3F Matricola K011618

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Ricordi semiseri solo in apparenza, ma vissuti realmente: 2

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No, non voglio raccontarvi di mie ipotetiche, né spero avveniristiche, disavventure a Pog­gioreale, né di un passato da operaio della FIAT che non c’è mai stato (come potrebbe es­sere altrimenti con la mancanza di fabbriche al Sud?), ma… dei miei, come si dice, “tra­scorsi” universitari: si, lo confesso, sono stato un Sessantottino, un “figlio dei fiori”!

Dopo l’acquisizione traumatica di quell’importante “foglietto di carta” che era il diploma di maturità classica (l’unico che allora garantisse l’accesso a tutte le facoltà), subentrava in ogni famiglia che si rispettasse un lungo periodo di dialettica “democratica” destinata a sfociare nel classico “Vuoi o non vuoi, domani ti iscriverò alla facoltà di…!!!”.

In quegli ingannevolmente felici Anni Sessanta (gli anni del “baronaggio” universitario più spietato, di Andr…, del fascismo risorgente, di Andr…, della DC partito di Stato, di Andr…, …), non avendo parenti in Paradiso, dopo un “cieco” vagare tra Medicina e Scien­ze Biologiche, mi fu forzatamente “consigliata” la facoltà più garantista, quella di… Lettere ad indirizzo classico.

Il tutto sembrò iniziare nel peggiore dei modi quando, al momento dell’iscrizione, mi fu fatta notare una microscopica disattenzione (una “D” apostrofata davanti al cognome) che rese macroscopicamente lungo tutto il mese di ottobre, passato a bivaccare nella segrete­ria del “Garibaldi” alla ricerca della mia vera identità, tanto è vero sarò stato l’ultimo a de­positare certificati e versamenti alle 12.29 di quel 5 novembre.

Ed il “mese dei morti” lo trascorsi all’Università tra la paura diffusa del famigerato “pa­piello” (con scherzi tra i più sozzi ed efferati fatti alle matricole) e la frequenza pseudo-obbligatoria alle lezioni (a quelle di Letteratura Latina sembrava di stare allo stadio, con ra­gazze che prendevano posto quasi all’alba per ascoltare in divino silenzio la mezz’ora cat­tedratica… perchè a tanto si limitava la lezione dopo il canonico quarto d’ora di ritardo ed il rituale d’ingresso con portaborse e lecchini vari in avanscoperta).

Quell’autunno del primo anno, lontano preludio di quello che sarebbe successo di lì a poco tempo, lo passai serenamente nella preparazione degli esami-base: quello-mostro di Letteratura Latina (4 enormi antologie senza un rigo di traduzione + 2 piccoli “volumoni” sulla civiltà romana), quello-caratteriale di Latino Scritto (il cui voto dipendeva essenzial­mente dallo stato di grazia, nonchè mentale, del correttore), l’altro-bohémien di Letteratura Italiana (durante il quale si poteva ammirare, logicamente in caso di esito negativo dello stesso, almeno l’abilità eccezionale del Docente, l’unico comunque con l’iniziale maiusco­la, nel lancio del libretto a distanze inverosimili).

Il poco tempo che restava lo occupavo tra agenzie funebri (presso le quali, secondo il “prof” di Glottologia, avrei dovuto captare le ruspanti parlate dialettali dei costruttori di cas­se da morto e subito riportarle sulle sue schede messe gentilmente a nostra disposizio­ne… dietro “modico” pagamento) e feste casarecce in cui facevo parte di una “band”.

Sulla scia dei Beatles, infatti, non ci fu giovane disoccupato che non sentisse la necessi­tà di imitarli: così anche io.

Aggregatomi ad un quartetto di ex-compagni di scuola, passai, nel giro di un mese, dalla tromba alla chitarra basso, dall’entusiasmo più genuino allo scoraggiamento più penoso per non avere né labbro leporino come Armstrong, né dita callose da MacCartney: divenni loro manager, causando (piango ancora di notte) lo scioglimento del gruppo per… man­canza di impegni!

Si giunse al famigerato ’68: o, meglio, fu il ’68 a farsi prepotentemente notare da me una sera allorchè, in attesa di fare un esame, mi trovai rinchiuso in Facoltà: i cancelli erano stati sprangati ed una gran massa di giovani si era asserragliata all’interno cercando di re­spingere le Forze dell’Ordine subito accorse.

Poco mancò che passassi la notte in cella, ma il posto in cui mi ero rifugiato, un mona­stero “presieduto” dal mio ex-professore di Religione, seppe catalizzare la mia attenzione ed anche impegnare il mio tempo futuro.

Era lì, infatti, che ci saremmo visti le sere successive noi “cospiratori” di Lettere (e per la prima volta ebbi modo di conoscere in quella sede altri studenti, pochi, che non fossero di sesso femminile!) per discutere sugli ideali, per programmare iniziative meritevoli, per stampare volantini contro questo o quello, per… decidere l’ora notturna migliore per affig­gerli in modo da non imbattersi nelle squadracce avversarie.

Napoli, Milano, Padova, Roma,… Parigi: ormai il mondo universitario era un continuo scoppiettìo, stanco di un presente sempre uguale al passato, con mille idee per un futuro diverso; ma, come un tric-trac, fece qualche botto, un pò di fumo e sembrò finire lì, senza conseguenze visibili, al momento almeno.

Che fosse finito anche a Napoli ne ebbi la certezza quando, come doveroso, chiesi il tito­lo della tesi di laurea alla docente di Filologia Bizantina, una donna matura di cui anche le matricole sapevano le angosce amorose.

Non dovetti piacerle perchè fui subito affidato alle cure di un assistente (l’apostrofo è fa­coltativo!), mi “ordinò” di imparare il tedesco (ho ancora a casa i 33 giri di un corso super­veloce per corrispondenza!), mi fece andare un numero imprecisato di volte a Roma (la Bi­blioteca Vaticana e l’Istituto di Filologia Tedesca divennero la mia seconda casa!), mi fece recapitare a casa un microfilm da Monaco per il cui sviluppo spesi una fortuna… per non parlare dei numerosi viaggi a Salerno su una recalcitrante FIAT 600 a casa dello/della as­sistente.

Il giorno in cui discussi la tesi su “Antonio Melissa” ebbi la certezza di aver buttato un mucchio di soldi; la prima domanda fu: “Ci parli di Crisostomo”. Così divenni professore di Latino e Greco!

 

 

3F Matricola K011618ultima modifica: 2021-12-17T10:56:03+01:00da masaniello455