

Origini nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati biografici di T. (a partire già dai suoi “tria nomina“): nacque probabilmente nella Gallia Narbonese (ma forse a Terni, o addirittura nella stessa Roma), da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma (frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben presto fama come oratore (dovette essere anche un valentissimo avvocato), e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare.

La fortunata carriera politica e letteraria. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano; ma, come Giovenale, poté iniziare la carriera letteraria solo dopo la morte dell’ultimo, terribile, esponente flavio (96 d.C.), sotto il cui principato anche il nostro autore, come altri intellettuali del resto, non dovette vivere momenti certo tranquilli. Questore poi nell’81-82 e pretore nell’88, T. fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche se in veste di supplente) e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il console morto durante l’anno in carica.

Gli ultimi anni profusi negli studi storici. Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113), per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico, nella vita e negli studi, di Plinio il Giovane.

Opere.

[Qui, per ragioni espositive, procedo ad una semplice e sommaria elencazione cronologica delle opere, con annessi i link dove è possibile reperirle in traduzione; per l’analisi delle stesse, vd. più avanti, in “contenuti e commenti delle opere”]:

– “Dialogus de oratoribus”, dell’ 80 ca o di poco successivo al 100; d’incerta attribuzione (ma oggi si propende sull’attribuzione dell’opera a T.), è comunque dedicato a Fabio Giusto;

– “De Vita Agricolae”, pubblicato nel 98;

– “De origine et situ Germanorum” o “Germania”, dello stesso anno?;

– “Historiae”, composte tra il 100 e il 110, in 12 o 14 libri di cui però ci sono pervenuti solo i primi 4 e metà del V;

– “Annales” o “Ab excessu divi Augusti”, del 100-117?, comunque successivi alle “Historie”, in 16 o 18 libri, di cui ci rimane, però, l’opera incompleta: i primi 4 libri, alcuni frammenti del V e del VI (mancante forse del principio) che trattano del regno di Tiberio; infine, gli ultimi 6, concernenti Nerone, ma per lo più lacunosi.

Contenuti e commenti delle opere.

– Dialogus de oratoribus: le cause della decadenza dell’oratoria.

Incertezza di paternità e di stesura. Il “Dialogus de oratoribus” non è probabilmente la prima opera di T., se pure è davvero sua (come accennato, la paternità è incerta): la tesi che oggi prevale è che essa sia stata comunque composta dopo la “Germania” e dopo l’ “Agricola”. Il periodare presente in tale opera – e la stessa forma dialogica – ricorda, infatti, il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso, cui si ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano: per questo, c’è chi suppone che l’opera sia stata appunto scritta quando T. era ancora giovane e legato alle predilezioni classicheggianti proprie di quella scuola. Anche se questa ipotesi fosse vera, resta il fatto che l’opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la morte di Domiziano.

La decadenza dell’oratoria. Ambientata nel 75 o nel 77, il “Dialogus” si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici: riferisce di una discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui stesso, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento, si contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è la maschera dietro cui si nasconde lo stesso T.), in difesa – rispettivamente – dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce però una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria, la cui causa è individuata essenzialmente nel deterioramento dell’educazione e, soprattutto, nel clima di “censura” di parola e di pensiero vigente nella stessa età imperiale. Il dialogo, infatti, si conclude con il discorso di Materno, il quale sostiene, più specificamente, che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia; diviene invece anacronistica e noiosa – strumento al servizio del servilismo e dello sterile accademismo culturale, piuttosto che della lotta politica e civile – in una società (forzatamente) “tranquilla”, come quella conseguente all’instaurazione dell’Impero, caratterizzata dalla degenerazione sociale, politica e culturale. L’opinione attribuita a Materno, come detto, rispecchia molto probabilmente il pensiero di T.: ma egli, nonostante tutto, sente la necessità dell’Impero – come vedremo del resto nelle opere successive – come unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili, di garantire insomma la pace, anche se il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico.

– Agricola e la sterilità dell’opposizione.

Un’opera composita, tra biografia etnografia e politica. Verso gli inizi del regno di Traiano, T. approfittò del ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide per pubblicare il suo primo opuscolo storico, la sua prima monografia (ma il carattere di quest’opera “sui generis” è decisamente ibrido: oscilla tra etnografia, storia, panegirico e biografia, mentre l’impronta è marcatamente politica), che tramandi ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, valente generale del tempo di Domiziano e conquistatore della Britannia (o meglio, della parte settentrinale dell’isola). Per il suo tono encomiastico, lo stile di quest’opera si avvicina a quello delle “laudationes” funebri, integrate con materiali storici ed etnografici; notevole è anche l’influenza di Cicerone, soprattutto nella perorazione e celebrazione finale, che assume toni particolarmente commossi e di intensa e personale partecipazione.

La trama e il personaggio di Agricola, esempio di libertà ed onestà politica. Dopo una trattazione sommaria della vita del protagonista (incentrata esclusivamente sulla sua figura di uomo pubblico, mentre soltanto accennati, quando non taciuti, sono gli episodi relativi a vicende private e di vita quotidiana), T. si sofferma proprio sulla conquista della Britannia, lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche ed etniche. Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio: la Britannia è soprattutto un campo in cui si dispiega la “virtus” di Agricola, il teatro delle sue magnifiche imprese. T. mette in risalto come il suocero avesse saputo servire lo Stato con fedeltà e onestà, anche sotto un pessimo principe come Domiziano (si lascia trapelare anche il sospetto che proprio questi avesse fatto avvelenare, per invidia, il famoso generale): anche nella morte, tuttavia, Agricola mantiene la sua rettitudine: egli lascia la vita in silenzio, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato. L’esempio di Agricola, insomma, indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (la vera virtù consiste appunto nella “moderazione”) fra quelle del martirio e dell’indecenza.

– Germania: virtù dei barbari e corruzione dei Romani.

Opuscolo etnico-geografico di “attualità”. Gli interessi etnografici sono al centro della “Germania”, non a caso scritta in quel particolare momento storico-politico, quando l’agitarsi delle popolazioni ultrarenane indusse Traiano ad affrontare decisamente il problema germanico: unica testimonianza, comunque, di una letteratura specificatamente etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna.

[A tal proposito, non è certo se T. abbia ideato quest’opera come una composizione a sé stante o se l’abbia pensata come una parte, un “excursus“, da inserire successivamente nelle “Historiae”: invero, però, la critica odierna sembra agevolmente acquietarsi sulla prima ipotesi].

I contenuti e le fonti. L’operetta è divisa in 2 parti: nei primi 27 capitoli è descritta la Germania in generale, condizioni del suolo e del clima, abitanti, loro costumi, religioni, leggi, divertimenti, virtù e vizi; la II parte, invece, contiene un catalogo con le notizie particolari dei diversi popoli, in ordine geografico, da occidente ad oriente.

Le suddette considerazioni etnogeografiche (sui popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio) non derivano tuttavia da una visione diretta, ma da fonti scritte, e soprattutto dai “Bella Germaniae” di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare l’opera: ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la “Germania” sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava, invero, prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.

Visione “manichea”: barbari sani e Romani corrotti. E’ possibile notare (ed anzi non è rilievo secondario), nell’opuscolo di T., l’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente: in questo senso, tutta l’opera sembra percorsa da una vena implicita di contrapposizione dei barbari, ricchi di energie sane e fresche, ai romani, contrapposizione evidentemente frutto di un filtro etico attraverso il quale lo storico scandaglia osservazioni e descrizioni. E molto probabilmente, al di là di ogni “idealizzazione”, T. intendeva sottolineare la pericolosità di quel popolo per l’Impero: i Germani potevano davvero rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione (ovviamente, T. parla anche dei molti difetti di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente barbarico). Un accorato invito, dunque, a raccogliere le residue forze contro il potente e minaccioso nemico.

– Historie: i parallelismi della storia.

Dal 69 al 96 d.C. . Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell’Agricola, ma nelle “Historiae” tale progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano: nel proemio, T. afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei principati di Nerva e di Traiano.

Le “Historiae” descrivono quindi un periodo cupo, sconvolto dalla guerra civile e concluso con la tirannide:

Il I libro parla del breve regno di Galba; seguono l’uccisione di questo e l’elezione all’Impero di Otone. In Germania le legioni acclamano però come Imperatore Vitellio. In particolare, il 69, anno in cui si aprono le “Historiae”, vede succedersi 4 imperatori: questo perché il principe poteva essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti.

Nel II e III libro si parla della lotta tra Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano. Quest’ultimo, eletto imperatore in Oriente, lascia il proprio figlio Tito ad affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma dove si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso.

Nel IV libro si parla dei tumulti ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania.

Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e dei primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli.

Il significato di “historiae”. Come già si evince dallo stesso titolo, nonché dal breve sommario proposto qui sopra, T. vuol soddisfare un desiderio di ricerca e di comprensione dei fatti che va al di là della pura e semplice raccolta di testimonianze: ciò in piena rispondenza e fedeltà al significato stesso che il termine “historiae” rivestiva nella lingua latina, mutuandolo strettamente dal greco “historìa” (indagine, ricerca storica), ovvero come esposizione sistematica della storia, sia come racconto storicamente attestato dei singoli avvenimenti sia come sguardo d’insieme retrospettivo sul passato.

Parallelismi storici. Così, T. scrive a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di quell’anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l’ascesa al potere di Traiano. A tal proposito, è stato notato un certo parallelismo tra questa e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere, e come Galba aveva designato per “adozione” un suo successore. L’analogia però si ferma a questo punto: mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell’armata della Germania superiore. Con il discorso di Galba in occasione dell’adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare nella figura dell’imperatore il divario fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al “mos maiorum” e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Solo l’adozione di una figura come quella di Traiano placò i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità.

La necessità del principato. Come già detto, T. è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace e la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle “Historiae” sottolinea come – dopo la battaglia di Azio – la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si rivelò indispensabile, o quantomeno ineluttabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba; piuttosto, dovrà invece assommare in sé quelle qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Quindi, per T. l’unica soluzione sembra consistere nel principato moderato degli imperatori d’adozione.

Lo stile. Lo stile delle “Historiae” ha un ritmo vario e veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso T. sa conferire efficacia drammatica alla propria opera suddividendo il racconto in più scene. Lo storico è poi molto bravo nella descrizione delle masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale.

Tra storiografia tragica ed abilità ritrattistica. Le “Historiae” raccontano, del resto, per la maggior parte, fatti di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che T. sappia tratteggiare in modo abile i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di Muciano o di Otone. Lo storico, ad es., insiste sulla consapevolezza di questo personaggio, della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una “virtus” inquieta, che all’inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte gloriosa. Nella sua descrizione T. si affida alla “inconcinnitas“, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare movimento alla narrazione.

– Annales: le radici del principato.

Da Augusto a Nerone. Nemmeno nell’ultima fase della sua attività T. mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano: anzi egli, negli “Annales”, intraprese il racconto solo della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto (il giudizio su questo primo principe non può essere che negativo, viste le nefaste conseguenze – anche se nei tempi lunghi – della sua “rivoluzione” politica) a quella di Nerone. Come del resto già si arguisce dallo stesso titolo, continuò il metodo degli annalisti, giacché lo schematismo dei fatti non urtava con la sua funzione critica, che tendeva (come abbiamo visto e come ancora vedremo) prevalentemente allo studio dei caratteri e dei moventi psicologici e morali delle azioni. Probabilmente, T. intendeva la sua opera anche come un proseguimento di quella di Livio: in effetti, già il “sottotitolo” presente nei manoscritti (“Ab excessu divi Augusti”) sembra ricordare proprio quello liviano, “Ab urbe condita”.

I libri sopravvissuti. Come accennato, degli “Annales” sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto (14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i libri XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio e di Nerone.

Ancora sulla necessità del principato. Negli “Annales” T. sembra mantenere la tesi della necessità del principato: ma il suo orizzonte sembra essersi notevolmente incupito, o comunque fatto più amaro (nonostante egli si trovi a vivere in un secolo definito unanimemente, da storici e studiosi di età successive, come il “secolo d’oro” dell’impero: ma che si tratti di una mera, crudele, illusione?). La storia del principato è, infatti, anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, anch’essa coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione, e sempre più incapace – per colpe dirette o per cause indirette – di giocare ancora un ruolo politico significativo. Scarsa simpatia lo storico presenta anche nei confronti di coloro che scelgono l’opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici.

T. sembra condurre insomma il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza; ma forse, a ben vedere, un barlume di speranza rimane: la parte sana dell’élite politica, infatti, continua a dare il meglio di sé nel governo delle provincie e nella guida degli eserciti (ad es., l’opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio). E’ proprio su questi uomini che, secondo il nostro autore, bisognerebbe puntare per la ricostruzione politica e morale di Roma.

Ancora storiografia tragica. T. alla forte componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portarne alla luce le ambiguità e i chiaroscuri. Lo storico, infatti, sa bene <<che né la volontà degli dèi, né la Provvidenza o la Fatalità sono cause immediate del divenire storico. Le azioni umane, che sono le più visibili, le più immediatamente percepibili, in questo divenire, dipendono dal libero arbitrio>> [P. Grimal]. Le conseguenze, quindi, delle opinioni e soprattutto delle passioni che scatenano i comportamenti umani ricadono sul divenire storico e ne determinano il corso: ciò è tanto più vero, poi, se il protagonista di tale divenire è un principe investito, per la durata del suo regno, di un potere illimitato. Per T. è indispensabile, quindi, per comprendere la trama della storia, analizzare la personalità di colui dal quale dipende il destino dell’impero. Ecco, così, spiegato come mai, soprattutto negli “Annales”, si perfezioni ulteriormente la tecnica del ritratto e si accentui la componente “tragica” del racconto.

I “ritratti” degli imperatori. Ad es., Claudio è rappresentato come un imbelle che, dopo la morte della prima moglie Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio. Quindi, è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza influenzato dalle figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro. Poi acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e ai spettacoli. Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre Seneca si ritira a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere il principe. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa.

Ma il vertice dell’arte tacitiana è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l’esempio più notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l’ignavia la fama che altri acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita contrasta con l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un’ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza.

Lo stile. Nello stile degli “Annales” si assiste ad un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, ad una ricerca di straniamento che si esprime nel lessico arcaico e solenne: è a partire dal libro XIII che quest’involuzione verso modelli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo, sembra assumere una importante consistenza: forse il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una trattazione con minore distanziamento solenne.

Comunque, in linea di massima, gli “Annales” risultano meno eloquenti, più concisi e austeri delle opere precedenti. Si accentua il gusto della “inconcinnitas“, ottenuta soprattutto grazie alla “variatio“, cioè allineando un’espressione a un’altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata.

Considerazioni conclusive.

Storico impegnato e partecipe… Come si vede, l’opera di T. è tutta sostenuta da un’esplicita e tesa passione etico-politica e dalla con-partecipazione alle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo e dettagliato bilancio (soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza monarchica dal punto di vista di un intellettuale, il quale – benché proclami di voler fare storia in modo imparziale (“sine ira et studio“, ovvero “senza risentimento e senza partigianeria”) – esprime tuttavia, giocoforza, il punto di vista della “sana” opposizione senatoriale alla pratica imperiale (leitmotiv ne è l’inconciliabile tensione tra “libertas” e “principatus“).

Evidentemente, <<T. non sarebbe mai giunto alla storia, se al fondo di tutta la sua esperienza politica e forense non ci fosse stato un forte disinganno>> [F. della Corte]: quello sulla vera natura e sulle reali conseguenze del principato.

Ecco perché la sua visione della storia risulta in definitiva, come già detto, fortemente impregnata dell’elemento morale (anche se non legata a credenze, filosofiche o religiose, preconcette) ed essenzialmente individualistica (come tipico della storiografia antica), facendo discendere la dinamica degli eventi dalla personalità e dalle scelte dei “grandi”.

e grande. Il nostro autore, anche dal punto di vista artistico, rappresenta forse il momento davvero più importante della storiografia romana, superiore – volendo – allo stesso momento liviano. Proprio di contro a Livio, in particolare, egli – scrittore veramente profondo ed informato sugli avvenimenti – è storico “contemporaneo”, sia nel senso preciso del vocabolo, sia perché ha saputo rendere contemporanea anche l’età che non aveva vissuto. Anche il suo stile – volutamente controllato, rapido e conciso – è un aspetto fondante di questa sua concezione della storia, <<storia di idee più che storia di fatti>> [F. della Corte].

La decadenza di Roma. Di quest’ultima affermazione, è una testimonianza lampante il fatto che T. individui il “peccato originale” della decadenza di Roma nella svolta anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata repubblicana, e denunci le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza rifiutare totalmente l’istituzione – oramai (come più volte ripetuto) necessaria per l’unità, l’ordine e la pace dell’Impero – del “principato” stesso.

Le fonti. Ancora aperto è, infine, il “problema delle fonti” di T.. Alcuni punti sono comunque assodati: lo storico consultò la documentazione ufficiale (“acta senatus“, più o meno i verbali delle sedute; “acta diurna“, contenenti gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre a disposizione raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno “scrupolo” inusuale tra gli storici antichi. Numerose anche le fonti storiche (Plinio, Vipsiano Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico…) e letterarie (epistolografia, memorialistica, libellistica [“Exitus illustrium virorum”]…).

Così, dopo il mito dell’utilizzo di un’unica fonte (almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori), si è sempre più sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità di fonti, per giunta talune anche di opposta tendenza, ed utilizzate con una certa libertà.

Decimo Giunio Giovenale

— Aquino, 50/65 – 140 ca d.C. —

Di poca entità quelle ricavate dai suoi versi e tutte ricostruite per il tramite di Marziale sono le notizie biografiche su Giovenale, constatata la mancanza di dati attingibili ad altri autori a lui contemporanei (mancano finanche le tanto bistrattate «Vite») e la scarsa attendibilità dell’unica biografia pervenutaci, quella del codice «Pithoeanus», scritta da un anonimo del secolo quarto [!].

Giovenale nacque ad Aquino intorno al 54 d.C. e fu di condizioni agiate (era, in effetti, erede di un fazzoletto di terra lasciatogli dal padre e si dice proprietario di un terreno a Tivoli, nonché di una casa sua), ma non certo «liberti locupletis… filius», come lo presenta la “biografia” dell’anonimo.

Anche quest’ultima ricorda la sua passione per le «suasoriae», che Giovenale coltivò, però non «ad mediani fere aetatem», ma solo negli anni giovanili in quanto interessato alla retorica, e, come afferma il poeta stesso, pochissimo alla filosofia (tanto da ammirare Seneca essenzialmente per la sua rettitudine morale).

Che esercitasse l’avvocatura ce lo fa intuire il verso 124 della settima satira; che si fosse recato in Egitto o colà fosse stato inviato (come chiarisce la “biografia”: «… quamquam octogenarius, urbe summotus, missusque ad praefecturam cohortis in extrema parte tendentis Aegypti») lo attesta egli stesso nei versi iniziali della quindicesima satira: è l’ultima notizia che ci fornisce un autore tutto intento più a captare la realtà che lo circondava che a parlare di sé.

La morte deve essere sopravvenuta non molti anni dopo quell’unico «viaggio», forse tra il 135 ed il 140 d.C..

L’intima amicizia con Marziale fu un fatto determinante per la vita poetica di Giovenale e certamente gli permise di coltivare dentro di sé una passione destinata a manifestarsi solo dopo la morte di Domiziano (96 d.C.), sotto Traiano ed Adriano, ed una conferma ce la fornisce, oltre alla solita «biografia», lo stesso Marziale, che negli epigrammi a lui rivolti ne ignora del tutto la produzione poetica.

Iniziò, quindi, a pubblicare tardi le sue composizioni in versi che, con un amico come Marziale e con un imperatore come Domiziano, per un uomo così sensibile e così attento alla realtà circostante, non potevano essere che «Saturae» (in esametri).

La struttura

La suddivisione dei componimenti satirici, forse da far risalire allo stesso Giovenale ed attestata dal grammatico Prisciano (sec. VI d.C.), è la seguente:

Libro I: sat. I, II, III, IV e V

Libro II: sat. VI

» III: sat. VII, VIII e IX

» IV: sat. X, XI, e XII

» V: sat. XIII, XIV, XV e XVI (solo vv. 60; incompleta)

libro primo

I (vv. 171): Composta, forse, intorno al 100 d.C. perché a tale data risale il processo tenuto contro il proconsole d’Africa Mario Prisco a cui si allude al v. 49.

Funge da «proemio» all’opera ed in essa l’autore si scaglia contro i vizi del suo tempo: facile corruzione, avidità di guadagno, diffusa immoralità, corruzione dei costumi femminili.

– II (vv. 170): Incerta la data di composizione.

Chi predica bene e «razzola» male è un ipocrita da condannare doppiamente; più coerente la figura di chi confessa di essere immorale e si comporta come tale.

Che differenza con i tempi andati! Quanto più virtuosi gli uomini del passato, le cui ossa si rivoltano per lo sdegno nelle tombe!

– III (vv. 322): Incerta la data di composizione.

Fa bene l’amico Umbricio ad allontanarsi da Roma, una città invivibile, dove regnano sfrontatezza, disonestà e cattiva educazione.

– IV (vv. 154): Incerta la data di composizione anche di questa satira che è stata ritenuta da molti una parodia del «De bello Germanico», un’opera perduta di P. Stazio.

Riprovevole è l’adulazione dei principi e con un esempio Giovenale lo dimostra: il dono a Domiziano di un pesce di inusitate proporzioni provoca addirittura una… convocazione del Senato!

vv. 37-56

Quando l’ultimo degli imperatori Flavi dilaniava il mondo già ridotto agli estremi e Roma era asservita alla tirannide di quel calvo ch’era un nuovo Nerone, accadde che nel mare Adriatico un rombo di meravigliosa grossezza andò ad arenarsi davanti al tempio di Venere che s’innalza nella Dorica Ancona. Empì tutta una rete. Infatti era un esemplare non minore di quelli che crescono sotto la copertura di ghiaccio della palude Meotica e che, al rompersi del gelo nella stagione del sole, vengono trascinati dalla corrente alle bocche del Ponto, appesantiti dalla lunga immobilità e dal lungo freddo ingrassati. Il padrone della barca e della rete destinò quel pesce prodigioso alla Mensa del Supremo pontefice. Infatti chi avrebbe potuto avere il coraggio di mettere in vendita o comprare un pesce di quel genere dal momento che i lidi eran pieni di numerosi spioni? I guardiani della costa che erano sparsi qua e là avrebbero subito assalito quel povero barcaiolo e non avrebbero esitato ad affermare che quel pesce era stato nutrito a lungo nei vivai dell’imperatore e che, essendo fuggito di là, doveva necessariamente tornare al suo antico padrone.

Se dobbiamo attenerci alle teorie di Palfurio e di Armillato, tutto ciò che v’è di speciale e di bello in tutta l’estensione del mare, in qualunque acqua esso nuoti, è di pertinenza del fisco: perciò a scanso di danno, è meglio farne un’offerta spontanea.

– V (vv. 173): Forse pubblicata insieme alle prime quattro intorno al 102 d.C..

La satira inquadra la condizione dei «dientes», sempre alla ricerca di un «patro-nus» da cui farsi offrire il pranzo; ed il pranzo è descritto nel componimento, ma quanto diverse per qualità sono le pietanze che si presentano a Trebio (il «cliens») da quelle servite a Virrone! Le cose si invertirebbero, se Trebio avesse denaro: allora Virrone lo tratterebbe da amico, pur di farsi intestare il testamento!

libro secondo

VI (vv. 661): Più un frammento di vv. 36 scoperto da E. O. Winstedt nel 1899 ed immesso a partire da v. 365: da sola forma il secondo libro questa satira pubblicata tra il 105 ed il 110 d.C.

È la satira famosa contro le donne: un vero e proprio caleidoscopio di tipi femminili «al negativo» e…, se in analoghi scritti precedenti si arrivava a salvare almeno la donna-ape, laboriosa massaia, Giovenale non contempla neppure un tipo simile!

«Non è un caso», ribadisce il Canali, «che la più lunga e cruda dalle Satire sia quella contro le donne, rappresentate in una casistica così minuziosa del vizio, della vanità, della fatuità, della mondanità più corriva, della brutalità più turpe.

La donna che si emancipa, che discute, che viaggia, che si macchia degli stessi delitti degli uomini, è indubbiamente staffilata con un piacere che rasenta la lussuria; ma la donna che si imbestialisce nelle figurazioni più triviali e sfrenate della libidine, è folgorata e immaginariamente torturata dall’insulto d’un moralista che nell’invettiva sembra raggiungere l’orgasmo. È da una tensione psichica e sessuale così esorbitante che erompe la splendida belva dell’alcova imperiale e del lupanare, Messalina, la falsa prostituta Licisca, una delle apparizioni femminili più affascinanti, nell’abiezione corrusca, nella combusta psicologia, di tutta la letteratura mondiale».

libro terzo

– VII (vv. 243): Incerta la data della sua composizione (il «Caesar» di v. 1 potrebbe essere Adriano [117-138], ma anche Traiano [97-117]).

Non è che l’intellettuale ci faccia una bella figura in questa satira che condanna una Roma imperiale divoratrice di ingegni: poeti, scrittori di storia, avvocati, insegnanti e grammatici vivono alla giornata, tra ricompense «in natura» ed umilianti paghe.

– VIII (vv. 275): Non si è potuto ricostruire l’anno della sua composizione.

La satira si incentra sul concetto di vera nobiltà, che non è quella di origine (siano d’esempio Catilina e Nerone che hanno disonorato con il loro perverso comportamento i loro illustri natali!), ma quella che si acquista con una condotta virtuosa (si imitino, piuttosto, Cicerone e Mario!).

«Oltre al generico rimpianto», osserva il Flores, «per una georgica elementarità di vita, non più consentita al tempo del poeta dal ritmo tumultuoso impresso ai fenomeni sociali dall’abnorme sviluppo del vivere urbano, noi troviamo nel Nostro un nostalgico accarezzare alcune figure della storia di Roma, esaltate soprattutto per le loro origini plebee e perché si tratta di personaggi che furono dalla “semplice vita”. Tutta la satira, sotto questo aspetto, è una difesa ardente di una nascita e di una origine plebea contro chi al contrario può vantarsi di un’estrazione nobiliare, anche se poi l’impostazione generale del discorso poetico è di stampo moralistico fondata coni’è sulla premessa costituita dalla massima che “nobilitas sola est atque unica virtus” (Vili, 20), sino al punto che per uno specioso sillogismo la vera nobiltà diventa appannaggio non dei nobili per ascendenza, per lo più viziosi e corrotti, ma dei ben più virtuosi plebei: qui Giovenale, è fin troppo evidente, non fa altro che autoesaltare le proprie origini».

– IX (vv. 150): non verificabile è anche l’anno di composizione di questa satira.

Ricchezza ed avarizia sono vizi che si accompagnano sempre; così capita spesso di sentire, ricorda il Nostro, di ricchi tanto avari da non essere stati capaci di comprare il silenzio di chi ha spettegolato nei loro confronti.

libro quarto

– X (vv. 366): Sconosciuta la data della sua composizione.

Veri beni, afferma Giovenale, non sono la ricchezza, la potenza, la fama, la gloria in guerra, una lunga vita, la bellezza: essi sono beni falsi, effimeri, rispetto a quello, unico e vero, che consiste in un modo di vivere virtuoso.

– XI (vv. 208): Incerto l’anno della sua composizione.

La satira si scaglia contro il dannoso vizio della gola, causa della dissipazione di interi patrimoni, contro il vivere per mangiare, mentre, dice Giovenale all’amico Persico in questo suo invito, a casa sua si mangia per vivere.

– XII (vv. 130): Pubblicata con le precedenti due in età tarda, forse intorno al 120 d.C.

Nessuno, dice il poeta, oggi fa voti senza secondi scopi, senza augurarsi un lascito; anzi, peggio, si compiono sacrifici solo… per i ricchi!

libro quinto

-XIII (vv. 249): Composta, forse, verso il 127 d.C. per l’accenno al «Fonteius consul» di v. 17, sotto il cui consolato era nato l’amico, ormai sessantenne, Calvino.

Costui è stato truffato di diecimila sesterzi, ma stia sereno e calmo! Anche se l’ingiustizia è ormai dilagante, sia pur sicuro che il malfattore la pagherà: saranno il rimorso e, più ancora, la sua abitudine alla truffa a fargli pagare il fio, a portarlo in carcere.

– XIV (vv. 331): Incerta la data di composizione.

Giovenale si trasforma in pedagogo; pessima egli giudica l’educazione data ai giovani da parte di genitori non certo dalla vita morigerata: colpevoli i padri, peggiori i figli!

– XV (vv. 164): Composta subito dopo il 127 d.C. perché vi si fa riferimento (v. 32 sgg.) ad un episodio di cannibalismo accaduto in Egitto, sotto il consolato di Emilio lunco, tra gli abitanti di Ombo e Tentira.

Non esiste belva più feroce dell’uomo: a questa conclusione giunge lo scrittore dopo riflessioni dettate dal cruento episodio menzionato in precedenza.

– XVI (vv. 60): Giuntaci incompleta, la satira inizia con il mettere «alla berlina» i militari di professione per i benefici loro concessi, poi … si interrompe.

I precedenti in Lucilio…

A Lucilio va il merito di aver impresso al genere satirico lo spirito polemico e sferzante che lo distingue, nonché di aver forgiato le caratteristiche strutturali e quella «varietas» che lo ricollega, di lontano, alla primitiva «satura» romana; a Lucilio si deve la ricerca, nella varietà dei metri in uso, di quello considerato più efficace, e l’approdo finale (attraverso il passaggio dalla polimetria dei primi libri al distico elegiaco) all’esametro dattilico, il cui uso è destinato a restare canonico nella successiva tradizione; in Lucilio trovano posto temi filosofici, polemica sociale, attacchi politici: il tutto espresso in uno stile vivo e mordace.

