4D La propaganda elettorale

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La propaganda elettorale

Nella Roma dell’età repubblicana, non vincolata da alcuna legge contro i libelli, la letteratura politica fu raramente meschina, ipocrita, edificante. Al popolo si presentava­no uomini e non programmi, perché venisse­ro giudicati e approvati. Di rado il candidato faceva promesse; anzi richiedeva la carica co­me un riconoscimento vantando a chiara vo­ce i suoi nobili antenati o, in mancanza di questa prerogativa, i suoi propri meriti. Le aule dei tribunali erano la strada maestra del­la carriera politica mediante l’esercizio del­l’accusa, il campo di battaglia per le iniziati­ve private e le contese politiche, il teatro del­l’oratoria. La tattica migliore era l’attacco ad personam: senza limiti e senza ritegno, l’uo­mo politico romano addossava accuse di di­sgustose immoralità, di attività infamanti, di ignobili origini. Ne deriva il quadro impres­sionante della società contemporanea svelato dall’oratoria, dall’invettiva, dalla satira.

La criminalità, il vizio e la corruzione degli ultimi tempi della repubblica sono personifi­cati in tipi perfetti nel loro genere, come lo sono i modelli di virtù civica e morale dei tempi andati: il che è naturale, poiché tanto i malvagi quanto i buoni sono creazione di artisti letterariamente scaltriti. Catilina è il mostro perfetto: assassini e turpitudini di ogni grado. Clodio ne ereditò l’atteggiamento politico e il carattere; e Clodia commise ince­sto col fratello e avvelenò il marito… Questo a Roma; in provincia la lussuria si accoppia­va alla crudeltà. Vergini delle migliori fami­glie di Bisanzio che si gettano nel pozzo per sfuggire al depravato proconsole, innocenti capi di tribù balcaniche, ammazzati, Gabinio, il collega di Pisone, si arricciava i capelli, si esibiva in danze durante conviti eleganti, impediva con la violenza il legittimo eserci­zio della professione a grossi finanzieri roma­ni in Siria. Marco Antonio non era soltanto un bandito e un gladiatore, un ubriacone e un vizioso, ma un effeminato e un vigliacco. Quanto diverso il cavalleresco Dolabella! E, il colmo dell’enormità, Antonio col suo esibi­zionistico attaccamento alla moglie, offende­va il decorum e la dignità romana.

Ben presto l’incallita genia degli uomini politici romani si immunizzò alle forme più grossolane di calunnia e di deformazione del­la realtà: ne erano difesi dalla lunga assuefa­zione, dal senso di humour, dalla abilità ac­quisita nel contraccambiare. Certe malignità, credute o no, divennero espressioni scherzo­se, stereotipe, sfoderate all’occasione dagli amici quanto dai nemici. Ventidio era chia­mato mulattiere, ma la più completa elabora­zione del tema è di un’epoca in cui egli non poteva più ricevere danno. Anche per Cesare, non i suoi nemici, ma i suoi amati soldati avevano escogitato le mordaci strofette licen­ziose cantate al suo trionfo.

Le vittime dell’invettiva non sempre ne ri­sentivano discredito o danno; al contrario. I Romani avevano sensibilità per l’umorismo e un forte senso drammatico. Cicerone godeva tra i contemporanei di immensa reputazione come uomo faceto e spiritoso: anche Catone dovette riconoscerlo. Il politico Vatinio sape­va colpire quanto incassare: sembra che egli non abbia portato rancore a Cicerone per la sua orazione In Vatinium. Era insomma un punto d’onore in quella società liberale il sa­per prendere bene cose di questo genere. Ce­sare era sensibile alla diffamazione: ma anch’egli ripagò Catullo dei suoi attacchi di ine­guagliato vigore e indecenza, invitando a pranzo il poeta. La libertà di parola era ele­mento essenziale della virtù repubblicana della libertas, rimpianta più ancora della libertà politica quando entrambe furono abo­lite.

R. Syme

propaganda

Esempi

Sulle pareti di Pompei si trovano dipinti non pochi manifesti elettorali; eccome alcu­ni:

« Le candidature di M. Casellio e L. Albucio, Stazia e Petronia raccomandano. Che in tutti i tempi possano esservi cittadini ».

Così si leggeva nella parte esterna di una casa di Pompei. Stazia e Petronia erano le grandi elettrici di Casellio e Albucio. Ed esse avranno certamente fatto parte di quei soda­lizi che, con il pretesto di pratiche religiose, si trasformavano nei momenti opportuni, in veri clubs elettorali. Una legge contro il broglio dell’ultimo secolo della repubblica proibisce quei sodalizi… Le divinità, ad ogni modo, non erano escluse dalla propaganda elettorale, sia invocate da sodalizi favorevoli ad alcuni candidati, sia invocate negli stessi manifesti elettorali.

« Così a voi che darete il voto (a Barca) la divina Venere Pompeiana sia propizia! »

La figura di Venere è disegnata in quella specie di manifesto, mentre in alto del can­didato Casellio, l’amico di Stazia e di Petro­nia, è dipinta la figura di Bacco. La réclame elettorale non aveva certo i nostri mezzi; i manifesti non erano così lunghi e copiosi: i graffiti sulle mura dipinti a minio o a calce a grandi lettere, erano necessariamente, brevi, ma in compenso erano ricchi di aggettivi e di elogi. La virtù più celebrata è l’onestà nell’amministrazione del denaro pubblico.

