4L Ruoli della tragedia

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Per parlare dei ruoli femminili nella tragedia, occorre fare una premessa sulla condizione delle donne nell’età classica.

Tutti sono d’accordo sul fatto che la condizione della donna nell’Atene classica era d’inferiorità legale e politica, mentre riguardo alla sua posizione sociale esistono diverse opinioni.

Alcuni studiosi ritengono che le donne fossero disprezzate e tenute in uno stato di segregazione di tipo orientale, altri affermano che fossero rispettate e avessero una libertà simile a quella goduta dalla maggior parte delle donne attraverso i secoli, almeno fino all’avvento del movimento femminista.

Altri studiosi sono invece dell’avviso che le donne vivessero segregate ma che fossero lo stesso stimate dagli uomini, tanto è vero che a loro era affidato il governo della casa.

La divergenza d’opinioni è dovuta alla natura delle testimonianze consultate.

Studiosi quali Gomme e quanti si sono posti sulla sua scia, basandosi prevalentemente sulle testimonianze della tragedia classica e ritenendo che le eroine fossero modellate direttamente sulle Ateniesi del V secolo a.C., concludono che le donne erano rispettate e non vivevano segregate.

Lacey, che rifiuta esplicitamente le testimonianze della tragedia poiché non rappresenta gente comune in una famiglia normale, ed Ehrenberg, che riconosce valore testimoniale solo ad Euripide, mentre considera Eschilo e Sofocle meno vicini alla realtà, dipingono un quadro più infelice della condizione della donna.

Le donne di Eschilo.

Il comportamento degli uomini e delle donne è esplorato in molte tragedie, pur non essendone sempre il tema principale.

Da sempre il comportamento femminile è contraddistinto da docilità e modestia. Ismene nell’Antigone, Tecmessa nell’Aiace, Deianira nelle Vergini trachinie, e le coreute nella tragedia rappresentano le donne normali.

Le eroine che si allontano da questo stereotipo talvolta sono definite “mascoline”, una definizione che di certo non può essere considerata un complimento per una donna.

Le eroine, come gli eroi, non sono persone normali.

Mentre la maggior parte delle donne si sottomette docilmente, alcune eroine come Clitemnestra, Antigone, ed Ecuba, per raggiungere i propri fini, acquistano tratti del sesso dominante. Tale fenomeno è stato definito dallo psicanalista Adler “protesta mascolina”.

L’Orestea si annuncia fin dal principio sotto il segno di un’ambigua confusione dei sessi. La prima connotazione di Clitemnestra è, infatti, quella della virilità.

Così comanda il cuore nell’attesa di una donna di virili propositi” afferma inizialmente la sentinella (10,1).

La donna non femminile, che usurpa le funzioni del maschio, domina tutto l’Agamennone: Clitemnestra governa la città in assenza d’Agamennone, e la governa non diversamente da un uomo, con la forza e l’intelligenza.

Il coro n’è dominato e ammirato quando Clitemnestra spiega come ha predisposto lo stratagemma del fuoco. Eppure, anche se il suo intendimento è quello di un uomo saggio (351), la sua condizione femminile è più volte esplicitamente ricordata in quasi tutte le invocazioni del coro (317,351, etc.).

Due tratti vanno però notati particolarmente. Il primo è il suo rapporto con Egisto. Costui ha piuttosto una figura di paredro che d’amante, si potrebbe dire di concubino della regina, conquistato non conquistatore.

La passività d’Egisto è ripetutamente sottolineata con il tratto che più di ogni altro lo accomuna ad una donna: il non aver partecipato ad alcuna impresa eroica, l’esser rimasto in casa.

Domestico (oikouros) è la marca distintiva di Egisto (1225, 1626) e anche leone imbelle (leon analkis) e donna (gyne).

Dunque la relazione tra Clitemnestra ed Egisto appare capovolta rispetto ai canoni normali.

Il secondo tratto distintivo di Clitemnestra: Clitemnestra resta l’unico personaggio intrepido nella generale atmosfera di paura, presente già nel discorso proemiale della sentinella e ripresa poi nelle premonizioni del coro per proseguire negli interventi del soldato, di Agamennone e di Cassandra, Il timore è estraneo ai suoi discorsi.