…in Orazio e…

Orazio afferma chiaramente di volersi riportare a Lucilio, pur considerato «lutulentus» ed incapace «recte scribendi ferre laborem», e, quindi, di volerlo superare nell’accuratezza espressiva con un attento e costante ricorso al «labor limae»; ed a Lucilio Orazio si rifà ancora nell’ampiezza dei temi, nell’analisi della vita umana, arricchendo le proprie satire di note autobiografiche, ma limitando le tematiche luciliane con l’eliminazione di ogni allusione politica, contrapponendo all’aperta volontà polemica di questo un’affettuosa comprensione per le debolezze degli uomini, un sorriso indulgente, in uno stile composto, ma scorrevole e conversevole, senza tentazioni auliche.

..in Persio

Persio è l’espressione della condizione dei letterati in epoca imperiale, tanto che, e lo abbiamo rilevato in precedenza, le sue satire sono state qualificate «vere e proprie tesi di carattere morale sviluppate sulla trama dei ‘loci communes’ dello stoicismo ed a struttura declamatoria».

La scelta di un genere

In Giovenale si capovolge la situazione che aveva spinto i suoi predecessori a scriver satire e che aveva giustificato la loro naturale inclinazione verso questo genere letterario: la corruzione dei costumi non è più un’eccezione, un pericolo da arginare; essa ormai è dilagante e intacca le fondamenta stesse della convivenza civile. Per questo la sua ispirazione si chiama «indignazione», una indignazione che egli non cerca mai di dominare, convinto che debba essere proprio quello lo stato d’animo di un poeta satirico.

L’indignazione può supplire perfino alla mancanza di talento: «si natura negai, facit indignatio versus».

Il dedicarsi alla satira, insomma, è per lui indizio di un preciso orientamento poetico, di una chiara scelta letteraria, in contrapposizione con la facile vena di molti poeti mestieranti, suoi contemporanei, abituati a sollecitare i favori del pubblico con una produzione di consumo, mirante a suscitare accattivanti emozioni.

II quadro che Giovenale tratteggia della sua età, dei suoi contemporanei, uomini o donne che siano, è, a dir poco, tenebroso: di quella medaglia a due diverse facce che è la vita (ieri come oggi!) egli ci presenta spesso solo un lato, il rovescio, incline com’è a scegliere quella parte di verità che lo interessa poeticamente, a plasmarla, ingigantirla, esasperarla in senso caricaturale, quale riflesso di una sua genuina commozione e di un pessimismo senza rimedio.

In questo suo giudicare la società del tempo, però, Giovenale sembra fondarsi su un unico elemento di giudizio, la ricchezza, e lo adotta perché è realmente convinto che sia il solo ai suoi tempi valido.

Certi comportamenti, egli afferma con amarezza, sono accettati o meno in base allo stato di indigenza o alla condizione di «dives» di chi li adotta, e, con indignazione, aggiunge: … ai ricchi tutto è lecito!

Ma non è questo il solo appunto che muove alle classi elevate: i nuovi-ricchi e, a maggior ragione, i ricchi da sempre, sono da biasimare per esser venuti meno ai «mores maiorum» e per il loro mostrarsi privi di umanità nei rapporti quotidiani con gli inferiori, con i «clientes».

Un moralismo, dunque, particolare, il suo, non sorretto da una forte coscienza etica, ma piuttosto da un livore generico quanto aspro e sofferto.

Un moralismo, il suo, più sentimentale, più dettato dalle proprie esperienze di vita, che razionale, imbevuto di cultura filosofica: e, forse, proprio questa «philosophia vulgaris» gli ha consentito di tramandarci eccezionali pitture, originalissimi ritratti, personaggi scultorei, più espressivi di qualsivoglia ragionamento filosofico.

Il suo anti-orientalismo

La polemica contro i «Graeculi», e contro gli Orientali in genere, responsabili di aver alterato con la propria cultura la religione ed il comportamento etico dei Romani, è comprensibile in un uomo di origine contadina e banditore dei valori tradizionali e nazionali, che vedeva Roma, divenuta città cosmopolita ed aperta a tutti, straripare di Orientali, subire la loro pressione, e la vita urbana declassarsi ai suoi occhi sempre di più, inficiata da una moltitudine di avventurieri confluiti nella capitale dai più svariati paesi.

Eloquenza o poesia?

Certo le «declamationes» e le «suasoriae» gli fornirono spunti e procedimenti stilistici che compaiono numerosi sotto forma di «loti communes» e di «exempla», certo la sua ispirazione trae origine dall’esercizio retorico, ma è solo dal suo animo che nasce la poesia, né altrimenti si spiegherebbe quella potenza nelle rappresentazioni che permette più volte a Giovenale di attingere la poesia, o almeno di sfiorarla.

Al di sopra di uno «luvenalis declamans» c’è un poeta vero, multiforme, per il suo spaziare anche nel comico, nel sociale o nella notazione pseudo-filosofica (con numerosissime frasi sentenziose) ed originale per lo slancio che lo anima, anche se proprio l’«indignatio», quella «voglia di scrivere più forte di qualsiasi altra cosa», non gli consente un adeguato distacco dalla materia, impedendogli altresì il «labor limae» e conferendo ai suoi versi quell’andamento spesso faticoso e pesante che li caratterizza.

La sua fortuna

«Scoperto» dagli scrittori cristiani e dal Medioevo (soprattutto diffuso nelle scuole), considerato il «vindice libertario delle plebi oppresse» dalle generazioni successive, trova fortuna nella letteratura europea, specialmente per quella vena satirica che lo anima, da Ariosto al Carducci, dal Rinascimento al Classicismo di fine Ottocento per il tramite illuministico e romantico.

Ha nuova risonanza in campo critico a seguito del ritrovamento nel 1899 da parte del Winstedt di due gruppi di versi della satira sesta pervenuti attraverso un codice della biblioteca Bodleiana di Oxford.

Ancora su Giovenale

Vita.

Biografia incerta. Della biografia di G. ignoriamo quasi tutto: ciò che è possibile ricostruirne non può che reggere su ipotesi, le quali del resto si possono dedurre dalla sua stessa opera (a meno che non si tratti, nei brani dove si pensa di cogliere un’allusione, di semplici finzioni letterarie).

Così, adottato da un ricco liberto, G. fu probabilmente soldato e poi maestro di scuola, prima di redigere, a Roma e già in età avanzata (forse quarantenne), le 16 “Satire” che compongono la sua opera. Forse esercitò l’avvocatura, ma probabilmente con scarso successo. Non mostra amare, invece, la filosofia.

La triste condizione di “cliens” e l’esilio. Il nostro poeta visse nella disagiata condizione di “cliens“, come il suo amico Marziale (ha contatti anche con Stazio e Quintiliano): ma forse questa condizione <<non si identifica necessariamente con uno stato di vera indigenza, anche al di là delle lamentele spesso esagerate (per gioco o per patetismo) […]; in realtà, il disagio espresso dal “cliens” giovenaliano nasce dal trovarsi egli stretto, in una condizione imbarazzante, fra l’ambiente del “patronus” ricco e gli strati inferiori della società, che egli considera feccia>> [Bellandi]. G. conobbe anche rovesci di carriera, o per lo meno si creò delle inimicizie (forse proprio a causa delle allusioni più o meno esplicite contenute nella sua opera): per questo motivo, a 80 anni, sarebbe stato fatto governatore dell’Egitto dall’imperatore Adriano (in realtà, si sarebbe trattato di un esilio). E lì sarebbe morto, di sicuro dopo il 127 (ultimo accenno cronologico rinvenibile nelle sue satire).

Opera.

La raccolta. G. scrisse “Satire”(100-127 d.C.?), in esametri, in numero di 16 (l’ultima è incompleta) e per un totale di 3870 versi ca., pubblicate – forse da lui stesso – in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando cioè il clima politico lo permise; le satire sono disposte nella raccolta in ordine cronologico: 5 nel I libro, 1 nel II, 3 nel III e nel IV, 4 nel V.

I contenuti. Eccone brevemente i contenuti:

– nella I satira, proemio programmatico, il poeta critica le inutili pubbliche declamazioni e afferma che piuttosto il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge a scrivere, e che però, per evitare le più che certe reazioni violente degli uomini del suo tempo, parlerà dell’immoralità dei tempi passati (l’ambientazione abbraccia principalmente l’età giulio-claudia e l’età dei Flavi);

– la II bersaglia l’ipocrisia in generale, l’omosessualità in particolare (come la IX): sono chiamati in causa anche gl’imperatori Ottone e Domiziano;

– la III parla di Umbricio, amico di G., costretto ad allontanarsi da Roma e a preferire la provincia perché non resiste al caos e allo spettacolo dei vizi che la inquinano (di cui causa non minore sono gl’immigrati greci);

– la IV, sferzante, è contro la cortigianeria e lo stupido uso del potere (in particolare, vi si narra la famosa storia di un grosso rombo che si fa pescare per essere offerto a Domiziano, il quale convoca un consiglio di militari per decidere in che modo cuocerlo);

– la V descrive l’umile condizione dei “clienti” (cui è preferibile addirittura l’accattonaggio) e l’arroganza dei padroni durante i banchetti (cui contrappone il proprio, frugale, nell’ XI);

– la VI, la più lunga (661 vv.) e certamente la più famosa, costituisce un attacco veemente contro i vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini che siano (è la satira che, tra l’altro, ha fatto passare alla storia la moglie dell’Imperatore Claudio, la famigerata Messalina, come esempio di donna dissoluta e depravata);

– la VII depreca la triste condizione dei letterati e degli intellettuali, in tempo di assente mecenatismo (solo il principe può porvi rimedio);

– l’ VIII afferma che l’unica vera nobiltà è quella dell’anima, che agisce secondo virtù e che è lontana dagli eccessi (com’è ribadito nella X, in cui – in particolare – G. ironizza sui falsi beni che gli uomini son soliti chiedere agli dei);

– la XII esprime la gioia del poeta perché il suo amico Catullo è scampato da un naufragio; ma oggi in roma, infestata com’è dai cacciatori d’eredità, nessuno può capire ed apprezzare la sua felicità disinteressata;

– la XIII consola l’amico di G., Calvino che, fiducioso, ha prestato denaro che poi non gli è stato restituito: è un fatto normale oggigiorno, e la punizione arriva sempre tardi;

– la XIV tratta della responsabilità dei genitori nell’educazione dei figli, da attuarsi non con l’imposizione, ma soprattutto tramite l’esempio; al cattivo esempio dei contemporanei, poi, è decisamente preferibile la moderazione dei buoni tempi antichi;

– la XV prende spunto da un episodio di cannibalismo verificatosi in Egitto nel 127 per attaccare superstizione e fanatismo religiosi;

– la XVI, come detto frammentaria, elenca infine i privilegi della carriera militare.

Considerazioni.

Satira “necessaria” di un provinciale contro il “sistema”. G. non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione: la sua satira – ispirata in particolare a Lucilio ed Orazio, ma non aliena dalle suggestioni della diàtriba cinico-stoica – si limiterà a denunciare, a gridare la sua protesta rancorosa ed astiosa (“indignatio“, placata – apparentemente? – solo verso la fine, a partire dalla satira X, e soprattutto nelle XV e XVI), senza coltivare illusioni di riscatto, rifiutando in toto la connotazione consolatoria del pensiero moralistico tradizionale romano.

L’invettiva e il sarcasmo di G., allora, sono rivolti contro tutto il “sistema” (soprattutto nei suoi gangli rappresentativi), quel sistema che lo ha emarginato (il “democraticismo” del poeta è così solo apparente) e che gli fa rimpiangere, ed idealizzare, la tradizione nazionale e repubblicana, coi suoi valori morali e politici, oramai mortificati. La scelta programmatica del genere satirico è, quindi, per il poeta una necessità, dettata dall’ipocrisia e dai vizi che lo circondano (ai suoi tempi, egli dice francamente, “difficile est saturam non scribere“), anche se – come già detto – ambienti personaggi e soggetti sono scelti, con molta cautela, dal periodo precedente.

Nella civiltà che gli sta intorno, G. ha – ad es. – in orrore tutto ciò che non è “romano”, nella buona tradizione del termine: detesta gli orientali, l’ellenismo, i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottrae ai romani le proprie conquiste. Ma non detesta meno i senatori che non hanno il coraggio di opporsi al tiranno, o le donne che si fanno beffe della fedeltà coniugale e rendono la vita del proprio marito un lungo martirio. In ogni modo, combatte con pari vigore tanto i vizi (di cui talora pur sembra avvertire il pericoloso fascino) e le semplici forme di ridicolaggine, la donna che pratica aborti come la pedante.

Il ruolo “scioccante” della retorica. Per cui ci si può chiedere fino a che punto queste satire non siano anzitutto delle “amplificazioni”, espressioni volontarie di estremismo, che non meritano di essere confuse con delle testimonianze obiettive (anche se, indubbiamente, ci propongono un grande affresco dell’epoca). Le “Satire” recano difatti, e in modo forte, l’impronta della retorica: declamatore, G. lo è per i temi che affronta (“luoghi comuni” sui costumi del tempo, la povertà, la ricchezza, ecc, topoi in cui più evidente è l’influsso della diàtriba), e più ancora per il tono che lo distingue, fatto di una virulenza appassionata che si propone di “aggredire” e “scioccare” il lettore e di un’eloquenza che hanno contribuito a modificare fortemente l’evoluzione del genere satirico. E alla violenza dell’ “indignatio” (e alla mostruosità del mondo che ne è oggetto) s’addice – quasi per contrasto – un’altezza di tono e una grandiosità di stile che accostano la satira – rivoluzionariamente – alla tragedia, analogamente “sublime”.

G. vero poeta? G., dunque, <<sceglie un tema da trattare, e si fa trascinare da esso; il flusso talvolta tumultuoso delle idee non gli fa badare al loro svolgimento e gli impedisce di seguire un filo di rigoroso ragionamento, giacché questo si spezza per seguire concetti diversi, sicché si perde di vista il punto di partenza […]. Perciò [egli] non è, forse, un grande poeta; eppure l’opera sua non manca di grandezza. Gli manca invece la levigatezza e la morbidità del verso, l’arte dei passaggi, che favorisce il nesso dei pensieri; i suoi stimoli vengono sempre dal di fuori, costringendolo a seguire con l’immaginazione le cose brutte di questo basso mondo, senza mai un respiro di aria fresca e pura, senza il riflesso di qualche cosa di più elevato, che rassereni l’animo del poeta e dei suoi lettori>> [Terzaghi].

Massime famose. Infine, di G. sono i celeberrimi detti – passati oramai nel comune odierno buon senso – che vanno dall’ottimistica “mens sana in corpore sano” agli amari “quis custodiet ipsos custodes?” e “panem et circences” di cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi d’altro, secondo lui, appunto che di mangiare e divertirsi.

(fonte internet)

Gaio Svetonio Tranquillo

— Algeria o Roma, 70 d.C.? – 140? ca d.C. —

Le poche notizie che abbiamo intorno alla vita di Svetonio ci sono pervenute in parte dallo stesso scrittore ed in parte da Plinio il Giovane.

Nacque, forse nel Lazio, verso il 70-75 d.C. da Svetonio Lene che aveva combattuto, quale tribuno militare, a Bedriaco nel 69 d.C., nella guerra tra Otoniani e Vitelliani.

Sotto Domiziano studiò a Roma giurisprudenza e retorica, esercitando per qualche tempo, durante il regno di Traiano, l’avvocatura.

Il giovane, per la cultura di cui era in possesso e per l’assennatezza che evidenziava, piacque a Plinio il Giovane che, in un primo tempo, cercò di favorirlo presso Nerazio Marcello, il console del 104, con la promessa (non mantenuta) di concedergli la carica di tribuno militare, poi lo condusse con sé in Bitinia, consentendogli, in tal modo, di meritare il dono dello «ius trium liberorum».

L’amicizia di Svetonio con C. Setticio Claro, prefetto del pretorio dal 119 al 121, fu posteriore alla morte di Plinio il Giovane: e, probabilmente, l’interessamento di Setticio, ai tempi di Adriano, gli permise di entrare a far parte della famiglia civile della casa imperiale, dapprima con generiche mansioni di competenza culturale, poi con ampia funzione di controllo su tutta la «corrispondenza» ufficiale del regno, quale «magister epistularum».

Allontanato da corte, con Setticio Claro e con altri funzionari, sembra, per aver mancato di rispetto all’imperatrice Sabina, quando il «Princeps» era in Britannia, si ritirò a vita privata, dedicandosi agli studi, fin circa al 140, anno approssimativo della sua morte.

La sua produzione letteraria comprende il «De vita duodecim Caesarum», in otto libri, ed il «De viris illustribus», opera quest’ultima che a sua volta era divisa in sezioni: «De poetis», «De grammaticis et rhetoribus», «De philosophis», «De historicis», «De oratoribus».

Di questa seconda opera a noi è pervenuta solo la sezione «De grammaticis et rhetoribus» (mutila), in trenta capitoli di cui ventiquattro dedicati ai «grammatici» e sei ai retori.

Possediamo, inoltre, le vite isolate di Virgilio, Orazio, Terenzio e Lucano, del retore Passieno Crispo e, nell’ultima sezione, di Plinio il Vecchio che, secondo Svetonio, cercò volontariamente la morte in occasione dell’eruzione del Vesuvio (affermazione, questa, smentita però da Plinio il Giovane).

Appunto il Comasco, presentando, in una lettera, Svetonio ad un amico per intercedere nella vendita a lui di un podere, lo definisce come «scholasticus», dimostrando con questo termine che, forse, esercitò realmente tale attività.

Egli infatti, nel secondo gruppo di scritti, muove critiche malevole agli esponenti delle discipline che tratta, dimostrando in tal modo di essere direttamente interessato ad esse.

Le opere minori

La sua produzione, caratterizzata da opere con finalità esclusivamente biografiche, comprende (ma non sono giunti fino a noi) anche libri di erudizione: e tali dimostrano di essere le due raccolte enciclopediche «Prata» (o «Pratum», in almeno dieci libri di cui una metà doveva trattare di usi e costumi del mondo umano, l’altra di scienze e curiosità naturali) e «Roma» (sulla vita pubblica della città), «Historìa ludicra» (così chiamata da Gellio, sui giochi pubblici dei Romani), «De regibus» (in tre libri, messi in versi da Paolino da Nola, sui re d’Europa, Asia ed Africa), «De vitiis corporalibus», e, tra vari altri scritti («Sui giochi dei Greci», in greco; «Sulle parole ingiuriose», in greco anch’essa; «Sugli usi e sui costumi dei Romani» in due libri; «De genere vestium», un trattato sull’abbigliamento romano; «De rebus variis», un trattato su questioni grammaticali), la più nota di queste opere minori, il «De re-publica Ciceronis», composta, forse, in polemica con l’omonima opera del grammatico Didimo Calchentero, ma in cui, però, non sappiamo se intendesse esaminare il trattato di Cicerone dal punto di vista stilistico o, invece, da quello contenutistico.

Il «De vita duodecim Caesarum»

La fama di Svetonio è legata al «De vita duodecim Caesarum», edito, forse, tra il 119 ed il 122, quando l’autore divenne segretario di Adriano, e pervenutoci quasi per intero, ad eccezione della dedica a Setticio Claro e dei primi capitoli su Cesare.

La struttura

I primi sei libri sono relativi rispettivamente a Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone; il settimo riguarda Galba, Otone e Vitellio, mentre l’ottavo è sui Flavi: Vespasiano, Tito e Domiziano.

Svetonio e Tacito

In Svetonio sembra che, almeno esteriormente, ci siano punti di contatto con Tacito: l’autore, infatti, tratta le figure degli imperatori ciascuna in un libro, anche se, poi, vicende storiche riguardanti libri diversi li fanno integrare tra loro; a differenza di Tacito, però, in Svetonio non c’è una autentica visione storica in quanto egli è un biografo che si rifà alla tradizione ellenistica tendente ad evidenziare, senza mai emettere giudizi, gli episodi anche più banali della vita di un imperatore, aneddoti, particolari sconosciuti, vizi, predilezioni, studi, vita familiare.

Lo schema svetoniano

Egli segue, dunque, lo schema di derivazione alessandrina: nascita del personaggio, eventuali presagi su di essa, formazione culturale, «cursus honorum», attività belliche.

I limiti

Svetonio ama indugiare sul pettegolezzo, su tutto ciò che possa attirare l’interesse dei lettori, sulle caratteristiche più curiose degli imperatori: da lui apprendiamo, per esempio, che Augusto si dedicava al gioco del pallone…

Aug. 83

Rinunziò subito dopo le guerre civili all’esercizio del cavalcare e delle armi; e prima passò alla palla e al pallone, poi non fece altro esercizio se non quello del farsi portare in lettiga e del passeggiare; e nell’ultimo tratto della passeggiata correva saltellando avviluppato in una sopravveste di pelle o in una coperta. Per distrarre la mente ora pescava con la lenza, ora giocava a dadi, o con sasso-lini o con noci insieme con bambini, cercando dappertutto i più piacevoli per figura e per vivacità, particolarmente mauritani e siriaci; aborriva infatti come scherzi di natura e come malaugurosi i nani e gli sciancati e tutti gli altri siffatti. (tr. vitali)

…di Tiberio enumera le molteplici sue incompatibilità con dignitari e familiari; descrive i comportamenti crudeli o le stravaganze di Caligola, …

Cal. 54

Provava un tal piacere nel canto e nella danza che, anche durante spettacoli pubblici non poteva fare a meno di accompagnare la voce dell’attore tragico e di ripetere davanti a tutti i gesti dell’istrione, come per approvarli o correggerli. Sembra che soltanto per questo motivo abbia ordinato una veglia il giorno prima della sua morte, per fare cioè il suo debutto sulla scena con il favore della notte. Spesso danzava anche di notte; una volta, nel corso della seconda vigilia convocò al Palatino tre ex consoli e quando essi giunsero pieni delle più terribili apprensioni li fece salire su un palco quindi, improvvisamente, con un gran fracasso di flauti e di fischietti, saltò fuori indossando un mantello e una tunica lunga, eseguì una danza accompagnata dal canto e scomparve. Eppure lui che imparava così facilmente tutto, non seppe mai nuotare. (tr. noseda)

Svetonio stempera, in definitiva, la rappresentazione di un personaggio in tutta una serie di particolari biografici, senza darne un ritratto organico e relazionato col contesto storico e distinguendo le personalità che tratta «per species», per categorie, facendo, cioè, coesisterne due in uno solo, con quel suo parlare prima dei lati positivi e, quindi, di quelli negativi.

Svetonio, in conclusione, col narrare la storia per particolari, non elevandosi a visioni ed a valutazioni complessive, si rivela solo un biografo che si innesta sulla tradizione iniziata da Nepote, senza sentire desiderio di emulazione con Tacito e, pur riportandosi alla biografia greca, resta inferiore ad essa per l’assoluta mancanza di qualsiasi finalità etica.

Nel tempo

Mentre le opere erudite hanno fortuna fino al sec. VI, le biografie, conosciute da Girolamo (nel «De viris illustribus» si dichiara «imitatore di Tranquillo») e da Isidoro di Siviglia, incrementano la loro popolarità fino al Petrarca (il suo «De viris illustribus» subisce l’influenza del «De vita duodecim Caesarum») e, poi, fino ai nostri giorni per la modernità del genere che rappresentano.

Ancora su Svetonio

Vita.

Uomo tutto dedito agli studi. Della sua vita possediamo poche notizie, desumibili soprattutto dalle sue stesse opere e da Plinio, che in una lettera a Traiano ne sottolinea la rettitudine e l’erudizione. Nato da una ricca famiglia dell’ordine equestre, S. rifiutò tuttavia la carriera di amministratore o di soldato riservata in genere a quelli del suo rango. Uomo dedito agli studi, intimo amico di Plinio il Giovane (il quale lo introdusse nelle simpatie di Traiano, facendogli anche conferire lo “ius trium liberiorum“, una sorta di sussidio familiare che in casi eccezionali veniva concesso anche a scapoli benemeriti), nonché avviato alla carriera retorica e forense, lo storico consacrò tuttavia tutta la sua vita a ricerche erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone: ma la sua attività – come vedremo – si limitò quasi interamente al genere biografico.

Alla corte di Adriano. Grazie all’amicizia del prefetto del pretorio Setticio Claro (anch’egli amico di Plinio, sopravvissuto a quest’ultimo, e che avrebbe continuato comunque a proteggere il nostro autore), intorno al 120 S. riuscì ancora a diventare segretario “ad epistulas” (incaricato cioè della corrispondenza) nei servizi dell’imperatore Adriano. A quest’alto incarico egli poté essere chiamato dopo aver dato buona prova delle sue qualità di funzionario amministrativo, prima come sovrintendente di tutte le biblioteche pubbliche di Roma, poi come “a studiis” (quasi un nostro ministro della cultura e dell’istruzione). Tutte queste mansioni, e in special modo l’ultima in ordine di tempo (quella di segretario), gli permisero di accedere liberamente agli archivi del Palatino, per cui le sue informazioni ci hanno permesso di ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui, sarebbero andati completamente perduti. Nessun altro storico, infatti, poteva averne conoscenza.

L’allontanamento dalla corte e il ritiro negli studi. Dopo il rovescio politico del suo protettore, tuttavia, anche l’incarico di S. presso la corte non durò molto a lungo. Nel 122, Adriano lo allontanò con un pretesto, perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui fra gli altri, avevano instaurato un’eccessiva familiarità nell’ambiente dell’imperatrice Sabina. S., così, trascorse gli ultimi anni della sua vita immerso negli studi ed attendendo alla pubblicazione delle sue vaste e numerose opere.

Opere.

Opere minori. A noi S. è noto soprattutto come autore del “De viris illustribus” e del “De vita Caesarum”, ma abbiamo notizie di molti altri scritti, alcuni riportati nella “Suda” (il lessico greco-bizantino composto intorno al 1000), altri conosciuti per altra via. Tutte queste opere “minori”, scritte in greco o in latino, sono andate perdute, ma è utile ricordarne almeno i titoli e gli argomenti, a testimonianza degl’interessi svariati e della vasta erudizione svetoniana: “Historia ludicra”, sui giochi romani; “De anno romanorum”, sul calendario; “De genere vestium”, sull’abbigliamento; “De notis”, sulle abbreviazioni e sui segni diacritici usati dagli editori; “De republica Ciceronis”, sul pensiero politico appunto dell’Arpinate; “De regibus”, sui re stranieri; “De institutione officiorum”, sui pubblici incarichi; “De rebus variis”; “De vitiis corporalibus”, sui difetti fisici; “De rerum natura”; “De animalium naturis” e infine le due opere enciclopediche: “Roma” sulla vita pubblica e privata dei Romani e “Prata”, sul mondo umano e su quello fisico. Si può supporre che alcune di queste opere fossero confluite o facessero parte delle due enciclopedie.

De viris illustribus. Nell’opera sugli “uomini illustri” (o almeno così ritenuti dagli studiosi alessandrini) della latinità (pubblicata dopo il 113 d.C.), S. non limitava la propria indagine alla cerchia dei politici e dei militari. Un libro era dedicato agli oratori, un altro ai poeti, altri ancora ai grammatici, ai rètori, ai filosofi, eccetera. Di questo panorama così vasto, a noi restano unicamente le notizie riguardanti grammatici e rètori, particolarmente preziose per la conoscenza dell’insegnamento a Roma e della sua storia. Degli altri “capitoli”, disponiamo solo di notizie staccate o frammentarie. Quelle sugli scrittori (particolarmente importanti quelle su Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano) furono tra l’altro utilizzate da san Gerolamo per la sua “Cronaca”, ed è quindi possibile, in una certa misura, ricostruirle.

In queste biografie erudite, S. si preoccupa fondamentalmente di raccogliere una documentazione, molto meno di controllarne e criticarne la validità: non si lascia mai andare a considerazioni o valutazioni personali, ma si limita a riferire i dati raccolti dalle fonti ed esporli, accostandoli gli uni agli altri. E’ un testimone (uno dei primi) della tradizione scolastica (noi diremmo universitaria) che si forma e si svilupperà, con variazioni diverse, durante tutta la parte finale dell’antichità e nel Medio Evo, ad es. nei commentari di Donato (su Virgilio e su Terenzio) alla fine del IV secolo, e in quelli di Servio (che visse intorno al 400 d.C.) su Virgilio.

Per ogni biografia, S. si attiene ad uno schema invariato, desunto dai biografi ellenistici: inizia col nome dell’autore trattato, poi fa seguire la discendenza, le notizie sulla condizione sociale, sugli studi e sulla formazione letteraria, quindi passa a fornire notizie sulle qualità morali ed intellettuali, sui fatti più salienti della vita, sulle opere, e infine conclude coi dati relativi alla morte ed alle statue dedicate all’autore.

Il biografo si sofferma su aneddoti e particolari curiosi, facendo luce anche sui fatti intimi e privati dell’autore trattato. Fedele poi alla sua formazione “burocratica”, S. assai spesso insiste su episodi nei quali il personaggio era stato in rapporto coi potenti, come ad es. nel caso di Orazio con Augusto.