« Questo è l’uomo che conserverà il tesoro pubblico ».

La frequente assicurazione di onestà fa sospettare che i peculatori non fossero rari!…

E, come ai tempi nostri l’attacchino del candidato avversario si affretta a sovrappor­re un manifesto del suo protettore oppure un esaltato elettorale cancella e sostituisce parole, così, a Pompei, al disopra delle paro­le che raccomandavano il candidato Gaio Proculo, di cui si vantava la onestà, si legge di altra mano lo stesso nome con la qualifica di disonesto.

N. Rodolfo – U. E. Paoli

Elezioni e corruzione in Roma

Altra via di sperpero erano le spese eletto­rali. Quelli che riuscivano, sapevano come rivalersi. La Repubblica aveva fondato una scuola di corruzione elettorale e quindi di concussione: quelli che fallivano, perdevano l’intero patrimonio. Le città erano piene di elettori che ponevano all’incanto il voto; il popolo sovrano in cenci, in attesa di essere comprato; la folla di disoccupati pronta ad applaudire od a vituperare secondo il prez­zo. Così in Grecia come a Roma. Filippo il Macedone vantavasi di potersi impadronire di qualunque città ove gli fosse dato far entrare un asino carico d’oro. Finché vi sa­ranno ricchi pronti a comprare i voti, vi saranno poveri disposti a vedersi. La poten­za del denaro aumenta dove esistono le grandi fortune, le occasioni per arricchire e le folle povere.

Qui le fazioni si disputavano il comando militare, l’amministrazione, la giustizia co­me preda da divorare. Si applaudiva chi era più largo nello spendere: la corruzione si manifestava anche per far approvare o re­spingere le leggi. Sono riferite dagli scrittori le notizie sul debito di 6 milioni di lire che

Cesare aveva, prima di avere esercitato alcu­na funzione politica, prodigate per preparare la sua carriera. Marziale parla di un politi­cante che consumò un patrimonio in brighe elettorali. Cicerone confessava che occorreva essere molto ricco per aspirare a cariche politiche e si doveva starsene in disparte quando «facultates non erant».

Nell’occasione in cui egli pose la sua can­didatura al consolato, il fratello Quinto gli scriveva: « Bisogna fare le cose con magnifi­cenza: tale è la condizione indispensabile al successo: occorrono banchetti pubblici e pri­vati per le Tribù. Che la tua candidatura sia piena “di pompe, illustre, magnifica, popola­re, che abbia splendore e dignità in modo supremo. Tieni la porta aperta giorno e not­te; la città è viziosa, i comizi sono inclinati per le largizioni ». Orazio ricorda che il pa­dre avaro maledice il figlio cui frulla il ca­priccio di aspirare ad una carica: solo col denaro si arriva alle pubbliche funzioni e agli onori.

La borsa del candidato era aperta a tutti: bisognava donare e prestare.

Il popolo, purché avesse feste e denari, era insensibile ai soprusi commessi nelle provin­ce: dopo che si erano comprati i voti, si potevano impunemente saccheggiare le pro­vince. Il Senato nascondeva le prevaricazio­ni per non avvilirsi, e il popolo applaudiva, abituato all’idea che le province fossero pre­da da sfruttare. Quando Scipione l’Africano fu invitato a scolparsi della detrazione del pubblico danaro, invitò il popolo a salire con lui in Campidoglio per celebrare l’anni­versario della disfatta di Annibale e tutto finì. Così nessuno reclamò contro Antonio che, dopo aver accettato le iperboliche adu­lazioni dei Greci, che l’avevano fidanzato a Minerva, ne reclamò la dote in 10 milioni di dramme (= 8.000.000 di lire), scherzo ostico a quei raffinati spiriti, ma corrispon-dente al senso pratico romano. Ricchezze, ottenute per queste vie, erano prodigalmente impiegate e distrutte: ed ecco le bagnarole di argento, le perle da 4 a 10 milioni, piatti di uccelli canori da 100 mila sesterzi, tante altre follie riferite da Plinio.

Per singolare contrasto, alla stessa epoca si notano debiti immensi. Cesare verso l’an­no 62 aveva un passivo di 7 milioni; Marco Antonio a 24 anni era debitore di 11 milioni; Curione ne doveva 17; Milone più di 20.

Quando si chiusero le sorgenti, donde l’oro scaturiva, e si allargarono quelle per le quali defluiva, la ricchezza sfuggì a poco a poco dalle mani dove la vittoria l’aveva messa; e in questo rapido passaggio non aveva fecon­dato alcuna industria, né irrobustito alcuna classe; ma si era piuttosto concentrata in poche famiglie, il che permise loro tutte le follie e, come se si fosse spinta su un declino naturale, ritornò ai paesi donde era venuta.

G. Salvioli

4D La propaganda elettoraleultima modifica: 2022-02-15T12:17:25+01:00da masaniello455