Soltanto alle fine, dopo l’assassinio, ella accenna alla paura ma per dirsene immune:

Voi mi tentate come donna insensata, ma io parlo con cuore intrepido (atrestoi kardiai) a chi lo sa” (1401-2); e poco dopo afferma: “l’attesa della paura (phobou elpis) non entrerà nella mia casa finché nel mio focolare accenderà il fuoco Egisto, benevolo a me come in passato. Egli è non piccolo scudo al mio coraggio”.

L’uomo ucciso da una donna ed ucciso con il ferro, doppia trasgressione: è il punto supremo di una klimax di estraniazione di Clitemnestra dal proprio sesso, di usurpazione delle prerogative del maschio.

Tanto più significativo dunque il rientro di Clitemnestra nella femminilità, che si avvia nelle ultime scene dell’Agamennone (riconoscimento del ruolo maschile di Egisto) e che prosegue nelle Coefore.

Tutta l’azione della seconda tragedia è mossa da una paura notturna di Clitemnestra, da un sogno terrificante, che la induce a far sacrificare sulla tomba di Agamennone.

La paura è entrata nel palazzo, la donna senza timori è atterrita; alla luce del focolare sono succedute le tenebre della notte.

L’ultima occorrenza di phobos nell’Agamennone (1434) e la prima nelle Coefore (35) scandiscono questo capovolgimento.

La reintegrazione di Clitemnestra nel suo ruolo femminile trova sanzione suprema nel momento del suo assassinio: “ Abbi dunque rispetto di questo seno” (897), esclama Clitemnestra, indicando ad Oreste il proprio petto.

Vedere in Clitemnestra l’androgino o nell’Orestea l’incubo del matriarcato non appare esauriente. Clitemnestra non è solo la donna-uomo, è anche la donna-demone.

Affermi che questo è un’opera mia. Non dire che io sono la moglie di Agamennone. Sotto l’immagine della donna di questo morto è l’antico aspro demone vendicatore (alastor) di Atreo che ha fatto pagare il tremendo banchetto, sacrificando quest’uomo a quei bambini” (1497-1503).

Nelle Coefore Clitemnestra ed Egisto sono indicati come mostri: “Hai agito bene – è il coro che cerca di confortare Oreste dopo il matricidio – non aggiogare la tua bocca ad una voce maligna, non maledirti, dopo che hai liberato tutta la città argiva, mozzando la testa ai due serpenti (duoin drakontoin)” (1049).

E’ tuttavia un’inutile consolazione: Oreste è ormai preda dell’orrenda visione delle Erinni “dagli oscuri chitoni, con le chiome intrecciate di fitti serpenti (pyknois drakousin)” (1049).

La continuità Clitemnestra-Erinni appare esplicitamente rappresentata all’inizio delle Eumenidi. Qui l’incubo di Oreste acquista consistenza spettacolare: il coro delle Erinni si manifesta in tutto il suo orrore, e a incalzarle nel loro accanimento infernale è lo spettro di Clitemnestra.La demonizzazione della donna appare qui scenicamente compiuta.

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Le donne di Sofocle

L’Antigone inizia con i lamenti delle figlie di Edipo per le leggi emanate dal tiranno Creonte. Il loro fratello Polinice è morto, ma Creonte ha proibito di seppellirne il cadavere per punirlo del tradimento della terra natia.

Mentre Antigone preme perché il fratello venga seppellito, la sorella Ismene tenta di dissuaderla affermando: “Noi nascemmo donne, e ciò significa che non siamo destinate ad opporci agli uomini” (61-62). Essa si serve spesso del verbo phyo, intendendo che per natura le donne non possono competere con gli uomini.

Creonte rivela una particolare ostilità per il sesso opposto. I suoi pregiudizi sono patriarcali. Egli non riesce a comprendere l’amore di suo figlio Emone per Antigone e considera una moglie “un campo da arare” (569).

Antigone però per due volte tenta di dare sepoltura al fratello finché non viene sorpresa dalle guardie mentre seppellisce Polinice contro gli ordini della città e così viene chiusa in una grotta sotterranea per ordine di Creonte.

Nel suo penultimo discorso Antigone spiega di essere disposta a morire per un fratello, ma non per un marito o un figlio.