De vita Caesarum. Qualunque possa essere l’importanza delle biografie composte da S. sugli scrittori, nella formazione della storia letteraria come genere, quella delle “Vite dei Cesari” (pubblicate dopo il 121 d.C.) è, ovviamente, di gran lunga più considerevole, giacché, per le parti ormai perdute degli “Annali” e delle “Storie” di Tacito, esse rappresentano una preziosa fonte sostitutiva: non dimentichiamo, a tal proposito, ch’esse ci sono giunte praticamente in versione integrale. Tuttavia, le biografie degli imperatori (12, da Cesare a Domiziano) non sono opere storiche nel senso comune del termine: della cronologia e della concatenazione degli avvenimenti, infatti, nonché delle loro cause e dei loro effetti, esse tengono conto in modo molto approssimativo. Ogni fatto è, invece, anche qui classificato (pressappoco) secondo una categoria ben definita: infanzia, origine, carattere, ritratto fisico, ritratto intellettuale, attività militari, giochi offerti al popolo, eccetera. Anche in questo caso, poi, la componente critica personale o valutativa del biografo è pressoché inesistente (del resto, egli era più che altro un uomo di scuola, pressoché a digiuno di politica nel senso alto del termine).

Altro vantaggio, per noi, delle “Vite dei Cesari” è il fatto che S. attinge notizie da opere ormai perdute degli storici dell’impero. Ciò permette di ritrovare una prospettiva più giusta sugli avvenimenti e sugli uomini che sono stati oggetto a volte di appassionata ammirazione e altre volte di odio feroce.

Considerazioni.

I modelli e le fonti per una nuova forma di storiografia. Il modello, per entrambe le opere, è quello delle biografie “alessandrine”, per non parlare delle influenze formali più direttamente romane: gli “elogia” e le “laudationes funebres“. Non solo.

Riguardo la seconda, si aggiunge la consapevolezza in S. che quella del genere biografico è la forma storiografica più idonea a dar conto della nuova forma che il potere ha assunto (quella individualistica, personale, del principato) e che la biografia dei singoli imperatori è la più adatta a fungere da criterio di periodizzazione della storia dell’Impero. Dunque, il nostro autore <<inaugura una maniera nuova [di fare storiografia], applicando il metodo della biografia letteraria alla biografia politica>> [Funaioli].

Riguardo le fonti, invece, esse furono sicuramente molteplici, ma è quasi impossibile determinarne genesi e modalità: sembra che s. abbia trascurato Tacito, probabilmente perché non ne condivideva le idee; ha sicuramente fatto poi un accurato spoglio degli archivi imperiali per le biografie sui Cesari; ma non ha disdegnato infine neanche l’apporto di fonti, come dire, “orali” (dicerie, ricordi personali o di seconda mano…) nella raccolta dei gustosi e talora piccanti aneddoti che costellano le sue opere.

I caratteri. Così, nella tendenza – tanto deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo – ad insistere sulla vita privata degl’imperatori descrivendone eccessi ed intemperanze, sui particolari futili e scandalistici, si inclina oggi a vedere (anche) la manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell’intento di fornire un ritratto integrale e quanto possibile verosimile ed “umano” del personaggio trattato.

Ne risulta un tipo di storiografia ch’è stata detta “minore” (rispetto soprattutto a quella “aristocratica” di Tacito), che delinea anche, in qualche modo, i tratti del suo destinatario, che è lo stesso ordine dei funzionari e degli “equites” cui lo storico apparteneva, il punto di vista attraverso cui le singole vicende sono osservate e valutate.

Lo stile. Riguardo allo stile, infine, è da dire che S. scrive senza prolissità e senza ricercatezze arcaicizzanti o preziosismi moderni, con una lingua fondamentalmente chiara e semplice, e con un fraseggio gustosamente rapido e vivace: uno stile, insomma, ch’è <<un abile compromesso fra il classicismo (più o meno ciceronianeggiante) e il manierismo della moda del tempo>> [F. Cupaiuolo].

(fonte internet)

Marco Cornelio Frontone

— Cirta, Numidia, 100 ca – 166 d.C. ca —

Africano di Cirta, dove nacque forse intorno al 100 d.C, esercitò la funzione di maestro di retorica prima in patria e poi a Roma, città in cui conseguì notevole fama dapprima in età adrianea ed in seguito sotto Antonino Pio il quale, oltre ad affidargli nel 138 l’incarico di educatore dei figli Marco Aurelio e Lucio Vero, lo elevò nel 143 alla dignità consolare.

Con gli eredi imperiali Frontone stabilì un’affettuosa dimestichezza, il che gli permise di avere una notevole e benevola influenza riscontrabile soprattutto in Marco Aurelio, che gliene dà generosamente atto nei suoi scritti.

L’acquisizione della suprema carica del consolato, che egli peraltro esercitò per soli due mesi, e l’incarico di precettore imperiale, oltre a procurargli soddisfazioni, ricchezza ed onori, lo resero degno di ammirazione da parte dei contemporanei e gli permisero di aprire sotto i migliori auspici una scuola di eloquenza, denominata «frontoniana» od «arcaizzante», sentendosi egli investito della missione di riportare la lingua latina all’antica purezza.

Fortunato nella vita pubblica, non lo fu in quella privata per la salute malferma e per alcune disgrazie familiari che gli amareggiarono gli ultimi anni della sua esistenza.

Si presume che sia morto tra il 166 ed il 170.

Nel 1815 il cardinale Angelo Mai ritrovò un palinsesto bobbiense che era andato scisso in due parti: un moncone di centoquarantuno fogli fu rinvenuto nella biblioteca Ambrosiana, l’altro di cinquantatré fogli nel 1823 nella biblioteca Vaticana.

L’importanza di tale ritrovamento è notevole giacché ha restituito ciò che possediamo dell’autore.

L’epistolario

Comprende lettere indirizzate a Marco Aurelio giovinetto (in cinque libri), a Marco Aurelio imperatore (in due libri), a Lucio Vero (in due libri), ad Antonino Pio ed a vari amici (raccolte in un decimo libro).

La restante produzione

Abbiamo anche testimonianza, ancorché mutila per lo più, di…

– un’operetta in greco, «Erotikos», ispirata ad amori efebici a dimostrazione della sua padronanza di quella lingua, come peraltro attestano anche alcune lettere dell’epistolario redatte appunto in greco;

«Arion», operetta di argomento mitico in cui narra la famosa favola dell’omonimo cantore salvato da un delfino;

«De nepote amisso», un discorso consolatorio rivolto al genero Aufidio Vittorino per la morte prematura del figlio;

– il «De testamentis transmarinis», un’orazione giudiziaria intorno ad una causa testamentaria, una «gratiarum actio» ai Cartaginesi, di cui possediamo solo frammenti;

– un’orazione contro i cristiani in linea con gli orientamenti politici di Marco Aurelio, databile tra il 162 ed il 164;

«De feriis Alsiensibus», frammenti di un’epistola a Marco Aurelio in cui lo invita a concedersi un meritato riposo ad Alsio (rilevante in essa l’apologo del sonno);

«Ad M. Antoninum de eloquentia», un trattato di eloquenza sotto forma epistolare, giuntoci anch’esso frammentario;

«De bello parthico», una celebrazione della guerra condotta da Lucio Vero contro i Parti (162-166 d.C);

«Principia historiae», due saggi preliminari alla trattazione delle vicende belliche di Lucio Vero nella campagna partica;

«Laudes fumi et pulveris» e «Laudes neglegentiae», due «paignia», elogi scherzosi scritti secondo i dettami della nuova sofistica greca.

Le idee sulla lingua

La più valida testimonianza delle idee di Frontone ci viene offerta, più che dalla sua frammentaria produzione oratoria, dall’epistolario, specie dalle lettere a Marco Aurelio.

L’autore in esse osserva che ai suoi tempi la lingua aveva del tutto smarrito l’antico vigore, l’efficacia primitiva, a causa di neologismi, barbarismi, per la perdita in molti casi dell’originario significato etimologico: per salvarla dalla decadenza bisognava ritornare al latino arcaico, ad autori quali Pacuvio e Terenzio.

Giunge addirittura ad affermare che occorreva respingere quelle parole le quali non avessero fatto parte del lessico degli scrittori dell’età arcaica e che chiunque si fosse dedicato al genere epico avrebbe dovuto guardare come modello insuperato ad Ennio, così come avrebbero dovuto essere oggetto di imitazione Sallustio e Catone il Censore per la storia (che considera sommi: «Oratorum unus omnium M. Porcius eiusque frequens sectator C. Sallustius») e Plauto per la commedia.

Riprovevoli sono per l’Africano tanto Cicerone, che nelle orazioni non gli offre che «paucissima insperata atque inopinata verba», quanto Seneca, da biasimare per le ripetizioni, per le parole di nuovo conio, per «verba modulate collocata et effeminate fluentia».

I suoi limiti

Nonostante le sottili differenziazioni su vari composti verbali (ad es.: «abluere», «perluere»), che attestano la sua pedanteria, tuttavia Frontone appare limitato al solo interesse filologico: la sua attenzione si polarizza su parole, vocaboli, per cui gli scrittori ai quali intende rifarsi divengono modelli non di stile, ma di lingua.

Egli occupa, dunque, nella storia della letteratura latina lo stesso posto degli atticizzanti e dei nuovi sofisti nella letteratura greca: come questi si diletta di argomenti vacui, banali, vere e proprie esercitazioni (ad esempio, le «Laudes»), e, nella sua aspirazione ad essere un purista, precorre quella che sarà, poi, la posizione dell’abate Cesari nella letteratura italiana.

Come infatti questi crederà di porre rimedio alla decadenza dell’italiano letterario, frutto di un’eccessiva libertà linguistica, sostenendo il ritorno alla lingua del Trecento, così Frontone pensa di porre un freno all’evoluzione della lingua, che è, invece, viva e dinamica, sostenendo l’uso di un linguaggio anacronistico, inadatto ad esprimere i nuovi concetti, con un ritorno incondizionato e compiaciuto agli «obsoleta verba»: tanto più un vocabolo è degno di ammirazione quanto più notevole è la sua patina arcaica.

Da qui, dunque, la sua critica a Cicerone, al quale non perdona la rinuncia a termini arcaici, nonché la sua ostilità per Seneca, di cui disprezza il periodare rotto, spezzato, le «minutissimae sententiae».

Il «frontonianesimo»

Pur non avendo espresso nulla di originale né in campo linguistico, né in campo storico (anche i «Principia historiae», infatti, non dicono nulla di nuovo, in quanto egli considera la storia da vero retore, come ostentazione di eloquio), l’autore diede vita ad una tendenza detta «frontonianesimo», anche se, va notato, il movimento arcaizzante non nasce con Frontone, bensì con gli oratori di indirizzo atticista ai tempi di Cicerone, i quali rimarcavano la mancanza di proprietà della terminologia innovativa.

Forse proprio la limitatezza degli orizzonti frontoniani spinse il suo illustre discepolo a disdegnare nei «Ricordi» la lingua latina, preferendo ad essa quella greca, e ad abbandonare la retorica per la filosofia (anche per influenza dello stoico Giunio Rustico e degli altri due precettori, anch’essi di tendenza stoica, Diogneto ed Erode Attico) contravvenendo ai dettami di Frontone, particolarmente rammaricato del fatto che Marco Aurelio non lo seguisse sulla luminosa strada della retorica.

Ancora su Frontone

Celebre oratore a Roma sotto l’imperatore Adriano, fu nominato console da Antonino Pio (143). Le opere che ci sono pervenute furono ritrovate nel 1815 dal cardinale Angelo Mai in un palinsesto del monastero di Bobbio.

Esse comprendono: un ricco “Epistolario” (a Marco Aurelio, suo discepolo “infedele”, e ad altri personaggi), l’ “Arion” (sulla favola di Arione e del delfino), gli scherzi sofistici “Laus fumi et pulveris” e “Laus neglegentiae” (interessanti esempi di oratoria fittizia, ulteriore esempio della decadenza di questo genere), i “Principia historiae” (nei quali F. espone appunto le sue idee sulla storiografia) e, infine, un’opera sulla guerra partica di Lucio Vero. Con Apuleio e Gellio, F. è uno dei principali esponenti del gusto arcaicizzante ed antipuristico dell’età antonina: il nucleo centrale del suo pensiero, nella fattispecie, era lo studio della parola, la ricerca del vocabolo preciso ed adatto allo scopo (ch’è quello, poi, di colpire e soddisfare un esigente uditorio) e dell’eleganza stilistica; studio e ricerca suffragati da un’assidua frequentazione dei testi, in particolare appunto arcaici, esempi insuperati – secondo il nostro autore – della vera e genuina cultura letteraria latina.

(fonte internet)

Aulo Gellio

— 130-180 d.C. —

Le poche e frammentarie notizie intorno alla sua vita ci vengono fornite dallo stesso autore nella sua opera «Noctes Atticae».

E così sappiamo che nacque forse a Roma nel secondo secolo d.C. e, poiché dice di essere stato discepolo di Frontone, probabilmente intorno al 125-130 d.C..

Discendente da nobile e facoltosa famiglia, studiò presso i più famosi maestri di grammatica e di retorica a Roma, per poi completare gli studi, anche di filosofia, ad Atene, città nella quale, pure dopo il suo rientro nella capitale, amò spesso ritornare per trascorrervi parte della vita.

Assiduo frequentatore del circolo frontoniano, sotto gli Antonini divenne giudice coscienzioso e stimato nelle cause civili; morì verso il 180 d.C..

Le «Noctes Atticae», il cui titolo è spiegato dall’autore stesso, il quale riferisce di aver raccolto le notizie durante le serate trascorse in Grecia, giunte in venti libri con la sola eccezione del libro ottavo e delle parti finali del ventesimo (d’altronde facilmente ricostruibili nel contenuto per esserci stato tramandato l’indice dei capitoli), sono un’opera miscellanea, una raccolta di appunti diversi su diverse discipline, dovuta al grande amore per il sapere che portò Gellio ad ammirare grammatici (Sulpicio Apollinare), retori (Antonio Giuliano, Tito Castrizio), filosofi (Favorino, Erode Attico), eruditi (Frontone).

L’opera trova nella dedica la sua ragion d’essere nelle parole dello stesso Gellio, il quale vi afferma il proposito di aver voluto creare un testo didascalico per i suoi figli e di avervi raccolto quanto gli sembrava degno di essere ricordato ed atto a creare un bagaglio culturale.

praef. 23-24

Ma quanta vita avrò, poi, per volontà degli dei e quanto tempo libero mi sarà concesso dalla cura dei beni familiari e dall’attendere all’educazione dei miei figli, tutto questo tempo occasionale e tutti i momenti liberi li dedicherò ai piccoli divertimenti del raccogliere memorie di tal genere.

Con l’aiuto degli dei il numero dei libri progredirà dunque di pari passo col procedere della mia vita stessa, per poco che essa sarà stata, e non voglio che mi sia concesso più lungo tempo di vita che quello durante il quale io sarò ancora in grado di svolgere il compito di scrivere e di far riflessioni.

(tr. gavazza)

La silloge non ha, quindi, una struttura unitaria: tratta gli argomenti più diversi, dalla medicina alla politica, ed è immaginata come un dialogo tra vari interlocutori (quelli prima menzionati) che introducono gli argomenti, costituendo una «cornice» che anticipa in qualche modo soluzioni della novellistica medioevale (si pensi al «Decameron»).

La monotonia di tale dialogo viene ogni tanto spezzata e ravvivata da aneddoti e da riferimenti e ricordi personali dell’autore, il cui proponimento rimane quello di condurre il lettore ad un più alto livello culturale, assicurandogli al tempo stesso un piacevole intrattenimento.

La finalità

Chiaro, dunque, appare sia il tono che la destinazione d’«élite» delle «Noctes Atticae», una finalità dotta di derivazione alessandrina. L’autore riprende il concetto oraziano del «profanum vulgus» da cui vuole tener lontana la sua opera.

Essa, d’altronde, per noi moderni, si rivela una fonte preziosa di notizie e di citazioni, un «litterarum penus», per dirla alla Gellio, di aspetti sconosciuti della Roma imperiale e di personaggi che, altrimenti, non ci sarebbero noti.

Un «timido entusiasta» o un «amante del giusto mezzo» ?

Gellio, dice il Marache, «ammira le bizzarrie di un Levio, ma anche il sobrio realismo di Menandro e il tuonare dell’eloquenza ciceroniana. Egli unisce al gusto dell’arcaismo, anche nelle sue punte e nelle sue stravaganze, l’amore dell’equilibrio classico.

Forse per politica, e per imitare il suo maestro, atteggia la sua teoria della parola rara come una teoria del giusto mezzo; ma il suo temperamento pieno di bizzarrie lo porta a dei gusti contraddittori e non gli permette di lanciarsi decisamente in una direzione sola. […] Vive in mezzo agli eruditi ed ha orrore della scienza disinteressata, disprezza tutti gli insegnanti, tutti i dottori che meditano nell’ombra delle aule, che si applicano ad una filosofia senza saggezza. Come tutti i velleitari, è posseduto da sogni insensati e prova gusto non confessato, e inconfessabile ai suoi occhi, per l’avventura e per il fantastico. […] Gli antichi per lui sono stati perfetti in tutto; i più grandi autori latini sono coloro che hanno vissuto in quei secoli di purezza e d’integrità morale che furono i tempi di Roma antica».

Il suo stile

Facile, piano, garbato, piacevole, uno stile lontano dall’aridità pedantesca delle opere di pura erudiziene: questi i tratti peculiari dei suoi scritti.

Ancora su Gellio

G., rètore e giudice, fu autore di una raccolta non sistematica di appunti e citazioni, desunte dalla lettura diretta dei testi, cominciata nelle sere d’inverno in una sua villa dell’Attica (da cui il titolo alla raccolta di “Noctes Atticae” [“Notti attiche”], in 20 libri: ci manca però l’VIII). Gli argomenti trattati (grammaticali, filosofici, letterari, storici, giuridici, religiosi…) ne fanno un’inesauribile e preziosa, anche se talora farraginosa, miniera di informazioni, soprattutto per i numerosi frammenti letterari di età arcaica (diverse centinaia di citazioni latine e greche), che proprio grazie ad essa ci sono stati conservati. Il suo gusto retorico, che ama indugiare nell’interpretazione dei singoli passi, e la sua predilezione antiquaria, hanno dunque contribuito ad aprire la strada alla riflessione storica sul periodo delle origini di Roma e della sua letteratura.

(fonte internet)

Lucio (?) Apuleio

— Madaura, Algeria 125 d.C. ca – Cartagine, dopo il 170 d.C. —

Non si sa molto di preciso intorno alla vita di Apuleio (anche il prenome di Lucio gli fu attribuito infondatamente da Agostino, il quale credette che l’autore nel romanzo parlasse della «propria» trasformazione in asino) e quel poco di cui siamo a conoscenza lo desumiamo da notizie pervenuteci attraverso la sua produzione.

Nacque a Madaura, al confine tra Getulia e Numidia (si definisce, infatti, «semi-getulo» e «seminumida»), nel 125 d.C. circa da una famiglia benestante.

Il padre lo avviò agli studi di grammatica e retorica a Cartagine, ma Apuleio si trasferì presto ad Atene per ampliare l’orizzonte della sua cultura, e nella città greca, come dirà nell’«Apologia», fu iniziato ad un gran numero di culti, a moltissimi riti e cerimonie, che «per amore della verità e per dovere verso gli dei», volle conoscere, rendendosi particolarmente esperto nelle scienze occulte e nelle arti magiche.

Divenuto oratore affermato e popolare per la cultura che sfoggiava nei discorsi, dopo aver esercitato con fortuna l’avvocatura anche a Roma, fece ritorno a Cartagine.

Durante un suo viaggio da quella città ad Alessandria, i rigori invernali ed una malattia lo costrinsero a fermarsi ad Oea, una cittadina dell’Africa settentrionale, in casa dell’amico Ponziano, un suo compagno di studi che viveva con la madre vedova di nome Emilia Pudentilla.

La giovane età e l’eloquenza di Apuleio affascinarono la vedova che, da lui ricambiata, con il consenso di Ponziano (destinato di lì a poco a morire) lo sposò.

I parenti di Pudentilla, però, ritenendosi defraudati della ricca dote, non esitarono ad accusare il giovane di aver sedotto la donna con filtri amatori e di aver ucciso l’amico con arti magiche per impadronirsi del patrimonio: il processo, tenuto a Sàbrata tra il 155 ed il 158 e presieduto dal proconsole romano d’Africa Claudio Massimo, vide Apuleio difendersi abilmente e venire così assolto dall’accusa di magia, un’arte, come egli stesso la definisce, «gradita agli dei immortali, scienza pietosa e divina, sacerdotessa del cielo» e ben diversa dall’altra magia, quella negativa che «con un intimo commercio con gli dei può con incantesimi conseguire qualsiasi incredibile prodigio».

Dopo tale avventura ritornò a Cartagine e qui si pensa sia morto intorno al 170 senza che ci siano pervenute altre notizie biografiche.

Dall’accusa di praticare la magia (una disciplina che captava i suoi interessi a tal punto da farne tematica principale insieme a quella misterica ed all’altra erotico-avventurosa anche della sua opera principale) l’autore si difese con un’orazione avvincente per il tono vivace e spiritoso con cui è condotta e che costituisce l’unica orazione giudiziaria pervenutaci di tutta la latinità imperiale: 1′«Apologia».

L’«Apologia»

L’«Apologia sive de magia liber» è suddivisa nei codici dal recensore del testo in due libri di cui il secondo (più breve del primo; inizia dal cap. 66, passa all’esame dei documenti portati e si attarda sulla confutazione delle accuse) presenta, secondo il Marchesi, amplificazioni nella prima parte (7-8: dentifricio ed igiene della bocca; 12: teoria platonica dell’amore celeste e terrestre; 13-16: divagazioni sullo specchio e sulle immagini riflesse; 18-21: elogio della povertà; 29-41: discorso sui pesci magici); vi sarebbero inoltre aggiunte posteriori in tutta l’opera (49-51: digressione sull’epilessia tratta dal «Timeo» platonico; 88: discorso sulla campagna propizia alla genitura).

L’opera, ritenuta da molti scritta in epoca posteriore al romanzo delle «Metamorfosi», oggi si considera necessariamente anteriore ad esso in quanto Apuleio assume nell’«Apologia» un atteggiamento ambiguo, non confermando, né smentendo, le accuse rivoltegli di magia, pur uscendone assolto: un comportamento che non avrebbe di certo avuto se avesse già pubblicato il romanzo che, imperniato su vicende magiche, sarebbe stato una prova contro di lui.

Il processo fu intentato da Sicinio Pudente, il figlio quattordicenne della vedova sposata da Apuleio, insieme allo zio paterno Sicinio Emiliano, che lo assisteva come tutore, con l’accusa capitale di «magia» che cadeva sotto la sanzione della «lex Camelia de sicariis et veneficiis» (come ricordano Marciano e Giustiniano), vincolata anche dalla «lex lulia maiestatis» (in caso di forme di magia contro la casa imperiale) e dai provvedimenti contemplati pure dalle XII Tavole.

26-3-5

Se, com’è volgare costume, i miei avversar! credono che mago è propriamente colui che mediante la sua comunicazione con gli dei immortali, con la forza di certi incantesimi può compiere tutto ciò che voglia di incredibile, mi stupisco in verità che essi non abbiano temuto di accusare uno cui riconoscono tanto potere. Giacché da una potenza tanto occulta e soprannaturale non ci si potrebbe guardare come da altri pericoli. Chi chiama in giudizio un assassino, viene accompagnato; chi accusa un avvelenatore, sta più attento a quel che mangia; chi denuncia un ladro, custodisce bene le sue cose; ma chi accusa di un delitto capitale un mago, come costoro l’intendono, con quali compagni, con quali scrupoli, con quali custodi può rimuovere da sé l’invisibile e inevitabile rovina? Per siffatti delitti, chi accusa non crede. (tr. MARCHESI)

Le accuse, la difesa

La prima accusa riguardava taluni pesci di mare che Apuleio avrebbe avuto da alcuni pescatori per i suoi speciali maneggi e che, secondo gli accusatori, erano serviti per la manipolazione dei beveraggi amatori da cui sarebbe stata ammaliata Pudentilla.

Si sosteneva, inoltre, che Apuleio in un luogo segreto, dove era un piccolo altare ed una lucerna, avesse pronunziato una formula magica su di un fanciullo schiavo che subito era caduto tramortito e, una volta tornato in sé, non ricordava più nulla dell’accaduto.

Vi era stata anche una seconda vittima degli esperimenti di Apuleio: una donna che, recatasi presso il figlio per essere curata, era rimasta colpita dallo stesso incantesimo.

L’imputato, comunque, si difese dichiarando che pesci e cose del mare, fino a prova contraria, non avevano virtù magiche e, poi, che sia lo schiavo che la donna erano malati di epilessia, né gli avversari seppero giungere ad una conclusione e rinunciarono all’interrogazione degli schiavi da essi citati come testimoni d’accusa: sarebbe stato, infatti, necessario indicare lo scopo di quella azione magica.

Apuleio, inoltre, era stato visto, secondo l’accusa, insieme con Appio Aniuriano celebrare un sacrificio notturno in casa di Grasso, dove Aniuriano stava a pigione, e questo, ritornato da Alessandria, avendo rinvenuto numerose penne d’uccello e tracce di fumo sulle pareti, aveva denunciato le empie pratiche dei due amici.

Gli accusatori, però, si limitarono alla semplice denunzia dei «nefaria sacra», senza determinare né la specie né lo scopo del sacrificio, per cui fu facile per Apuleio smentire le inverosimili affermazioni di Grasso, giovandosi anche dell’assenza ingiustificata di quest’ultimo, prova che il testimone era stato corrotto e la testimonianza estorta grazie ad un compenso pecuniario.

Tra la tante accuse l’ultima era la ragione vera di tutto il processo.

Apuleio aveva affascinato con incanti amorosi la ricca vedova che aveva, perciò, dovuto cedere alla potenza dell’incantatore, come ella stessa confessava in una lettera al figlio Ponziano.

Il Madaurense, tuttavia, riuscì a confondere gli avversari dimostrando che nella lettera citata la donna intendeva significare l’opposto di ciò che essi volevano, e provò la propria sdegnosa noncuranza del denaro lasciando che la successione di tutti i beni di questa fosse assicurata ai figliastri.

102

C’è qualcosa, ancora, Emiliano, che a tuo giudizio io non abbia confutato? Della mia magia quale premio hai trovato? Perché avrei piegato con incantesimi l’animo di Pudentilla? Per cavarne quale vantaggio? Perché mi assegnasse una piccola anziché una ricca dote? Che splendidi incantesimi! O perché stipulasse la reversibilità della dote in favore dei figli invece che lasciarla in mio potere? Che c’è di più perfetto di una simile magia? O perché dietro mia esortazione lasciasse ai figli quasi tutta la sua sostanza, mentre, prima di sposarmi, nessuna largizione aveva loro fatto: e a me lasciasse una piccolezza? Che grave veneficio, dovrei dire: o non piuttosto, che ingrato beneficio? Oppure perché nel testamento che ella redasse adirata contro il figlio, lasciasse erede il figlio che l’aveva offesa, anzi che me, cui era obbligata? Certamente occorrevano di molti incantesimi per ottenere con fatica queste bel risultato. […] Quale altra causa c’è dunque? Perché ammutolite, perché tacete? Dov’è quell’atroce esordio del vostro atto di accusa formulato a nome del mio figliastro: «Io mi costituisco, o Massimo, davanti a te accusatore di quest’uomo. .. »? (tr. marchesi)

Confutata così l’accusa, l’autore smontò la ragione stessa del processo e sicuramente, anche se non risulta da nessuna particolare notizia, si assicurò l’assoluzione.

La magia

Era veramente un mago Apuleio?

Al principio del secolo Lattanzio lo nomina come uno dei più famosi taumaturghi pagani insieme ad Apollonio Tianeo e lo contrappone al Cristo, ma ci troviamo, però, in un periodo di aspra battaglia intellettuale tra pagani e cristiani.

Ai miracoli testimoniati per la fede di Cristo i pagani contrappongono i prodigi dei maghi, ed i nomi di Apuleio e di Apollonio sono, verso la fine del secolo, ricordati da Marcellino ed Agostino, il quale ultimo menziona il suo connazionale come uno scrittore le cui opere avevano avuto il potere di traviare le menti degli uomini dalla vera fede.

Le opere filosofiche

Tre opere attestano la preparazione filosofica di Apuleio (ed a lui, in quanto filosofo, i «Madaurenses» eressero anche una statua). La sua filosofia, però, fu non prettamente platonica, per quella commistione di teorie diverse che circolano nella sua epoca, né neo-platonica, il cui sviluppo si avrà solo successivamente:

– «De deo Socratis»: partendo dall’idea platonica della sublimità degli dei, dell’umiltà degli uomini e della «medietas» dei dèmoni, Apuleio tratta di tutte le classi dei dèmoni cercando di determinare a quale di esse appartenga quello socratico;

«De Platone et eius dogmate»: in tre libri (ma si è ipotizzato che il terzo sia stato aggiunto da qualche grammatico del terzo o quarto secolo); nel primo libro si espone la filosofia fisica di Piatone, nel secondo quella etica, nel terzo, intitolato «De philosophia rationali», si tratta la logica aristotelica;

«De mundo»: in esso traduce o parafrasa il trattato pseudo-aristotelico «Sul cosmo».

L’opera retorica

I «Florida»

Un altro aspetto notevole della produzione apuleiana è quello retorico, attestato dall’antologia «Florida» o «Floridorum libri IV», una raccolta in quattro libri di ventitré brani estratti da conferenze dello scrittore tenute a Cartagine. La raccolta fu compilata da un anonimo di età posteriore, il quale ha unito, ad aneddoti divertenti, brani esemplari della profonda padronanza linguistica di Apuleio e della sua capacità di affrontare qualsiasi argomento.

