4A Acquedotti, strade e ponti

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Gli acquedotti

Per molto tempo il fabbisogno di Roma fu soddisfatto dal Tevere, da pozzi, da cisterne e dalle poche sorgenti naturali.

Ma già alla fine del IV secolo a.C. Appio Claudio, lo stesso che costruì la via Appia, dotò la città del primo acquedotto. È probabile che gli ingegneri romani abbia­no imitato in quell’occasione le tecniche impiegate nelle città dell’Italia meridionale. Esse erano molto semplici.

L’acqua era proprietà statale ed era tutta destinata a uso pubblico. Non c’erano derivazioni per le case dei privati. Non esistendo ancora le grandi terme, anche le esigenze erano modeste.

Dopo la caduta di Cartagine (146 a.C.), quando Roma divenne una grande capita­le, si rese necessario un nuovo acquedotto, quello dell’Aqua Marcia. Anch’esso attin­geva all’Amene, ma più a monte. Era lungo quasi 100 Km e aveva una portata di 190.000 m3. Era un’acqua particolarmente buona — ancora oggi è consumata a Ro­ma — e fu la prima ad arrivare sul Campidoglio.

In quest’opera si affermò un nuovo costume: i personaggi che si erano resi bene­meriti venivano compensati dallo stato con un allacciamento privato di acqua. Col tempo questi privilegi si fecero più comuni, e crebbe il numero delle case private con acqua corrente. Anche la tecnica fece progressi: sfruttando il principio dei vasi comu­nicanti si superava infatti una valle senza ricorrere a interminabili meandri.

Alla fine della repubblica, con la crescita della popolazione e la costruzione delle prime grandi terme, si imponeva un potenziamento e una riorganizzazione dell’intero servizio. Se ne incaricò Agrippa, genero di Augusto. Egli costruì due nuovi acquedotti.

II primo, l’Aqua Iulia, veniva dai Colli Albani e si riuniva con l’Aqua Tepula — così detta per la sua temperatura — che era stata fatta arrivare dalla stessa zona già nel 125 a.C.: ricalcava in parte il tracciato della Marcia e aveva una portata di 50.000 m3 al gior­no. Il secondo, detto Aqua Virgo entrava in città da nord e serviva il Campo Marzio, in particolare le terme di Agrippa. È la stessa acqua che oggi alimenta la Fontana di Tre­vi. La portata si aggirava sui 100.000 m3 al giorno. Agrippa organizzò anche un servi­zio regolare di architetti e fontanieri incaricati della manutenzione di tutta la rete idrica romana. A questo scopo egli mise a disposizione i propri schiavi, i quali alla sua morte passarono in eredità allo stato.

Augusto organizzò successivamente un servizio statale vero e proprio, la cura aquarum. Durante il suo principato fu portata a Roma l’Aqua Alsietina dal lago di Bracciano. Era assolutamente imbevibile, ma serviva per alimentare la naumachia del Trastevere.

Il più celebre acquedotto di Roma fu, però, quello iniziato da Caligola e terminato da Claudio nel 54 d.C. L’acqua veniva dal trentottesimo miglio della via Sublancese, a est di Roma, e giungeva in città dopo un percorso di circa 70 Km, 15 dei quali allo sco­perto. Gli ultimi 10 Km prima di Roma sono costituiti dalle note arcate — alte fino a 32 metri — che spiccano grandiose nell’odierna Campagna Romana. Nerone costruì poi un ramo secondario che serviva il Celio, e Domiziano lo prolungò fino al Palatino. La portata era di 185.000 m3 al giorno.

Anche maggiore — sui 190.000 m3 quotidiani — era quella dell‘Anio Novus, costrui­to insieme all‘Aqua Clauda. Traiano costruì a sua volta un acquedotto che alimentava il Trastevere e le sue terme sull’Esquilino. L’ultima grande opera del genere fu quella costruita da Alessandro Severo intorno al 226 d.C.

Si calcola che alla fine del I secolo d.C. la quantità di acqua potabile che giungeva quotidianamente a Roma sfiorava il milione di m3: una quantità rilevante, dato che si­gnificava più o meno 1.000 litri per abitante. Nella Roma di oggi non si arriva alla metà.