Un certo numero di studiosi ha giudicato spurio il discorso, ritenendo anormale anteporre il fratello al figlio, eppure nel contesto dell’Atene classica la scelta di Antigone è ragionevole. Le madri non avrebbero potuto essere legate ai loro figli come è oggi la madre ideale. L’elevata mortalità dei bambini piccoli avrebbe scoraggiato la formazione di solidi legami tra madre e figlio. Inoltre l’autorità patriarcale affermava che il figlio apparteneva al padre. Egli lo teneva in caso di scioglimento del matrimonio, mentre la donna tornava sotto la tutela del padre o, se questo era morto, del fratello. Quindi il legame fratello-sorella era molto forte.

La preferenza per il fratello è anche caratteristica della donna mascolina, il cui rifiuto del ruolo tradizionale di moglie e di madre può essere la conseguenza del fatto che forze esterne le inibiscono manifestazioni di tenerezza o di istinto materno.

Alla fine Antigone ritorna a un ruolo femminile tradizionale. Rimpiange di dover morire vergine, nubile e senza figli (917-18), e si suicida dopo essere stata sepolta viva da Creonte. Nella mitologia classica il suicidio rappresenta un modo di morire femminile e un po’ codardo.

L’incapacità di Creonte di comprendere l’ineluttabilità del dualismo tra maschi e femmine conduce alla morte di Antigone e al suo annientamento. La moglie di Creonte muore maledicendolo.

Inoltre, in una società in cui ci si attende che i figli maschi mostrino obbedienza filiale, Emone antepone Antigone al padre, trafiggendosi sul cadavere di lei.

Antigone e molte altre tragedie mostrano le conseguenze della sopravvalutazione delle qualità dette maschili (dominio, conquista, eccessiva attività mentale) a spese di quegli aspetti della vita detti femminili (istinto, amore, vincoli familiari), che distruggono uomini come Creonte.

L’ideale era l’armonia tra valori maschili e femminili, subordinando i secondi ai primi.

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Le donne di Euripide

Ecuba è la protagonista di due tragedie d’Euripide: Ecuba e Troiane.

Vi ritornano alcune connotazioni proprie della tradizione: la vecchiaia, la maternità ferita, le sventure che, dopo una vita fortunata, si succedono fino a quella suprema della schiavitù.

Fulcro drammatico di entrambe le tragedie, il personaggio presenta dall’una all’altra una differenza fondamentale: nell’Ecuba agisce, nelle Troiane si lamenta.

Sempre però è peculiare la tensione, la contraddittorietà tra mater dolorosa, la vecchia che piange i propri morti, e l’abilissima argomentatrice dialettica: si ricordino nell’Ecuba il discorso sui rapporti tra divinità e legge, nelle Troiane l’agguerrita discussione con Elena.

Alla critica, questa vecchia in lutto, ripiegata sul proprio dolore, che improvvisamente si trasforma in accorta parlatrice, è sempre apparsa come una figura poco coerente e di conseguenza drammaticamente poco riuscita.

Clitemnestra ed Ecuba: due esempi di trasgressione. Apertamente terrificante il personaggio di Clitemnestra, molto inquietante, anche se in parte coinvolto nel compatimento, quello di Ecuba.

La trasgressione femminile conosce però altri modi, in cui l’iniziativa della donna non si pone affatto sotto il segno della vendetta cruenta, ma al contrario di un destino di vittima.

La flotta greca è ferma in Aulide per la mancanza di condizioni favorevoli alla navigazione; è necessario, spiega l’indovino Calcante, che il condottiero di tutti, il grande Agamennone, sacrifichi la propria figlia per propiziarsi gli dei. La drammatizzazione di questo mito costituisce l’Ifigenia in Aulide euripidea.

Agamennone chiama in Aulide Ifigenia per darla in moglie, così egli fa credere, ad Achille. L’inganno viene scoperto. Clitemnestra tenta di impedire l’uccisione della figlia, quindi il colpo di scena: Ifigenia si offre volontariamente al sacrificio per il buon esito della spedizione.

Analoga offerta era stata quella di Macaria (Eraclidi) e di Polissena (Ecuba): “A me la grande Grecia tutta or guarda, da me dipende il viaggio della flotta e la distruzione dei Frigi e che non più in avvenire i barbari possano rapire dalla felice Grecia le donne, dopo aver pagato il disastro di Elena rapita da Paride. Tutto questo con la mia morte realizzerò, e mia sarà gloria beata per aver liberato la Grecia” (Iph. A. 1378-84).