Il titolo, escludendo che esso sia stato dato al «corpus» dallo stesso Apuleio o che si riferisca al «genus floridum» del dire, equivale a «antologia».

Tutto quanto detto sulla produzione dell’autore costituisce il preludio, nella preparazione retorica, grammaticale e filosofica, agli interessi dell’opera principale, i…

Metamorphoseon libri XI

È l’unico romanzo della letteratura latina pervenuto per intero. Ad una riflessione superficiale, esso già consente alcune considerazioni: 1) la bizzarria del numero dei libri, dispari, fatto che non si ritrova in altri autori; 2) l’incidenza che di certo dovettero avere sulla composizione della tematica centrale, di tipo magico-metamorfico, un autore quale Ovidio e la lettura della «Ciris» pseudo-virgiliana; 3) l’omonimia tra il Lucio personaggio ed il Lucio narratore.

La struttura

In breve la trama del romanzo:

Lucio, il protagonista, giunge ad Ipata, in Tessaglia, dove è ospite dell’usuraio Milone, la cui moglie, Panfila, esperta di arti magiche, ha come aiutante al suo servizio la graziosa ancella Fotis.

Della fanciulla egli si finge innamorato per poter carpire i segreti della padrona e, una volta, riesce ad assistere alla trasformazione di Panfila in uccello dopo che la stessa si era spalmata il corpo con un unguento.

Volendo fare altrettanto, prega Fotis di portargli l’unguento magico, ma l’ancella, distrattasi, prende un altro vasetto e, così, quando il protagonista si cosparge con quell’olio, invece di trasformarsi in uccello, si ritrova asino nell’aspetto, conservando, però, intelligenza e ragione umane.

Disperato, chiede a Fotis se esista un eventuale rimedio a quell’errore e la fanciulla risponde che gli sarà sufficiente masticare delle rose che l’indomani stesso gli porterà.

Ma qui cominciano le disavventure di Lucio-asino: infatti, chiuso in una stalla, la notte della trasformazione viene portato via da ladroni che hanno assalito la casa di Milone e che lo trascinano nel loro rifugio in montagna.

Inizia al cap. 28 del quarto libro, e si estenderà fino al cap. 24 del sesto libro, la favola di Amore e Psiche, narrata da una vecchia ad una giovane rapita dai malfattori per chiedere un forte riscatto ai familiari.

«In una città c’erano un re ed una regina», prende a raccontare l’anziana serva, che avevano tre belle figlie, ma la più piccola era tanto lodata per la sua straordinaria bellezza da suscitare la gelosia di Venere, che incaricò il figlio Amore di darle un marito mostruoso.

Questi, però, si invaghì della fanciulla e, avendola portata in un palazzo meraviglioso, trascorse con lei alcune notti vietandole di scoprire il suo vero volto.

Psiche, curiosa, istigata dalle sorelle a credere che si trattasse di un mostro, arrivò al punto di volerlo uccidere, ma, accesa una lampada, scorse addormentato accanto a lei un bellissimo giovane che, destato da una goccia di olio bollente della lucerna, fuggì via.

Per riaverlo, Psiche non esitò a rivolgersi alla stessa Venere, che la sottopose ad una serie di difficili prove e stava già per soccombere ad una di esse quando in suo soccorso giunse Amore, che la sposò rendendola immortale per volere di Zeus.

VI, 24

Immediatamente fu servito un sontuoso banchetto nuziale. Il marito stava sdraiato sul letto più alto tenendo Psiche fra le sua braccia, Giove stava con la sua Giunone, e così di seguito per ordine di dignità tutti quanti gli dei. Ben presto circolò il nettare, che è il loro vino, e a Giove lo versava quel celebre pastorello suo coppiere; e a tutti gli altri Libero. Vulcano cucinò il pranzo, le Ore imporporarono tutto di rose e d’altri fiori; mentre le Grazie spargevan profumi e le Muse facevano echeggiare la loro voce sonora. Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, e anche Venere entrò a far parte dell’insieme eseguendo bei passi di danza al soave ritmo della musica d’un concerto che lei stessa aveva così disposto: le Muse cantavano in coro e suonavano il flauto, e Satiro con Panisco cantavano accompagnandosi con la zampogna. In questo modo Psiche andò sposa a Cupido con regolare cerimonia. (tr. carlesi)

Finisce qui la favola, ma continuano le peripezie di Lucio-asino che passa dalle mani dei briganti a quelle di un fattore, poi è venduto a sacerdoti della dea Cibele, quindi passa al servizio di un mugnaio. Ucciso questo dalla moglie, si trova alle dipendenze di un povero ortolano e, poi, di un soldato, uccisore dell’ortolano, che lo vende a due fratelli, l’uno pasticciere, l’altro cuoco.

Scoperto a mangiare dolci, e non biada, è comprato dal ricco padrone del cuoco che lo fa sedere a mensa e lo tratta con ogni riguardo, ma il suo scopo è quello di far esibire il prodigioso asino nel teatro di Corinto.

Dopo altre vicende e lubriche avventure, Lucio-asino si ribella all’ultimo infame disegno e fugge a Cenere sul golfo Saronico dove Iside, apparsa in sogno a lui assopito, gli ordina di partecipare alla processione per la sua festa che si terrà il giorno seguente: lì potrà mangiare la corona di rose che sarà sospesa al sistro del pontefice e ritornare uomo.

Così Lucio riprende la sua forma umana e, per riconoscenza, si fa lì iniziare al culto di Iside e, recatosi a Roma, anche a quello di Osiride.

Apuleio e Petronio

L’unico precedente a cui in qualche modo si può ricondurre il romanzo di Apuleio è, nell’ambito della letteratura latina, il «Satyrycon», dal quale tuttavia lo separano differenze sostanziali.

Il solo punto in comune è, forse, il realismo di certe descrizioni.

Lucio, come l’Encolpio di Petronio, è insieme protagonista e narratore, ma mentre Petronio ha un atteggiamento di aristocratico distacco dai suoi personaggi, Apuleio, invece, parla con compartecipazione e con interesse, soprattutto, al clima misterico dell’opera.

Diverso anche il carattere del finale dei due romanzi: distaccato e scanzonato quello del «Satyricon», che si chiude con la beffa di Eumolpo; edificante e allusivo questo delle «Metamorfosi», che finisce con il sogno premonitore dell’asino e con la sua decisione, dopo la disgustosa esperienza del comportamento umano, di iniziarsi ai culti misterici.

Lo stile

Mentre nei «Florida» si evidenzia un Apuleio ciceroniano, nel romanzo si mescolano neologismi (come nella descrizione della reggia di Amore, complice il mondo fiabesco), costruzioni non classiche, soggetti astratti, sostantivi neutri, un’estrema varietà formale (analogamente a Petronio che usava neologismi e faceva parlare i personaggi nel loro dialetto d’origine).

«Apuleio», afferma il Marchesi, «è un cesellatore raro. Nessuno più di lui badò ad assicurare tanto spesso la scrupolosa corrispondenza dei termini, dei concetti, dei suoni; nella sua euritmia i termini sono spesso contrapposti in modo da avere la stessa rima, lo stesso numero di sillabe e la stessa quantità. Le clausole di Apuleio sono rotte, convulse, come il suo stile: il quale ha una tale impronta personale da non consentire una fortunata imitazione».

La sua fortuna

Non sconosciuto alla letteratura cristiana, famoso nei secc. IlI e IV soprattutto come taumaturgo, relativamente considerato nel Medioevo se non per le opere filo-sofiche, Apuleio deve la propria popolarità al Boccaccio che, oltre ad aver scoperto il codice del romanzo, ne trae materia per le sue novelle.

Tradotto dal Boiardo e dal Firenzuola, soprattutto la novella di Amore e Psiche ha modo di ispirare il Chiabrera («Alcina prigioniera»), il Marino («Adone»), La Fontaine, Corneille, Forteguerri («Ricciardetto»), e, poi, Zanelli, Pindemonte, Prati, Pascoli; in pittura può vantare motivi ispiratori negli affreschi di Raffaello nel palazzo della Farnesina a Roma, in quelli di Pierin del Vaga a Castel S. Angelo, di Giulio Romano nel palazzo del Té a Mantova, nei dipinti del Correggio e del Caravaggio.

Notevole la sua popolarità anche in età romantica per la vena autobiografica che si vuole vedere nella sua opera e per il carattere anti-classico del romanzo, e dello stile in particolare.

Ancora su Apuleio

Vita.

La nascita e gli studi. Poche sono le notizie in nostro possesso sulla vita di questo che è certamente il personaggio più poliedrico e affascinante dell’età degli Antonini (lo stesso “praenomen” tramandatoci sembra essere piuttosto una conseguenza del fatto che il protagonista del suo romanzo si chiama appunto Lucio); notizie, del resto, tutte ricavabili da certe informazioni che lo stesso scrittore ci fornisce nelle sue opere, soprattutto nell’ “Apologia”. Così sappiamo che nacque a Madaura intorno al 125 d.C, che fu di estrazione agiata e che studiò a Cartagine, dove apprese le regole dell’eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi allo studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l’attraeva erano le dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: ma lo stoicismo, al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui Marco Aurelio sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della dottrina che allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo dire “teosofico”), impregnata di misticismo e addirittura di magia.

L’iniziazione ai culti misterici. A. si fece iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano nell’Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside, culto dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza era di trovare il “segreto delle cose” e, al pari della sua eroina Psiche, si abbandonava a tutti i dèmoni della curiosità, avventurandosi fino alle frontiere del sacrilegio.

L’accusa di magia e il processo. La strada del ritorno dalla Grecia all’Africa lo condusse attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica, dove lo attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). Ad Oea (l’odierna Tripoli), infatti, conobbe Pudentilla, madre di uno dei suoi compagni di studi ad Atene, Ponziano, la quale, rimasta vedova, desiderava riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti della nobildonna, adirati nel vedere compromessa l’eredità, intentarono un processo al “filosofo” straniero accusandolo di aver plagiato e sedotto la donna con arti magiche per impossessarsi dei suoi averi, e lo tradussero davanti al governatore della provincia. Per difendersi, A. compose un’arringa scintillante di spirito, che ci è stata conservata col titolo di “Apologia” (158).

Gli ultimi anni. Dopo il processo, lo scrittore tornò a Cartagine, dove ottenne varie dignità (come quella di “sacerdos provinciae” del culto imperiale, ma fu pure sacerdote e propagandista del culto di Asclepio) e dove proseguì la sua brillante carriera di conferenziere (i Cartaginesi giunsero ad innalzare statue in suo onore). Infine, la sua morte va collocata probabilmente dopo il 170 d.C., dal momento che da quest’anno in poi non abbiamo più notizie sul suo conto.

Opere.

– “Apologia” o “De magia” (158), come detto, versione successivamente rielaborata della propria, vittoriosa, orazione difensiva. L’episodio autobiografico viene filtrato attraverso una densa rete letteraria, che lo rende quasi emblematico, se non addirittura mitico; costante vi è poi l’ironia, da cui traspare la sicurezza della vittoria. In quest’opera, così, è già in nuce lo stile caratteristico dello scrittore, fatto di folgorazioni, sospensioni, parallelismi, allitterazioni, di espressioni nuove ed inaspettate, dove il ciceronianismo di fondo già si sfalda in una serie di brevi, frizzanti periodi. Dal punto di vista della difesa, invece, A. distingue tra filosofia e magia: la differenza è che il filosofo può avere contatti coi demoni (vd. oltre, “De deo Socratis”) per fini di purificazione spirituale, mentre il mago, con le sue arti, intende raggiungere scopi malefici. E’, infine, interessante paragonare questo genere di eloquenza, di discorso effettivamente pronunciato davanti a un tribunale, con quella dei “Florida” (antherà, “selezioni di fiori”), estratti di conferenze (23 brani oratori) tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma, antologizzati in 4 libri da un anonimo ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico.

– Tre opere filosofiche:

– “De mundo”, rifacimento – in chiave stoicheggiante – dell’omonimo trattato pseudoaristotelico;

– “De Platone et eius dogmate” , una sintesi della fisica e dell’etica di Platone, cui doveva seguire una logica (“Perì ermeneias”?): ne emerge un Platone permeato di neopitagorismo, di teorie misteriche ed iniziatiche;

– “De deo Socratis” , un opuscolo in cui A. esamina la demonologia di Socrate: sotto l’influsso delle filosofie orientali, i “demoni” (ovvero, divinità) diventano Angeli, o affini ad essi, per A., spiriti che fungono da intermediari tra gli dèi e gli uomini, e che presiedono a rivelazioni e presagi.

– Numerose, poi, le opere perdute, o di cui ci resta molto poco. Scrisse di aritmetica, musica, medicina ecc., e, tra le altre cose, compose “Carmina amatoria”, “Ludicra” (di questa raccolta faceva parte un carme su un dentifricio e due epigrammi d’amore conservati nell’ “Apologia”) e poi una traduzione del “Fedone” platonico, un romanzo, “Hermagoras”, di cui ci restano due frammenti e nel quale doveva essere celebrato il culto di “Ermete Trismegisto”. Il carattere enciclopedico e insieme misterico e salvifico della sua produzione minore è confermato pure da scritti trasmessi sotto il suo nome, specie da un dialogo ermetico apocrifo, l’ “Asclepius”.

– “Metamorfosi” (“Metamorphoseon libri XI”), denominato a volte “L’asino d’oro” (“Asinus Aureus”), certamente il suo capolavoro (“Asino d’oro” è il titolo con cui la prima volta lo indicò Sant’Agostino nel “De civitate Dei”: ma non si sa se l’aggettivo “aureus” sia stato coniato in riferimento alle doti eccezionali dell’asino, oppure alla qualità artistica del romanzo, oppure ancora al valore di edificazione morale insito nella storia del protagonista).

Le “Metamorfosi”. Trama e considerazioni.

Introduzione. *Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, è forse l’adattamento (almeno nei primi 10) di uno scritto di Luciano di Samosata di cui non siamo in possesso, ma del quale ci è pervenuto un plagio intitolato “Lucius o L’asino”: si discute se A. abbia seguito il modello solo nella trama principale, o ne abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche tragiche ed erotiche. Non è improbabile, poi, che sia A. che Luciano abbiano (sia pure con intenti del tutto diversi) rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata, manco a dirlo, “Metamorfosi”, e attribuito ad un certo Lucio di Patre, il cui canovaccio esteriore è praticamente lo stesso dell’opera del nostro. “Le “Metamorfosi” di A. gravitano comunque nella tradizione della “milesia”, ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo, arricchito però dall’originale e determinante elemento magico e misterico.

Dunque, nell’opera, il magico si alterna con l’epico (nelle storie, ad es., dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati ovviamente in un unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza rigoroso), che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella piena padronanza di diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale: e il tutto in una lingua, comunque, decisamente “letteraria”.

Trama. *La storia narra di un giovane chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore), appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio – avvinto dalla sua insaziabile “curiositas” – vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia da soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti.

Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di “Amore e Psiche”, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura di Psiche, l’Anima, innamorata di Eros, dio del desiderio, uno dei grandi dèmoni dell’universo platonico, la quale possiede senza saperlo, nella notte della propria coscienza, il dio che lei ama, e che però smarrisce per curiosità, per ritrovarlo poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli “elementi” del mondo) (vd oltre, la parte dedicata specificamente alla favola).

Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché – dopo altre peripezie – si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia di Cancree; durante la notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.

La chiave “mistagogica”. *L’ultima parte del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione mistica ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E’ evidente che è un’aggiunta di A., al pari della celebre “favola” di Amore e Psiche, che si trova inserita verso la metà dell’opera: centralità decisamente “programmatica”, che fa della stessa quasi un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta decodificazione.

Ci si può chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare l’intenzione dell’autore. In realtà l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, ha un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo, interpretato specificamente ora come mito filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di iniziazione al culto iliaco, ora – ma meno efficacemente – come un mito cristiano.

Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’XI libro è certamente la conclusione religiosa (lo stesso numero dei libri, 11, sembra del resto far pensare al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, 10 appunto di purificazione e 1 dedicato al rito religioso). Il tutto farebbe delle “Metamorfosi”, così, un vero e proprio romanzo “mistagogico”, che sembrerebbe invero registrare l’esperienza stessa dello scrittore.

Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione, ci offre una straordinaria descrizione delle province dell’impero al tempo degli Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto. Confrontato con quello di Petronio, dà però la curiosa impressione che i personaggi vi siano osservati a maggiore distanza, come in un immenso affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse.

La favola di “Amore e Psiche”.

Premessa. Come detto, la favola di Amore e Psiche, che si estende emblematicamente dalla fine del IV libro (paragrafo XXVIII) a buona parte del VI (prg. XXIV incl.), ha un’importanza esemplare nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo esornativa, ma fornendocene invero la corretta chiave di lettura e di decodificazione, fulcro artistico ed etico dell’opera tutta.

Trama. La favola inizia nel più classico dei modi: c’erano una volta, in una città, un re e una regina, che avevano tre figlie. L’ultima, Psiche, è bellissima, tanto da suscitare la gelosia di Venere, la quale prega il dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione disonorevole per l’uomo più vile della terra. Tuttavia, lo stesso Amore si invaghisce della ragazza, e la trasporta nel suo palazzo, dov’ella è servita ed onorata come una regina da ancelle invisibili e dove, ogni notte, il dio le procura indimenticabili visite. Ma Psiche deve stare attenta a non vedere il viso del misterioso amante, a rischio di rompere l’incantesimo. Per consolare la sua solitudine, la fanciulla ottiene di far venire nel castello le sue due sorelle; ma queste, invidiose, le suggeriscono che il suo amante è in realtà un serpente mostruoso: allora, Psiche, proprio come Lucio, non resiste alla “curiositas“, e, armata di pugnale, si avvicina al suo amante per ucciderlo. Ma a lei il dio Amore, che dorme, si rivela nel suo fulgore, coi capelli profumati di ambrosia e le ali rugiadose di luce e il candido collo e le guance di porpora. Dalla faretra del dio, Psiche trae una saetta, dalla quale resta punta, innamorandosi, così, perdutamente, del’Amore stesso. Dalla lucerna di Psiche una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, e lo sveglia. L’amante, allora, fugge da Psiche, che ha violato il patto. L’incantesimo, dunque, è rotto, e Psiche, disperata, si mette alla ricerca dell’amato. Deve affrontare l’ira di Venere, che sfoga la sua gelosia imponendole di superare quattro difficilissime prove, l’ultima delle quali comporta la discesa nel regno dei morti e il farsi dare da Persefone un vasetto. Psiche avrebbe dovuto consegnarlo a Venere senza aprirlo, ma la curiosità la perde ancora una volta. La fanciulla viene allora avvolta in un sonno mortale, ma interviene Amore a salvarla; non solo: il dio otterrà per lei da Giove l’immortalità e la farà sua sposa. Dalla loro unione nascerà una figlia, chiamata “Voluttà”.

La chiave di lettura della favola. La successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la “curiositas” punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di “hybris” (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.

(fonte internet)

II termine «apologia» in greco ha il significato di «difesa» ed apologisti furono chiamati quegli autori cristiani che nei loro scritti, citiamo M. Pellegrino, «confutavano la accuse pagane, chiedevano libertà di culto e svolgevano opera “protrettica” o di propaganda nei confronti dei cristiani ritenuti difatti pericolosi, sovversivi ed odiatori del genere umano, fatti segno ad atroci calunnie e che, in base a provvedimenti del tutto eccezionali, non fondati, quindi, su norme legali precise, venivano arrestati e messi a morte al grido di “Christiani ad leones”».

Tra i maggiori esponenti sono da annoverare Tertulliano e Minucio Felice.

L’APOLOGETICA

Quinto Florente Tertulliano

Nato a Cartagine da genitori pagani (suo padre era un centurione della guardia proconsolare) intorno alla metà del secondo secolo, iniziato per volontà paterna ai misteri di Mitra, ebbe una formazione prettamente retorica che lo portò ad avere una profonda padronanza sia del latino che del greco.

Trasferitosi a Roma, si distinse soprattutto come avvocato e quest’attività gli consentì di possedere una completa conoscenza del diritto e di acquisire quella mentalità giuridica che tanto gli sarebbe stata utile nella difesa del Cristianesimo.

La conversione, l’adesione al Montanismo

Si convertì nel 195, probabilmente colpito dallo spettacolo dei martiri e della loro fede nell’affrontare la morte, ma, per il suo carattere intransigente e per la sua interpretazione puramente ascetica di un Cristianesimo che non soddisfaceva appieno la sua rigorosa esigenza morale, il «Tertullianus presbyter» aderì, in seguito (forse nel 206), alla setta montanista (che prendeva nome dal suo fondatore, il prete frigio Montano), la quale affermava, più che una vera e propria dottrina, la volontà di dare un nuovo sviluppo agli elementi del primo Cristianesimo ormai perduti, quali il rigore morale, la vita ascetica, la castità, il martirio, nonché di riportare in primo piano il profetismo, all’epoca tramontato, ritenendo che i vari profeti fossero la voce ufficiale della tradizione evangelica.

La sua intransigenza

Per il suo rigore morale e cristiano, dunque, Tertulliano si oppose alle eresie, come a quella carismatico-pneumatica secondo la quale venivano concessi doni gratuiti («charismata» dal greco «charis», «gloria») attraverso lo Spirito Santo («pneuma») mediante un rapporto diretto con il fedele, rapporto che annullava di fatto la gerarchla ecclesiastica.

Il distacco

Ritenendo, quindi, che neppure la posizione montanista appagasse il suo rigore morale, si staccò, nel 213, dal Montanismo e fondò egli stesso una setta, quella detta appunto dei «Tertullianisti», che sarebbe durata fino al quinto secolo.

Morì nel 220 d.C. [?] o, meglio, a partire da quella data non abbiamo più notizie di lui.

La sua vasta produzione (ci sono giunte più di trenta opere) può essere suddivisa in tre gruppi:

Scritti apologetici

– Ad nationes (197): in due libri, di contenuto molto simile all’altra opera, l’«Apologeticum», posteriore di pochi mesi; in essa Tertulliano, con atteggiamento duro ed intransigente, ritorce contro i pagani le accuse di immoralità lanciate contro i Cristiani e dei «gentili» condanna le incongruenze dei culti.

Apologeticum (197): il suo capolavoro. Consta di cinquanta capitoli suddivisi in tre parti: introduzione, con due orazioni difensive ed una perorazione, apologia vera e propria, epilogo.

L’autore prende in esame la risposta di Traiano a Plinio il Giovane, governatore in Bitinia, che aveva chiesto all’imperatore lumi su come comportarsi con i Cristiani e da questo aveva ricevuto la disposizione «Conquirendi non sunt», «Non debbono essere ricercati», e smentisce la fondatezza di tale affermazione in quanto essi, una volta denunciati, in realtà venivano perseguiti.

Finalità dell’istruttoria contro i seguaci del Cristo, quindi, non è accertarne la colpevolezza, bensì farli dichiarare «cristiani» per poi punirli.

Segue nell’opera l’esame delle principali accuse rivolte ai Cristiani, tra cui quelle di compiere «facinora occulta», infanticidi, orge, riunioni segrete: accuse che vengono affrontate e confutate con logiche ed appassionate argomentazioni; si passa, quindi, ad esaminare quelle denominate «crimina recentiora», cioè di odio per il genere umano e di lesa maestà all’imperatore per il loro rifiuto di adorarlo come una divinità.

Tertulliano ritorce tali accuse contro i pagani affermando che sono proprio questi, con il loro assurdo attribuire valore divino all’imperatore, a togliere credibilità presso gli uomini alla sua persona invece che accrescerne il prestigio.

L’epilogo, infine, esalta l’assoluzione da parte di Dio per chi è condannato dagli uomini e respinge l’accusa di coloro che definivano setta filosofica il Cristianesimo, dimostrando quanto sia illogica la dottrina della «metempsicosi» contro l’avversione pagana al dogma della resurrezione della carne.

1,1-3

«Perché – dicono i pagani – vi lamentate se noi vi perseguitiamo, quando voi volete soffrire? Dovreste,invece, amare coloro per opera dei quali voi soffrite ciò che volete soffrire». Sì, noi vogliamo soffrire, ma come si soffre la guerra, che nessuno ama, a cagione degli allarmi e dei pericoli che essa impone. E, ciononostante, si combatte con tutte le proprie forze, e, una volta vincitori in combattimento, colui che si lamentava di dover combattere si rallegra per la gloria raggiunta ed il bottino conquistato. Il nostro combattimento è l’essere trascinati davanti ai tribunali, al fine di lottare, con pericolo della nostra testa, per il trionfo della verità. Ora, il raggiungere il fine per il quale si lotta è una vittoria conseguita. E questa vittoria ha un duplice risultato: la gloria di piacere a Dio ed il bottino della vita eterna. Ma noi – dite – siamo soccombenti!

Si, certamente, però dopo aver vinto la nostra causa. Perché siamo vincitori quando moriamo: in altre parole, noi evadiamo quando soccombiamo. (tr. Rusca)

– De testimonio animae: in sei capitoli in cui si afferma che un’anima «naturalmente cristiana» non ha bisogno di prove per credere nei dogmi cristiani.

Adversus ludaeos: servendosi della testimonianza dell’Antico Testamento, vuoi dimostrare che il popolo eletto non è quello di Israele, ma il popolo cristiano, formato da quanti obbediscono alla nuova legge.

-Ad Scapulam: una lettera al procuratore d’Africa Scapula Tertullo, persecutore dei Cristiani, al quale l’Apologeta ricorda punizioni divine per questo suo comportamento.

Scritti anti-ereticali

– De praescriptione haereticorum: diretto contro gli «gnostici», espone il principio giuridico della «praescriptio longae possessionis» secondo il quale non si può più invocare come propria qualcosa appartenuta per molto tempo ad altri: gli eretici, quindi, non possono invocare a loro difesa le Sacre Scritture, perché queste appartengono ormai solo alla Chiesa, in quanto per molto tempo nessuno le ha rivendicate come proprie.

XVIII

E ammesso pure che tu accetti la discussione sulle Scritture unicamente per togliere l’eretico dall’errore, ma credi forse che questi accetterà la verità e non piuttosto si confermerà nell’eresia? Per il fatto stesso che ti vede ottenere alcun vantaggio, perché la discussione dall’una e dell’altra parte è restata sullo stesso piano di negazione e di difesa, l’eretico se n’andrà dal contraddittorio con una accresciuta incertezza, senza sapere quale dottrina ritenere per eresia. Del resto, anche gli eretici hanno argomenti da opporre contro di noi; essi cioè devono necessariamente dire che siamo noi ad alterare le Scritture e a darle false inter-pretazioni, per rivendicare a sé la verità. (tr. Auletta)

Adversus Hermogenem: una confutazione della teoria, propugnata da Ermogene di Siria, che la materia è eterna.

Adversus Marcionem: ancora contro l’eresia gnostica, che fonde elementi orientali ed ellenistici, quest’opera in cinque libri indirizzata a Marcione, esponente dello «gnosticismo», ed edita in tre edizioni.

In questo scritto l’autore intende confutare il dualismo della Divinità, sostenuto dalla parte avversa, secondo cui Dio esiste sia come Bene, nel Nuovo Testamento, sia come Male, nell’Antico Testamento, e vi afferma l’indissolubile unità.

– Adversus Valentinianos: in cinque libri, l’opera è volta a confutare i seguaci della setta eretica dell’egizio Valentino, filosofo neoplatonico, il quale sostiene che l’uomo non è stato creato da Dio, ma da esseri intermediari, gli «eoni» (uno di essi è il Cristo).

De carne Christi: confuta l’eresia del docetismo gnostico, che nega l’incarnazione del Cristo, e sostiene la tesi dell’umanità corporea del Salvatore (ma non la verginità di Maria nel parto).

De resurrectione cantisi contro pagani e gnostici difende il dogma della resurrezione dei corpi alla fine del mondo.

De anima: sull’origine e sulla natura dell’anima, sui rapporti con il corpo, sulla sua sopravvivenza dopo la morte.

-Adversus Praxeam (dopo il 212): contro Prassea, ostile ai Montanisti; confuta in esso la teoria eretica del Patripassianismo (in cui si indicava la posizione del monarchianesimo: il Padre ed il Figlio sono due nomi diversi di funzioni diverse ed il figlio è considerato riflesso del padre), corrente eretica così chiamata dalla frase «et Pater passus est», «anche il Padre subì il martirio della croce».

Scritti morali, ascetici, disciplinari

– Ad Martyras (197): la lettera, che segna l’esordio letterario dell’Apologista, è ispirata dalla visione dei confratelli ai quali si rivolge per invitarli a non abbandonare la Fede anche nei momenti più critici e per esortarli al coraggio onde

Scorpiace (211): o «Contro la puntura dello scorpione», scritto satirico contro gli gnostici che negano meriti al martirio.

– De fuga in persecutione (213): Tertulliano vi nega che un cristiano possa fuggire durante una persecuzione per timore del martirio: è tenuto, anzi, ad affrontarlo, come prova voluta da Dio per elevarlo alla vera vita.

De spectaculis (202): proibisce ai Cristiani di assistere agli spettacoli pagani, fonte di corruzione e di vizio.

– De corona militis (dopo il 211): l’autore, già montanista, si esprime sulla condanna al martirio di un confratello, rifiutatosi di tenere sul capo una corona di alloro durante un donativo a suo favore, e nega che il Cristiano possa prestare servizio militare in quanto già «miles Christi», «soldato di Cristo».

De idololatria: nessun compromesso è ammissibile tra idolatria e Cristianesimo ed il Cristiano non è tenuto all’osservanza delle leggi statali se queste lo costringono a piegarsi al culto degli idoli.