Va ricordato, però, che non tutti disponevano di acqua corrente. Nella migliore delle ipotesi essa arrivava al pianterreno, e soltanto nelle case di persone facoltose e influenti. Per evitare abusi e contestazioni le condutture di piombo (fistulae) che portavano l’ac­qua ai privati recavano stampigliato il nome dei proprietari. Quanti vivevano nei norma­li appartamenti d’affitto dovevano approvvigionarsi alle fontane pubbliche. Queste, che alla fine del I secolo d.C. erano 591, nel IV secolo d.C. erano più che raddoppiate.

La mancanza di acqua abbondante a portata di mano spiega anche la difficoltà di estinguere gli incendi. Ogni quartiere aveva però il suo distaccamento di vigili del fuoco, distinti per specialità: i siphonarii manovravano le pompe, i ballistarii demolivano gli edifici pericolanti e cercavano di isolare il focolaio dell’incendio, i centonarii spegnevano le fiamme usando stracci (centones) imbevuti di aceto.

Le città minori, in Italia e nelle province, non avevano nulla da invidiare alla capitale in fatto di alimentazione idrica. Tra le realizzazioni architettonicamente più imponenti si ricordano quella di Nimes (Pont du Gard), in Gallia; quelle di Tarragona e Segovia, in Spagna; quella di Cherchell, in Algeria; quelle di Efeso e di Aspendos in Asia Minore.

G. Pucci

acquedotto

Le strade

«Le strade […] avevano questi caratteri: tracciate specialmente a scopo militare, avevano spesso andamento rettilineo e affrontavano forti pendenze […] Piccola era la sezione stradale, tra m. 2,50 e 4, ma lateralmente alla carreggiata principale correva­no parallelamente altre due vie a fondo naturale, che servivano per gli usi comuni. L’impianto della sede stradale dimostra chiaramente l’intenzione di rendere pressoché nulla la manutenzione con una costruzione iniziale di grande resistenza e di spessore sovrabbondante. Talvolta (come nelle vie sul Reno) apparteneva al tipo delle vie in­ghiaiate (glareatae), e presentava allora una serie di strati di massicciata, parte a secco, parte murati, di calcestruzzo e di ghiaia, di uno spessore complessivo variabile tra 0,80 e 1 m. Più spesso si trattava di strade selciate (stratae) come, esempio massimo, la Via Appia; ed anche allora si avevano ben quattro strati, lo statumen e il rudus composti di piccoli sassi messi con poca malta, il nucleus che era un vero calcestruzzo, ovvero conteneva anche creta e terra battuta, il summum dorsum, che era il vero pavimento, costituito da grossi blocchi di pietra basaltica, aventi da m. 0,50 a 0,60 di altezza, foggiati a figure poligonali combacianti, secondo un tipo analogo a quello indicato per i muri nell’opera cosiddetta poligonale o ciclopica».

G. Giovannoni

Tra i tanti provvedimenti del tribunato di C. Gracco (123 a.C.) si ricorda una legge in virtù della quale egli fece tracciare molte nuove strade e codificò l’usanza – già attestata in epoca più antica — di indicare la distanza da Roma con delle colonnine poste a distanza di un miglio l’una dall’altra. Al tempo di Augusto si collo­cò nel Foro il Miliarium Aureum, sul quale lettere di bronzo dorato indicavano le distanze da Roma delle maggiori città dell’impero.

Nelle province la viabilità si sviluppò di pari passo con l’espansione romana. In età repubblicana le strade più importanti fuori d’Italia erano la via Domizia, che attra­versando la Gallia meridionale portava in Spagna, e la via Egnazia, che attraverso l’Illiria e le regioni balcaniche arrivava al Bosforo.