Un’immagine di sé, della propria libertà come bene supremo, della propria gloria eterna nel cadere per la patria. Tutte queste motivazioni, pur diverse tra loro, sono riconducibili ad una concezione della morte tipicamente maschile. Vi è una sorta di usurpazione di ruolo nel difendere la patria e nel procurarsi la gloria, che la tradizione gnomica considera compiti dell’uomo.

Medea rappresenta una delle più grandi figure dell’arte di Euripide e della poesia di tutti i tempi.Creatura di passioni e di istinti, che si direbbero disumani se lei non fosse così potentemente e intimamente donna la cui ragione serve solo a renderla consapevolmente feroce, senza porre un freno all’animo indomito.

Già prima, innamorata di Giasone, non ha esitato a uccidere, per lui, il padre ed il fratello. Gli stessi figli gli sono cari non perché li abbia partoriti, ma perché sono pegno dell’amore di lui.

Ora questa natura selvaggia è minacciata in qualcosa di più importante dell’amore, la sua stessa vita. Ciò che la sconvolge non è la gelosia, sebbene furiosa, ma è l’istinto di conservazione: non si uccide o uccide Giasone, ma elimina ciò che è di ostacolo tra loro.

E arriva all’ultimo e più atroce delitto, quando i figli sono resi da lei inconsapevoli strumenti di vendetta.

Tuttavia Medea giganteggia nella poesia con la dedizione assoluta e totale verso l’uomo che l’ha resa donna, con la lotta disperata contro tutto e tutti e più ancora contro se stessa, con gli impulsi indomabili e la debolezza di una donna abbandonata.

Di fronte a lei, Giasone non è che un pover’uomo, orgoglioso della sua mascolinità: il poeta è riuscito a lasciare tale figura nella mediocrità della sua scialba persona.

Anche nella scena finale, nella quale il poeta sembra quasi volergli far guadagnare la simpatia degli spettatori mostrandolo oppresso e distrutto da tanta sventura, anche allora Giasone non riesce a destare pietà e rimane anzi piuttosto ridicolo, con le sue vane imprecazioni contro Medea che si leva alta nel cielo, superba di spietata ferocia, e che, pur carica di orrori e di delitti, rimane una creatura splendidamente viva di verità e poesia.

Fedra, con l’atroce Medea e la mite Alcesti, costituisce la grande triade delle creazioni femminili di Euripide.

Che ella sia lo strumento della vendetta di Afrodite contro Ippolito, che la dea stessa le abbia ispirato l’incestuoso e impossibile amore, è proprio ciò che la rende più nobile nell’impari lotta contro la dea; una lotta nella quale ella tuttavia salva l’onore.

Ciò che costituisce la poesia della figura di Fedra e la sua vera novità, è la grandezza di questo suo amore vietato, che invano ella vuole negare a se stessa prima che agli altri e di cui soffre tutta l’ineluttabile potenza ed amara dolcezza.

Ma, pur vittima di Afrodite, saprà tener fede al suo dovere, saprà rispettare il talamo nuziale: non farà come altre donne che, che dedite ad amori colpevoli, osano fingere e ingannare i mariti.

La lotta della ragione contro la passione, la rivolta dell’anima contro l’oppressione della morale convenzionale, il diritto della donna al suo amore, amore per il quale morrà non potendo viverne, fanno di Fedra una figura eterna.

Quanto Fedra è poeticamente vera e viva, Ippolito è soltanto una costruzione intellettualistica e raziocinatrice. Entrambi però hanno in comune l’intima coerenza, la dedizione totale al rispettivo opposto destino: ma mentre Fedra è vittima di una potenza troppo forte, Ippolito è consapevole volontà.

Conclusione

I personaggi femminili della tragedia greca sono personaggi “autenticamente” drammatici, molto più che quelli maschili: la loro grandezza è nel fatto che i drammi da esse vissuti sono i drammi che da sempre esse vivono.

Le passioni, i dolori, le attese e le speranze di queste creature ci ricordano quelle che oggi come ieri le donne vivono in ogni latitudine.

Questo è il segno della grandezza artistica dei tre tragici greci.

4L Ruoli della tragediaultima modifica: 2022-01-11T13:14:47+01:00da masaniello455