De cultu feminarum: in due libri, esorta le donne cristiane a respingere ogni lusso ed a praticare modestia e semplicità nel vestire, indubbio segno esteriore di virtù.

De virginibus velandis (prima del 207): sulla necessità per le donne di portare il velo nei luoghi sacri.

– De pallio (dopo il 220 [?]): «un’apologià fittizia», a dirla con il Costanza, «contro certi Cartaginesi che, criticando Tertulliano per il cambiamento della toga con il pallio, avevano voluto condannare le sue nuove concezioni».

De oratione (tra il 200 ed il 206): un commento al «Padre Nostro».

De patientia (tra il 200 ed il 206): sulla pazienza, una dote non dell’autore, ma riconosciuta ed esaltata in Dio.

– De ieiunio (dopo il 213): un’appassionata difesa della pratica montanistica del digiuno.

Ad uxorem (tra il 200 ed il 206): in due libri, rivolgendosi alla moglie nega che ci si possa risposare dopo la morte del coniuge e sconsiglia unioni tra appartenenti a religioni diverse.

De exhortatione castitatis (dopo il 208): contro le seconde nozze.

– De monogamia (dopo il 213): affrontare un secondo matrimonio per Tertulliano equivale addirittura ad un adulterio.

De baptismo (tra il 200 ed il 206): una delle poche opere della letteratura latina a vertere sui Sacramenti, con quella che segue; in essa Tertulliano ribadisce l’importanza del Battesimo affermando che, oltre al sangue dei martiri, è solo l’acqua battesimale a purificare i fedeli.

De paenitentia (tra il 200 ed il 206): sul perdono dei peccati e sul Sacramento del Battesimo.

-De pudicitia ( tra il 213 ed il 220 [?]): sull’importanza per i Cristiani della pudicizia e sulla non ammissibilità alla penitenza di persone immorali o adultere.

Tertulliano risulta essere il più grande esponente del latino letterario cristiano, indipendentemente da talune sue argomentazioni che lo pongono in contrasto con gli stessi dogmi, ma tali argomentazioni si spiegano con il fatto che l’autore è un retore, ha una preparazione classica, e, allora, per confutare talune affermazioni ereti-che, ne usa altre altrettanto false e sbagliate e, pertanto, paradossali.

«Tertulliano», leggiamo in un saggio di M. Pellegrino, «affrontò i problemi più vivi del Cristianesimo del suo tempo, imprimendo in tutti i sentieri da lui battuti l’orma della sua potente personalità. Come apologista, egli si diffonde, oltre che sugli aspetti pratici della lotta, sui motivi della polemica filosofica e religiosa, con un atteggiamento di implacabile ostilità contro ogni aspetto della cultura pagana, e sui fondamenti razionali del Cristianesimo, che illustra secondo la tradizione filosofica ed apologetica. Anche nel campo teologico, ove assume “come regola di fede” la rivelazione, Tertulliano si impegna nella sforzo di elaborarne speculativamente i dati, specialmente nella dottrina trinitaria e nell’antropologia. Il pensiero del moralista è dominato da una visione concreta dei problemi, che gli da il gusto della casistica, ed ispirato ad un rigorismo che, favorito da una natura tendente agli eccessi, sarà portato all’esasperazione dalla dottrina montanistica».

Lo stile

II suo stile, chiaramente influenzato dall’asianesimo dominante, è ridondante, vario, composito, esornativo, caratterizzato da una tensione dovuta alla foga di affermare le sue posizioni; abbonda di termini biblici, grecismi, neologismi, espressioni popolari: si ricordi, ad esempio, che Tertulliano fu il primo ad introdurre il termine di «persona», operando una distinzione tra la persona fisica e quella giuridica.

L’APOLOGETICA

Minucio Felice

Nato anch’egli in Africa nella stessa città d’origine di Frontone, Cirta nella Nu-midia, probabilmente prima del 200 d.C, esercitò l’avvocatura a Roma, per, poi, convertirsi solo successivamente seguendo l’esempio dell’amico Ottavio.

Morì intorno alla metà del secolo terzo, né di lui abbiamo altre notizie.

«Octavius»

L’unica sua opera giuntaci, l‘«Octavius» (ma sappiamo che scrisse anche un «De fato vel contra mathematicos» sul problema del destino), presenta argomenti che si ritrovano anche nell’«Apologeticum» tertullianeo, il che ha sollecitato l’Axelson ad aprire una questione su una presunta precedenza nella composizione di una delle due opere rispetto all’altra; ma il problema, nella mancanza di prove decisive, è ancora senza soluzione, anche se sembra prevalere l’ipotesi che l’opera di Tertulliano preceda quella di Minucio.

La struttura

Nel prologo l’autore narra di un incontro con due suoi amici, Cecilio Natale e Ottavio lanuario, in occasione delle ferie vendemmiali della magistratura: si immagina che i tre vadano a passeggiare sulle rive del lido di Ostia.

I tre amici giungono dinanzi ad un’edicola di Serapide ed alla divinità Cecilio manda un bacio: a questo punto Ottavio, in tono non duro, rimprovera l’amico Minucio, accusandolo di permettere che Cecilio sia lasciato nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione.

I tre, allora, si siedono e (a dimostrazione del carattere classicheggiante dell’opera) danno luogo ad un dialogo.

c. 4

Allora quello [Cecilio]: «Già da un po’ mi sento fortemente colpito e morso dalle parole del nostro Ottavio, con cui, prendendosela con te, ha rimproverato te di negligenza, ma, in sostanza, senza parere, me di ignoranza. Perciò mi farò avanti io stesso: la questione va ripresa di nuovo, e discussa tra me e Ottavio.

Se gli piace che io, povero uomo appartenente a quella stessa setta che egli ha condannato, discuta con lui, comprenderà ben presto che è più facile discutere tra amici che impegnarsi in una trattazione filosofica. Ma sediamoci su questi argini pietrosi gettati qui a protezione dei bagni, e che si protendono nel mare, affinchè possiamo riposarci del cammino e discutere con maggiore con-centrazione». A queste parole, ci sedemmo, e in tale ordine che io occupassi il posto di mezzo, e gli altri due mi fiancheggiassero da una parte e dall’altra; e questo non in segno di omaggio all’ordine a cui appartengo, alla carica che ricopro, poiché l’amicizia o riceve o rende tutti sempre di pari grado, ma perché, come arbitro, potessi, stando vicinissimo ad ambedue le parti, porgere la dovuta attenzione, e dividerle mentre discutessero. (tr. Cataudella )

Inizia a parlare Cecilio (capp. 5-13), che riprende la posizione tradizionale dell’agnosticismo pagano: se siamo nelle tenebre dell’ignoranza, egli dice, di fronte al mistero impenetrabile con la ragione, dobbiamo credere nelle divinità tradizionali, su cui è fondata la grandezza di Roma, poiché, se la verità non può essere dei dotti, a maggior ragione non può essere dei Cristiani.

Dopo tale affermazione Cecilio accusa i Cristiani di infanticidi, di orge rituali, di riunioni segrete: argomentazioni tipiche usate contro i seguaci di Cristo, riprese sommariamente dall’orazione anticristiana di Frontone.

Dopo un intermezzo, con una digressione sul gioco del rimbalzello fatto con pietruzze sulla superficie del mare da alcuni bambini sulla spiaggia, interviene Ottavio che introduce un’orazione definita impropriamente apologetica, perché in essa non viene mai fatto il nome di Cristo (in quanto l’autore non intende accentuare la «novitas» cristiana, né i suoi dogmi, per non evidenziarne il distacco dal paganesimo, il che lo porterebbe a rinnegare la cultura classica), e che il Marchesi qualifica come una «suasoria» o una «controversia».

Ottavio inizia affermando che l’ordine del creato dimostra l’esistenza di una mente superiore, Dio, e, riprendendo la teoria razionale di Evemero, continua dicendo che la maggior parte delle divinità pagane ha origine terrestre; difende poi i suoi compagni di fede dall’accusa di riunirsi segretamente (e l’accusa la si troverà anche in Rutilio Namaziano, il quale polemizzerà con i monaci affermando che essi scelgono l’isolamento perché nessuno possa vedere i loro vizi): i Cristiani, dice Ottavio, si vedono di nascosto non per cospirare contro l’impero, ma per alimentare la loro volontà di purificazione.

A questo punto Minucio, chiamato a fare da arbitro, non dichiara nessuno perdente in quanto tutti hanno vinto: Cecilio, perché, pur sconfitto nella disputa con Ottavio, in realtà è vincitore sul suo errore di essere pagano e, quindi, si è convertito; Ottavio, perché ha convinto Cecilio a credere in Cristo; Minucio, perché, come arbitro, può dichiararli entrambi vincitori.

E’ evidente, quindi, nella conclusione, quel carattere di moderazione e di conciliazione tra Cristianesimo e paganesimo che è proprio di quest’opera, quel tono non violento e moderato evidenziato anche dalla frase di chiusura: «Lieti e felici ci separammo».

«Come scrittore», afferma il Pellegrino, «Minucio continua degnamente la tradizione classica, non tanto nella struttura dell’opera, che manca della vivacità propria del dialogo, quanto nella padronanza dei mezzi espressivi, di stile e di lingua. I suoi modelli sono particolarmente Cicerone e Seneca filosofo dai quali desume in abbondanza concetti ed espressioni; è sensibile anche l’influsso dell’arcaismo frontoniano».

Pur nell’affinità delle argomentazioni, siamo dunque agli antipodi del convulso stile tertullianeo.

«INSCRIPTIONE METRICAE»

Di provenienza africana sono cinquanta iscrizioni da datare tra il secolo terzo ed il quarto, composte, per lo più, in distici elegiaci su argomenti cristiani e giunte a noi anonime.

Commodiano

Sull’autore abbiamo notizie scarse ed incerte. Si ritiene che sia stato originario della Palestina (Gaza [?]) o dell’Africa per la tipicità propria degli scrittori africani nel manifestare il loro odio per Roma e nell’affermare l’illusorietà di un eterno dominio dell’Urbe.

Oscuri ed indeterminabili risultano essere pure i limiti della sua esistenza che alcuni pongono tra il 285 ed il 311, altri, vagamente, nel secolo terzo, se non nel quarto o nel quinto.

Come altri autori, anche Commodiano si convertì tardi e solo a seguito della lettura di alcuni libri cristiani, rinunciando, quindi, ai suoi beni per darsi alla pratica della povertà ascetica (nelle «Instructiones» si definisce «mendicus Christi», «mendicante di Cristo») e percorrere, secondo l’ipotesi avanzata da Gennadio di Marsiglia, tutti i gradi gerarchici della Chiesa fino a divenire vescovo.

Le «Instructiones»

L’opera principale, le «Instructiones », pubblicate nel 1649 dal Rigaltius, è formata di due libri che raccolgono ottanta componimenti in esametri di tredici o diciassette sillabe disposti ad acrostico, cioè con le iniziali di ogni verso a formare, se lette verticalmente, una nuova parola o una frase di senso compiuto, oppure secondo una struttura abecedaria, con le prime lettere di ogni verso, cioè, disposte secondo l’alfabeto.

1,9

M … ercurio vostro con il mantelletto

E l’elmo e i piedi alati e tutto nudo:

R … oba da matti! Con la borsa vola!

C … orrete, poveretti, col grembiule:

U … n dio che vola con la borsa aperta

R … ichiede gente pronta. Voi guardate

I … l dipinto, aspettando le monete!

U … orno balordo, adoratore d’idoli!

S … e non sei uomo, vai con gli animali.

(tr. Portolano)

Commodiano ed i «poetae novelli»

Siffatto modo di strutturare le composizioni poetiche ha riportato alla memoria i «poetae novelli», ma manca una spiegazione che giustifichi l’uso di tali artifici stilistici in un’opera piena di barbarismi, grecismi, in un poeta stilisticamente rozzo e duro quale il Nostro: quest’ultima considerazione ha spinto certuni a ritenere Commodiano l’inventore di tali versi, altri invece a considerarlo momento finale nell’evoluzione verso forme stilistiche già presenti in precedenti opere poetiche cristiane.

La struttura

II titolo «Instructiones», che deriva dal verbo «instruo» con il significato di «dare una formazione» al sapere cristiano, anticipa i contenuti dell’opera: infatti l’autore, che nel primo libro ritorce su giudei e pagani le accuse rivolte ai Cristiani, nel secondo propone una serie di consigli comportamentali pratici indirizzati alle varie categorie di credenti, distinti in catecumeni, battezzati, matrone, penitenti, lettori, diaconi, presbìteri e vescovi.

Lo stile

Commodiano, nel suo rifiuto assoluto della cultura pagana, rinnega le regole classiche della metrica di tipo quantitativo ed introduce il principio dell’assonanza e della rima, ma stilisticamente si rivela non facile alla lettura per il frequente ricorso a barbarismi e per le molte licenze nella versificazione. Il suo esametro già segna la crisi che porterà al disfacimento del sistema quantitativo del latino classico.

IL «CARMEN APOLOGETICUM»

II «Carmen apologeticum adversus ludaeos et Graecos», pervenutoci «adespota», dopo il suo rinvenimento nel 1852 per merito del cardinale Pitra, e attribuito a Commodiano solo a seguito delle affinità stilistiche e di pensiero riscontrate con le «Instructiones», risulta formato da millesessanta esametri raggruppati a coppie.

La struttura

In esso il poeta dopo aver esortato pagani ed ebrei alla fede nella divina rivelazione, esprime, con efficacia suggestiva e con spettacolosa grandiosità, una cupa visione della fine del mondo, dell’«apocalisse», secondo cui di lì a seimila anni ci sarebbe stata la venuta dell’Anticristo d’Occidente che avrebbe distrutto la comunità cristiana di Roma, mentre l’Anticristo d’Oriente sarebbe stato fermato dal popolo dei fedeli; un incendio della durata di sette mesi, quindi, avrebbe preannunciato la deflagrazione finale e l’ascesa delle anime dei giusti al cielo.

Le caratteristiche

Le tematiche oggetto della sua poesia ci giungono fantastiche, portate agli eccessi, esasperate e presentate con tinte cupe, macabre, fosche, ben lontane dai canoni dell’ortodossia religiosa.

In Commodiano, pertanto, non c’è tanto volontà di diffondere la nuova fede nel Cristo, di valutare e definire il dogma cristiano, ma piuttosto di dimostrare la propria adesione ad esso, anche riprendendo argomenti pagani per confutare accuse anch’esse pagane: ma questo inserire le tematiche cristiane su una cultura di base di tipo classico si rivela, come per altri autori di questo periodo, un limite ben marcato che lo allontana dalla vera poesia, anche se non mancano in lui passi apprezzabili per il vigore espressivo.

LA PROSA CRISTIANA

Le «Passiones»

«Acta» e «Passiones», di cui già si è detto all’inizio del capitolo precedente, non rimangono isolati al secondo secolo, ma, anzi, attestazioni numerose della fermezza e del coraggio dei Cristiani nel ribadire la propria fede nei momenti di maggior pericolo si devono assegnare proprio al secolo che stiamo esaminando.

Fra le molte pervenuteci ricordiamo:

Passio Perpetuae et Felicitatis (202);

– Passione di Cipriano (258);

– Passione dei santi Montano, Lucio ed altri (259);

– Passione di san Fruttuoso (259);

Passio Mariani et ]acobi;

Atti dei martiri Abitinesi;

Passio Crispinae (morta a Teveste sotto Diocleziano);

– Martirio di Vittore e Massimiliano (295);

Passio Marcelli centurionis (morto a Tingi nel 298).

LA PROSA CRISTIANA

C. Tascio Cipriano

Nato da una nobile famiglia pagana a Cartagine nella prima metà del secolo terzo, discepolo di Tertulliano, esercitò da giovane la professione di avvocato.

Dopo esser vissuto da gaudente, aderendo anche a pratiche di idolatria, nel 246, nella piena maturità, fu convertito dal prete Cecilie al Cristianesimo, a cui dedicò tutto se stesso.

Privatosi di gran parte del suo patrimonio per darlo ai poveri, divenne nel 248 vescovo della città natale, da cui preferì, due anni più tardi, allontanarsi, nel corso della persecuzione voluta da Decio, nell’interesse stesso dei suoi fedeli.

Ritornato a Cartagine, per alcuni anni riuscì ad esercitare il suo prezioso incarico ed a prestar soccorso ai malati durante la pestilenza diffusasi per la città, ma l’ottava persecuzione contro i Cristiani sotto Gallieno e Valeriane lo costrinse in un primo momento all’esilio, poi alla prigionia per un intero anno, prima di esser condannato alla decapitazione il 14 settembre del 258, martirio che seppe affrontare con grande fermezza, così come serenamente aveva trascorso la sua vita cristiana.

Della sua produzione sono pervenuti un epistolario e tredici trattati di cui i primi cinque con caratteristiche decisamente apologetiche, i restanti di contenuto morale ed ascetico:

Ad Donatum (246): l’autore narra la propria vita e la trasformazione operata in essa dalla conversione di un amico, Donato, che non interviene, né parla mai, pure quando Cipriano gli mostra, dall’alto di un montagna immaginaria, le aberrazioni del mondo pagano e la futilità dei beni terreni che gli uomini si ostinano a perseguire credendo di trovare in essi la felicità; un bene, questo, che esiste solo in Dio.

Ad Demetrianum (252): indirizzato al proconsole d’Africa («un pagano che latrava contro Dio»), in esso confuta, un secolo prima di S. Agostino, i pregiudizi che attribuiscono ai seguaci di Cristo i mali della società, mentre, egli afferma, questi sono punizioni celesti per le persecuzioni attuate dai pagani e per le colpe di cui si sono infangati.

Quod idola dii non sint (di attribuzione non concorde): «gli idoli non sono dei», dice Cipriano, nel condannare il politeismo pagano e nel dimostrare l’unicità del vero Dio.

– Ad Fortunatum de exhortatione martirii (257): un’esortazione ai fedeli ad affrontare con fermezza, in quegli anni che preannunciavano la persecuzione di Valeriane, il martirio.

– Ad Quirinum (248): in tre libri ricchi di passi biblici si dimostra la superiorità della legge di Cristo rispetto a quella degli Ebrei, si discute della sua divina natura, si evidenzia l’urgenza di una disciplina morale tra i Cristiani.

De habitu virginum (249): prendendo lo spunto da Tertulliano, Cipriano dedica questo «libellus» alle fanciulle consacrate alla fede ed al loro comportamento che deve essere ispirato a modestia e pudicizia.

De lapsis (251): nell’opuscolo il Cartaginese, contro i donatisti, convinti assertori di una necessaria condizione di perfezione morale negli appartenenti alla Chiesa, intercede per gli apóstati, per i lapsi, per i rinnegati, per quanti, cioè, a causa della persecuzione di Decio si erano allontanati dal Cristianesimo o non erano stati capaci di rimanere nella fede cristiana fino alla morte, e ne chiede la riammissione dopo una pubblica penitenza per l’errore commesso.

Si ricordi che i «lapsi» si erano macchiati di colpe infamanti: molti, dopo aver corrotto funzionari, si erano fatti addirittura rilasciare un certificato di sacrificio («libellus», e da qui l’altro loro nome di «libellatici»), né, al tempo di Cipriano, mancavano casi in cui, essi, pur chiedendo di essere riaccolti, avevano l’audacia di rifiutare di sottoporsi alla prova del loro pentimento.

– De catholicae Ecclesiae unitale (251): in cui, in seguito allo scisma di Novazia-no, vivamente deplorato, è affrontato il problema dell’unità della Chiesa ed esaltata la necessità di una sua continua ed intima coesione.

– De oratione dominica (251-252): sulle orme tertullianee, Cipriano commenta il Padre Nostro e da anche consigli su come il fedele si debba raccogliere nell’intimità per essere più vicino a Dio e rivolgersi a Lui.

De mortalitate (252-253): in esso l’autore consola e conforta i fedeli colpiti dalla grave pestilenza abbattutasi su Cartagine.

De opere et eleemosynis (253): Cipriano vi predica l’esercizio della carità verso i bisognosi: solo praticandola i fedeli potranno ottenere la remissione dei peccati commessi.

De botto patientiae (256): attingendo a Tertulliano ed immettendo nel «Sermo» numerosi esempi tratti dall’Antico Testamento, esalta la virtù della «pazienza».

– De zelo et livore (256-257): gelosia ed invidia sono mali da condannare e da evitare per i gravi danni che procurano a noi stessi ed alle persone che ci sono vicine.

l’epistolario: composto di ottantuno lettere, di cui sedici inviategli in risposta da altri, abbraccia l’ultimo decennio dell’attività di Cipriano e costituisce una preziosa documentazione per ricostruire la sua biografia, per comprendere l’importanza della sua attività pastorale, nonché quanto a lui debba la Chiesa, soprattutto quella africana.

XXXII – Al PRETI E AI DIACONI

Quando si è malati bisogna avere pazienza. Lottano contro il male quelli che soffrono, e cominciano a sperare salvezza quando la loro sopportazione ha superato il dolore. La cicatrice che un medico frettoloso ha chiuso troppo presto, è traditrice, e alla prima occasione si riaprirà, se non è il tempo che a poco a poco porta rimedio. La fiamma divampa subito in un vasto incendio se il fuoco non è stato spento fino all’ultima scintilla; e così questi uomini sappiano che fanno il loro stesso interesse aspettando, e il necessario ritardo porta la più fida medicina del tempo. Del resto non avrebbe senso che i confessori di Cristo si facessero rinchiudere dentro squallide carceri, se chi lo rinnega non rischiasse neppure come fedele. Perché farsi stringere in nome di Dio dalle catene di ferro, se non è allontanato dalla comunione con Dio chi ha rifiutato di confessarlo? E che senso avrebbe la loro morte gloriosa nel chiuso della prigione, se chi ha tradito non sente l’enormità delle sue colpe? (tr. Pampaloni)

Anche se un po’ fiorito, lo stile di Cipriano si rivela semplice e, dice il Di Lorenzo, «eloquente, dell’eloquenza cioè di chi si sforza di persuadere e non intende far ricorso a lenocinii formali».

UN CONTINUATORE TERTULLIANEO

Novaziano

Su posizioni di rigorismo intransigente nei confronti del problema dei «lapsi», cioè di coloro che avevano apostatato in occasione della persecuzione di Decio (250), si colloca quest’autore originario della Frigia, che finì per porsi in contrasto sia con quanto sostenuto da C. lascio Cipriano nel suo omonimo trattato («De lapsis»), sia con le posizioni ufficiali della Chiesa espresse dal pontefice Cornelio, la cui autorità venne dallo stesso Novaziano negata: da ciò la sua posizione di scismatico (con il movimento che da lui prese il nome di «Novazianismo») che gli costò prima la scomunica (251) e poi l’esilio, durante il regno di Valeriane (260).

Sotto il suo nome, oltre a due epistole a lui attribuite e contenute nell’epistolario7 dello stesso Cipriano, pervengono due opere: il «De Trinitate», anteriore allo scisma, concepito quale sintesi delle varie dottrine fino ad allora elaborate circa la teoria trinitaria e di chiara matrice tertullianea, ed il «De cibis iudaicis», uno scritto anti-ebraico, in cui si fa assertore dell’incapacità da parte di questo popolo di una rigida osservanza di quelle prescrizioni circa il cibo, che, peraltro, esso stesso si era imposto, fino a sostenere la necessità di interpretare allegoricamente tutti i passi relativi a tali proibizioni.

Le sue posizioni, anche se prive di misura, non mancarono di suscitare interesse, come testimonia il notevole numero di proseliti, specie nella parte orientale dell’Impero.

Arnobio

Nato a Sicca Veneria, in Numidia, nella prima metà del terzo secolo, nella città che gli diede i natali divenne, durante il principato di Diocleziano, maestro di scuola e retore.

In tarda età, intorno al 295, influenzato da un sogno, passò dal paganesimo ad un’intrasigente fede cristiana e, cinque anni più tardi, per dimostrare al vescovo di Sicca la sua sincerità, curò la pubblicazione della sua unica opera, un’apologia, che vide la luce, appunto, nel 300.

Più nulla sappiamo di Arnobio, la cui morte possiamo collocare solo ipoteticamente intorno al 327.

Come Minucio Felice, Arnobio è noto a noi moderni per l’unica opera pervenuta sotto il suo nome: «Adversus nationes», «Contro i pagani», in sette libri.

Dotato di un’approssimativa preparazione dottrinale, Arnobio risulta assai ben informato per quel che riguarda culti e miti del paganesimo (i libri III e IV forniscono copiose notizie sulla mitologia dei popoli non cristiani), ma la sua conoscenza della dottrina del Cristo si rivela quanto mai lacunosa e spesso anche errata, esponendo giudizi in parte contrari ai dogmi della Cristianità.

La struttura

Dopo aver, nei primi due libri, confutato l’accusa che i Cristiani fossero causa di sciagura nel mondo, si dedica nei restanti ad abbattere i culti pagani; a demolire, con un’ironia violenta e mordace, la presunzione degli adoratori degli idoli di essere gli unici depositari della verità; ad attestare, infine, la superiorità del Cristianesimo su ogni altro culto.

II, 78

Perciò, uomini, cessate di soffocare le vostre speranze con difficoltà inconsistenti e se qualcosa non quadra appieno col vostro giudizio, non dovete credere ai vostri ragionamenti più che a una realtà venerabile. Incalzano i tempi pieni di pericoli: pene mortali incombono: ricorriamo a Dio nostra salute e non cerchiamo il perché del dono che Egli offre. Quando si tratta della salvezza dell’anima e del rispetto per noi stessi, bisogna agire anche sconsideratamente: questo dice Epitteto, come Arriano riferisce e approva. Abbiamo dubbi, esitazioni e non sospettiamo invece che sia assolutamente certo quel che s’è detto.

Affidiamoci a Dio e non abbia maggior peso per noi l’incredulità nostra che la potenza del suo nome e della sua forza: se no, mentre cerchiamo da noi argomenti mediante i quali appaia falso quel che vogliamo sia falso e ci sforziamo di farlo vero, il giorno estremo può avvicinarsi di nascosto e noi trovarci nella stretta d’una morte sciagurata. (tr. Laurenti)

Lo stile

Pur elogiando l’estrema semplicità del linguaggio delle scritture, Arnobio si esprime in uno stile classicamente atteggiato, che cede però di tanto in tanto alle tentazioni della retorica declamatoria.

Cecilio Firmiano Lattanzio

«Retore apologista», insieme al precedente autore, Lattanzio, definito dagli umanisti il «Cicerone cristiano», nacque in Africa, forse a Cirta (altri, in passato, hanno spiegato il nome «Firmiano» facendolo nascere in Italia, a Fermo), verso il 250 ed esercitò anch’egli, dopo essere stato discepolo di Arnobio nella scuola da questi aperta a Sicca, l’attività di retore, insegnando, per incarico di Diocleziano (intorno al 290), a Nicomedia, in Bitinia; ma in quella città, rimasta greca, non avendo fortuna il latino, trovò pochi allievi e fu costretto a scrivere libri per vivere.

Convertitosi al Cristianesimo, a causa delle persecuzioni di Diocleziano e di Ga-lerio abbandonò sia la cattedra di retorica che la Bitinia, regione in cui fece ritorno solo nel 311 a seguito dell’editto di tolleranza.

In tarda età, nel 317, Costantino lo chiamò in Gallia come precettore di latino del figlio Crispo ed alla data anzidetta risalgono le ultime notizie che lo riguardano.

Gli scritti prima della conversione

«Grammaticus»: un opuscolo andato perduto.

«Hodoeporicum»: una raccolta di appunti, svolti in esametri e composti, durante il viaggio compiuto fino a Nicodemia, sulla falsariga dell’ «Iter» cesariano; perduta.

«Symposium»: non giunta fino a noi anche quest’opera giovanile, apprezzata da Diocleziano e considerata da alcuni un dialogo platonico, da altri solo una raccolta di enigmi in versi per rallegrare i banchetti.

Gli scritti dopo la conversione

– «De opificio Dei», «Sull’operato di Dio» (303-304): in questo trattato, dedicato a Demetrio, un suo discepolo, Lattanzio afferma il principio della mirabile unità del corpo umano sia nella sua finalità, sia nelle sue singole parti, in quanto Dio è il creatore del corpo e dell’anima (ciò in polemica con Arnobio, che giudica l’uomo l’essere peggiore del creato, incapace di raggiungere persine la verità). Esaltando l’impareggiabile dono della ragione, l’autore giunge alla conclusione che la vera filosofia è insita solo nella dottrina cristiana.

– «Divinae Institutiones» (304-313): in sette libri, quest’opera ( di cui ci è giunta un’epitome curata dall’autore) può essere considerata il capolavoro di Lattanzio.

La struttura

Nel primo libro («De falsa religione») vengono confutate le concezioni erronee del paganesimo, concezioni che sono, poi, esaminate, tentando di fornire una possibile spiegazione, nel corso del secondo libro («De origine erroris»).

Il terzo contiene una sintesi delle varie contraddizioni in cui sono incorse le numerose sette di ispirazione filosofica («De falsa religione»), mentre a partire dal quarto libro inizia la trattazione sistematica della dottrina cristiana, dapprima esposta nelle sue direttrici essenziali («De vera sapientia et religione»), per passare, poi, ai principi della morale e della virtù («De iustitia») nel quinto libro, ai doveri del Cristiano in relazione al culto («De vero cultu») nel sesto e, infine, nel settimo libro, con il «De vita beata», al gaudio della beatitudine.