Gli imperatori migliorarono incessantemente la rete viaria. La via Postumia, che da Genova arrivava ad Aquileia, fu collegata con l’Istria e con la rete del Norico, della Pannonia, della Dalmazia. Attraverso il Piccolo e il Gran S. Bernardo l’Italia era in comunicazione con le reti viarie dell’Europa transalpina. In Africa settentriona­le una strada da Alessandria arrivava a Cartagine e continuava fino in Marocco. Altre importanti strade coprivano la Numidia e la Mauritania Cesarense.

La tecnica di esecuzione delle strade era accuratissima e questo spiega la loro otti­ma conservazione. Si cominciava col delimitare tra due piccoli fossati paralleli lo spazio della carreggiata. Per le strade militari questa variava tra i 4 e i 5 metri, in modo da permettere la marcia di veicoli nei due sensi (la distanza tra le ruote dei carri era in media di m. 1,5). Ma la via Appia fino a Terracina era larga non meno di 10 metri. Si scavava quindi in profondità, tendenzialmente fino alla roccia. Si consoli­dava poi il fondo (a volte vi si piantavano dei pali per aumentare la stabilità del terreno), e su una preparazione di sabbia e calce si mettevano quattro strati sovrappo­sti (per un’altezza che arrivava fino a m. 1-1,5) in quest’ordine: una massicciata di pietre di grosse dimensioni (statumen); uno strato di pietre più piccole con cocciame e calce (rudus); sabbia e pietrisco (nucleus); lastre di selce levigate e fatte combaciare con molta cura (summum dorsum). La superficie della carreggiata era leggermente convessa per facilitare lo scolo delle acque. Due marciapiedi (margines) la fiancheggia­vano. Le strade minori erano ricoperte di ghiaia o di terra battuta.

Nella misura del possibile le strade romane erano rettilinee ed evitavano le valli profonde e tutti i luoghi dai quali non fosse dato controllare il terreno circostante; e ciò per ovvi motivi di sicurezza militare.

G. Pucci

ponte

Importanza dei ponti

Nel 98 d.C. Traiano costruì la strada rialzata che attraversava le Paludi Pontine, un’arteria lunga venti miglia. I suoi ingegneri radunarono una grossa flottiglia di vec­chie imbarcazioni, le riempirono di rocce e poi le affondarono mantenendole in fila. Prendendo queste come base, furono eretti grossi piloni ai margini e tra questi inserita ancora roccia, in modo che la strada emergesse dal livello dell’acqua della palude di circa sei piedi.

Sulla Via Flaminia, sul fiume Nera, nella città di Narni, Augusto fece costruire nel 16 a.C. uno dei più autorevoli ponti d’Italia, a sei arcate, la più grande delle quali era ampia centotrentanove piedi.

Agrippa, il grande architetto di Augusto, costruì il famoso ponte del Gard, sul quale passava il grande acquedotto che attraversava la vallata omonima, nella Francia meridionale. È composto di un porticato con sei archi, si erge per centosessanta piedi ed è lungo circa novecento. È ancora del tutto integro e non solo è molto utile, ma è anche molto bello.

La Tunisia, nell’Africa settentrionale, semideserta eppure famosa per essere stata la fornitrice di grano a Roma, aveva trenta ponti, alcuni delle dimensioni di quelli eretti in Italia, mentre in Francia ed in alcune parti della Jugoslavia i ponti romani sono ancora in uso.

Nel 24 a.C., l’imperatore Augusto fece ritorno dalla Spagna. Un anno prima, nel 25, aveva ordinato che si chiudessero le porte del tempio di Giano, a Roma. Que­sto significava un lungo periodo di pace, l’inizio della Pax Romana. Durante il suo regno, fece costruire molte delle principali strade. Delle trecentosettantadue presenti nel mondo alla fine del IV secolo d.C., più di trentaquattro si trovavano in Spagna, una terra montagnosa come l’Italia e nella quale era difficile costruire e conservare strade. La principale di queste, che correva lungo la costa oggi chiamata Costa Brava, che partiva dalla Francia e si inoltrava in Spagna, fu ricostruita da Augusto e lungo tutto il suo percorso dovette essere attraversata da otto grandi ponti.

V. Von Hagen

4A Acquedotti, strade e pontiultima modifica: 2021-03-26T11:39:06+01:00da masaniello455