Egli, in questo scritto di così vasto respiro, vuole riorganizzare la complessa materia della dottrina cristiana, ma essendo, come molti altri, un autore di origine e preparazione pagana (notevoli e numerosi sono gli influssi ciceroniani riscontrabili nell’opera), immette tale formazione di base nel Cristianesimo, cadendo nella contraddizione di non fare affermazioni sempre concordanti con il dogma della cristianità e, come Arnobio, dando l’impressione, a dirla con il Marchesi, «di aver avuto fretta ad entrare nel Cristianesimo con il bagaglio pagano».

Nelle «Institutiones» (già il titolo ci ricorda Quintiliano, ma sono presenti, oltre a Cicerone, anche tracce di Seneca e della letteratura greca) Lattanzio critica il politeismo pagano, ma lo fa sulla base della concezione razionalistica delle divinità di Èvemero (gli dei non sono altro che uomini divinizzati per particolari meriti o figli di angeli decaduti e donne mortali), afferma la sapienza divina e, infine, conclude l’ultimo libro esponendo la teoria millenaristica secondo la quale, alla fine del mondo, vi sarà un breve regno dell’Anticristo e, poi, il regno millenario di Cristo che darà luogo all’eliminazione dell’avversario, alla resurrezione dei corpi e, quindi, al giudizio universale.

«De ira dei» (313): composto contro gli Epicurei «qui deum faciunt immobilem», in esso l’autore riprende un argomento tradizionale dell’eresia gnostica, il diteismo, ovvero l’esistenza di due divinità: una del Bene, l’altra del Male.

Polemico anche con Arnobio, fermo sostenitore dell’impassibilità divina, Lattanzio propugna il concetto del Dio irato, tipico dell’Antico Testamento, perché un Dio che punisce i peccatori è da stimolo al giusto perché continui a vivere rettamente, mentre un Dio impassibile, che non premia né punisce, consente che il buono, non vedendo punito il malvagio, abbandoni anch’egli la retta via.

Anche in quest’opera la preparazione cristiana dell’autore è messa a dura prova e vacilla quando si afferma che l’ira di Dio non può non colpire il peccatore inespiabile, dimentico, forse, che la vera concezione cristiana consente a tutti il pentimento, anche «in extremis».

«De mortibus persecutorum» (318-321): nell’opera, di notevole importanza polemico-storica per essere stata composta dopo l’editto di Milano e prima della lotta di Costantino contro Licinio, Lattanzio, si rivolge all’amico Donato e, essendosi ormai concluse le persecuzioni, passa in rassegna le morti dei maggiori oppositori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Galerio, Diocleziano, Massimino Daia), deceduti tutti di morte violenta perché colpiti dall’ira divina, che si abbatte contro i persecutori dei giusti.

2,1-2

Quando già regnava Nerone, Pietro venne a Roma e, compiendo parecchi miracoli, per la facoltà che era stata data a lui dalla potenza di Dio stesso, con-vertì molti alla causa della giustizia ed elevò a Dio un tempio sicuro e incrollabile.

Essendo stato riferito ciò a Nerone, accorgendosi egli che non solo a Roma, ma dappertutto ogni giorno una folla immensa si allontanava dal culto degli idoli e, sprezzando l’antica, passava alla nuova religione, da tiranno esecrabile e funesto qual era, si diede furiosamente ad abbattere il tempio celeste e a sterminare la giustizia; e, perseguitando, primo fra tutti, i servi del Signore, appese a una croce Pietro e fece morire Paolo. Ciò non avvenne però impunemente. Che Dio considerò le sofferenze del proprio popolo. Infatti, cacciato dal fastigio del supremo comando e rovesciato da tanta altezza, quello sfrenato tiranno improvvisamente disparve, e non si potè nemmeno conoscere in qual luogo della terra fosse sepolta quella mala bestia. (tr. Rusca)

– «Carmen de ave phoenice» (attribuitogli da Gregorio di Tours, dai codici Veronensis e Vossianus e da alcuni autori dell’Alto Medioevo, ma considerato di Venanzio Fortunato dal Parisinus): il poemetto, formato da ottantacinque distici elegiaci, non è databile, né tragga in inganno il titolo pagano (il mito dell’uccello destinato a vivere più di cinquecento anni e, una volta morto, a rinascere dalle sue stesse ceneri lo leggiamo anche in Seneca, Ovidio ed in Tacito), in quanto in esso è simboleggiata allegoricamente la resurrezione dei corpi.

Lo stile

Lontano dalla passionalità veemente di Tertulliano e dall’oscura ironia di Arnobio, Lattanzio, pur non eccellendo per originalità di contenuti, evidenzia uno stile armonioso, attento alle eleganze formali, di stampo ciceroniano, con la finalità di farne strumento di propaganda cristiana.

LA POESIA CRISTIANA

Decimo Magno Ausonio

Nacque a Burdigala, l’odierna Bordeaux, agli inizi del quarto secolo da genitori pagani che, dopo avergli dato la prima educazione, lo mandarono a Tolosa, dallo zio materno, perché perfezionasse i suoi studi.

Ritornato nella città natale, si segnalò per la sua cultura ed ottenne la cattedra di retorica che mantenne per circa trenta anni fino al 365, quando Valentiniano gli affidò a Treviri l’educazione del figlio Graziano.

L’imperatore, comunque, lo volle accanto a sé anche nella spedizione contro gli Alamanni del 368, né fu parco di riconoscimenti nei suoi confronti attribuendogli cariche che Ausonio continuò a ricoprire pure sotto Graziano, il quale lo rese questore di Gallia, Libia, Lazio ed Illirico, associandogli il figlio Esperio.

Eletto console nel 379, successivamente alla morte di Graziano (383) si ritirò a Bordeaux dove visse gli ultimi anni della sua vita spegnendosi, dopo una conversione al Cristianesimo poco sentita, alla fine del secolo.

La produzione minore

Epigrammata: oltre un centinaio, in distici elegiaci, molti tradotti dall’Antologia Palatina.

Epistulae: venticinque, in prosa od in versi di metri vari, con una prefazione in prosa; interessanti le tre inviate a Paolino, il futuro vescovo di Noia, alunno di Ausonio.

– Ephemeris, id est totius diei negotium (composto in anni diversi): il carme, poli-metrico e giunto a noi lacunoso, tratta delle varie occupazioni della giornata dall’alba al tramonto.

Parentalia: trenta epigrammi in metro elegiaco dedicati al ricordo dei parenti scomparsi; fine e sentito l’«Epitymbion» in cui piange, disperato, l’immatura morte della moglie.

Orda nobilium urbium: la descrizione, in centosessantotto esametri, di venti illustri città, aperta da Roma e chiusa da Burdigala, la patria del poeta.

Versus Paschales: l’unica sua opera di ispirazione non pagana.

Orationes: due; una di ottantacinque esametri, l’altra di quarantadue versi.

Eclogarum liber: in esso tratta, in esametri e in distici elegiaci, dei mesi, delle feste e di altri aspetti della vita romana.

Periochae: riassunti in prosa di tutti i libri dell’Iliade e dell’Odissea preceduti da un’introduzione.

Cento Nuptialis (368 d.C.): epitalamio, composto in gara con Valentiniano e dedicato all’amico Paolo, fatto di interi versi virgiliani abilmente messi insieme.

Bissula (368): la raccolta di carmi, così chiamata dal nome della graziosa schiava portata al seguito dopo la spedizione contro gli Alamanni, evidenzia il tenero e delicato affetto provato da Ausonio per la fanciulla, espresso con reminescenze catulliane.

Protrepticon: dedicato al nipote, è pieno di suggerimenti e consigli sulle letture più adatte ad un giovane.

Il suo capolavoro: «Mosella»

II poemetto, composto di quattrocentottantatré esametri, descrive, con graziosa vivacità, il corso della Mosella ed il viaggio compiuto dall’autore lungo le rive di quel fiume, da Bingen a Treviri, per accompagnare Valentiniano e Graziano nella spedizione contro i Germani del 368.

La descrizione del paesaggio [I] e dei vari spettacoli offerti dalla vita di tutti i giorni è amplificata dalla gioia del poeta di trovarsi nella città divenuta residenza dell’imperatore e centro molto fiorente. Ausonio esalta, poi, la bellezza e la floridezza di quella sponda, già da tempo resa civile dai Romani, in contrapposizione all’altra, desolata e selvaggia, volta verso la Germania.

vv. 469-483

O Mosella, dalla cornigera fronte, tu devi essere celebrata in regioni straniere, e non esaltata soltanto in quei luoghi dove, uscendo dalla tua alta sorgente, drizzi l’aureo onore della tua fronte taurina, e nelle regioni nelle quali tu, pacifica, scorri sinuosa attraverso i campi, o dove, sotto i porti germanici, apri la tua foce. Così, se qualche soffio di gloria si degnerà di ispirare la mia umile Musa, se qualche lettore non giudicherà cosa indegna occupare i suoi ozi nella lettura dei miei versi, tu andrai sulla bocca degli uomini e sarai onorata del mio canto glorioso. Sarai conosciuta dalle fonti, dai bacini d’acqua viva; lo sarai dai fiumi azzurri, dalle sacre antiche selve, orgoglio delle campagne; riceverai gli omaggi della Drome, quelli della Durance, che ha incerto il corso tra rive instabili, quelli dei torrenti alpestri, quelli del Rodano che attraversa Arles, la duplice città, e da il suo nome alla riva destra: ti raccomanderò ai laghi cerulei, ai fiumi scroscianti, alla Garonna, ampia come il mare. (tr. Pastorino)

La frequente rievocazione mitologica, l’avvertirsi in essa di lontani echi di Virgilio, di Ovidio, non diminuiscono il pregio di quest’opera, né ridimensionano la «modernità» dell’autore, dettata dal proposito di voler innalzare un inno alla natura, mediante un realismo non statico, ma vivo, mosso; non in penombra, ma pregno di colore; con la nota dominante di un azzurro che dal blu delle acque della Mosella si stempera nel celeste dei cieli attraverso la variegata difformità delle terre.

Lo stile

Vari e discordanti i giudizi espressi su Ausonio. Il Riposati nota che «…il maestro di retorica è presente, purtroppo, dovunque. Solo quando il momento patetico lo prende, la retorica cede il posto al sentimento, e le immagini acquistano morbidezza di contorni umani, come in qualche spunto della “Mosella”‘. Cesellatore del minuto e del ricercato, conosce tutte le risorse di un linguaggio plastico ed espressivo, affinato dalla lettura dei classici e dall’esercizio dell’insegnamento». Non è dello stesso parere il Pastorino, il quale, invece, accogliendo con cautela anche il giudizio del Delachaux, specie quando questi nota «una certa preoccupazione di misura e di equilibrio» nell’autore, afferma che «agile e vario è il suo stile, secondo il genere trattato. Se è facile muovere ad Ausonio accuse di prolissità, di pedanteria, di aridità, si deve pur riconoscere che lo stile ne è esente, nella maniera almeno con cui si può separare la forma dall’idea. Anche quando esprime pensieri estranei alla poesia sa dire le cose in modo chiaro e preciso, sa essere pittorico e colorito, spesso elegante, sa esprimere con grazia ogni argomento, sia esso grave o scherzoso, sia semplicemente narrativo o vicino al lirismo».

Claudio Claudiano

Nacque, forse, ad Alessandria d’Egitto o a Canopo, città poco distante dalla stessa Alessandria.

Giovanni Lido lo definisce «Paflagone», ma non nel senso che fosse della Paflago-nia, quanto, invece, nell’accezione dispregiativa del termine, cioè di «chiacchierone».

Trascorse la sua giovinezza nella città natale, dove dai classici apprese la lingua latina, non tralasciando di poetare anche in lingua greca («Epigrammata»).

Venne a Roma quando salì al trono Onorio (395) e godette, ben presto, dell’amicizia di questo e di Stilicone, il generale di origine vandalica al servizio dell’impero romano d’Occidente, di cui celebrò i successi.

Fruì di larga fama e di attestazioni onorifiche, come ci testimonia una statua eretta in suo onore nel Foro di Traiano e sul cui piedistallo era incisa un’epigrafe (scoperta dal Leto nel 1493) che attestava come nel poeta rivivessero «l’anima di Virgilio e lo spirito di Omero».

Non abbiamo più sue notizie oltre l’anno 404, anche se taluni ritengono che la data sia da spostare al 408, anno in cui fu coinvolto nella rovina di Stilicene, fatto uccidere da Onorio stesso, o in cui si ritirò a vita privata, chiudendo i suoi giorni prima del sacco di Roma ad opera dei Visigoti (410).

La produzione di colui che è unanimemente considerato il maggior poeta della decadenza è molto vasta, con una certa predilezione per il genere epico, a giudicare dai frammenti in esametri.

Il «corpus» epico

Appartengono a tale genere:

– il «De bello Gildonico» (398) in cui celebra, in cinquecentoventisei esametri (ma l’opera ci è giunta incompleta), la vittoria di Stilicone su Gildone, capo dei Mori e ribelle della Mauritania, soffermandosi più sui preparativi che non sulla guerra stessa;

– il «De bello Gothico» o «De bello Pollentino» (402), celebrazione in seicentoqua-rantotto esametri della vittoria di Stilicone su Alarico, re dei Goti, a Pollenza e Verona;

– la «Laus Stilichonis», in tre libri incompiuti, a carattere chiaramente encomiastico.

Le invettive

Gli amici di Stilicene sono suoi amici, mentre con gli avversari di questo non conosce mezze misure, come dimostrano le due invettive in esametri:

«In Rufinum», in due libri;

«In Eutropium», in due libri anch’essa.

Il primo fu prefetto del pretorio di Arcadie, il secondo un ministro di quest’ultimo, subentrato allo stesso Rufino ed accomunato dalla profonda avversione ed ostilità nei riguardi di Stilicone.

Gli epitalami

Claudiano fu anche autore di epitalami, come quello composto in celebrazione delle nozze di Maria, figlia di Stilicone, con Onorio («Epithalamium de nuptiis Honorii et Marìae» del 398), e, sempre quale indiretto omaggio al suo amico, lodò virtù e bellezza della moglie di questo in una «Laus Serenae» ed in un’«Epistula ad Serenam».

Le altre opere

Compose anche «Fescennini» alla maniera antica, in metro vario, «Epigrammata» ed «Idyllia», mentre tutte le altre opere sono, invece, in esametri dattilici.

La sua fede incrollabile in Roma, la sua avversione al Cristianesimo e, di conseguenza, il suo convinto paganesimo («paganus pervicacissimus» lo definirà Orosio), lo portano a non accorgersi che i tempi sono ormai profondamente mutati in quanto proprio il caso di Stilicone dimostrava che Roma, l’Urbe, per difendersi dai barbari doveva sempre più far ricorso a generali stranieri.

Proprio la volontà di far rivivere il passato glorioso lo porta all’epica, che vuole risuscitare specie nei suoi contenuti mitici, come attesta, oltre alla «Gigantomachia», di cui non è possibile, data l’esiguità degli esametri pervenuti (solo centoventotto), precisare l’argomento, il …

«De raptu Proserpinae»

II poema, pervenuto incompiuto (di esso possediamo, infatti, solo tre libri ed i proemi a ciascun libro in distici elegiaci), è datato tra il 395 ed il 398.

Evidenti, oltre alle reminiscenze ovidiane, soprattutto gli influssi orfici e dei miti di Iside ed Osiride, innestati su quello relativo al ratto di Proserpina, narrando il quale l’autore mostra di voler fondere l’antica leggenda olimpica e le religioni misteriche che resistevano al Cristianesimo.

Un passatista

Un passatista, dunque, Claudiano e, nel contempo, un poeta cortigiano, eppure sincero nei suoi sentimenti quando fa rivivere il poema epico o i fasti del consolato o celebra la gloria di Stilicone; un poeta armonioso e vivace, ma che non mostra di meritare del tutto gli elogi incondizionati e sproporzionati degli antichi. La sua poesia si rivela comunque il più interessante documento della morente letteratura pagana.

Lo stile

II suo latino è quello appreso sui testi classici ed in tutte le sue opere sono chiaramente visibili gli influssi di Grazio, Ovidio e Virgilio tra i poeti, di Cicerone tra i prosatori.

Il tono risulta troppo enfatico, talvolta declamatorio, ma non per artificiosità, in quanto il suo entusiasmo per la grande tradizione di Roma è genuino e spontaneo.

Claudio Rutilio Namaziano

Nacque in Gallia, a Tolosa o a Poitiers, verso la fine del quarto secolo, figlio di un alto funzionario; trasferitosi a Roma, esercitò la magistratura, raggiungendo la carica di «magister officiorum» nel 412 e di «praefectus urbi» nel 414.

Tre anni più tardi fece ritorno definitivamente in patria, nella Gallia devastata dai Goti di Ataulfo, per rimettere in ordine le sue proprietà.

Più nulla di preciso si conosce della sua vita.

Il «De reditu suo»

Abbiamo l’unica sua opera, per di più incompiuta (si interrompe al sessantottesimo verso del secondo libro): il poemetto in distici elegiaci «De reditu suo», che, elaborato durante il tragitto per mare, descrive le vicende del viaggio e le impressioni provate alla vista ed al ricordo di luoghi famosi e di persone care, dalla foce del Tevere a Luni.

La struttura

II poemetto, che non vuoi essere un giornale di viaggio, ma ha chiare pretese letterarie, dopo l’iniziale esaltazione di Roma (un vero e proprio commosso saluto del poeta alla Città, ancora «eterna» nonostante il suo non lontano saccheggio da parte di Alarico), una Roma che mai più Namaziano rivedrà, descrive con ricchezza di immagini la varie tappe lungo la costa tirrenica e le città toccate: Civitavecchia, le foci dell’Ombrone, Faleria, Populonia, il porto mercantile e militare di Pisa.

Proprio qui è costretto a fermarsi per più di un mese, ma, una volta salpato, il successivo scalo è a «Portus Lunae», l’odierna La Spezia, dove l’opera bruscamente si interrompe.

Un amante del passato

Rutilio rappresenta l’ultimo amante della cultura del passato, l’ultima voce poetica del paganesimo, e la sua insofferenza sincera e spontanea (come i baci d’addio impressi «reliquendis portis» dell’Urbe, in I 43-44) per il declino della Romanità genera spesso commozione, così come sentito è il suo astio per quanti attentano all’ormai cadente religione pagana, siano essi altri popoli o la razza giudaica «fonte di stoltezza» (I, 389) o il Cristianesimo «deterior Circaeis seda venenis» (I, 525) con la vita ascetica dei suoi monaci che «soli nulla vivere teste volunt» (I, 442).

Publio Optaziano Porfirio

Autore di brevi componimenti indirizzati all’imperatore Costantino (al quale dedicò pure un «Pa-negyricus Constantini»), indulse in questi alla ripresa di virtuosismi tipici della produzione ellenistica («technopaegnia»), dando luogo a ventisette carmi detti «figurati», in grado, cioè, di riprodurre attraverso la lunghezza dei versi la figura degli oggetti rappresentati o caratterizzati dall’artificiosa esclusione di determinati vocaboli, a dimostrazione dell’assenza di una verace ispirazione, per cui la sua poesia si riduce ad un elaborato e lambiccato gioco letterario.

Rufio Festo Avieno

Al genere didascalico può essere ricondotto questo scrittore originario di Bolsena, ma ben presto trasferitosi a Roma, prodigo di numerose notizie autobiografiche da cui apprendiamo la sua felice condizione di marito e padre e la carica di proconsole ricoperta due volte, la prima in Acaia nel 372.

Mediocre, senza grandi aspirazioni, volle, pur senza averne le qualità, scrivere versi ad ogni costo, si cimentò in un riassunto dell’opera liviana e del poema virgiliano in senari giambici, in un rifacimento in esametri dei «Phaenomena» di Arato di Soli, massimo esponente del poema scientifico-didascalico di età ellenistica, anche se, va notato, si curò di integrarla con notizie e dati più attendibili.

Scrisse poi una «Descriptio orbis terrae» in versi esametri attingendo a fonti greche ed un «De ora maritima» (ci è pervenuto, peraltro lacunoso, solo il primo libro) concepito quale descrizione delle coste dell’impero, per la cui elaborazione si avvalse dell’apporto di varie fonti.

Rifacimenti, dunque, ma mai sprazzi di vera poesia; una tecnica raffinata, ma versi freddi, mai riscaldati dal calore di una verace ispirazione: elementi questi che contribuiscono a fare di Avieno un onesto versificatore, privo delle qualità di un vero poeta.

LA PROSA PAGANA

Ammiano Marcellino

Nacque nel 332 o nel 335 ad Antiochia in Siria da nobile famiglia pagana e, dopo i primi anni dedicati ad approfondire la propria cultura, prestò il servizio militare tra i «protectores domestici» di Costanze.

Nel 353 venne aggregato al maestro di cavalleria Ursicino che Ammiano seguì sia in Gallia, nel 355, per domare la rivolta di Silvano, sia, nel 359, in Oriente e lì, partecipando all’assedio della città di Amida nel corso della campagna persiana, poco mancò che ci rimettesse la vita.

Una volta congedato Ursicino, anche Ammiano scomparve per alcuni anni dalla scena politica, almeno fino al 363, anno in cui fu al seguito dell’imperatore Giuliano, che egli aveva già conosciuto nel 356 a Reims, nella seconda spedizione persiana.

Morto Giuliano e concluso il conflitto con i Persiani con una pace concordata da Gioviano, abbandonò definitivamente la vita militare dedicandosi a frequenti viaggi, specie in Egitto ed in Grecia, per ritirarsi prima ad Antiochia, poi a Roma, dove cercò di perfezionare il latino appreso dai classici e dove la morte lo colse agli albori del quinto secolo.

La produzione letteraria di Ammiano si limita ad un’unica opera storica, redatta a Roma negli ultimi anni di vita:

Il «Rerum gestarum libri XXXI»

che, appunto riporta, nei trentuno libri editi a mano a mano che venivano terminati (nel 392 pubblicò i ll. I-XXV, cinque anni più tardi i restanti), gli avvenimenti dal 96 d.C. (morte di Domiziano) al 378 (anno in cui Valente trovò la morte nella battaglia di Adrianopoli), ma di essi ci sono pervenuti i soli ll. XIV-XXXI riguardanti gli anni che vanno dal 354 (nomina a Cesare di Giuliano) al 378.

La parte restante è tutta incentrata sulla figura di Giuliano l’Apòstata.

La struttura

L’opera, generalmente, suole essere divisa in tre parti:

– I: ll.1-XIII; andati perduti, che avrebbero dovuto riguardare gli anni dal 96 al 353 (morte di Gallo);

– II: ll. XIV-XXV; che includono il decennio dal 354 al 364 (morte di Gioviano);

– Ili: ll. XXVI-XXXI; con gli avvenimenti dal 364 al 378.

Ammiano e Tacito

Marcellino si propone di continuare le storie di Tacito e per questo inizia la sua opera dall’impero di Nerva, ma, in pratica, la parte precedente alla sua età lo interessa poco, tanto è vero che in soli tredici libri espone la storia di duecentocinquan-tasette anni, mentre impiega ben diciotto libri per illustrare i venticinque anni di cui è stato diretto testimone.

A paragone di Tacito, Ammiano mostra una maggiore conoscenza dell’arte militare (non si dimentichino i precedenti bellici di tutto rilievo dell’autore), più veridicità nel delineare i caratteri di imperatori e Cesari, che egli considera i veri «Auctores» della storia (e straordinario interesse presentano ritratti degli imperatori a lui vicini nelle simpatie, come Giuliano4, o nelle antipatie, come Costanze5, comunque noti all’Autore). La sua attenzione spazia, infine, su tutto l’impero, e non è limitata solo a Roma.

XXX, 9, 2-3

[Valentiniano] si mantenne puro nell’osservanza della pudicizia sia in casa che fuori, né si macchiò del contagio di alcuna oscenità e dissolutezza. Per questa ragione frenò, quasi con le briglie, la petulanza della corte ed in ciò riuscì facilmente poiché non dimostrò alcuna indulgenza nei confronti dei suoi parenti, che teneva da parte senza alcun onore o al massimo insigniva di modeste cariche, fatta eccezione del fratello, che, costretto dalle difficoltà della situazione, assunse come collega del potere imperiale. Scrupoloso nell’affidare le alte cariche dello Stato, sotto il suo impero né un cambiavalute resse una provincia, né gli affari pubblici furono venduti, tranne che all’inizio dell’impero, allorché di solito vengono commessi impunemente alcuni delitti fidandosi nella poca attenzione del nuovo sovrano. (tr. Selem)

La sua obiettività

Nonostante Ammiano sia stato parte in causa negli avvenimenti che riporta, si dimostra in genere obiettivo ed imparziale (afferma di «non aver osato corrompere la verità né con il silenzio, né con le bugie»), così come dal punto di vista religioso, pur essendo chiaramente pagano, non si rivela anti-cristiano (e di questo suo comportamento fa fede l’indagine, la minuta ricerca che conduce e che si basa non solo su scritti di parte senatoriale, ma anche su testimonianze di funzionari civili).

Anche di Giuliano, pur mettendone in luce le qualità, traccia un ritratto abbastanza obiettivo, senza tacerne i difetti.

Le fonti

A tal proposito vai bene ricordare che, molto probabilmente, almeno dal 353 in poi, per comporre il nucleo fondamentale della sua storia Ammiano ebbe come fonti i suoi appunti personali, ampliati da testimonianze orali.

Il destino

«Vivissimo senso», leggiamo in un saggio del Cupaiuolo, «egli ha, come già Tacito, dell’ideale di “libertas”: pertanto l’uomo è al centro del suo pensiero di storico. E come Tacito, ha una visione pessimistica della storia. Ma è un pagano, anche se forse ammette, talvolta, pure un dio unico, eterno, celeste: crede all’intervento degli dei nelle vicende umane, crede ai vaticini, ai prodigi. Benché talvolta, oltre ad ammettere l’intervento degli dei riconosca l’opera del caso, egli accorda un ruolo primario a cause sovrannaturali come “fatum”, “fors”, “fortuna”. La “Fortuna” di Ammiano è senza alcun dubbio la “tyche” ellenistica, capricciosa, imprevedibile, spesso ostile; essa è “mutabilis et inconstans”, “versabilis”, cieca; essa guida i casi degli uomini».

La decadenza dei costumi

Casi, soprattutto quelli dei suoi contemporanei, che egli giudica in preda alla corruzione ed al vizio, se in più parti vi si scaglia contro rimpiangendo la moralità, le istituzioni dell’antica Roma e ricordando con ammirazione figure del lontano passato repubblicano, come Catone, Regolo, Fabrizio.

La sua religiosità

«Ammiano», nota il Selem, «non si pronunzia né a favore né contro i riti pagani ed in un sol punto dell’opera si presenta come partecipe al culto degli antichi dei.

Critica la mania dei sacrifici cruenti di Giuliano, per cui si è ritenuto che questo suo atteggiamento religioso fosse determinato dalla filosofia di Porfirio. A questa ci riportano le interpretazioni razionalistiche dei miti e le ipostasi divine. Ammiano crede alla magia, all’astrologia ed alle varie forme di divinazione, che egli considera una scienza obiettiva, e menziona a questo riguardo i libri Tagetici, Vegonici e Tarquiziani, ma, di fronte al Cristianesimo, non segue la tattica del silenzio, usata da altri, ma ne parla in più punti nell’opera esprimendo giudizi apparentemente lusinghieri sulla nuova religione».

I rapporti col cristianesimo

Ammiano, continuiamo noi, non solo rende omaggio alla fermezza dei martiri, ma si duole che Costanze intenda per senile superstizione una religione, quella cristiana, «absoluta et simplex», o che l’imperatore Giuliano si ostini a ripristinare il cul-to delle divinità pagane, del cui declino inesorabile lo storico ha piena e lucida conoscenza.

Nel giudicare senza remore uomini e cose, egli non esita a biasimare Giorgio, vescovo di Alessandria, per aver dimenticato i doveri del suo ministero, o, dopo aver raccontato fatti e misfatti della lotta tra Damaso ed Ursino per il vescovato di Roma, non si fa meraviglia di tanta cruenta ostinazione per la sicurezza di accumulare beni che la carica, una volta acquisita, avrebbe comportato.

«Il suo atteggiamento», conclude il Selem, «è, quindi, quello prudente di un pagano che, di fronte alla potenza politica che vieppiù va assumendo il Cristianesimo, si sforza di apparire obiettivo, riconoscendo in astratto la perfezione della nuova religione, alla cui altezza non ritiene che i suoi seguaci siano capaci di sollevarsi».

Lo stile

II suo latino, forse perché la sua madrelingua era il greco, è artificioso, a volte appesantito da una forma ampollosa e da un periodare sonoro, che sono i difetti più ricorrenti delle correnti retoriche del tempo; ma, nonostante ciò, l’imprevedibilità delle sue soluzioni sintattiche, la disinvoltura lessicale, il frequente uso di volgarismi, gli assicurano una forte carica espressiva, frutto di un «impasto linguistico… di incomparabile originalità» (Monaco).

Quinto Aurelio Simmaco

Nato da nobile famiglia romana verso il 340, ricoprì, come già il padre L. Aurelio, alte cariche, essendo stato, come leggiamo in un’iscrizione fatta incidere dal figlio Memmio, questore, pretore, pontefice, «corrector» della Lucania e dei Bruzzi (365), proconsole in Africa (373), «praefectus urbi» (384) e console (391).

Negli ultimi anni del secolo è da collocare la morte, forse dovuta ad una malattia che lo colse durante un viaggio di ritorno a Roma da Milano.

Simmaco rappresenta l’ultimo sprazzo di luce dell’eloquenza romana prima della sua completa estinzione. Della sua produzione abbiamo:

Le orazioni

Otto, di cui quattro con valore di panegirici in lode di Valentiniano II e del giovane Graziano, tenute in Gallia negli anni compresi tra il 367 ed il 370, ed altre quattro pronunziate in Senato; ma, dato il suo «cursus honorum», deve averne composte altre non giunte fino a noi.

L’epistolario

Composto di circa novecento lettere, si modella sull’«Ad familiares» ciceroniano, tanto è vero che i primi nove libri contengono la corrispondenza privata, e di essi i libri da uno a sette sono ordinati per destinatari, mentre il libro decimo riporta quella pubblica, ma, essendo formato da sole due lettere, si è pensato che quest’ultimo libro venisse completato dalle «Relationes», poi edite a parte.

L’intero epistolario, comunque, venne pubblicato postumo dal figlio Memmio tra il 403 ed il 408.

«Le lettere private», dice il Rostagni, «sono generalmente vuote, come se intorno a chi scrive non vi fosse quel mondo in agitazione, né i barbari battessero alle porte, né la lotta fosse impegnata tra paganesimo e Cristianesimo. Non toccano quasi mai argomenti di qualche significazione, né danno libero sfogo alla voce del cuore; si limitano ad un garbato chiacchiericcio mondano fatto di saluti, di condoglianze, di raccomandazioni, o, al più, di cronaca spicciola».

Le «relationes»

Quarantanove; riportate sotto forma di lettera, tenute agli imperatori nel 384-385 e, abbiamo visto, raccolte a formare il libro decimo dell’epistolario, assumono grande importanza in quanto testimonianza di un ambiente, quello di corte, e di una mentalità, quella pagana, ormai in piena crisi.

Di esse famosa è la terza che, qualificata come un’«accorata apologia del paganesimo», contiene la relazione di Simmaco, prefetto di Roma, a Valentiniano II sulla questione sorta per l’ara della Vittoria, che era stata da Graziano, per un riguardo ai Cristiani, tolta dalla sala delle adunanze del Senato.

Per la ferma opposizione di S. Ambrogio, la richiesta di Simmaco che fosse rimessa nella curia l’ara con la statua non ebbe l’effetto che egli desiderava nell’interesse dell’antico culto, al cui abbandono attribuiva tutte le disgrazie dell’impero romano.

Sesto Aurelio Vittore

Due dati solamente emergono con certezza dalla vita di questo autore: la carica di governatore della Pannonia e quella di «praefectus urbi» ricoperta nel 389.

La tradizione, d’altronde, appare molto avara di notizie anche per la sua produzione letteraria riportando, quale unico dato, la composizione, databile ali’incirca nel 350, di un’opera storica intitolata «Caesares» o «Liber de Caesaribus».

Contrariamente a quanto il titolo indurrebbe a credere, non si tratta di una raccolta di biografie (genere, peraltro, come abbiamo notato, tanto in voga a quei tempi), quanto di un’epitome che, sia pure con molta rapidità, traccia una storia dei fatti succedutisi dall’età di Augusto fino all’epoca di Costantino.

Pur nella povertà dei mezzi stilistici, non si può disconoscere allo scrittore una profonda perizia nell’uso dei documenti e delle fonti di cui si avvale e, tra queste, in particolare, dell’opera di Sallustio che, sia pure molto alla lontana, mostra di voler imitare.

È possibile, inoltre, cogliere in Vittore, che pur di umili natali giunse a ricoprire rilevanti incarichi nell’apparato imperiale, una sentita adesione alle posizioni filo-senatoriali, specie per quanto riguarda la «crociata» intrapresa per la restaurazione dei più profondi e genuini valori della «classicità» e, dunque, di un glorioso passato.

Proprio al Senato, l’organismo politico che fu simbolo della grandezza di Roma, egli si sente vicino, se non per origini, certo per comunanza di posizioni, come dimostra nel condividere apertamente l’ostilità senatoria verso l’elemento militare che, in quanto sempre più costituito da estranei al passato sia politico che culturale dell’Urbe, vedeva nella classe senatoriale solo un ingombrante residuo del passato.

Eutropio

Non ne conosciamo la patria, anche se il suo amore e la sconfinata ammirazione per la grandezza dell’Urbe indurrebbero a ritenerlo romano.

Segretario di Costantino e compagno di Giuliano nella spedizione contro i Persiani del 363, attenendosi a Livio, a Svetonio, agli scrittori della Storia Augusta e ad altri perduti, compose verso il 370, per volontà dell’imperatore Valente, di cui fu anche «magister memoriae», il «Breviarium ab urbe condita» in dieci libri, in cui narra sinteticamente la storia di Roma dalla fondazione della città alla morte di Gioviano nel 364.

Le notizie del Breviario non si trovano sempre disposte nell’ordine cronologico dichiarato nella dedica a Valente, ma, in compenso, presentano giudizi quasi sempre imparziali (Giuliano, ad esempio, è descritto quale «religionis christianae insectator, perinde tamen ut cruore abstineret» [X, 7, 15]) e risultano scritte in uno stile chiaro e facile, scorrevole, che tradisce la sua finalità eminentemente pratica: allestire, cioè, un manuale ad uso dell’imperatore e degli alti funzionari di corte.

Il compendio, adoperato come libro di testo nelle scuole per l’estrema semplicità dello stile e tradotto anche in greco nel 380, fu continuato da Paolo Diacono fino all’impero di Giustiniano.

Rufio Festo

Autore di un «Breviarium» commissionatogli da Valente stesso, visse e si formò nell’ambiente di corte ricoprendo, come il precedente epitomatore, la carica di «magister memoriae».

Nell’opera, composta all’inarca nello stesso periodo in cui Eutropio elaborava la sua, predominano interessi di tipo geografico (specie nella parte relativa all’acquisizione delle province all’impero), e, solo in un secondo momento, interessi più chiaramente di tipo storico (relativamente alle guerre sostenute in Oriente).

LA POESIA CRISTIANA

Aurelio Clemente Prudenzio

Nella Spagna Tarragonese, a Calagurris, città che già aveva dato i natali a Quintiliano, nacque nel 348 Prudenzio da una distinta famiglia cristiana.

La valida educazione giuridica ricevuta gli consentì, sì, di esercitare l’avvocatura, ma, soprattutto, di intraprendere una brillante carriera politica che gli permise di ottenere per due volte la reggenza di alcune province spagnole, nonché di raggiungere le più alte cariche sotto l’imperatore Teodosio.

Nel 400, però, in preda ad una profonda crisi religiosa, abbandonò ogni carica ricevuta e si accinse, dopo un pellegrinaggio compiuto a Roma nel 402 o nel 403 per rinsaldare la vena poetica, a prepararsi alla morte cristiana nell’esaltazione della gloria di Dio e dei martiri per il tramite di una poesia sentita e che, a ragione, farà parlare di lui come dell’«Grazio cristiano».

Morì non prima del 405, anno in cui pubblicò il «corpus» delle sue opere.

La sua produzione poetica segue due tendenze: l’una prettamente apologetica, l’altra soprattutto lirico-didattica.

Le opere apologetiche

– «Contra Symmachum»: l’unica opera con il titolo in lingua latina (gli altri sono in greco) si presenta in due libri, di cui nel primo, formato da seicentocinquanta-sette esametri e preceduto da una prefazione, l’autore condanna il paganesimo ed il culto politeistico, mentre nel secondo di millecentotrentadue versi che seguono un proemio lirico, confuta Simmaco e la sua proposta di ricollocare la statua della Vittoria nel Senato.

– «Psychomachia» o «Combattimento dell’anima»: una storia di Abramo precede i novecentosedici esametri del poemetto morale (che per l’evidente allegorismo e per le riflessioni dottrinali riscontrabili avrà grande fortuna in età medioevale), in cui si descrive il contrasto che la Fede e l’Umiltà hanno nell’anima con l’Idolatria e la Superbia e la conseguente vittoria delle Virtù cristiane: un’allegoria, dunque, della lotta tra paganesimo e Cristianesimo.

«Apotheosis» o «Dimostrazione di Dio»: il poema teologico, preceduto da una doppia introduzione ai milleottantaquattro esametri che lo compongono, è un’esaltazione del mistero trinitario o, meglio, una difesa della questione cristologica contro le eresie.

«Hamartigenia» o «Origine del peccato»: si colloca sulla scia dell’«Ad Marcionem» tertullianeo; nel poemetto, in novecentosessantasei esametri, Prudenzio confuta il dualismo tra il Dio del Bene e quello del Male propugnato dagli gnostici e ribadisce l’inscindibilità dell’unità di Dio nella Trinità.

Le opere lirico-didattiche

Fanno parte, invece, del secondo indirizzo le opere che seguono:

– «Dittochaeon» o «Duplice alimento»: quarantanove quartine esametriche per pitture sacre aventi come argomento motivi del Vecchio e Nuovo Testamento (da qui il titolo); un lavoro d’occasione e senza pregi particolari.

«Liber Cathemerinón» o «Libro dei canti quotidiani»: l’opera, che permette a Prudenzio di inserirsi tra i più grandi innografi (con Ilario ed Ambrogio), presenta una prefazione e raccoglie dodici inni lirici di contenuto ascetico e liturgico per un totale di millesettecentonovanta versi vari per lunghezza e metrica.

Nei primi sei inni Prudenzio presenta le preghiere che devono essere recitate dai fedeli nel corso della giornata (due per il mattino, due per l’ora del pasto principale, due per la sera); negli ultimi sei, invece, quelle per alcune ricorrenze della Chiesa (due per il digiuno, una per il Natale, una per l’Epifania, una per Gesù, l’ultima, infine, per l’ora della morte).

Il, v. 1 sgg.

O notte e tenebre e nubi,

confusi aspetti del mondo,

si fa luce, albeggia il polo,

fuggite: Cristo è già qui.

Lacera il dardo del sole

il velo sopra la terra,

s’affaccia l’astro fulgente,

torna alle cose il colore.

Così sulla nostra notte,

sul cuore nostro pentito,

verrà l’aurora del regno

di Dio, squarciate le nubi.

Chiuderli più non potremo

nel petto, i neri pensieri:

tutti svelati, i segreti

del cuore, al nuovo mattino!

(tr. Bossi)

«Liber Peristephanón» o «Libro delle Corone» / «Libro delle Vittorie» dei martiri cristiani: una raccolta di quattordici carmi in cui, ad eccezione dell’ottavo, che illustra un battistero dedicato a due Cristiani morti per la fede in Ispagna, si esalta la fermezza dei martiri spagnoli (nel primo, nel terzo, nel quarto, nel quinto e nel sesto), di quelli romani (nel secondo, nell’undicesimo, nel dodicesimo e nel quattordicesimo) e, infine, di altri appartenenti a nazionalità diversa (nel settimo, nel nono, nel decimo e nel tredicesimo).

IlI, 91-125

[Eulalia]: «Suvvia, carnefice, brucia, taglia le membra costrette nel fango; disciogliere fragili cose è facile: l’anima dentro sconvolta non sarà dal dolore». A queste parole infuriato dice il pretore: «Afferra la pazza, littore, torturala! Senta che i patrii numi sussistono e come del principe pesa il comando. Ma pure, se fosse possibile, vorrei, avanti tu muoia, la nequizia tua revocare, o torva fanciulla! Pensa alle gioie che il decoro nuziale ti reca! Ti segue la casa disfatta dal pianto, geme sgomenta la tua nobile stirpe: perché nel fiore degli anni tu muori già prossima al talamo ricco. L’aurea pompa nuziale non ti commuove? non la pietà veneranda dei vecchi che offendi, temeraria? Ecco già pronti del supplizio mortale gli ordigni. O colpirà la spada il tuo capo o sarà lacerato il tuo corpo da belve; o arsa da faci fumanti fra l’alto ululato dei tuoi dissolta sarai nella cenere. Ti chiedo: quale fatica è mai tutto questo evitare? Ti basta toccar con le dita un poco di sale e d’incenso, o vergine, e avrai scacciato la Morte». (tr. Cetrangolo)

Quest’ultima raccolta (più della precedente, in cui l’incrocio spesso artificioso di sentimenti religiosi e di forme profane induce ad ammirare i singoli tratti ed a far perdere di vista l’insieme del componimento) presenta episodi di genuina poesia sia per la sincerità del sentimento religioso che per l’innegabile maestria della versificazione.

Uno studio del verso spesso felice e quasi per nulla appesantito dalla raffinata educazione retorica, la maestria dell’autore, quindi, nel maneggiare la complessa varietà metrica della lirica pagana, una immaginazione vivace, una calda Cristianità, la genuinità dell’ispirazione, il felice connubio tra bellezza esteriore e verità dogmatica, fanno di quest’opera il capolavoro della produzione di Prudenzio.

Paolino da Nola

Amico e discepolo di Ausonio fu Meropio Ponzio Anicio Paolino, nato a Bordeaux nel 353 da illustre famiglia, «consul suffectus» prima del 379, seguace del Cristianesimo dal 390, anno a partire dal quale donò tutti i suoi beni e con la moglie Terasia si dedicò alla vita ascetica.

Divenuto sacerdote, dopo essere stato dapprima in Spagna, si recò a Noia, in Campania (nel 378, nominato governatore di quella provincia, aveva rinunziato all’incarico), e in quella città, fatto vescovo nel 409, rimase fino alla morte, avvenuta nel 431.

Tra gli oltre trenta componimenti in versi attribuiti a Paolino si evidenziano i quattordici «Carmina Natalicia», composti in esametri tra il 395 ed il 407 e scritti per ricordare l’anniversario della morte di S. Felice, e gli Epigrammi che, inclusi in una lettera a Sulpicio Severo, riguardano argomenti biblici e martirii.

Di Paolino ci è pervenuto anche un epistolario formato da cinquantadue lettere, molte in prosa, vere e proprie omelie non tutte autentiche, indirizzate a personalità del tempo (Agostino, Severo, …) e ricche di citazioni tratte dalla Bibbia: alcune, in versi, sono di tono consolatorio e di imitazione virgiliana.

L’ASPIRAZIONE ALLA NUOVA «EPICA» CRISTIANA

G. Vezzio Aquilino Giovenco

Nel solco della poesia espressa nelle sue forme più elevate da Aurelio Clemente Prudenzio si colloca questo sacerdote anch’egli originario della Spagna, che tentò di trasfondere la solennità dell’epica «classica» nei suoi «Evangeliorum libri IV» realizzati, come risulta dall’accentuato influsso virgiliano, non senza eleganza formale, pur se i risultati appaiono molto lontani dagli intenti che l’autore si prefiggeva: dar vita ad una «nuova epopea cristiana» (Marchesi).

LA PATRISTICA TRA ESEGESI ED INNOGRAFIA

llario di Poitiers

Originario dell’Aquitania, dove nacque nel 315 (mentre il 367 dovrebbe essere l’anno della morte), dottore della Chiesa e teologo, una volta convertitosi nel 350, affrontò, per la difesa dei valori della nuova Fede, anche l’esilio in Frigia dove fu relegato da Costanzo su istigazione di Saturnino, vescovo di Arles.

Lottò strenuamente contro l’eresia ariana (la quale negava la «consustanzialità» del Padre con il Figlio e con lo Spirito Santo e sosteneva che solo il Padre esisteva increato «ab aeterno», mentre dal nulla era stato creato il Figlio e da questo lo Spirito Santo) nell’«Adversus Arianos libri XII» e nel «De Synodis liber», indirizzato ai vescovi delle Gallie.

Fu autore di Commenti al Vangelo di Matteo ed ai Salmi (per cui lo si considera anche l’iniziatore dell’esegesi dell’Antico Testamento); compose, inoltre, un «Liber Mysteriorum» ed un «De Trìnitate libri XII» e precorse, attraverso la composizione di un «Hymnorum liber» (di cui solo tre pervenuti, peraltro in modo lacunoso), quella grande produzione innologica cristiana con finalità didascalica che troverà il suo massimo interprete in Ambrogio.

Ambrogio di Treviri

Nacque nel 340 a Treviri, dove il padre ricopriva la carica di «praefectus Galliarum», da antica e nobile famiglia di fede cristiana.

Formatosi a Roma, dove in seguito alla morte del padre si era trasferito con la madre e con i fratelli Satiro e Marcellina, ricevette nel 370 da Valentiniano I l’incarico di «consolare» dell’Emilia e della Liguria, ma non aveva ancora ricevuto il battesimo in occasione della sua proclamazione a vescovo di Milano (374) in qualità di sostituto, per volontà popolare, dell’ariano Aussenzio (fatto singolare, se si considera la profonda rivalità tra ariani e cattolici): nonostante i suoi tentativi di sottrarsi a tale alto compito, in quello stesso anno dapprima fu battezzato e, poi, il 7 dicembre, consacrato vescovo, incarico che ricoprì per ventitré anni.

Legato da rapporti non solo di amicizia a tre imperatori (Graziano, Valentiniano II e Teodosio), dovette sostenere, alla morte di Graziano nel 383, una dura lotta con l’imperatrice Giustina, madre di Valentiniano II, favorevole all’arianesimo, e, proprio grazie alla sua risolutezza ed al fervore con cui si battè per la causa cristiana, riuscì ad impedire che la parte occidentale dell’impero divenisse ariana.

Spirito combattivo, buon conoscitore della lingua greca, non esitò ad affrontare gli eretici, come testimonia la sua vibrata opposizione alla proposta di Q. Aurelio Simmaco tendente ad ottenere il ripristino nella Curia dell’ara della Vittoria, proposta alla quale egli si oppose con fermezza considerandola un atto di pubblica idolatria.

E tale atteggiamento di «defensor fidei» mantenne e rinfocolò anche con la partecipazione a numerosi Concili, con l’imposizione delle penitenze a Teodosio per la strage di Tessalonica del 391 (in cui trovarono la morte circa settemila cittadini) e con altri isolati interventi che lo videro protagonista fino alla morte che lo colse il 4 aprile del 397 a Milano.

Scarsamente incline alla speculazione dogmatica ed alle dispute di tipo teologico, Ambrogio ebbe una visione eminentemente pratica anche della Sacra Scrittura, la cui esegesi appare volta allo scopo di fornire modelli ed ammaestramenti ai fedeli.

L’«Hexaemerón»

Questa finalità è evidente nella sua maggiore opera in tale settore, i nove discorsi dell’«Hexaemerón libri sex», tenuti durante la Quaresima ed ispirati, appunto, ai «sei giorni della creazione dell’universo».

In questo scritto si rivela la profonda formazione «classica»dell’autore, specie nelle particolareggiate descrizioni della bellezza del creato, cui unisce in modo mirabile osservazioni e vari precetti sui costumi umani, sulle virtù, sull’amore paterno e coniugale attraverso la vita di Abramo, la storia di Isacco, l’apologia del profeta Davide.

IlI, 21

«Vide, adunque, Iddio che il mare era cosa buona».

Ma, per quanto bello sia l’aspetto del mare quando biancheggia pel sorgere dei marosi con le loro creste e con le nivee spume che spruzzano le rocce, o quando appena blandamente s’increspa sotto aure più clementi e a chi lo guarda da lungi spesso si colora di porpora nella serenità della bonaccia, quando non batte già violentemente il lido circostante coi flutti, ma quasi con placidi amplessi lo saluta e lo abbraccia – o dolcezza di suono, o giocondità di strepito, o delizioso e ritmico palpitar dell’onde! – Con tutto questo, però, io credo che quelle parole non abbiano già giudicata la beltà del mare per gli occhi creata; ma che ne abbiano pronunciata, dal punto di vista dell’operazione, la perfetta convenienza coll’intento dell’operante. (tr. Pasteris)

Scritti a carattere teologico-dogmatico

II suo impegno in tale ambito appare rispondente ad una ben precisa finalità, peraltro di tipo pratico: appoggiare l’opera dell’imperatore Graziano tendente ad arginare la minaccia dell’arianesimo.

Appartengono a tale sezione:

«De Spirìtu Sancto libri tres»: sulla consustanzialità dello Spirito Santo con il Padre e con il Figlio.

«De Fide ad Gratianum Augustum libri quinque»: una difesa della divinità del Cristo scritta negli anni 378-380.

«De Sacramentis libri sex»: sui sacramenti.

«De incarnationis Dominicae Sacramento»: sulla duplice natura, divina ed umana, del Cristo.

«Explanatio symboli ad initiandos»: illustrazione della simbologia sacra ad uso dei neofiti.

I «discorsi sacri»

Notevole anche la sua produzione di discorsi «sacri», come ci testimoniano il «De virginibus libri tres», l’«Exhortatio virginitatis» ed il «De virginitate», scritti i quali attestano la profonda ammirazione per la scelta della castità che egli mostra di condividere e di lodare senza mezzi termini.

Il «De officiis ministrorum»

Lo scritto, tuttavia, più rilevante in tale settore, oltre ad un «De viduis», è quello in cui si rivolge espressamente agli uomini di Chiesa mirando a fornire precetti adeguati alla morale e desunti, come appare dal titolo, dal famoso trattato ciceroniano sui doveri: il «De officiis ministrorum libri tres» composto negli anni 389-391.

In quest’opera appare evidente come Ambrogio non rifiuti ciò che è simbolo della cultura pagana, ma ne tenti, invece, un’armonica fusione con la precettistica delle Sacre Scritture, nonostante le divergenze tra la morale stoica, base dei precetti ciceroniani, e quella cristiana.

Ai discorsi indirizzati non a fini edificatori, ma concepiti quali orazioni funebri, appartengono:

«De obitu Satyri fratris»: una lode delle virtù del fratello morto pronunziata sette giorni dopo il decesso di questo, nel periodo 375-379.

«De obitu Valentiniani»: in occasione della sepoltura a Milano di Valentiniano, il secondo dei tre imperatori con tale nome, rimasto ucciso in Gallia.

«De obitu Theodosii»: tenuta in presenza di Onorio per la morte del padre, l’imperatore Teodosio, nel 395.

L’epistolario

Ma la sua ammirazione per la classicità, peraltro mai disgiunta da fini pastorali e didascalici, si evidenzia maggiormente nell’epistolario, che consta di novantuno lettere riguardanti l’arco di tempo dal 379 al 396: indirizzate a privati, a vescovi, agli imperatori stessi, le epistole sono caratterizzate da un’estrema varietà oltre che di argomenti (anche se predominano quelli relativi a problemi religiosi o connessi all’amministrazione dello Stato), anche di linguaggio. Numerose, infatti, sono le commistio-ni tra espressioni usuali del «sermo familiaris», del linguaggio di ogni giorno, e quelle di un latino di derivazione ciceroneggiante. Ciò crea spesso difficoltà nel lettore ed una certa oscurità nell’interpretazione, anche se lo stesso scrittore avverte, quasi consapevole di tale situazione, «non verborum elegantiam, sed vim rerum exspectandam», «che non si deve tener conto dell’eleganza delle parole, ma della forza dei contenuti».

Gli inni

Resta, infine, la produzione innologica: dei numerosi inni sacri che la tradizione fa passare sotto il suo nome (e, dunque, detti «ambrosiani») quattro vengono ritenuti sicuramente di Ambrogio e risultano tutti eguali nella struttura giacché costituiti di strofe di quattro versi (dimetri giambici), mentre per altri quindici sussistono problemi di attribuzione:

«Deus Creator omnium»: un canto vespertino.

Dio, creatore del tutto e rettore del cielo, che vesti il giorno della bella luce, la notte del dono del sonno, – perché il riposo restituisca le membra stanche all’attività del lavoro e allevii le menti affaticate e dissolva i pianti angosciati; -cantandoti un inno ti sciogliamo il nostro grazie per il giorno trascorso e la nostra preghiera per il levar della notte perché tu soccorra noi peccatori. – Te il profondo del cuore canti, te la voce canora esalti, te abbia caro il casto amore, te adori la mente sobria; – perché, quando la profonda oscurità della notte avrà concluso il giorno, la fede non conosca tenebre e la notte risplenda di fede. -Non lasciar che la mente s’addormenti, sappia addormentarsi la colpa; la fede dando fresco sollievo a chi è casto temperi gli ardori del sonno. – Spoglio della sensualità lubrica il profondo del cuore sogni te, perché per inganno dell’invidioso nemico il terrore non desti chi riposa. – Preghiamo Cristo e il Padre e lo Spirito di Cristo e del Padre! O Trinità, Unità che puoi su tutto, abbi cura di noi che ti preghiamo. (tr. Cazzaniga)

«Aeterne rerum Conditor»: canto del mattino.

«lam surgit hora tertia»: per la Crocifissione.

«Veni, Redemptor gentium»: per il Natale.

Benché l’uso del metro giambico porterebbe ad escludere questi componimenti dal genere propriamente «lirico», essi restano, comunque, una delle più elevate espressioni poetiche realizzate nell’ambito della Chiesa, soprattutto per quell’alone di misticismo pre-medioevale che li pervade e li vivifica.

L’AGIOGRAFIA

Girolamo di Stridone

Nato in Dalmazia, a Stridone, tra il 342 ed il 347, da genitori di religione cristiana, perfezionò la sua educazione a Roma, dove non solo apprese grammatica e retorica da Donato, ma approfondì anche le discipline letterarie e la storia del pensiero filosofico.

Trasferitosi dapprima a Treviri, poi, nel 373, ad Aquileia, quindi ad Antiochia, qui si dedicò alla dura vita ascetica ed eremitica che egli, come monaco, condusse alla frontiera siriaca, per cinque anni, nella solitudine del deserto della Calcide, tutto intento ad apprendere la lingua ebraica.

Tornato ad Antiochia, dopo quel lungo periodo di meditazione, ed ordinato prete da Paolino, preferì, successivamente, recarsi a Costantinopoli dove, con l’aiuto di Gregorio Nazianzeno, studiò il pensiero greco, soprattutto di Origene.

Nel 382 prese parte, con Epifanie di Salamina e Paolino di Antiochia, al sinodo di Roma, il che gli permise di farsi conoscere da papa Damaso che lo nominò suo segretario personale e gli affidò l’incarico di operare una revisione della versione latina dei Vangeli.

Senonché la fondazione di un convento, aperto sull’Aventino con l’aiuto di alcune matrone aristocratiche (quali Marcella, Fabiola, Paola) e riservato a sole donne che lì attuavano una vita di studi e di preghiera, una volta morto Damaso nel 384, gli sollevò contro un vespaio di insinuazioni per cui Girolamo, con Paola e con sua figlia Eustochio, fu costretto, l’anno successivo, a far ritorno in Oriente.

Dopo essersi fermato per qualche tempo in Palestina ed in Egitto, si stabilì con le due donne a Bethlem dove fondò due conventi, di cui uno per donne diretto da Paola.

Proprio a Bethlem, dopo l’angoscia procuratagli dalla caduta di Roma del 410 ad opera di Alarico, dall’invasione dei barbari in Palestina, dal diffondersi dell’eresia ariana, e, più ancora, dopo il dolore per la perdita di Paola, Girolamo morì il 30 settembre del 420.

La produzione letteraria di Girolamo può essere così suddivisa:

Opere agiografiche

Allo Scrittore di Stridone, infatti, va il merito di aver dato vita letteraria, anche in Occidente, a storie sulla biografia di Santi e Martiri con tre «Vite» di anacoreti (di S. Paolo di Tebe, scritta nel deserto della Calcide; di Malco, riportata in prima persona, e di Barione), storie in parte leggendarie e fantastiche, ma di notevole interesse per una conoscenza approfondita del monachesimo.

Opere biografiche

«De viris illustribus»: in essa, seguendo l’omonima opera di Svetonio, traccia una prima storia della letteratura cristiana in centotrentacinque capitoli in cui, oltre a passare in rassegna centotredici scrittori cristiani (a partire da Pietro fino a giungere ai suoi tempi), ricorda anche la produzione di autori eretici o profani, come Giuseppe Flavio e Seneca.

Opere polemiche

«Altercatio Luciferiani et Orthodoxi» (378): un dialogo contro i Luciferiani, interessante per la conoscenza di quel movimento scismatico.

«Liber de perpetua virginitate beatae Mariae» o «Adversus Helvidium» (383): con esso si aprono gli studi mariologici.

«Contra lovinianum» (393): due libri destinati ad esaltare, pur con qualche eccesso, i valori dell’ascetismo e della verginità.

«Contra Vigilantium»: un’altra difesa dell’ascetismo e del martirio.

«Dialogus adversus Pelagianos»: contro il pelagianesimo, assertore della capacità nell’uomo, anche dopo il peccato originale, di praticare il bene e di tenersi lontano da ogni peccato con la sua sola volontà, senza l’aiuto della Grazia divina.

«Contra Joannem Hierosolymitanum»: contro Giovanni vescovo di Gerusalemme.

«Adversus libros Rufini apologia»: contro Rufino.

– … «et alia quae enumerare longum est»: a terminare con le parole dello stesso Girolamo.

Opere di traduzione e di esegesi

Notevole fu la sua attività di traduttore, non solo delle opere di Origene, di Didimo e della «Cronaca» di Eusebio da Cesarea (opera che, non giunta a noi nell’originale greco, egli tradusse nella parte che riportava gli avvenimenti dalla nascita di Abramo, posta nel 2016 a.C., al ventesimo anno del regno di Costantino nel 325 d.C., continuandola fino alla morte di Valente nel 378), ma anche della Bibbia sia dal greco che dall’ebraico.

Si deve, quindi, a Girolamo quella versione della Sacra Scrittura che fu detta poi «Vulgata» con riferimento non tanto alla lingua, di tipo piuttosto «popolareggiante», quanto alla sua diffusione, comune a tutte le Chiese e approvata ufficialmente per la Chiesa Cattolica dallo stesso Concilio di Trento; versione che, da lui cominciata su quella greca dei «Settanta», fu poi condotta definitivamente sui testi biblici studiati nella lingua originale, superando gravissime difficoltà.

Con la «vulgata» Girolamo metteva finalmente a disposizione di tutta la Cristianità occidentale un testo unico delle Scritture, redatto in un latino semplice quanto efficace: esso contribuì a rafforzare l’unità della Chiesa d’occidente, anche se non fu ben visto dal Cristianesimo di tradizione greco-orientale.

Di notevole interesse anche i commenti curati di parti dell’Antico Testamento, quale il «Liber Hebraicarum quaestionum in Genesim» o i «Commentarioli in psalmos», senza tralasciare le sue approfondite esegesi di tutti i Profeti, dell’Ecclesiaste, del Vangelo di Matteo, delle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini, a Tito ed a Filemone.

Gli «epitaphia»

Si tratta di veri e propri «elogi funebri», anche nella struttura tradizionale, composti da Girolamo per ricordare amici e persone care, come Nepoziano, il giovane sacerdote deceduto nel 395, o Paola, Paolina, Marcella, Fabiola, le donne a lui vicine nel periodo romano, ma anche, nel caso di Paola, negli anni della vecchiaia.

L’epistolario

Risulta documento prezioso per ricostruire tutta la vita dello scrittore, ma anche per analizzare il suo carattere mai domo, la sua opera instancabile di teologo e di dogmatico.

Le centocinquantaquattro lettere che lo compongono, di cui centosedici di sicuro autentiche, scritte negli ultimi cinquanta anni di vita, presentano una grandissima varietà di contenuti, da quello prettamente apologetico o polemico a quello didattico e letterario, dall’«epistola» privata a quella consolatoria, ma tutte svolte con uno stile vario e brillante, espressione di una forte personalità. Alcune lettere sono estese come se fossero brevi trattati.

In effetti l’epistolario risulta la parte più interessante della produzione di Girolamo, non solo per quello che dice o perché mostra il vero animo dello scrittore, quanto anche per il quadro vivo che ci rappresenta delle comunità cristiane e della società del tempo.

Meritano menzione tra le tante:

– la XIV, al monaco Eliodoro di Aquileia, sulla vita ascetica intesa come mezzo di perfezione cristiana;

– la XXII, indirizzata ad Eustochio, figlia di Paola; vi narra una visione avuta di notte, in cui gli sembra di essere condannato alla flagellazione con il famoso rimprovero, mossogli da Dio stesso, «Ciceronianus es, non Christianus» per il suo amore dei classici;

– la LVII, una sentita difesa della traduzione artistica, in cui si appella al magistero di Cicerone come traduttore;

– la LXVI, a Pammachio, lodevole nel suo proposito di riscattare con l’elemosina i peccati commessi;

LXVI, 5

Le porte che prima vomitavano le folle dei salutatori21, ora vengono assediate dai poveri. Uno dal ventre gonfio d’acqua sta per partorire la morte; un altro, privo di lingua e muto, che non ha neppure lo strumento con cui pregare, prega tanto più compassionevolmente in quanto non può pregare. Uno, minorato fin dalla nascita, non può nemmeno mendicare l’elemosina; un altro imputridito dall’itterizia sopravvive al suo cadavere. «Neppure se avessi cento lingue e cento bocche – potrei dire i nomi di tutti i tormenti22». Egli incede accompagnato da questo esercito, in questi soccorre Cristo, e si fa candido della loro sporcizia. Così il tesoriere dei poveri, il candidato dei miseri si affretta verso il cielo.

Gli altri mariti spargono sui tumuli delle mogli viole, rose, gigli, fiori purpurei e consolano il dolore del loro cuore con queste offerte. Il nostro Pammachio asperge le sante ceneri e le venerande ossa col balsamo dell’elemosina. (tr. Perelli)

– la CIX, «Ad Riparium Presbyterum», per la violenta polemica contro Vigilanzio;

– la CXII, «Ad Augustinum», una risposta a «quaestiones» postegli dal giovane Agostino.

Cristiano quanto altri mai nei sentimenti, Girolamo nella forma risulta il più pagano dei dottori della Chiesa e ciceroniano anche quando si propone di mettere da parte gli scrittori pagani.

Questo il suo pregio: l’aver saputo fondere mirabilmente la cultura classica con i fermenti di quella nuova, in quest’opera di sintesi facilitato dalla perfetta conoscenza di latino, greco ed ebraico («ego philosophus, rhetor, grammaticus, dialecticus, Hebraeus, Graecus, Latinus, trilinguis») e dalla sua immensa cultura.

LA «PEREGRINATIO AETHERIAE»

(ad loca sancta)

È il titolo di un racconto fatto da una pia donna alle sue consorelle e relativo ad un pellegrinaggio (i famosi «itineraria ad loca sancta») attraverso le terre d’Egitto e Palestina: si tratta di una narrazione ravvivata da frequenti digressioni, quali marce nel deserto, incontri con monaci, conversazioni con vescovi delle città attraversate, fino alla descrizione, fatta con toni di calda partecipazione ed afflato mistico, delle cerimonie liturgiche in Gerusalemme.

La struttura

Dal punto di vista strutturale l’opera si può suddividere in due parti: nella prima si descrivono i quattro «pellegrinaggi» propriamente detti, cioè al Sinai (capp. I-IX), al monte Nebo (capp. X-XII), in Idumea (capp. XIII-XV) e, infine, in Mesopotamia (capp. XVI-XXIII), mentre la seconda parte è dedicata ai riti in Gerusalemme.

La data del viaggio

II «terminus a quo» è dato dal riferimento al possesso integrale («totum») di Nisbi da parte dei Persiani ai quali l’imperatore Gioviano l’aveva consegnata nel 363, mentre quello «ad quem» si fissa nel soggiorno della stessa Eteria in Antiochia anteriormente alla distruzione di questa intorno al 540: il viaggio, dunque, sarebbe stato intrapreso all’incirca verso la fine del quarto secolo.

La lingua

Pur non essendo l’autrice donna priva di cultura, frequente è l’uso di termini mutuati dal «sermo cotidianus», che affiora, talvolta, nella ricercatezza del linguaggio e nei giri di parole di cui si compiace, anche senza indulgere, ed è ovvio date le finalità esclusivamente religiose che si proponeva, senza fini artistici. Abbondano nello scritto forme della lingua parlata quali ripetizioni, pleonasmi, anacoluti, che conferiscono all’opera un carattere «popolare» e ne fanno uno dei più singolari documenti nella storia del latino tardo.

L’ULTIMO DEI GRANDI PENSATORI ANTICHI

Agostino di Tagaste

Aurelio Agostino nacque in Africa, a Tagaste, il 13 novembre del 354 da Patrizio, un pagano poi convertitosi, e da Monica, una donna di profonda fede cristiana.

Dopo una giovinezza dedicata a studi di grammatica spesso interrotti (prima a Tagaste, poi a Madaura, quindi a Cartagine) e caratterizzata da divertimenti e sregolatezza, leggendo, nel 373, l’«Hortensius» ciceroniano, sentì per la prima volta lo stimolo ad alimentare il suo intelletto con argomenti più elevati.

Si lasciò, allora, influenzare dalla dottrina dei Manichei, ma l’incontro avuto, nel 383, con il vescovo manicheo Fausto non fece altro che deluderlo ed agevolare, così, un graduale suo distacco.

In quello stesso anno, abbandonando la cattedra di retorica avuta nel 374 a Cartagine, lasciò l’Africa per recarsi prima a Roma e, successivamente, a Milano, città nella quale riottenne, su pressione del prefetto dell’Urbe, l’insegnamento poco prima lasciato.

La madre Monica lo raggiunse a Milano poco prima della conversione maturatasi nel 386, alla luce di quella ricerca della verità divina che la lettura delle epistole di S. Paolo di certo dovette agevolare.

Messosi in contatto con il vescovo Ambrogio, Agostino ricevette da questo il battesimo, insieme al figlio Adeodato, frutto di un peccato giovanile, nella notte del 25 aprile (Pasqua) del 387.

Deciso a tornare in Africa per dedicarsi a vita religiosa, durante il viaggio, ad Ostia, gli morì la madre, ma il suo fermo proposito lo mantenne l’anno successivo, quando fondò un monastero a Tagaste.

Ordinato prete ad Ippona nel 391, fu consacrato, cinque anni più tardi e contro la sua volontà, vescovo di quella città.

Sostenne, allora, nonostante le preoccupazioni che la sua diocesi gli procurava, quella lotta contro eretici e scismatici, contro Manichei, Donatisti, Pelagiani, che finì solo con la morte avvenuta il 28 agosto del 430, mentre la sua cara Ippona era saccheggiata dai Vandali di Genserico.

L’epistolario

Composto di duecentosettantantanove lettere, di cui cinquantatré apocrife e nove collocate dallo stesso Agostino tra i trattati, risulta di grandissimo interesse sia per le notizie biografiche e storiche che fornisce, sia perché consente di conoscere la dottrina teologica e filosofica dell’autore.

Meno curato nello stile rispetto a quello di Girolamo, tuttavia esso è un documento unico nell’attestare il passaggio dall’età antica a quella medioevale, nel descrivere la morale di un’epoca, nel fornire indicazioni ben precise ai nuovi Cristiani: è il caso dell’epistola CCXXI, «Ad sanctimoniales», che venne adottata come regola monastica da un gran numero di ordini religiosi.

I «sermones»

Le omelie tenute da Agostino, numerosissime ed ampliate nel numero da aggiunte successive, sono imprecisabili nella quantità per la dubbia autenticità di molte di esse, anche se, a fine Seicento, vennero classificate dai padri Maurini in trecentosessantatré e suddivise secondo quattro classi.

Costituiscono un importante documento del tardo latino parlato, in quanto furono trascritte dalla viva voce del Santo mentre venivano pronunciate.

I trattati

Per il loro numero davvero notevole (duecentotrentadue sono i libri di tutta la sua produzione) e per la vastità degli interessi affrontati, ci limiteremo ad elencare quelli più importanti e di maggiore risonanza:

«Contra Academicos» (386-387): in questo dialogo di tipo platonico, in tre libri, polemizza con i Neoacademici, alla cui dottrina si era avvicinato a Roma nel 383, e sostiene che si può conoscere la verità solo mediante l’unione della ragione con l’autorità evangelica.

«De beata vita» (386-387): altro dialogo di tipo platonico volto a dimostrare che la felicità consiste nel completo possesso di Dio.

«De ordine» (386-387): in cui lo scrittore traccia il disegno di una vera educazione cristiana sulla base di una distinzione tra «disciplina della vita» e «disciplina della scienza».

«Soliloquiorum libri II» (386-387): un dialogo tra Agostino e la Ragione che segna anche l’inizio di un nuovo genere letterario, il soliloquio.

«De immortalitate animi» (387): sull’immortalità dell’anima.

«De musica» (387): in sei libri, è inserito nei «Disciplinarum libri», ma è la sola parte di questa enciclopedia portata a compimento; il trattato parla di metrica e poesia ed inquadra i veri valori di un’educazione artistica.

«De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum» (387-388): un paragone tra la morale cristiana e quella manichea.

«De libero arbitrio» (387-388): in tre libri; vi sostiene, polemizzando con i Manichei, che il libero volere è un dono concesso agli uomini da Dio.

«De Genesi adversus Manichaeos» (388-391): il racconto della creazione, un’in-terpretazione della Genesi volta a dissipare le perplessità manichee.

«De magistro» (388-391): un dialogo pedagogico in due libri sul valore del linguaggio e sulla figura del vero maestro.

– «De vera religione» (388-391): attraverso l’esame delle teorie di filosofi e di eresiarchi si giunge alla conclusione che la sola religione atta a guidare gli uomini verso il sommo bene e verso la verità è quella cristiana.

«De utilitate credendi» (391-396): una difesa dell’autorevolezza delle Sacre Scritture.

«De duabus animis» (391-396): trattato antimanicheo basato sul concetto che l’anima è una sola e può essere buona o cattiva secondo che si volga, per libero arbitrio, al bene od al male.

«Psalmus contra partem Donati» (391-396): una storia dello scisma donatista.

«De agone christiano» (396-398): sull’inconciliabile lotta tra il mondo pagano e la morale cristiana.

«De doctrina christiana» (396-398): in quattro libri destinati a dar norme per ben comprendere e ben insegnare quanto è contenuto nei libri sacri.

«Contra Faustum manichaeum» (396-398): una difesa della vera religione contro le idee del vescovo manicheo Fausto, conosciuto nel 383.

«De catechizandis rudibus» (399-406): un trattato di catechesi con consigli e precetti per renderne piacevole l’apprendimento.

«De Trinitate» (399-406): in quindici libri; polemizzando con gli ariani, illustra razionalmente ed analogicamente il dogma trinitario.

«De bona coniugali» (399-406): sul matrimonio.

«De sancta virginitate» (399-406): sul valore della condizione di verginità.

«De unico baptismo contra Petilianum» (411-418): sul battesimo, contro i donatisti.

«De grafia Christi et de peccato originali» (411-418): sulla Grazia divina contro Pelagio.

«De anima et eius origine» (419-430): sull’origine dell’anima.

Le «Confessiones»

L’opera, definita da alcuni studiosi un’autobiografia dell’autore, da altri un soliloquio, scritta nel 397 (quando Agostino da solo un anno era stato consacrato vescovo) e composta di tredici libri, risulta divisa in due parti.

La struttura

La prima parte, che comprende i libri dal primo al nono, presenta una spietata analisi introspettiva fatta da Agostino di tutte le fasi della propria vita, dalla turbolenta giovinezza trascorsa a Tagaste alla morte della madre Monica ad Ostia, senza nascondere nulla di sé: né le varie lotte sostenute per vincere gli errori commessi, né le esitazioni provate, tanto meno le cadute umilmente confessate, con una intensità di analisi intima che fa di questa storia, esaminata nelle più riposte profondità, un modello di lucida e coraggiosa autoanalisi per tutte le coscienze sensibili, un itinerario morale fino al raggiungimento di una serenità inferiore fermamente voluta e, dopo affanni ed angosce, alfine acquisita per sempre.

1, 9

Quindi fui mandato a scuola per apprendervi le lettere, di cui, misero, ignoravo l’utilità. E tuttavia, se mi mostravo pigro nell’apprendere, ero percosso. Questo sistema infatti era lodato dalle persone adulte.!…] Dunque da fanciullo cominciai a pregarti come mio aiuto e rifugio, e invocandoti rompevo i nodi della mia lingua: e da piccolo con non piccolo affetto ti pregavo di non essere percosso a scuola. E quando non mi esaudivi, il che non avveniva per mancanza di saggezza verso di me, le mie percosse, male allora grande e grave per me, erano oggetto di riso da parte degli adulti, e degli stessi miei genitori, che pure non volevano che mi accadesse nulla di male. (tr. Perelli)

La seconda parte, invece, comprendente i libri dal decimo al tredicesimo, tratta dei frutti interiori della conversione e di vari problemi mistico-filosofici, da quello del tempo (inteso come misura dello spirito) a quello della Grazia (concessa da Dio a chi gli ubbidisce con diletto e umiltà).

Il valore dell’opera

«La “confessio” agostiniana», nota il Carena, «si svolge nell’ambito di una religiosità tutta particolare, definibile sinteticamente come una percezione costante di Dio nell’uomo. Dei molti significati che il vocabolo “confessio” assumeva nella tarda latinità cristiana, ricavandoli spesso dalla Bibbia, qui si ritrovano soprattutto quello di lode a Dio in riconoscimento della sua grandezza e misericordia, e quello di manifestazione delle proprie miserie. Certamente contribuirono alla sua ideazione e al suo aspetto una serie di composizioni tradizionali sia pagane che cristiane: i salmi, ad esempio, di lode o di penitenza; gli inni; i poemetti votivi; il racconto di visioni, miracoli; ma più ancora, a nostro parere, i memoriali e i romanzi spesso allegorici, che fiorirono in età ellenistica e romana sia nell’Oriente, sia in Africa, sia a Roma, e l’ammonimento morale, non disgiunto dalla speculazione astratta, delle ultime scuole fi-losofiche dei greci e dei latini. Ma l’esilità dell’impero e dei risultati fino a Lui acquisiti non fanno che sottolineare appunto la novità di questa storia inferiore».

Ma il dato più evidente di tutta l’opera è la sua ambivalenza, il suo essere contemporaneamente ricerca di se stesso e ricerca di Dio: una duplice ricerca che si realizza mediante un’autoanalisi appassionata e sofferta, ma lucidissima; un’esplorazione a volte anche spietata delle proprie incoerenze e debolezze; una mirabile capacità di sdoppiarsi in «narrante» e «narrato» per osservarsi dall’esterno.

Con le «Confessiones» Agostino ha gettato le basi della moderna narrativa di introspezione.

Il «De civitate Dei»

Anche questa poderosa sintesi della dottrina agostiniana, composta di ventidue libri scritti tra il 413 ed il 426, può essere distinta in due parti.

La prima, a carattere apologetico, comprende i primi dieci libri, in cui l’autore confuta le ragioni addotte dai pagani a difesa del loro politeismo dimostrando che l’abbandono degli antichi dei non può essere la causa delle disgrazie dell’impero (tipico rappresentante della «città terrena»), rovinato dai suoi stessi vizi, ed affermando che proprio dalle sue rovine, con il Cristianesimo, è sorta la «città celeste», le cui anime sono destinate alla beatitudine eterna. Negli altri dodici, invece, con caratteristiche speculative, Agostino tratta dapprima la questione dell’origine delle due città (quella «terrena», identificata con Roma, fondata da Caino, e quella «celeste», di Dio, sviluppatasi da Abele fino alla diffusione del Cristianesimo), poi spiega come il destino delle due città sia di essere sempre in lotta tra loro fino al giorno del giudizio universale, momento in cui i buoni riceveranno la vita eterna, i reprobi una condanna senza fine.

«In quest’opera colossale», dice il Moricca, «è riunito tutto lo scibile umano: vi si trova una filosofia della storia, un’apologià, una morale, una fisica, una metafisica, una filosofia, corredate di profonda erudizione sacra e profana in uno stile efficacissimo e con un’eloquenza affascinante. Con il “De Civitate Dei” Agostino, più che esporre una dottrina, ha dato una speciale concezione della vita, che troverà nel Medioevo la più larga applicazione».

La concezione dello Stato

«A suo vedere», leggiamo in un saggio del Pesce, «lo Stato si scinde in due elementi nettamente distinti: forma giuridica e contenuto etico, il primo consiste in certi istituti che permettono un’ordinata e pacifica convivenza tra gli uomini, il secondo consiste in una certa direzione della volontà, che porta all’accettazione della condizione terrena e alla ricerca dei beni terreni. Questa dualità di aspetti, nella struttura stessa dello Stato, spiega la duplicità dell’atteggiamento del Cristiano, il quale non potrà non accettare il primo, come non potrà non rifiutare il secondo. Il che è quanto dire che il Cristiano considera lo Stato come un semplice mezzo e non come un fine, guardandosi bene dal cadere in quel culto idolatrico dello Stato, che aveva portato a costruire il mito di Roma eterna e che costituisce uno degli aspetti del naturale paganesimo del mondo antico. La lealtà del Cristianesimo sarà, perciò, sempre accompagnata da un intimo distacco, da un rifiuto di accettare quei valori che nello Stato si incarnano. Egli si varrà dell’ordine e della pace che lo Stato gli assicura, contribuirà per suo conto a mantenerli e rafforzarli, ma li accetterà come cose non sue, sempre consapevole che quella pace è pur sempre la pace di Babilonia, provvisoria ed imperfetta».

Agostino, Arnobio e Lattanzio

Mentre Arnobio e Lattanzio hanno saputo più demolire che edificare, Agostino, da accorto e sicuro teologo, dopo aver abbattuto ricostruisce e, meglio anche di loro, si avvale di una larga conoscenza dei classici greci e latini, superando i pur grandi Girolamo ed Ambrogio per profondità di pensiero ed acutezza di indagine, e costituendo, a dirla con il Lana, «una specie di “summa” delle esperienze culturali e spirituali del mondo antico».

Lo stile

L’armamentario stilistico acquisito dal Santo nelle scuole di retorica non appesantisce il pensiero, anzi si adegua ai vari momenti, felici o dolorosi che siano, assumendo un’impronta vigorosa e personale, che ben si adegua, nonostante la varietà dei toni e l’abbondanza delle tematiche, agli argomenti trattati ed al pubblico cui si rivolge.

Con uguale efficacia l’Auerbach afferma: «Agostino era un maestro di retorica, come dimostra la stessa carriera della prima parte della sua vita; in lui la retorica era diventata natura, una seconda natura, come suole accadere ai primi maestri di virtuosismo. Ma la massima artisticità può benissimo servire alla più autentica e profonda interiorità; e la semplicità popolare non protegge contro la vacuità del cuore».

La fortuna

Poco «fortunato», come pensatore cristiano, per le sue idee sulla Grazia divina, notevole, invece, è la sua influenza in campo filosofico, influenza che aumenta soprattutto nei secoli XV e XVI, in cui si verifica una rinascita del pensiero platonico con Marsilio Ficino.

Ma già in precedenza l’essere apparso come interlocutore del poeta nel «Secretum» petrarchesco lo pone un po’ come una pietra miliare per chi voglia accostarsi al genere letterario dell’autobiografia, del memoriale.

UN AGOSTINIANO

Paolo Orosio

Continuatore del «De Civitate Dei» agostiniano con l’«Adversus paganos historiae libri VII», questo sacerdote di origine spagnola muove ad una decisa confutazione della tesi pagana che ricercava nella presunta empia condotta dei Cristiani la responsabilità delle travagliate vicende dell’epoca.

Animato da tali intenti, giunge a sostenere che la sciagura delle invasioni barba-riche non è che una tra le tante, e non certo la maggiore, tra quante hanno turbato l’umanità prima dell’avvento dell’era cristiana.

Ma la consapevolezza che questi oppressori potranno convertirsi e, dunque, emergere dalle tenebre dell’errore, deve fortificarsi nella Fede e, soprattutto, nella Provvidenza, capace di guidare gli uomini verso un più sereno domani dopo averli temprati attraverso prove anche dure, quali quelle che l’epoca proponeva.

Con la «Passio Christi» e l’avvento del Cristianesimo si è, dunque, aperta per l’umanità un’epoca estremamente favorevole, il che implica la fiducia in una concezione «provvidenziale» della Storia che, in quanto tale, non da adito a valutazioni pessimistiche sulle vicende storiche e politiche contemporanee.

Appare, dunque, la volontà di considerare i pur timidi segnali di ripresa del mondo occidentale come manifestazione di un più grandioso progetto divino per cui l’impero, una volta abbracciato completamente il Cristianesimo, potrà trarre da questo nuova linfa per reggere, e con successo, alla pressione dei barbari.

L’opera, non priva di ricercatezze stilistiche, rivela da parte dell’autore buona padronanza dei «classici», che furono alla base della sua educazione.

(r.a.)

DAL LATINO ALL’ITALIANO

La maggior parte delle differenze che presenta l’italiano rispetto alla lingua dell’antica Roma deriva appunto dal latino volgare, dall’uso popolare. È verissimo, dunque, che l’italiano, come le altre lingue dell’Europa occidentale (quali il francese, lo spagnolo, il portoghese ecc.) discendono direttamente dalla lingua latina; ma è altrettanto vero che se vogliamo renderci conto del perché la nostra lingua è così diversa dal latino che noi leggiamo nei classici, dobbiamo persuaderci ch’essa si è svolta dall’uso parlato, vivo, indotto, dialettale. Essa è il risultato di un’antichissima, lenta e continua evoluzione e trasformazione.

Quando noi riusciamo a intendere questa lunga storia che ha portato dall’antica lingua a quella d’oggi, e arriviamo a ritrovare e ricostruire le ragioni e le maniere per cui le remote parole di Roma hanno acquistato il volto odierno, allora saremo più convinti della discendenza dell’italiano dal latino. Ci parrà veramente che oggigiorno noi parliamo ancora la lingua degli antichi romani, ma una lingua che ha percorso tanti secoli di cammino e ha visto tramontare e risorgere più d’una antica civiltà: una lingua che affonda le sue remote radici nella preistoria, mentre adesso si rivela modernissima. E questa nostra lingua italiana a noi è cara perché in essa ci riconosciamo d’una stessa patria e d’una stessa tradizione, come la lingua in cui si sono espressi gli entusiasmi e le illusioni dei nostri antenati, dei nostri poeti, dei nostri pensatori, e in cui si traducono le nostre idealità e le nostre speranze; ma ci è anche cara perché in essa sentiamo ripalpitare le voci e i sensi dell’antica romanità, vale a dire d’una civiltà che si perpetua da secoli e che pare inesauribile. Attraverso la lingua di Roma antica, che si è trasformata nella lingua italiana, noi possiamo seguire la storia ininterrotta di più di venticinque secoli, più di duemilacinquecento anni.

Non è, dunque, un paradosso dire che la lingua latina non è mai morta. È morta, in certo senso, la lingua dei «classici», cioè la lingua letteraria, che non si è più evoluta nell’uso vivo ed è rimasta fissata e stilizzata nelle squisite opere degli scrittori: e si rianima solo quando attraverso lo studio noi penetriamo nuovamente i profondi ed eterni significati ch’essa custodisce. Ma la lingua del popolo, dei tanti popoli che componevano l’impero romano, non si è mai spenta, non si è mai interrotta. Ha continuato ad esistere, a trasmettersi a trasformarsi. E i tanti secoli della sua libera storia, le numerose vicende che hanno visto sorgere e tramontare la potenza di Roma, e la nuova civiltà cristiana che adottò la vecchia lingua latina, e le invasioni dei barbari, che finirono anch’essi con l’apprendere il latino al posto delle proprie lingue ancora rozze e incolte, hanno agevolato e moltiplicato le ragioni dell’evoluzione e anche i motivi della sua sostanziale conservazione.

E così, lungo il corso dei secoli, di generazione in generazione, senza interru­zioni e senza salti, e soprattutto per vie naturali, immediate e storiche, la lingua di Roma, sempre parlata e sempre viva, si frantumava in tante altre lingue, in tante numerose parlate locali. Ogni città, ogni provincia, ogni regione ebbe il suo particolare dialetto. E si vennero formando così gli idiomi dell’Italia, della Francia, della Spagna, del Portogallo, della Romania ecc. Tutti questi dialetti sì potrebbero considerare come la stessa lingua latina quale si parla a distanza di secoli in Italia, in Francia, in Spagna, in Portogallo, in Romania, ecc.

Anche in Italia sorsero dalla lingua latina, per evoluzione storica e spontanea, parecchie parlate regionali e locali. Il piemontese, il lombardo, il Veneto, il ligure, l’emiliano, il toscano, l’abruzzese, il romanesco, il napoletano, il siciliano ecc. sono altrettanti aspetti che andò assumendo la lingua latina passando da una generazione all’altra, da una popolazione all’altra, da un tipo di civiltà ad un altro. Fra questi dialetti italiani, che, rispetto alla lingua latina, hanno tutti il medesimo titolo di nobiltà e gli stessi diritti ereditar!, si venne affermando nella civiltà italiana il dialetto toscano, e precisamente il dialetto che si parlava a Firenze. Per la sua grande fedeltà al latino, più d’ogni altro dialetto italiano e in genere neolatino, per la supremazia della sua letteratura (Dante, Petrarca, Boccaccio ecc.), per la stessa posizione geografica che è centrale nella nostra penisola, il toscano è diventato la lingua comune dell’Italia. E l’Italiano, quale noi oggi lo pariamo e scriviamo, è diventato una lingua letteraria, scritta, regolata da norme grammaticali e alimentata da una lunga e gloriosa tradizione di storia e di cultura. Essa è divenuta ormai, rispetto agli altri dialetti che si continuano a parlare nelle nostre tante città, nelle nostre province e per le nostre campagne, come era il latino dei «classici» di fronte alla lingua parlata dal popolo. Ed è appunto questo dialetto toscano, assurto a dignità di lingua comune e nazionale, che è diventato il segno più sicuro della nostra unità.

Se noi, dunque, consideriamo il toscano come risultato d’una evoluzione lingui­stica graduale e perpetua del latino popolare e volgare, dovremo convenire che non c’è distacco tra la lingua italiana e la lingua latina; ma se, invece, mettiamo a confronto l’italiano, per esempio, dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni con il latino dell’Eneide di Virgilio, essi ci appariranno diversi, come due lingue assolutamente distinte, ciascuna con una fisionomia propria e indipendente, cia­scuna a specchio di una civiltà originale.

Dovrebbe per queste ragioni risultare abbastanza evidente che il rinvenimento di una frase o frammento di lingua «volgare» non può costituire l’atto di nascita di una lingua, né stabilire una data. Tutti sanno che la lingua italiana fa la sua prima comparsa in una formuletta di testimonianza, contenuta in un atto giuridico del 960: «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedecti». L’anno è diventato simbolico: è giusto un millennio. Ma, da quanto s’è detto, il «volgare» italiano esisteva fin dai tempi dì Roma, almeno nella sua dimora dialettale e locale. Semmai, quel che importe­rebbe constatare è perché proprio nel secolo X si è sentito il bisogno di ricorrere ad una testimonianza in volgare per un documento scritto in latino. Comunque, non è che si possa datare da quell’anno la nascita della «lingua» italiana. Una «lingua» comincia veramente ad esser tale, quando dallo stadio locale, pratico, puramente idiomatico, si eleva a strumento di civiltà e s’investe di una dignità letteraria e si fa tramite di cultura, di pensiero, di poesia. In tal caso, bisognerà attendere, per l’italiano, i primi decenni del Duecento, con le canzoni dei poeti «Siciliani» e il «Cantico delle creature» di san Francesco intorno al 1224-1225.

(S. Battaglia – Le epoche della letteratura italiana, Napoli, 1966, pp. 58/61)

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